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『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
La malattia come epifania del corpo e come parola. Il caso Ogawa Yoko
Laura Imai Messina
ラウラ・今井メッシーナ
本稿の目的は、小川洋子作品における「病気」の扱われ方を主題に、それが欧米あるいは他の日本における文化的文脈や文学作品と比較して、どのような点で異なっているかを明らかにすることである。 第一章では、「病気」を医学と文学との関わりから分析している。人は、自分が健康でいるうちは自身の身体の状態に気を留めることはないものである。しかし、病気にかかってからだの「一体感」が脅かされた時、初めて自分のからだに目を向けるのである。専門化・細分化が進んだ近代以降の医学とは、まさにこの「一体感」にメスを入れるものであり、それまでの「日常」を危機に陥れるとともにその存在を深く意識させるのである。シクロフスキーがいうように、文学の役割とはこの生活に対する視線を刷新することであり、「病気」は、不可視だったものに形を与える役割を持っているのである。 第二章と第三章では、「病気」を文化とことばとの関わりから分析している。多くの文化で病気は、神による罰や悪魔の仕業など、超自然的ものと解釈されてきた。文化によっては、医者とは呪術師であり、ことばの効力をもって治療にあたっていた。現代において病気や患者は、社会から切り離され、「癌」など一部の病名は、そのまま「死」を意味することもある。それゆえ、患者にはそのショックを和らげるために「優しい嘘」がつかれることがある。また、そのような場合において、医師と患者が使用することばには大きな差異がある。このように「ことば」は、病気との関わりにおいて、大きな意味を持っているのである。 第三章では、これまで分析してきた「病気」に対する社会や文学におけるあらわれ方を念頭に、現役の作家である小川洋子の作品でそれがどのように表出しているか、またそれはどのような点が特別なのかを扱っている。本稿では三つの作品を取上げているが、いずれも病気は「からだの美しさ」と結びつけて語られている。また、彼女の小説には病気の人物が多く登場するが、中には妊娠など、社会通念上病気とは考えられないものまでその範疇に入れている例がある。 つまり、小川作品において「病気」とは、死の悲しみを暗示するものではなく「美しさ」の一部であり、それなくしては成り立たない「日常」としてさえ表現されているのである。
要 旨
『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
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La malattia come extra-ordinario
La malattia è una inaugurazione della morte, l’inizio palpabile del conto alla rovescia. Svela della vita la sua fine.
È un’anticipazione, una verità ovvia che però il corpo sano tace e la mente cerca di negare. Nella vita e nella letteratura,
che dell’esistenza si fa spesso portavoce, il malessere porta ad illuminare una o più parti del corpo dell’uomo, organi ed
arti quotidianamente silenziosi. Essa, nel dolore e nel fastidio che procura, dona voce a mani, piedi, dita, orecchie, fegati
e vesciche. Risveglia, come gli organi di senso sotto il tocco dei bastoncini dei battitori di swiftiana memoria, frazioni del
corpo. Le rende capaci di sentire e di comunicare.
La malattia sembra inoltre rimettere in discussione l’unitarietà del corpo, di quell’unicum che proprio la medicina
ha contribuito invece a frammentare. Remo Ceserani in Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline, un libro
interamente dedicato ai prestiti linguistici tra ambiti diversi del sapere, evidenzia chiaramente come “con l’introduzione
di macchine che esplorano il corpo dall’interno, con la sempre più forte specializzazione dei singoli medici su singole
parti [...] con l’affinamento delle tecniche dei trapianti”, l’organismo umano sia stato parcellizzato, causando pertanto
la “perdita dell’unitarietà di ogni singolo corpo”1. L’attuale osservazione clinica, che investiga ogni arto o organo
separatamente e costringe il paziente a vagare in diverse ali e differenti piani di una stessa struttura ospedaliera, ne sarebbe
la chiara dimostrazione. Ad ogni parte corrisponde una specializzazione differente ed il corpo viene difficilmente preso in
considerazione nella sua unitarietà.
L’immagine del corpo si trasforma così da blocco armonico e indivisibile in agglomerato di parti. È il Frankenstein
di Mary Shelley, il mostro partorito dalla mente di un medico che ha fatto esperienza della dissezione dei cadaveri ed è
pertanto avvezzo a vivere il corpo come unione di diversi elementi. Per creare il suo uomo artificiale, egli sottrae ossa dai
sacrari, tortura animali, fruga nelle tombe, preleva e fraziona cadaveri, assembla i pezzi. Cerca la gloria il dottor Vicktor
Frankenstein e all’inizio del suo percorso di crescita, quando ancora non è che un ragazzo, è già abitato da sogni non tanto di
ricchezza quanto di grandezza: “La ricchezza non era che un basso scopo, ma che gloria avrei conseguito se avessi scoperto
il modo di bandire le malattie dal corpo umano, rendendo l’uomo immune da ogni tipo di morte che non fosse quella
violenta”2.
La malattia rivela il paradosso della conoscenza del corpo. Il malfunzionamento si fa evidenziatore del giusto
funzionamento, l’assenza del normale funge da indice puntato sulla sua presenza. La gioia stessa del corpo, il piacere da
esso derivato, fa affidamento sul potere della malattia, sul dolore e sul malessere provocati da quella gamma di piccoli e
grandi disturbi che la natura giornalmente propone. Del resto non c’è nulla di più bello di un mal di testa appena passato, di
un mal di gola di cui serbiamo intatto il ricordo, una ferita dolorosa appena rimarginata. La gioia del corpo è, in sintesi, non
tanto nella sua trasparenza quanto nel malessere cui segue subito dopo un pieno benessere. Il bene odierno nel ricordo del
male (appena) passato.
Lo spiega con vividezza di immagini Virginia Woolf che alla malattia ha dedicato un breve ma delizioso saggio
intitolato On being ill (Sulla malattia) e pubblicato sul New Criterion diretto da T.S.Eliot nel numero di gennaio del 1926.
Ella descrive l’estrazione di un dente sulla poltrona dello studio medico, operazione certamente dolorosa per il paziente,
cui segue alla fine uno “Sciacqui la bocca, sciacqui la bocca” che suona come “il saluto della Divinità [...] il benvenuto
in Paradiso”3. La Woolf, con estrema arguzia e lo stile brillante degli essay, accusa la letteratura di prediligere al corpo la
mente, di fare del primo una “lastra trasparente”, qualcosa che appare a tutti gli effetti a semplice uso e consumo dell’anima.
La malattia è il lato notturno della vitaSosan Sontag
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La scrittrice intende restituire dignità non solo al corpo ma anche alla malattia che ne scuote le fondamenta e che rende la
materialità bruta dell’organismo protagonista assoluta della scena.
Ma qual è il ruolo della malattia rispetto alla conoscenza individuale di un corpo, alla sua percezione quotidiana?
Quanto conta una mano, una gamba, un piede malato per la presa di coscienza di quella particolare mano, gamba o piede?
Quanto del proprio organismo l’uomo dà per scontato?
Nel 1973 nel numero di febbraio della rivista “Cause Commune” usciva un breve testo di Georges Perec intitolato
“Approches de quoi?” (Approcci di cosa?). Lo scritto venne successivamente inserito insieme ad altri sette interventi, apparsi
su giornali e riviste tra il 1973 e il 1981, in un volume intitolato L’infra-ordinaire pubblicato a Parigi nel 1989 dalle Éditions
du Seuil. I vari articoli, tra cui compare un “Tentativo d’inventario degli alimenti liquidi e solidi che ho ingurgitato durante
l’anno millenovecentosettantaquattro” e “Duecentoquarantatré cartoline illustrate a colori autentici”, sono tutti accomunati
da un solo scopo, quello di registrare il quotidiano. L’intento concettuale dello scrittore francese era chiaro: imparare ad
indagare non un fantomatico passato o un fantascientifico futuro, ma l’immediato, palpabile presente.
“Interrogare l’abituale. Ma per l’appunto ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra
costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se non
trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un condizionamento, è l’anestesia [...] Ma dov’è la nostra vita?
Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?”4
Con i suoi brevi ma penetranti scritti Perec denuncia il torpore in cui viviamo. Esistiamo senza interrogarci, egli
accusa, conduciamo i nostri giorni senza avvertire alcun disagio nel non conoscere la realtà che ci circonda e di cui, pur
nella banalità delle azioni, siamo protagonisti. Più che lo straordinario – di cui si occupa invece tutta la macchina mediatica
“come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare, come se l’esemplare, il significativo, fosse sempre
anormale”5 – egli avverte disagio nel non percepire piuttosto il quotidiano. Come si può dar voce a questa quotidianità muta,
a questa realtà ignorata? La risposta, spiega Perec, è proprio in ciò che non fa notizia, nella banalità del giornaliero, nella
consuetudine dei gesti. Abbiamo dimenticato l’origine delle cose più ovvie, come la distanza tra l’oggetto che abbiamo tra
le mani e la sua produzione, come il perché di certe dinamiche sociali di cui non siamo solo spettatori ma attivi – benché
inconsapevoli – esecutori.
Lo scrittore francese propone allora di domandarsi il come, dove, quando e perché di ogni azione. Incoraggia a prendere
contatto con l’apparato di oggetti che fanno parte del nostro quotidiano. Un buon esercizio, suggerisce, può essere ad
esempio tirare fuori tutte le cose da una borsa e chiedersi da dove siano venute. L’accusa di Perec è oltretutto attualissima.
Fa notizia solo ciò che non partecipa davvero alla vita dell’uomo. “Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento,
l’insolito, lo straordinario [...] I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i
treni esistono”6. L’assuefazione ai suoi meccanismi produce un torpore e una narcosi intollerabili.
Questo atteggiamento, evidentemente amplificato dai meccanismi di informazione che si basano più sulla denuncia di
avvenimenti straordinari – e il più delle volte straordinariamente negativi –, lo si ritrova anche nell’approccio dell’uomo al
proprio corpo. Solo lì dove egli individua perfettibilità si concentra la sua attenzione. La cura verso il proprio organismo è
rivolta al mantenimento o all’avvicinamento ad un ideale di salute e di bellezza. Ciò che invece viene considerato normale
o soddisfacente viene semplicemente eluso, entrando esso a far parte della consuetudine cui è possibile non prestare
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attenzione7.
