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1 Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee 1 (Carlo Barone, Stefano Boffo, Fabio Di Pietro, Roberto Moscati) Pubblicato sulla rivista Inchiesta, n. 3, 2009. aprile 2010 - ISBN 9788822082602 TRASFORMAZIONI DEI SISTEMI UNIVERSITARI E NUOVI MODELLI DI GOVERNO DELLE UNIVERSITA’ (Roberto Moscati) 1. – Mutamenti nelle pubbliche amministrazioni Il tema del governo delle università si viene lentamente introducendo anche nel nostro paese come logica conseguenza dei processi di autonomia degli atenei e del consolidamento del nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma degli ordinamenti didattici (altrove in Europa nota come il “Processo di Bologna”). In numerosi altri paesi europei il tema viene da tempo dibattuto e ha prodotto una considerevole letteratura che si articola su alcuni punti di partenza comuni. Innanzitutto, il declino e il cambiamento del ruolo dello Stato nei confronti dei sistemi d’istruzione superiore, e la parallela crescente autonomia delle singole istituzioni. Questo doppio processo esercita naturalmente ricadute sui soggetti operanti nei sistemi formativi, invitati/costretti a modificare i propri ruoli professionali, ma incide altresì sulle forme organizzate delle istituzioni e dunque sul governo degli atenei. Nell’affrontare questa tematica è opportuno inquadrare il settore dell’istruzione superiore nel più ampio ambito della pubblica amministrazione. E questo perché il cambiamento del governo delle istituzioni non è un fenomeno proprio al solo settore dell’istruzione. Se osserviamo infatti le evoluzioni dei sistemi di erogazione dei servizi notiamo una comune riduzione della gestione pubblica a favore del crescente intervento di soggetti privati. Ad un tempo, il diffondersi dei movimenti di capitali e l’incidenza crescente delle organizzazioni internazionali producono il 1 Questo lavoro deriva da un Progetto PRIN dal titolo ‘La riorganizzazione dei sistemi di alta formazione e ricerca nelle "economie della conoscenza" europee’ condotto da tre gruppi di ricerca rispettivamente delle Università di Milano Statale (Marino Regini, coordinatore), Pavia (Michele Rostan, coordinatore), Milano-Bicocca (Roberto Moscati, coordinatore). Quest’ultima équipe aveva come tema d’indagine le trasformazioni delle forme di governo delle università in cinque paesi europei.

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Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1 (Carlo Barone, Stefano Boffo, Fabio Di Pietro, Roberto Moscati)

Pubblicato sulla rivista Inchiesta, n. 3, 2009. aprile 2010 - ISBN 9788822082602

TRASFORMAZIONI DEI SISTEMI UNIVERSITARI E NUOVI MODELLI DI GOVERNO DELLE UNIVERSITA’ (Roberto Moscati) 1. – Mutamenti nelle pubbliche amministrazioni Il tema del governo delle università si viene lentamente introducendo anche nel

nostro paese come logica conseguenza dei processi di autonomia degli atenei e del

consolidamento del nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma degli

ordinamenti didattici (altrove in Europa nota come il “Processo di Bologna”). In

numerosi altri paesi europei il tema viene da tempo dibattuto e ha prodotto una

considerevole letteratura che si articola su alcuni punti di partenza comuni.

Innanzitutto, il declino e il cambiamento del ruolo dello Stato nei confronti dei

sistemi d’istruzione superiore, e la parallela crescente autonomia delle singole

istituzioni. Questo doppio processo esercita naturalmente ricadute sui soggetti

operanti nei sistemi formativi, invitati/costretti a modificare i propri ruoli

professionali, ma incide altresì sulle forme organizzate delle istituzioni e dunque sul

governo degli atenei.