Un invito, quello perecchiano, che applicato al corpo sembra cogliere a distanza di più di vent’anni un altro scrittore
francese, Daniel Pennac. Nel suo romanzo uscito in Francia nel febbraio 2012 Journal d’un corps8 Pennac narra la vita di un
uomo che lascia in eredità alla figlia i suoi diari. Non si tratta però di una mera annotazione cronologica di eventi relativi alla
vita dell’uomo ma di un vero e proprio giornale del suo corpo. La narrazione, infatti, è stata finemente setacciata e riguarda
solo chi e cosa hanno interagito con esso. Registra accadimenti unicamente sulla base dell’impatto che essi hanno avuto sull’
organismo, quanto hanno interessato il suo modo di utilizzarlo. Con una buona dose di ironia ma anche di sincera passione
l’uomo vi annota in dettaglio i mali che l’hanno colto, la scoperta della sessualità, le disfunzioni che negli anni lo hanno
tediato, le trasformazioni dell’organismo bambino in quello anziano. È a tutti gli effetti un diario del corpo e della percezione
che un essere umano ne può avere nell’arco degli anni, dall’infanzia alla vecchiaia. Lo scritto non lesina riferimenti alla
defecazione, ai punti neri, al muco nasale, alle polluzioni notturne, al gas intestinale, alla minzione; si sofferma su una
interpretazione metafisica del lavaggio dei denti (“Lavarmi i denti è l’anticamera dell’eternità. C’è solo la messa che mi
annoia di più”9) e sui postumi di un rapporto sessuale che sancisce un addio (“Un graffio sulla guancia destra. Il segno di un
morso sul lobo dell’orecchio sinistro. Un succhiotto sul collo, a destra, dove pulsa l’arteria. Un altro succhiotto a sinistra,
sotto il mento. Il segno di un morso sul labbro superiore, tumefatto, bluastro. [...] Le palle dolorosamente prosciugate.
E, suggello finale, l’impronta di un bacio nella regione inguinale sinistra. «Quando il rossetto sarà andato via, dovrai
ricominciare a vivere»”10). La forma diaristica facilita il compito e la scrittura scorre veloce fino all’agonia di quel corpo che
non può, per forza di cose, raccontare il suo finale.
Il dito che si scotta, l’unghia che si spezza: l’incidente getta luce sulla parte interessata la quale, in questo modo,
diventa interessante. Il mal di pancia rende consci delle viscere interne, muove a porsi domande sul funzionamento del
proprio intestino. La malattia determina l’interruzione dello stato di anestesia ed apatia che accusava Perec. Il corpo malato e
quello appena guarito si manifestano all’uomo con una evidenza che manca a quello sano. Se di qualcosa infatti quest’ultimo
è deficitario, è proprio del suo palesarsi all’uomo, alla sua coscienza.
Il ruolo della letteratura ancora una volta è centrale per risvegliare la mente, per stimolare la percezione sopita. Secondo
i formalisti russi essa aveva il compito di donare all’uomo nuovi occhi, uno sguardo rinnovato sul mondo. È il concetto
di straniamento che Viktor Šklovskij, in particolare, approfondì. La letteratura ha la funzione di spezzare l’automatismo,
l’assuefazione dell’uomo al suo ambiente circostante, di scardinare il pensiero che, spinto dalla perenne reiterazione degli
stessi meccanismi, si assesta sulle medesime posizioni, su un sentire sempre uguale. Lo sguardo letterario, suggeriva
Šklovskij, ha il potere di risvegliare la coscienza sonnolenta, quel sentimento di adattamento al reale che Perec definiva
invece “anestesia”. “Se ci mettiamo a riflettere sulle leggi generali della percezione, vediamo che diventando abituali, le
azioni diventano meccaniche. Così, per esempio, passano nell’ambito dell’ «inconsciamente automatico» tutte le nostre
esperienze”11, denunciava il critico russo.
Questo discorso è valido sia per il linguaggio di cui, nella rapidità di emissione delle parole, restano nella coscienza
solo i primi suoni, sia per il nostro approccio alle cose, agli oggetti.
“L’oggetto passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è, per il posto che occupa, ma ne vediamo solo
la superficie. Per influsso di tale percezione, l’oggetto si inaridisce, dapprima solo come percezione, ma poi anche nella
sua riproduzione”12.
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A tale impoverimento sensoriale la letteratura può far fronte presentando al lettore una realtà ricca, una descrizione
ambientale che lo renda conscio di quante cose affollino una stanza, un qualsiasi ambiente, di quanta vita e quante scelte
sia colmo il suo vissuto. Šklovskij, per esemplificare l’assuefazione al quotidiano propone un frammento dagli Appunti dal
diario di Lev Tolstoj, il quale esprime in modo semplice ed efficace la sensazione di perdita del vissuto, la dimenticanza e
l’oblio che ingoiano buona parte della vita dell’uomo.
“Avevo pulito in camera, e fatto il giro della stanza, mi sono avvicinato al divano, senza riuscire a ricordarmi
se l’avevo spolverato o no. Poiché questi movimenti sono abituali ed inconsci, non potevo neppure avvertire che
ormai era impossibile ricordarsene. Sicché, se avevo già pulito il divano e me n’ero dimenticato, cioè se avevo agito
inconsciamente, era come se non lo avessi fatto. Se qualcuno coscientemente mi avesse visto, avrebbe potuto farmelo
tornare in mente: ma se nessuno aveva visto, o aveva visto ma inconsciamente; se tutta la complessa vita di molti passa
inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata”13.
È stridente il contrasto tra la complessità della vita e la banalità della dimenticanza. La dignità dei gesti si perde,
sprofondando nell’informe massa del quotidiano. Non è un caso che Tolstoj sia anche l’autore di uno dei libri più
significativi sulla malattia, La morte di Ivan Il’ič, che con una prosa cruda e serrata indaga la fine straziante del magistrato di
cui il titolo porta il nome.
La malattia come topos letterario ricopre un ruolo affatto secondario. Sia perché essa crea una crisi, un deragliamento
dalla storia, un punto di rottura che spesso delle narrazioni è la scintilla, sia perché rivela del personaggio e del suo ambiente
caratteristiche altrimenti sconosciute. L’ovvio smette di essere tale, l’invisibile prende forma. Il corpo assume l’importanza
che gli è dovuta. Oltretutto, grazie alla trattazione letteraria dell’infermità, scopriamo come il giudizio su di essa muti di
caso e in caso e quanto ricca di apparenti contraddizioni sia il modo di interpretarla. Se nell’appena citato La morte di Ivan
Il’ič la malattia mette a nudo la mediocrità della vita e lo sgretolarsi di tutte le certezze di fronte alla fine, ne La montagna
incantata di Thomas Mann essa funge da cartina di tornasole dello spirito dei tempi, raccogliendo in un sanatorio sulle Alpi
svizzere un concentrato di umanità; se nella novella Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese l’essere ipovedente della
piccola protagonista si rivela una difesa dalla grettezza e dallo squallore dell’ambiente in cui è nata, Daniel Keyes in Flowers
for Algernon legge nella Sindrome di Down una protezione contro l’oscenità della cattiveria umana, la lettura dolce di un
mondo spietato.
Nell’analizzare un libro come Journal d’un corps di Pennac o numerosi altri testi letterari che fanno della malattia una
tematica centrale, ci accorgiamo così che sì, come recitava Susan Sontag in apertura del suo libro Illness as Metaphor, “la
malattia è il lato notturno della vita”, ma anche che essa, con il suo carico di extra-ordinarietà, illumina non solo la mente ma
anche il corpo fino a farlo brillare. L’uomo torna a volgere lo sguardo sul proprio organismo, sulla fragilità dell’involucro
dell’anima. La fisicità lo turba, la caducità lo terrorizza ma con la malattia egli scopre anche il suo potere. La magia del
proprio corpo.
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Fenomenologia della malattia e immaginario del paziente
Secondo il mito di Pandora, narrato da Esiodo nel poema Le opere e i giorni, le malattie fanno la loro comparsa nel
mondo degli uomini con l’apertura del vaso funesto che la prima donna, mossa da curiosità, aprì contravvenendo agli
ordini dell’astuto Zeus. Pandora, dono ma anche dólos che il signore degli dei invia agli uomini per punire Prometeo e
il suo inganno14, è simbolo di una doppia tentazione: quella dell’uomo nei confronti della donna e quella della donna nei
confronti del divieto. La leggendaria curiosità femminile, stigmatizzata nella storia del pensiero occidentale e rivelatrice
di una radicata misoginia del mondo greco, fa sì che con lo scoperchiamento parziale del vaso si diffondano sulla terra “le
potenze della Notte, gli Àlgea [Dolori] delle malattie, il Pónos [Fatica], il Gềras [Vecchiaia] – mali che l’umanità nella sua
purezza originaria ignorava –, ma ogni bene implica ora la sua contropartita di male, il suo aspetto notturno, la sua ombra
che lo segue ad ogni passo”15. Pandora, con il suo gesto sconsiderato, disperse sulla terra mali prima sconosciuti agli uomini.
Viene così a coincidere nella mitologia greca l’apparizione della donna con la comparsa delle malattie, dei morbi che “fra gli
uomini, alcuni di giorno, altri di notte da soli si aggirano, ai mortali mali portando, in silenzio, perché della voce li privò il
saggio Zeus.”16
Se prima di allora gli esseri umani conoscevano e godevano del mondo solo il suo versante diurno, gravido di luce e di
dolcezze, adesso essi fanno – per la prima volta e per sempre – esperienza del suo lato notturno; percepiscono ora del corpo
non solo le delizie ma anche gli orrori, apprendono il decadimento nella vecchiaia, il dolore nella malattia, l’agonia che
conduce tutti, indistintamente, alla morte e alla putrefazione.
La caratterizzazione della malattia come punizione divina è comune a moltissime culture antiche. Ad un decadimento
morale, ad una colpa o un crimine, segue spesso implacabile la vendetta del cielo. La storia insegna come di fronte ad eventi
inspiegabili si cerchino di individuare “colpevoli” e colpe in modo da razionalizzare qualcosa che, mancando gli strumenti
necessari, razionale non appare. Ripercorrendo il decorso delle piaghe, delle epidemie che si sono diffuse nei secoli,
scopriamo ad esempio la terribile ‘peste antonina’ (165-180 d.C.), secondo la testimonianza di Cassio Dione, attribuita a non
meglio specificati criminali che spalmavano unguenti ed infettavano la gente sotto pagamento, le terribili ondate epidemiche
sotto l’imperatore Massimino il Trace e i suoi successori imputate ai cristiani da parte dei romani – rei d’essersi allontanati
pericolosamente dal culto degli dei pagani –, o la peste – di cui è esemplare la trattazione ne I promessi sposi di Alessandro
Manzoni – agli untori. Dall’ira degli dei si passa a quella di un solo dio nelle religioni monoteiste. Con il Medioevo inizia
la caccia alle streghe e il tribunale dell’Inquisizione individua in Satana, nella sua malefica presenza e nelle creature da esso
possedute, la responsabilità di tutti i mali. Per giungere fino ai giorni nostri in cui l’immaginario fantastico proietta mondi
controllati da morbi inesistenti come quello del vampirismo, epidemie diffuse da colossi farmaceutici intenzionati a ricavare
enormi guadagni dalla vendita dei vaccini, piaghe propagate al fine di ottenere il controllo della società e del mondo intero17.
Marc Augé ne Il dio oggetto racconta che nelle tribù africane il dio trascurato, che deperisce per le scarse cure ricevute,
si vendica colpendo con la malattia chi si sarebbe dovuto occupare di lui ma che invece non ha adempiuto opportunamente
alle sue funzioni18. La malattia è pertanto letta anche qui come castigo divino, come colpa somatizzata le cui cause sono
pertanto da ricondursi ad un agire doloso od incosciente. L’infermità diviene mezzo di comunicazione tra la sfera del reale
e quella religiosa. Il dio, per punirlo, invia all’uomo quanto di più legato alla sua sfera terrena, l’infermità intesa come
massima manifestazione della vulnerabilità del corpo che sempre è in balia del tempo e dei mali. La scelta di palesarsi in
questo modo risulta assolutamente efficace e la tortura del corpo è mezzo sfruttato anche dagli antenati per comunicare con i
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propri successori e reclamare la loro attenzione19. La malattia si fa quindi anche linguaggio tra passato e presente in una fitta
rete di rimandi tanto psichici quanto strettamente fisici.
La malattia è culto dell’individualità, rende interessanti. Novalis definiva l’ideale di perfetta salute interessante solo
scientificamente20 contribuendo quindi a rinforzare il concetto di malattia come invece affascinante, rivelatore di una
personalità ricca, di una sensibilità spiccata. L’ideale romantico dell’artista malaticcio, meglio ancora se affetto da male
incurabile (e pertanto vicino più degli altri al pensiero della morte), si è trascinato fino ai giorni nostri nel cliché narrativo di
certi libri, film e serie tv.
Grazie a un disturbo invasivo dello spirito, prima ancora che del corpo, una storia diviene così degna d’essere
raccontata, sufficientemente interessante da giustificare la sua narrazione. Il protagonista affronta la prova suprema della vita
e dimostra d’esserne degno. Fronteggia la morte e nel modo di approcciarsi ad essa svela la sostanza del proprio valore.
Virginia Woolf, nei suoi diari, scriveva che le malattie hanno il potere di sciogliere “la terra attorno alle radici.
Provocano dei cambiamenti. La gente esprime il proprio affetto”21. Si riferiva certamente al diverso atteggiamento non solo
del malato ma anche di chi, amici, parenti e conoscenti, ad egli si rapporta. È il potere dell’eccezionalità, dell’extra-ordinario
e insieme anche dell’esperienza del negativo.
Molta letteratura e cinematografia di serie B si basa del resto sulla triade amore/malattia/morte. Il patetismo è dietro
l’angolo. La malattia, che è quanto di più vicino alla morte ci sia in vita, ha il potere di rendere coscienti della brevità
dell’esistenza, di accelerare le sue tappe, di presentare al protagonista l’urgenza non solo di vivere il più intensamente
possibile ma di attribuire un senso più alto alla porzione di vita rimasta a disposizione. Torna subito alla mente una delle
storie più amate e insieme criticate degli anni Settanta, Love Story – originariamente romanzo di Erich Segal, poi film
diretto da Arthur Miller – che racconta l’amore tra due ragazzi di differente estrazione sociale, razza e cultura. Nonostante
l’opposizione ferma della ricca famiglia di lui, essi riescono a coronare il loro sogno romantico che però si conclude
bruscamente per il sopraggiungere della malattia di lei, una leucemia fulminante che in breve la porterà alla morte. Nel caso
particolare di questo testo il ruolo della malattia come invito alla vita viene in parte mitigato dalla mancanza del colpo di
scena che proprio la leucemia dovrebbe provocare. Umberto Eco individua nella frase iniziale del romanzo “Che cosa si può
dire di una ragazza morta a venticinque anni?” il suo successo e insieme un’occasione persa.
“In termini di stilistica dell’intreccio l’arrivo della malattia dovrebbe piombare come un colpo di scena che cambia
colore emotivo a tutta la vicenda precedente, trasformando l’idillio in un dramma e rimettendo in luce problematica
tutto quanto narrato sino ad allora. Avvisare invece il lettore [...] favorisce l’accettazione dello choc finale, lo pone sotto
il segno della necessità, lo svuota di ogni potere provocatorio”22.
Se la scoperta repentina della malattia avrebbe potuto, secondo Eco, elevare il libro a “tragedia dell’assurdo”, l’avviso
d’apertura vanifica le sue potenzialità, facendone una mera “elegia della rassegnazione”.
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La malattia o alla ricerca del linguaggio perfetto
Per parlare della malattia esiste il linguaggio della categoria medica e quello del paziente. È opinione condivisa come a
fronte di una macchina terminologica imponente, di un linguaggio specialistico tra i più impenetrabili, la gente comune provi
confusione, una sorta di spaesamento nel cercare (spesso invano) di comunicare il proprio stato, il dolore e il disagio.
Delle trappole “immorali” che nasconde l’uso abbondante di metafore per riferirsi alla malattia parla diffusamente
Susan Sontag nel noto libro del 1989 Illness as a metaphor. Il linguaggio risulta inadeguato a spiegare al medico il proprio
male ma, a seconda di come esso viene manipolato, il malato si sente rassicurato oppure incompreso. Sontag auspica una
sobrietà, una essenzialità che, a suo parere, la malattia stessa richiede. Il suo punto di vista è totalmente schierato a favore del
malato che si trova vittima di un immaginario falsato. Questo infatti, a seconda dei casi, rende l’infermo persino responsabile
della contrazione del male, colpevole d’essersi reso vulnerabile al suo “attacco”.
Nel testo di Sontag ricorrono frequentemente (e non a caso) i termini “mito” e “mitologia” riferiti alle due patologie
maggiormente approfondite: la tubercolosi e il cancro. La sfiducia che l’autrice nutre nei confronti dell’immaginario che
tocca la loro trattazione è da subito manifesta. Il termine “mito”, dal greco mŷthos ‘parola, discorso, narrazione’, cova nelle
sue sfumature di significato la credenza di avvenimenti idealizzati, lontani nel tempo e pertanto difficilmente confutabili,
una visione astratta esposta in forma allegorica o poetica, oppure un evento realmente accaduto ma semplificato in modo da
distorcerne con più o meno consapevolezza i caratteri di realtà. La “mitologia” poi, al di là del significato di collezione di
miti facenti parte di una particolare religione o tradizione culturale, è definita come un gruppo di storie e racconti di cui si
siano esagerati e mistificati i contorni.
Il male per antonomasia del diciannovesimo secolo, la tubercolosi, si carica allora di particolari significati e accezioni
psichiche, di connotazioni caratteriali che sarebbero persino alla base della sua comparsa. Franz Kafka nelle Lettere a
Milena scriveva di come la malattia polmonare non fosse che lo straripamento di un malessere psichico, Katherine Mansfield
pensava che fosse stato il suo “Self” a farla ammalare23. È la malattia della creatività, la tara dell’artista.
Tubercolosi e cancro, nota Susan Sontag, benché vengano accomunate dallo stesso sipario di morte che quasi
inevitabilmente cala sulle vite di chi ne è affetto, sono rispettivamente associate la prima a un decadimento “bello” del
corpo, ad una consunzione dell’anima, il secondo ad un orrore senza fine, al fetore maleodorante dell’agonia. Nel cancro
è difficilmente reperibile una idealizzazione, denuncia la Sontag. In esso non vi è nulla di edificante e ciò rende addirittura
complesso in sede medica comunicare al paziente il nome del male. Dire cancro, scriveva Sontag, è come una dichiarazione
di morte. Da quando il libro venne scritto e pubblicato ad oggi, la medicina ha fatto notevoli progressi e la possibilità
percentuale di sopravvivere al cancro è aumentata significativamente. Il tempismo della diagnosi, però, risulta ancora
decisivo ed è innegabile come il termine venga tutt’ora sfruttato per significare qualcosa di orrendo in modo ineguagliabile.
Una piaga, un male senza rimedio.
Gli stessi nomi delle malattie sono percepiti come portatori di un potere soprannaturale.
“In Stendhal’s Armance (1827), the hero’s mother refuses to say ‘tubercolosis,’ for fear that pronouncing the word
will hasten the course of her malady. And Karl Menninger has observed (in The Vital Balance) that ‘the very word
“cancer” is said to kill some patients who would not have succumbed (so quickly) to the malignancy from which they
suffer”24
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Spesso la malattia non viene neppure nominata. La parola che se ne fa portatrice è vista come maledizione o come cura.
Nei rituali e nelle preghiere che accompagnano la terapia nelle antiche civiltà, la parola è ponte per la guarigione. Sappiamo
infatti come in tempi remoti, e tutt’ora in alcune zone del mondo, la figura del medico sia difficilmente separabile da quella
dello sciamano e del mago. Il potere soprannaturale attribuito alla malattia si riflette inevitabilmente sulla cura richiesta e su
chi ne è il dispensatore. Scrive Christian Leitz a proposito della tradizione egizia e dei testi magici che risultano inscindibili
da quelli del corpus medico vero e proprio:
“con l’ausilio delle formule si tentava di eliminare le malattie [...] Si riteneva che la maggior parte delle malattie
fosse causata da demoni; una serie intera di termini egizi per indicare le malattie designa tanto le malattie stesse quanto
i demoni che le causano”25.
La coincidenza terminologica tra il male e l’appellativo del demone è significativa per spiegare sia la dimensione
soprannaturale della malattia sia il terrore evocato dal suo nome. D’altra parte però se le parole ammalano esse hanno anche
poteri curativi: “L’efficacia delle formule poteva essere rafforzata ripetendole più volte (spesso sette) una dopo l’altra, o
scrivendole su un pezzo di lino con cui il paziente era fasciato”26.
Da sempre il fatto che una malattia sia terminale porta chi la pronuncia a censurarsi, come a voler evitare di proferire
la parola morte. La fine migliore risulta essere quella istantanea, quella cioè priva di tempo. L’attesa consuma la vita e la
accorcia. Seneca scriveva a Lucilio che dovremmo vivere quotidianamente con il sentimento di una morte prossima ma,
insieme, di non temerla. La paura della morte angustia la vita: “La morte ti viene incontro: la dovresti temere se potesse
rimanere con te: ma necessariamente o non è ancora arrivata o passa oltre”27.
Nella realtà dei fatti, però, la contemporaneità ci indica un vero e proprio orrore della morte. La ricaccia, la aborrisce.
Norbert Elias ne La solitudine del morente28 approfondisce con perizia questo tema, spiegando come l’alto grado di
civilizzazione della società contemporanea abbia determinato una maggiore aspettativa di vita e, di conseguenza, un graduale
disabituarsi al concetto di morte. Questa, infatti, grazie alle norme igieniche e sociali che hanno contribuito ad allungare la
durata media dell’esistenza, viene sempre più allontanata, negata. Il morente si ritrova confinato in un luogo specifico, la
camera di una clinica, una stanza d’ospedale. Il suo stato intralcia il benessere di chi è vivo, disturba oltremodo l’illusione di
immortalità di cui è affetta la società contemporanea. Questa, scrive Elias, è tutta concentrata sul cercare di dimenticare la
morte, teme di essa il contagio, come si trattasse di un morbo. La “sfera speciale” in cui i vivi confinano i defunti, lo stesso
silenzio da mantenere nei cimiteri, non sarebbe quindi che una presa di distanza dalla dimensione funeraria.
Il racconto che forse meglio di tutti gli altri ha saputo raccontare tale rifiuto è La morte di Ivan Il’ič. In questa breve ma
intensa opera Tolstoj convoglia il pensiero della morte, la vanità dell’esistenza, l’agonia della malattia e il destino rimandato.
Il sentimento che domina chi partecipa al funerale del funzionario è solo uno, quello “di soddisfazione, giacché a morire era
stato lui e non loro. « È morto lui, non io» era il pensiero di ognuno. [...] tutto ciò era capitato a Ivan Il’ič e non a lui, che a
lui non doveva e non poteva capitare nulla di simile”29. È il sollievo dell’esser vivi al funerale di un collega, il rifiuto di un
destino comune e inesorabile. Ciò che invece tortura alla fine dei suoi giorni il funzionario Ivan Il’ič è la menzogna, quella
secondo cui lui possa guarire e non sia destinato a morte certa, cosa che invece il suo corpo grida giorno dopo giorno con
maggiore convinzione. La bugia serve a chi convive con il malato terminale a non affrontare discorsi funerei, intrisi di un
dolore inaffrontabile. È l’imbarazzo di chi sopravvive, l’inconfessabile desiderio di liberarsi del defunto per non doverlo più
『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
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veder soffrire e il senso di colpa che da tale grumo emozionale scaturisce.
Questa stessa bugia viene narrata in una situazione diametralmente opposta da Simone De Beauvoir in Una morte
dolcissima, il toccante libro che racconta le ultime settimane di vita della madre nella camera d’ospedale dove ella è stata
ricoverata inizialmente per una banale caduta. Si scoprirà in breve come invece la donna abbia sviluppato un tumore
all’intestino tenue. Fino alla fine Simone e la sorella Poupette nasconderanno il mare incurabile alla donna. Questa infatti
aveva da sempre temuto il cancro e le figlie e il personale medico, per difenderla dalla consapevolezza della morte, le
comunicano invece che è stata operata con successo di peritonite. L’immaginario del cancro è terribile e lo stadio della
malattia così avanzato nel corpo dell’anziana madre che le figlie ritengono opportuno risparmiarle quella inutile sofferenza,
che sottrarrebbe senso anche ai suoi ultimi giorni di vita. Resta però un dubbio, che quella bugia sia sottintesa anche alla
madre, non perché questa sospetti la natura del suo male ma perché aveva compreso il sopraggiungere rapido della fine.
Sistemando le sue cose, infatti, vien fuori un foglietto, una riga sottile di inchiostro in cui la donna accenna al suo funerale,
al desiderio di averlo semplice, senza né fiori né corone ma pieno di preghiere.
È chi assiste che protegge il malato o ĕ invece il malato a proteggere i propri cari dal fronteggiare la sua morte e la
sofferenza che ne deriverebbe? Come scrivevamo proprio all’inizio di questo intervento, la malattia, insieme alla tristezza, è
quanto di più vicino alla morte. Si percepiscono i limiti del corpo, il suo essere ponte tra la vita e la sua fine.
Anche in questo romanzo si affronta l’incomunicabilità tra la gente comune e la categoria medica. In luoghi in cui
“l’agonia e la morte sono incidenti quotidiani”, Simone e la sorella si dibattono tra discorsi fatti d’una tecnica gelida e
incomprensibile, d’una routine che lascia poco spazio all’umanità e alla dignità del malato. Il giudizio della scrittrice sulla
categoria è impietosa: “Quando attraverso la bocca di mia madre udivo parlare quella élite, m’inalberavo; ma mi sentivo
solidale con l’inferma inchiodata a quel letto che combatteva per fare indietreggiare la paralisi, la morte”30.
L’inconciliabilità dei due linguaggi – quello tecnico del medico e quello incerto, inesatto e carente del paziente – è
un tema che valica il campo letterario e che si sta facendo sempre più strada anche nello studio della medicina. Fanno così
ingresso nelle aule universitarie, lezioni che introducono i futuri dottori alla letteratura che tratta il tema della malattia, a
quei racconti, romanzi, diari etc, che raccontano l’infermità, l’esperienza del dolore, l’ambiente ospedaliero considerati non
più dal punto di vista del professionista sanitario ma da quello confuso, spaurito e ansioso di spiegarsi del paziente. Questo
serve a calare lo specialista di medicina nel ruolo del malato. Il linguaggio medico si arricchisce di quello della letteratura,
delle parole del paziente. La mescolanza non più univoca ma reciproca mira ad una comprensione più profonda. Non è più
solo il malato a cercare faticosamente di interpretare le parole del dottore, ma anche quest’ultimo che si rivolge al malato
con maggiore indulgenza ed interesse. Ne scrive diffusamente Remo Ceserani che dedica alla categoria dei medici un intero
capitolo di Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline31 soffermandosi a lungo sull’incidenza che, soprattutto
negli Stati Uniti, la letteratura inizia ad avere nei corsi di medicina.
La riflessione sul linguaggio tocca da vicino anche Virginia Woolf che nel già citato saggio On Illness accusa una
mancanza terminologica nella spiegazione del male, un “prosciugamento” lessicale che spinge il malato, che si trova a
dialogare con il medico, a coniare nuove parole capaci di rappresentare qualcosa che l’inglese non sembra invece in grado
di accogliere32. La scrittrice si spinge più oltre invocando non tanto una nuova lingua quanto “una nuova gerarchia delle
passioni”. Con brillante umorismo incoraggia la letteratura a prendere coscienza dei veri protagonisti, affinché “l’amore si
ritiri davanti a quaranta di febbre; la gelosia lasci posto agli attacchi di sciatica; l’insonnia prenda la parte del cattivo e l’eroe
sia un liquido bianco dal sapore dolciastro – quel Principe valente con gli occhi di falena e i piedi piumati, uno dei cui nomi
ラウラ・今井メッシーナ
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è Chloral33”.
Come mettere allora in comunicazione le due parti? Esiste un territorio comune di scambio in cui medico e paziente
possono dialogare senza rinunciare a competenza e rispetto di sé?
Se Susan Sontag metteva in guardia dall’uso delle metafore per appellare malattie come tubercolosi e cancro, Anatole
Broyard risponde con durezza all’invito della scrittrice americana, replicando che:
“le metafore possono essere necessarie alla malattia come lo sono alla letteratura – capaci di dare sollievo al
paziente tanto quanto l’accappatoio o le pantofole. Se non altro, ti liberano dal peso della terminologia medica. Se il
riso ha virtù terapeutiche, lo stesso si può dire della metafora. Forse solo la metafora può esprimere lo sbalordimento, il
panico combinato alla beatitudine della persona minacciata”34.
Il linguaggio del malato e quello del medico possono allora forse trovarsi a metà strada, incontrandosi sul terreno della
poesia. Del resto, se in qualcosa la poesia è abile, è la capacità di spiegare l’inspiegabile, di riassumere in un pugno di parole
complessi panorami.
“Secondo l’antica ma ineguagliata tradizione ippocratica, come Pierre Bourdieu ricorda ai lettori di La misère du
monde, la vera medicina parte dal riconoscimento di una malattia invisibile: «fatti di cui il malato non parla o che dimentica
di riferire»”35.
L’indicibile, l’inspiegabile e il dimenticato sono parte del linguaggio del malato. Una criptica poesia di sofferenza. La
disperata volontà di spiegare e la difficoltà di esprimersi.
Il caso Ogawa Yōko: la malattia come bellezza e l’elogio della diversità
Vi sono romanzi in cui la malattia costituisce una nota a margine, una stringata subordinata legata alla caratterizzazione
di un personaggio, semplicemente la ragione di un decesso. Vi sono invece romanzi, come quelli dell’ampia produzione di
Ogawa Yōko, in cui la malattia è una risorsa narrativa, stimolo alla scoperta di un denso universo di corpi. Disegna scenari
in cui è possibile una perfetta integrazione tra salute e malattia, tra vita e morte. Il malato, indipendentemente dal disturbo
o dalla deformazione che gli sono toccati in sorte, viene sempre descritto come portatore di bellezza, di un potere derivante
proprio dalla sua anormalità, dalla sua ‘extra-ordinarietà’.
In egual misura ritroviamo nei sui romanzi e raccolte di racconti malattie della mente e infermità del corpo, disturbi
che sopraggiungono d’improvviso nel corso dell’esistenza oppure malattie congenite o che si manifestano poco dopo la
nascita. Il mito della fragilità, lo stereotipo della creatura debole, troppo giovane per morire e troppo pura per restare in vita,
è parte dell’immaginario di una scrittrice come Ogawa Yōko che, assai radicata nella cultura giapponese di origine, trae però
ispirazione a piene mani anche dalla letteratura straniera ed in particolar modo europea.
Una costante della sua produzione è il personaggio idealizzato del fratello minore, spesso malato, morente o affetto
da gravi disturbi o handicap. Talvolta invece il personaggio infermo non fa parte della famiglia, ma è una persona vicina
al protagonista, un fidanzato, un amico di infanzia. Frequentissimi sono anche i personaggi di anziani, donne soprattutto,
consumati dalla vecchiaia, dalla demenza senile e dall’infermità. La malattia, nella narrazione e nella costruzione delle
『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
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trame dei libri di Ogawa Yōko, svolge una funzione centrale. La sua è una poetica della diversità, del deragliamento dal
percorso classico di sviluppo della trama: per certi versi la si potrebbe definire una letteratura della digressione. La storia
principale, il personaggio forte sembrano non stimolare particolarmente la curiosità della scrittrice. Più significativo è
invece il soggetto incerto, quello che procede sul ciglio della strada o che per la strada vi si perde, colui che muta percorso
e si ritrova in luoghi e situazioni impreviste. Il protagonista, maschile o femminile che sia, affronta situazioni che mettono
alla prova la sua tempra. Eppure non è mai ovvio che l’io narrante36 sia dotato di un carattere forte. I personaggi di Ogawa
Yōko sono più frequentemente sconfitti dagli eventi, passivi nei confronti del reale. Vorrebbero replicare ma non replicano,
vorrebbero agire ma non agiscono. Vorrebbero alleviare le sofferenze di chi amano ma non riescono ad alleviarle. Finiscono
alle volte piuttosto per scomparire nel nulla, come entità incorporee, come nel finale del romanzo lungo『密やかな結晶』37 (Hisoyakana kesshō, “Un cristallo silenzioso”) in cui la protagonista vede le parti del suo corpo, pezzo dopo pezzo,
letteralmente svanire nell’oblio.
Tra le numerosissime opere che analizzano la condizione del malato ne prenderemo in analisi tre: 『シュガータイム』38
(Sugar Time) pubblicato nel 1991, 『貴婦人Aの蘇生』39 (Kifujin A no sosei, “La rinascita di Lady A”) edito dalla Asahi
Shimbunsha nel febbraio 2002 e 『ミーナの行進』40 (Mīna no kōshin, “La marcia di Mina”) romanzo lungo uscito nel 2006.
In Sugar Time sono trattate in modo più o meno approfondito tutta una serie di tematiche tra cui il pregiudizio e la
cattiveria della gente nei confronti della diversità, la ricerca disperata di una cura, il giro per gli ospedali e la convivenza con
la condizione di malato che risulta di più difficile accettazione per i familiari che per chi da quel male è affetto.
In questo racconto, diviso in dodici capitoli di pressochè identica lunghezza, si intrecciano due temi legati alla malattia:
il disturbo alimentare di Kaoru (protagonista e voce narrante) e la deformazione fisica di suo fratello minore (Kōhei), figlio
della donna che suo padre ha sposato in seconde nozze. Se la prima è colpita da una fame nervosa che la porta ad ingurgitare
giornalmente enormi quantità di cibo, il secondo soffre di nanismo ipofisario. Mentre la patologia della ragazza si risolve
nell’osservazione attenta e quasi impersonale del fenomeno, nella trascrizione su un diario di tutto quanto trangugia nell’arco
di una giornata41 e nella finale guarigione – che svela quanto ella fosse sofferente piuttosto di gravi carenze affettive –,
l’handicap del fratello non ha carattere di transitorietà. Durante tutto il libro sono disseminati riferimenti ai rapporti di
grandezza, all’essere minuto di ogni cosa che appartiene al ragazzo: dalle proporzioni del suo corpo, delle singole parti
(mani, piedi, palmi), agli abiti cuciti su misura, alle minute scarpe. La protagonista riferisce di quando per la prima volta
aveva consultato la Grande Enciclopedia Medica della Famiglia per capire quale fosse la malattia di Kōhei. Ogawa Yōko
sfrutta spesso nei suoi racconti l’enciclopedia, presentando così un tentativo di accostarsi alla confusione del reale con un
approccio conoscitivo quanto più scientifico ed oggettivo possibile. Un approccio, però, che non sempre si rivela di successo.
「航平の病気はすぐに見つかった。堅苦しい漢字の病名がたくさん並ぶページの端に、それは太字で印刷されていた。わたしは長い時間をかけてその一字一字を確かめた。現実感のないひややかな病名だった」42
Kaoru procede a fatica nella lettura di termini medici a lei incomprensibili finché non si imbatte nell’ultima riga che, in
breve, spiega come ancora non sia stata scoperta una cura e che, non essendoci problemi di salute nonostante la differenza
di statura, si consigliava di allevare il soggetto affetto da nanismo come una persona normale. La definizione 「普通の人」43
(futsū no hito “persona normale”) la ferisce particolarmente, così come la vista delle illustrazioni che accompagnano il testo:
ラウラ・今井メッシーナ
147『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
「わたしを一番哀しくさせたのは、患者を描写したイラストだった。それは裸の男子で、正面と横向きの二方向があり、頭、胴、手足、腰堆と、身体の各部分から伸びた矢印の先に端的な特徴が記してある。“突出”、“湾曲”、“萎縮”……特徴はどれも救いようのないものばかりだった。」44
La crudezza del disegno non si adatta in alcun modo, secondo la sorella, alla bellezza del battito di ciglia di Kōhei,
caratteristica che dalla prima volta che lo ha incontrato la ha profondamente colpita e affascinata. Quel modo lento, sempre
estremamente calmo di aprire e chiudere le palpebre, rispecchia a suo dire l’essenza stessa del ragazzo, illumina il suo
sguardo, le espressioni del suo volto. Ciglia sottilissime come antenne di farfalla, il loro impercettibile fremito, la sensazione
di poter persino udire ogni loro battito.
Così come ella ritroverà il movimento delle palpebre di Kōhei negli occhi di Giulietta Masina nel film felliniano “La
strada”, l’attenzione verso la malattia del fratello porta la protagonista a scrutare con occhio più attento anche la dimensione
del corpo degli sconosciuti. Sembra cercare nella folla le persone di piccolissima statura e quando si imbatte in loro ne spia
gli arti, cerca conferma della loro minutissima estensione45.
Sugar Time tocca da vicino anche il tema della ricerca medica, di una madre che non si rassegna alla malattia del
figlio. Un giorno Kaoru riceve una telefona dalla matrigna che le riferisce di aver letto di una ricerca sperimentale che
stava svolgendo un professore sul nanismo ipofisiario. Benchè la ragazza non sia d’accordo, dietro le insistenze della
donna, accetta di accompagnare Kōhei all’ospedale in cui lavora il luminare. La ricerca si rivelerà fallimentare perché gli
esperimenti si possono condurre solo su bambini e non su soggetti adulti, nei quali invece la malattia ha già fatto il suo
decorso. Per l’imbarazzo Kōhei rimarrà in silenzio e rifiuterà anche di fare un semplice check-up di routine: ne ha abbastanza
di visite mediche.
La malattia in questa storia è tenerezza, fragilità, desiderio violento di protezione ma anche voglia di esserre accettati
esattamente per quello che si è.
Nel romanzo Kifujin A no sosei una delle sottotracce del libro è, ancora una volta, la malattia. La Ogawa descrive il
disturbo compulsivo di Nico, fidanzato della protagonista. Insieme allo strazio della disfunzione nervosa, la ragazza racconta
però anche la grazia del suo corpo, dei capelli, la rilassatezza che comunica il movimento armonico delle sue mani. Ciò
che viene soprattutto sottolineato è il fascino del rituale che egli deve compiere per portare a termine operazioni (come ad
esempio aprire una porta) che sarebbero banali per chiunque altro, l’evidenziazione cioè della bellezza della stessa malattia.
「ニコは鍵を開け、さっそく八回の回転ジャンプからスタートさせた。彼が着地するたび、木製のポーチがギシギシ軋んだ。いつ見ても彼は美しくジャンプすることができた。数えきれない儀式の過程で、いつしかバレリーナよりも研ぎ澄まされた回転の形を習得したようだった。」46
Nella malattia non si è mai completamente soli e Nico si ferma a pensare a quanti altri sconosciuti in giro per il mondo
soffrano del medesimo disturbo, persone che compiono movimenti uguali, salti curiosamente identici ai suoi. La risposta a
questo male complicato è la naturalezza nell’affrontare il rituale. Non serve stilare una schedatura degli attacchi compulsivi
di Nico perché ciò che li domina e rende il male tanto angusto è proprio la loro imprevedibilità. Tutti i tentativi della ragazza
di razionalizzare il male del fidanzato risultano inutili tanto che è lui a consolare lei e non viceversa:
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「気落ちすることないよ」 慰めるように、ニコは言った。「君が悪いんじゃない」 私は彼の胸で泣いた。自分の方が病人になったような気持だった。47
Anche in questo romanzo si fa accenno alle reazioni della gente comune davanti alla malattia di Nico, alla crudeltà
degli sconosciuti nei confronti della diversità, ai loro sguardi spietati ed invasivi.
Mīna no kōshin è un delicato ritratto di famiglia ambientato nella ricca provincia di Kōbe durante la prima metà degli
anni Settanta. La narrazione si basa sui ricordi di bambina di Tomoko, dei suoi tredici anni e dell’anno trascorso nella villa
della sorella della madre. Sotto lo stesso tetto vivono gli zii, la loro figlioletta Mīna, nonna Rosa, la domestica e un piccolo
ippopotamo. Mīna è la cuginetta di Tomoko, bambina che soffre di attacchi d’asma, con una sensibilità molto spiccata e un
amore adulto per i libri. Le sue sono letture di donna, stridenti con il piccolo e debole corpo che abita. Viene descritta come
una creatura fragile fisicamente ma forte interiormente, la cui bellezza non è intaccata dalla malattia.
「この完全なる顔の造りとは不釣り合いに、身体はあまりにも未熟だった。小さい頃から発作ばかり起こしてきたからだろうか、背中は咳をしやすい形に湾曲し、肋骨は窪んでいる。普段でも耳を澄ますと、喉の付け根あたりから、木枯らしが吹き抜けるような音が聞こえる。美しすぎる顔を支えるのに戸惑い、難儀しているような音でもある。」48
Ogawa Yōko abbina nelle sue opere malattia a bellezza, mancanza a pienezza. La scrittrice elabora nella descrizione
una sorta di compensazione tra infermità e fascino, non indulge mai sul patetismo consolatorio, sulla cautela goffa. Affronta
il corpo, la sua anormalità, con descrizioni precise e puntuali. Dipinge con chiarezza le perversioni della mente, osserva
il mondo come sotto la lente di un microscopio. Registra, trascrive e con voluttuose metafore ne mette in luce la bellezza,
l’attrattiva misteriosa del diverso.
Non è certamente un caso che la prima esperienza lavorativa della stessa Ogawa Yōko si sia svolta in una struttura
ospedaliera49. E dal semplice conteggio di quante opere trattino il tema della malattia o siano ambientate in cliniche e stanze
d’ospedale risulta evidente in che misura da quell’ambiente di camici, annunci all’altoparlante, viavai di medici e infermieri,
volti di malati e visitatori, ella debba essere stata influenzata.
Se in 『最果てアーケード』(Saihate ākēdo)50 una bambina muore di una malattia non meglio definita, il proprietario
e amministratore della pensione in 『ドミトリー』51 (Domitorī, “Il dormitorio”) è un anziano professore che non ha né le
braccia né la gamba sinistra; in 『刺繍する少女』52 (Shishū suru shōjo “La ragazza che ricama”) un uomo va a far visita
alla madre che sta morendo di cancro mentre in 『沈黙博物館』53 (Chimmoku hakubutsukan, “Il museo del silenzio”) viene
descritto un vecchio, anch’egli malato di cancro, ricoverato in ospedale e il suo occhio artificiale; in 『原稿零枚』54 (Genkō
zero mai nikki, “Il manoscritto senza pagine”), la protagonista si reca in ospedale per assistere la madre; in 『猫を抱いて 象と泳ぐ』55 (Neko wo daite zō to oyogu, “Abbracciando il gatto, nuotando con l’elefante”) il protagonista nasce con le
labbra attaccate e la sua crescita si arresta quando è ancora piccino mantenendo per sempre minute le dimensioni del suo
corpo; in 『薬指の標本』56 (Kusuriyubi no hyōhon, “L’anulare”) la protagonista perde un pezzo dell’anulare in un incidente
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in fabbrica. E se uno dei racconti di 『寡黙な死骸 みだらな弔い』57 (Kamokuna shigai midarana tomurai, “Cadaveri
silenzioni, indecenti funerali) si intitola 「白衣」 (‘Il camice’) e racconta di una donna ricoverata per una malformazione
cardiaca e un omicidio passionale tra personale ospedaliero, 『完璧な病室』58 (Kampekina byōshitsu, “Una perfetta stanza
di ospedale”) è dedicato interamente alle ultime settimane di vita del fratello minore della protagonista nella stanza
dell’ospedale dove, tra l’altro, lei è impiegata. E così via.
Il malato è nella narrativa di Ogawa Yōko portatore di un potere incarnato dalla malattia stessa. Questa, con il
suo bagaglio di sintomi e impedimenti, costituisce di per sé una fenomenologia complessa che si ramifica in soggettive
differenze che variano da individuo a individuo ma che hanno in comune una messa in luce del corpo e del fascino
scaturito dalla diversità.
La malattia terminale ha sia il potere di sfiancare l’uomo sia di renderlo cosciente della vita che inconsapevolmente
conduce. L’handicap fisico mette in risalto la sua tenacia, la crudeltà della gente, il pregiudizio, l’istinto di protezione
degli affetti e soprattutto la bellezza del corpo, di alcuni suoi particolari. Nella narrativa di Ogawa la malattia non è mai
semplice limitazione o impedimento. Ha sempre la funzione di svelare altro. Ed oltretutto è, come abbiamo visto, piena di
bellezza.
Per meglio comprendere l’originalità dell’analisi della malattia in Ogawa è utile esaminare la trattazione della
malformazione in un’altra scrittrice giapponese, vissuta nella prima metà del Novecento. Hayashi Fumiko in 『稲妻』59
(Inazuma, “Lampi”), un libro uscito a puntate nel 1936, racconta la storia di una famiglia giapponese di cui la protagonista
è Kiyoko, donna decisa e consapevole, il cui viso però è deturpato da una malformazione congenita. È nata infatti con
il labbro leporino, una cicatrice a V che taglia il suo labbro superiore. Come più volte Kiyoko ripete all’inizio del libro,
quasi si trattasse della risposta a tutte le domande, lei ha scritto in volto il suo destino, un futuro che non include né amore
né matrimoni combinati.
頬は薄紅い色をしてふくらんでいた。睫は寝起きで乱れていたが、眼の下には深い影をつくっている。眉は香しい色をしているし、鼻は小さかったが、見苦しいとは思わない。上脣、これだけは何の約束なの?清子は鼻を手術する時のような残酷さで上脣をめくった。縫った跡が厭らしくのこっていて、鱶の舌のようにべらべらした畝がかぶさりあっていた。下顎の前歯でさわると、玉があるようにぷりぷりしている。下脣は栗の花のようだった。毒々しくなくて薄い色をして匂っている。誰にも迷惑をかけない立派な顔だと、清子は上脣をおろして脣をすぼめた。創跡は深い人形になるだけで、鏡の中では目立たなかった。[…]清子は鏡を伏せたが、その安心は危惧いものだった。すぐ、一人でごろごろ転げて泣きたくなる。夏でもマスクをして学校へ行ったこと子供の頃を思い出すと、清子は肩を固くして考えこんでしまうのだ。60
Nell’arco di questa dettagliata descrizione – l’unica tanto approfondita nell’arco intero del romanzo – si nota un
alternarsi di bellezza ed orrore, il contrasto tra le guance floride, le sopracciglia, il naso minuto, il bel labbro inferiore,
con quel segno indelebile che invece la rende una “minorata”61. Di fronte al proprio volto esita, perde quella sicurezza
arrabbiata che domina le sue scelte di vita, la caparbia indipendenza che dimostra, e la fa sentire diversa non solo
fisicamente ma soprattutto moralmente dagli altri membri della sua famiglia che, invece, conducono un’esistenza allo
sbando, vinti dalla passione per il denaro, la lussuria, la meschinità.
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「平凡で莫迦で、欺され勝ちな姉たちの顔とは少しも似ていないだろう」62, pensa in un moto di orgoglio.
La ferita però è scolpita profondamente non solo nella sua carne ma anche nella sua memoria, che torna ad un’infanzia
infelice quando a scuola le era imposta la mascherina per celare allo sguardo degli altri la menomazione. Kiyoko copre lo
specchio mentre “la sua sicurezza cominciava a vacillare”. Subentra poi un pianto disperato, solo in parte liberatorio. Dover
nascondere alla famiglia il suo sentire castra ogni sollievo. Più di ogni altra cosa, più dello scherno crudele dei bambini
per strada, le è odiosa la pietà dei parenti e in particolar modo della madre. La famiglia è luogo di troppe ferite e quel
comportamento ovattato sembra nascondere una forma di ulteriore e radicata discriminazione. Nella rabbia di un litigio
particolarmente acceso, la sorella maggiore Nuiko la chiama 「不具者」(katawa “minorata”), grida di provare schifo nei
suoi confronti, di vergognarsi della parentela con “una come lei”. Kiyoko apprezza piuttosto lo sguardo deciso di chi non
teme di osservarla dritto in faccia come Kunimune, un giovane che vive dirimpetto alla camera presa in affitto a Ōkubo e
con cui lei, grazie a quel suo atteggiamento spontaneo e aperto, sente di poter stringere una amicizia sincera.
肉親から同情されるよりも、正直に自分の創に眼をとめて来る赤の他人に、苛酷なまでに涼しいものを感じた。63.
Così, nella proposta della famiglia che cerca di imporle un matrimonio combinato con un uomo rozzo ed arrivista,
Kiyoko vi legge un’ulteriore violenza e vi si ribella con la rabbia d’una bestiola ferita. Il labbro leporino è per lei, che
altrimenti sarebbe persino la più graziosa tra le sorelle, un pronostico di infelicità, una deformità che si mischia in modo
malsano alla sua bellezza.
「末っ子で、一番可愛いと云うのも、自分が不具者だから、その可愛さに不健康な色が混っているのだろう、臭いものには蓋をしろ」64.
In questo romanzo la malattia è vista come una diversità scritta nella carne, l’ennesima difficoltà che una donna del
Giappone dell’era Showa deve superare per raggiungere la felicità. Essa risulta però aver forse anche fornito alla ragazza
un vantaggio rispetto alle sorelle, meno belle di lei ma “normali”: l’istruzione. È infatti nella sua famiglia quella che più ha
studiato, quella con l’educazione migliore. Kiyoko vuole affermarsi non nella vita in generale ma nella sua vita, desidera
condurre un’esistenza dignitosa, lontana dalla confusione passionale delle sorelle e dalla madre a cui, nonostante la pena che
ormai prova per la sua età avanzata, rimprovera le unioni con uomini diversi da cui ha generato altrettanti figli. Quei legami
familiari annacquati dalla distanza parentale, che li rende fratelli solo a metà, risultano odiosi a Kiyoko.
La parola “normale” ricorre spesso nel romanzo a significare qualcuno che non è come Kiyoko. Quella stessa
espressione「不具者」(invalido, deforme, minorato, handicappato) in contrapposizione a 「普通の人」(persona normale,
normodotata), che tanto aveva angustiato Kaoru in Sugar Time, torna qui a gridare il pregiudizio della gente e quanto ottusa
sappia essere la comune definizione di normalità.
L’attenzione di Ogawa Yōko per il corpo malato non si limita però all’infermità clinicamente riconosciuta ma, in due
delle sue prime e più significative opere, trasforma in malattia qualcosa che non lo è. Descrive infatti la gravidanza come un
male fisico, nello specifico come una forma cancerosa.
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151『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
Nella sua opera prima, 『揚羽蝶が壊れる時』65 (Agehachō ga kowareru toki, “Quando la farfalla si sbriciolò”) –
racconto presentato tra l’altro come tesi di laurea all’università Waseda e insignito nel 1988 del Premio Scrittori Esordienti
bandito dalla rivista Kaien – la protagonista scopre di essere incinta nello stesso periodo in cui ha dovuto far ricoverare
sua nonna per una grave forma di demenza senile. La tristezza, il senso di colpa e la solitudine la divorano e la scoperta
della gravidanza confonde la sua già provata psiche. Dalla descrizione della giovane essa appare come una mostruosità che
inesorabilmente, giorno dopo giorno, trasforma il suo corpo. La gravidanza è rappresentata come una deformazione, una
impurità, “un corpo estraneo” che cresce dentro di sé. Non è più l’evento lieto, germoglio di nuova vita, ma qualcosa che
sottrae spazio al corpo della madre, un altro “io” che si impone sul primario sé. La nuova vita non aggiunge ma sottrae e
l’organismo ospitante si sente usurpato.
In 『妊娠カレンダー』66 (Ninshin karendā, “Diario di una gravidanza”), che le è valso anche la vittoria del Premio
Akutagawa nel 1990, la protagonista racconta in forma diaristica la gravidanza della sorella, registra il mutamento del
suo corpo, le abitudini alimentari, la vita nei nove mesi che precedono il parto. L’osservazione del processo causa alla
protagonista psichico ribrezzo e fisico disgusto.
In un passaggio di Illness as a metaphor Susan Sontag riporta le parole di Alice James, sorella del più celebre Henry e
famosa soprattutto per i suoi diari, che descrive il cancro al seno come “unholy substance in my breast”. L’invasione fisica
del cancro a danno di una o più parti dell’organismo è paragonata a una gravidanza demoniaca, a un corpo alieno che si fa
strada nella carne del malato e danneggia il normale funzionamento degli organi.
“St. Jerome must have been thinking of a cancer when he wrote: ‘The one there with his swollen belly is pregnant
with his own death’ (‘Alius tumenti aqualiculo mortem parturit’)”67.
Il cancro visto come una (impura) gravidanza; la gravidanza avvertita come un cancro. Da qualunque punto di vista
si osservi il parallelo, cancro e gravidanza appaiono mostruosi, mali che succhiano energia all’organismo ospitante, che si
cibano di esso come parassiti. Questa interpretazione evidenzia lo scarto tra il sé e il proprio corpo, la mancata riconoscibilità
del mutamento nella gravidanza, il disagio di una maternità incomprensibile e per questo piena di paure.
Conclusioni
Dialogando con Protarco nel Filebo, Socrate argomenta come il piacere più intenso lo percepiamo nel suo succedersi
al dolore. Dall’armonia, dalla sua dissoluzione, ha inizio la sofferenza; dal suo ristabilirsi ha invece origine il piacere.
Socrate, all’inizio del dialogo, porta ad esempio la sete e dimostra come anche tale sensazione si basi sul principio del venir
meno e del successivo ritorno di uno stato d’armonia, di benessere. La bevanda risulta più gradita proprio perché agognata
nell’arsura. Il desiderio del piacere, nel dolore, risulta essere fondamentale per una sua più intensa percezione. Il godimento
fisico, pertanto, non è lo stare bene in assoluto ma il “guarire” da uno stato di malessere.
“Ma i piaceri che, come diciamo spesso, sono alla nostra portata e fra tutti i più grandi non sono appunto gli stessi
che riguardano il corpo? [...] E sono e diventano più intensi in coloro che soffrono per le malattie o in coloro che stanno
bene?” [...] Non sono forse superiori proprio quei piaceri che sono preceduti dai desideri più intensi?”68
152
Socrate collega il piacere del corpo al dolore provato, alla malattia e al desiderio di guarigione che domina chi non è in
salute. La mancanza acuisce la volontà della presenza, il dispiacere accresce il godimento. Ribadisce poi così il concetto:
“Non risulteremmo nel giusto se affermassimo che uno, volendo osservare i piaceri più intensi, deve rivolgersi non
verso le persone sane, ma verso chi è malato?”69.
Abbiamo evidenziato all’inizio di questo intervento quanto la malattia, secondo lo stesso principio di opposizione
binaria e insieme di reciproca scoperta di cui conversa Socrate con Protarco, renda più cosciente il corpo sano. Alla luce
di quanto scritto sul linguaggio della malattia, sulla demonizzazione dei nomi dei mali, sulla difficile comunicazione tra
medico e paziente e soprattutto su quanto il racconto dell’infermità in letteratura stia acquistando un valore anche in sede di
formazione medica, risulta chiara la rilevanza d’una analisi più approfondita di questa tematica e delle varie interpretazioni
che ne danno gli scrittori contemporanei.
Riteniamo che il particolare approccio di Ogawa Yōko alla materia possa fornire una chiave di lettura originale alla
trattazione dei malanni. È chiara la fascinazione che la scrittrice prova per il tema del 「不思議」 (fushigi, ovvero ‘lo strano,
il bizzarro, lo straordinario, il misterioso’) e quanto ella lo applichi al corpo. Abbiamo infatti notato come nella maggior
parte delle sue opere si faccia riferimento ad un organismo diverso, malato, parcellizzato, lontanissimo dall’ideale di sanità,
perfezione e totalità.
Oltretutto, in controtendenza con il panorama necrofobico che Elias70 riconosce nella nostra società contemporanea, i
suoi personaggi non temono la morte, non le attribuiscono contorni demoniaci e non la allontanano. La accolgono piuttosto.
Le storie pullulano del ricordo dei morti, di personaggi che si scoprono nel corso della storia essere invece defunti, fantasmi
che vivono nella memoria di chi è sopravvissuto. Vi è armonica compenetrazione tra la vita e la morte. Le due sfere
convivono e la paura non regola il passaggio.
Ogawa Yōko è scrittrice delle ombre e della luce. Le sue storie a ricordarle sembrano tuttavia ambientate più nel buio
della notte che nel giorno. Anche lì dove la malattia non c’è, lei la trasforma in disagio. Sfrutta le infermità momentanee
e permanenti, le menomazioni, gli incidenti, gli handicap per mettere in luce il corpo dei protagonisti e insieme ad esso
la diversità di cui si fanno portatori. L’insorgere della malattia non coincide con alcun atto di eroismo o riscatto sociale. I
malati sono per lo più persone modeste, che conducono vite altrettanto normali, talvolta persino al limite del banale. Ciò che
le rende interessanti al lettore è il particolare, quel quid – non necessariamente positivo o piacevole – che il malessere ha
donato loro.
Indagando la diversità fisica e la peculiarità psichica/comportamentale, la scrittrice giapponese evidenzia così un aspetto
che raramente in letteratura viene trattato con ammirazione. Non vi è nulla di più banale del corpo malato e insieme non vi è
nulla di più speciale: “speciale” non nel senso di “anormale, disgustoso” o quantomeno “non augurabile” ma semplicemente
“diverso”.
Un “diverso” carico del fascino dell’extra-ordinarietà e, per questo, bellissimo.
ラウラ・今井メッシーナ
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Note
1 Ceserani, R., Convergenze. Gli strumenti letterari e altre discipline, Milano – Torino, Pearson Italia, 2010, p. 116.2 Shelley, M., Frankenstein, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2008, p. 91.3 Woolf, V., Sulla malattia, Torino, Bollati Boringhieri editore s.r.l., 2006, p. 7.4 Perec, G., L’infra-ordinario, Torino, Bollati Borighieri editore s.r.l., 1994, pp. 12-13.5 Ivi, p. 11.6 Ibid.7 Verrebbe la tentazione, con un pizzico di ironia, di immaginare come Perec avrebbe accolto l’avvento dei social network e come avrebbe
commentato il meccanismo narrativo grazie al quale essi proliferano. Il loro funzionamento, infatti, si basa per una buona parte sulla condivisione di informazioni assolutamente personali e quotidiane spesso di scarsa rilevanza sia per chi scrive che per chi legge, facendo di essi un immenso bacino – benché privo di reale consapevolezza e scopi – di infra-ordinarietà.
8 Il libro è stato tradotto in italiano come Storia di un corpo.9 Pennac, D., Storia di un corpo, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2012, pos. 1766.10 Ivi, pos. 1314.11 Šklovskij, V., “L’arte come procedimento” in Todorov, T., (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino,
Giulio Einaudi Editore, 2003, p. 80.12 Ivi, p. 81.13 Ibid.14 Prometeo aveva ingannato Zeus facendo in segreto dono del fuoco agli uomini.15 Vernant, J., Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a., 2011, p. 59.16 Esiodo, Le opere e i giorni, Milano, Garzanti Libri s.r.l., 2013, pos. 1009.17 Tema trattato, tra gli altri, dal celebre manga di Urasawa Naoki Twenty century boys.18 Augé, M., Il dio oggetto, Roma, Melteni editore, 2002, p. 11.19 Ivi, p. 137.20 Sontag, S., Illness as Metaphor and AIDS and Its Metaphors, London, Penguin Books, 1991, p. 30.21 Woolf, V., Diari, Milano, RCS Libri S.p.A., 2012, pos. 1411.22 Eco, U., “L’agnizione: appunti per una tipologia del riconoscimento” in Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo
popolare, Milano, Tascabili Bompiani, 2005, pos. 389-400.23 Sontag, S., Illness as Metaphor and AIDS and Its Metaphors, London, Penguin Books, 1991, pos. 488.24 Ivi, pos. 57.25 Ivi, pos. 398.26 Ivi, pos. 420. 27 Seneca, L., Lettere a Lucilio, Milano, Garzanti Editore s.p.a., 2011, pos. 981.28 Elias, N., La solitudine del morente, Bologna, Società editrice il Mulino, 1985.29 Tolstoj, L., La morte di Ivan Il’ič, Milano, RCS Libri S.p.A., 1999, p. 19 e p. 25.30 De Beauvoir, S., Una morte dolcissima, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2001, p. 22.31 Per una più diffusa trattazione della Medicina Narrativa (Narrative Based Medicine) si consiglia la lettura di Jurecic Ann, Illness as
Narrative, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 2012.32 La Woolf ammette un certo conservatorismo linguistico dell’inglese, opponendovi il talento americano “il cui genio è molto più felice nel
creare nuove parole che nel disporre le vecchie”.33 Qui la Woolf fa riferimento al composto chimico sfruttato come sonnifero fin dalla prima metà dell’’800.34 Broyard, A., Intoxicated by My Illness, Fawcett Books, New York 1992, p. 18 (citato e tradotto dall’inglese nella postfazione di Nicola
Gardini al saggio di Woolf, V., Sulla malattia, Torino, Bollati Boringhieri editore s.r.l., 2006). Va però segnalato come Broyard abbia preso in considerazione solo parte dell’analisi di Sontag che non si limitava ad auspicare maggiore sobrietà nel linguaggio medico ma accusava anche e soprattutto l’utilizzo di una parola come ‘cancro’ per definire, fuori dal contesto della malattia, qualcosa di orrendo e pernicioso. La metafora, in quest’ultimo caso, discredita indubbiamente il malato che proverà paura e insieme vergogna nel nominare il proprio male.
35 Bauman, Z., Modernità liquida, Bari, Gius. Laterza & Figli, 2002, pos. 4056.
『からだの顕在化及びことばとしての「病気」:小川洋子の場合』
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36 Lo stile di Ogawa Yōko privilegia la scrittura in prima persona, tecnica che, tranne in rarissimi casi, ha sempre sfruttato per le opere della sua vastissima produzione.
37 Ogawa, Y., Hisoyakana kesshō, Tōkyō, Kōdansha, 1994.38 Ogawa, Y., Sugar Time, Tōkyō, Chuokoron-shinsha, 1994. Da adesso Sugar Time.39 Ogawa, Y., Kifujin A no sosei, Tōkyō, Asahi Shinbunsha, 2002. Da adesso Kifujin A no sosei. 40 Ogawa, Y., Mīna no kōshin, Tōkyō, Chuokoron-shinsha, 2009. Da adesso Mīna no kōshin.41 Escamotage narrativo che aveva sfruttato già Perec, ma in chiave autenticamente diaristica, nel suo scritto “Tentativo d’inventario
degli alimenti liquidi e solidi che ho ingurgitato durante l’anno millenovecentosettantaquattro” incluso nel già citato Perec, G., L’infra-ordinario, Torino, Bollati Borighieri editore s.r.l., 1994. L’osservazione precisa e feticista delle cose, la dilatazione della banalità del quotidiano e l’approccio scientifico al reale sono alcune delle caratteristiche che accomunano la scrittura di Ogawa a quella di Perec.
42 Ogawa, Y., Sugar Time, Tōkyō, Chuokoron-shinsha, 1994, p.137. (“Trovai subito la malattia di Kōhei. Era scritta in grassetto, alla fine di una pagina in cui si susseguivano tanti nomi di malattie scritte in kanji troppo formali. Controllai con calma uno dopo l'altro tutti i caratteri. Era un nome freddo che non comunicava nulla di concreto.”).
43 Espressione già usata dalla madre per riferirsi al corpo del figlio in una delle prime pagine del romanzo「・・・身体だって、身体だって、普通じゃないんだから」Ivi, p. 28. (“ È che il suo corpo, il suo corpo non è normale.”).
44 Ivi, pp.137-138. (“Quello che mi fece più male furono le illustrazioni che descrivevano il malato. Era disegnato un ragazzo nudo, nelle due posizioni di fronte e di profilo. Dalla testa, dal busto, dalle caviglie, dalle vertebre lombari e dalle altre parti del corpo s'allungavano frecce al cui estremo erano annotate in breve le loro caratteristiche. ‘Prominenza’, ‘curva’, ‘atrofia’ ... tutte parole senza speranza”).
45 Un giorno le capita di incontrare nel ristorante dell’albergo in cui lavora part-time un uomo molto basso. Misura allora le piccole dimensioni delle sue spalle, dei palmi, dei piedi. Lo spia da dietro una tenda.
46 Ogawa, Y., Kifujin A no sosei, Tōkyō, Asahi Shinbunsha, 2002, p. 66. (“Nico girò la chiave ed iniziò subito dai suoi otto salti in tondo. Ogni volta che i suoi piedi tornavano a posarsi a terra, il portico di legno cigolava. Riuscì sempre a fare dei bellissimi salti seguendo l'iter dei suoi infiniti rituali, come se, senza rendersene conto, avesse appreso meglio di una ballerina come perfezionare la loro forma.”)
47 Ivi, p. 63. (“«Non c'è motivo di demoralizzarsi» disse Nico come per consolarmi. «Non è colpa tua». Piansi sul suo petto, con la sensazione d’essere diventata io quella malata.”).
48 Ogawa, Y., Mīna no kōshin, Tōkyō, Chuokoron-shinsha, 2009, p. 53. (“Un corpo così immaturo che non si adattava ai lineamenti già definiti del suo viso. Forse perché fin da piccola aveva avuto un attacco dopo l'altro, le costole si erano incavate e la schiena si era curvata in modo da renderle più facile il tossire. Se si tendeva l'orecchio era possibile udire, dalla base della sua gola, uscire un suono come il soffiare d'un vento di tramontana. Un rumore che sembrava provare patimento, nel turbamento di dover sostenere un viso troppo bello").
49 Completò i suoi studi presso l’Università Waseda nel 1984 e, dopo la laurea, tornò al paese natale dove ottenne un impiego come segretaria in un ospedale.
50 Ogawa, Y., Saihate ākēdo, Tōkyō, Kōdansha, 2012. 51 Ogawa, Y., “Domitorī”, in Ninshin karendā, Tōkyō, Bungei-Shunjū, 1991. (tr. it. di Mimma De Petra, “Dormitorio”, in La casa della
luce, Milano, Il Saggiatore, 2011).52 Ogawa, Y., Shishū suru shōjo, Tōkyō, Kadokawa Shoten, 1996.53 Ogawa, Y., Chimmoku hakubutsukan, Tōkyō, Chikuma Shobō, 2000.54 Ogawa, Y., Genkō zero mai nikki, Tōkyō, Shūeisha, 2010.55 Ogawa, Y., Neko wo daite zō to oyogu, Tōkyō, Bungei-Shunjū, 2009.56 Ogawa, Y., Kusuriyubi no hyōhon, Tōkyō, Shinchōsha, 1994 (tr. it di Cristiana Ceci, L’anulare, Milano, Adelphi, 2007). 57 Ogawa, Y., Kamokuna shigai midarana tomurai, Tōkyō, Jitsugyō no Nihonsha, 1998.58 Ogawa, Y., Kampekina byōshitsu, Tōkyō, Fukutake Shoten, 1989 (tr. it di Massimiliano Matteri e Matake Yumiko, “Una perfetta stanza
di ospedale” in Una perfetta stanza di ospedale, Milano, Adelphi, 2009).59 Hayashi, Fumiko, “Inazuma” in Hayashi Fumiko-shu, Tōkyō, Shinchōsha, 1971 (tr. it. di Paola Scrolavezza, Lampi, Marsilio Editori
s.p.a., Venezia, 2011)60 Ivi, p. 107. (“Le guance erano tonde e rosee. Aveva le ciglia stropicciate perché si era appena svegliata, e delle profonde occhiaie
sotto agli occhi. Le sopracciglia erano proprio di un bel colore e il naso piccolo. Non pensava di essere brutta. Il labbro superiore, solo questo... Accidenti, che razza di destino! Kiyoko lo rivoltò, senza pietà come quando ti devono fare un intervento al naso. Eccole, le
ラウラ・今井メッシーナ
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cicatrici dei punti di sutura... ributtanti. Il labbro superiore era coperto di solchi sottili, come la lingua di uno squalo. Se lo mordeva con gli incisivi inferiori, rimbalzava come una pallina. Il labbro inferiore invece sembrava un fiore di castagno. Chiaro, delicato, in una parola incantevole. Un bel viso che non dava fastidio a nessuno. Kiyoko fece una smorfietta arricciando la bocca. La cicatrice era a forma di una V rovesciata e solo vista attraverso lo specchio non faceva impressione. Kiyoko capovolse lo specchio, la sua sicurezza cominciava a vacillare. La colse una voglia improvvisa di piangere disperatamente, da sola. Ripensò a quando era bambina e anche d’estate doveva andare a scuola con la mascherina sul viso... Rimase immobile, le spalle rigide, persa nei propri pensieri.” tr. it. Paola Scrollavezza, Lampi, Venezia, Marsilio Editori s.p.a., 2011, pp. 98-99).È particolarmente interessante notare come Hayashi riproponga non solo l’handicap della protagonista ma anche le sue emozioni filtrate attraverso il riflesso dello specchio e delle vetrine. Kiyoko evita di avvicinarsi alla specchiera forse per paura di ritrovarsi di fronte il proprio volto “sbagliato”, mentre cammina lenta per la strada “osservava la propria immagine riflessa nelle vetrine dei negozietti e vedeva una donna senza l’ombra di un diritto” o quando cerca uno sguardo oggettivo sul suo incontro a cena con il rozzo Tsunakichi i suoi occhi si posano sullo specchio appeso al muro del ristorante e, non potendo esprimere direttamente il suo disprezzo, fa una linguaccia all’immagine riflessa dell’uomo.
61 È evidente come la Hayashi escluda attraverso le parole della sua eroina la bellezza dalla malformazione e tenda piuttosto ad evidenziare il contrasto tra la piacevolezza del viso e l’orrore del labbro leporino.
62 Hayashi, Fumiko, “Inazuma” in Hayashi Fumiko-shu, Tōkyō, Shinchōsha, 1971, p. 107 (“Il suo viso non assomigliava neanche un pochino a quello banale e insignificante delle sorelle” tr. it. di Paola Scrolavezza, Lampi, Marsilio Editori s.p.a., Venezia, 2011, p. 99).
63 Ivi, pp. 143-144 (“Di fronte agli estranei che fissavano apertamente la cicatrice sul suo labbro, rimaneva sempre indifferente [...] Solo la commiserazione che le riservavano i suoi parenti più stretti la faceva stare male” tr. it. Paola Scrollavezza, Lampi, Venezia, Marsilio Editori s.p.a., 2011, p. 166).
64 Ivi, p. 101 (“Ultimogenita, dicevano che era la più graziosa, ma la sua deformità conferiva a questa bellezza un che di malsano” tr. it. Paola Scrollavezza, Lampi, Venezia, Marsilio Editori s.p.a., 2011, p. 85).
65 Ogawa, Y., “Agehachō ga kowareru toki” in Kampekina byōshitsu, Tōkyō, Fukutake Shoten, 1989. (tr. it di Massimiliano Matteri e Matake Yumiko, “Quando la farfalla si sbriciolò” in Una perfetta stanza di ospedale, Milano, Adelphi, 2009).
66 Ogawa, Y., Ninshin karendā, Tōkyō, Bungei-Shunjū, 1991. (tr. it. di Mimma De Petra, “Diario di una gravidanza”, in La casa della luce, Milano, Il Saggiatore, 2011.
67 Sontag, S., Illness as Metaphor and AIDS and Its Metaphors, London, Penguin Books, 1991, p. 13.68 Platone, “Filebo” in Platone. Tutte le opere, Roma, Newton Compton Editori, 2013, pos. 11865-11875. 69 Ivi, pos.11876.70 Elias, N., La solitudine del morente, Bologna, Società editrice il Mulino, 1985.
Bibliografia di riferimento
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Venezia, 2011)Jurecic, Ann, Illness as Narrative, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 2012Ogawa, Yōko, Kampekina byōshitsu, Tōkyō, Fukutake Shoten, 1989 (tr. it. di Massimiliano Matteri e Matake Yumiko, “Una perfetta stanza
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editore s.r.l., 1994)Platone, “Filebo” in Platone. Tutte le opere, Roma, Newton Compton Editori, 2013Seneca, Lucio Anneo, Lettere a Lucilio, Milano, Garzanti Editore s.p.a., 2011Shelley, Mary, Frankenstein, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2008Sontag, Susan, Illness as Metaphor and AIDS and Its Metaphors, London, Penguin Books, 1991Todorov, Tzvetan (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003Tolstoj, Lev Nikolaevic, La morte di Ivan Il’ič, Milano, RCS Libri S.p.A., 1999Vernant, Jean-Pierre, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a., 2011Woolf, Virginia, Sulla malattia, Torino, Bollati Boringhieri editore s.r.l., 2006 Woolf, Virginia, Diari, Milano, RCS Libri S.p.A., 2012
ラウラ・今井メッシーナ