Nell’affrontare questa tematica è opportuno inquadrare il settore dell’istruzione

superiore nel più ampio ambito della pubblica amministrazione. E questo perché il

cambiamento del governo delle istituzioni non è un fenomeno proprio al solo settore

dell’istruzione. Se osserviamo infatti le evoluzioni dei sistemi di erogazione dei

servizi notiamo una comune riduzione della gestione pubblica a favore del crescente

intervento di soggetti privati. Ad un tempo, il diffondersi dei movimenti di capitali e

l’incidenza crescente delle organizzazioni internazionali producono il 1 Questo lavoro deriva da un Progetto PRIN dal titolo ‘La riorganizzazione dei sistemi di alta formazione e ricerca nelle "economie della conoscenza" europee’ condotto da tre gruppi di ricerca rispettivamente delle Università di Milano Statale (Marino Regini, coordinatore), Pavia (Michele Rostan, coordinatore), Milano-Bicocca (Roberto Moscati, coordinatore). Quest’ultima équipe aveva come tema d’indagine le trasformazioni delle forme di governo delle università in cinque paesi europei.

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ridimensionamento dello Stato come fondamento delle economie nazionali e il

convincimento che diverse attività ad esso proprie possano (debbano) essere svolte da

altre istituzioni, prevalentemente private, in grado di essere maggiormente efficienti.

Ne è derivato che le amministrazioni pubbliche hanno perso di centralità in favore del

diffondersi di una visione neo-liberista che ha teso a trasferire nel settore pubblico il

modello del mercato. Modello che a sua volta si è trasformato introducendo il

concetto di flessibilità nell’impresa e quindi privilegiando caratteristiche come la

versatilità, l’adattabilità e l’integrazione delle competenze (Bifulco 2008,5).

La visione neo-liberista applicata alle amministrazioni pubbliche le ha spinte ad

adottare logiche e strumenti propri all’impresa secondo il noto modello del New

Public Management (NPM) che si è tradotto – tra l’altro – nell’emergere di strutture

di relazione (in sintonia con i principi di flessibilità) atte a fornire coerenze

organizzative e a gestire politiche, programmazioni e processi decisionali che si

riassumono nel termine di governance.2

2. – Specificità dell’istruzione pubblica

La diffusione del NPM ha incontrato diversi gradi di accoglienza in paesi europei

non anglosassoni come la Francia o la Germania, sia nel settore dei servizi in

generale sia in quello dell’istruzione superiore. Due aspetti centrali, tra loro collegati,

di tale processo corrispondono al grado di autonomia delle singole istituzioni e alle

nuove forme di governo che si sono venute configurando nelle stesse.

Si assume, da un lato, che le istituzioni autonome siano maggiormente in grado di

rispondere alle esigenze dei propri contesti sociali ed economici e siano ad un tempo

maggiormente adatte a valutare le proprie potenzialità e il proprio modo di funzionare

in risposta ai portatori di interessi (gli stakeholders, come ormai vengono

universalmente definiti). In questo processo tuttavia il ruolo dello Stato non scompare

ma assume forme diverse. Secondo una diffusa interpretazione, l’autonomia delle

2 Numerose definizioni del termine governance convergono nel richiamare i concetti di collaborazione organizzativa attraverso un sistema di regole che favorisca la presa di decisioni nella gestione delle istituzioni.

3

istituzioni è la conseguenza dell’avvento dello Stato valutatore che si trasforma da

guardiano in supervisore, paradossalmente ottenendo attraverso la

deregolamentazione una più decisa forma di regolazione (Neave 2007;Magalhaes,

2004; Magalhaes e Santiago 2009,10)

Questi processi sono riconoscibili in diversi comparti dei pubblici servizi (dalla sanità

alla sicurezza) di numerosi paesi europei. Il settore dell’istruzione – di quella

superiore in particolare - si inserisce in questo quadro pur con alcune sue peculiarità.

Al riguardo l’aspetto della governance assume un ruolo centrale. Al suo interno

l’aspetto forse maggiormente significativo dell’influenza del NPM è rappresentato

dalla crescente rilevanza degli elementi esterni nei processi decisionali e di governo

delle istituzioni accademiche. I cosiddetti “portatori di interessi” nei riguardi delle

attività delle istituzioni universitarie (gli stakeholders) entrano a far parte in sempre

maggior misura degli organismi decisionali come i Consigli di amministrazione

(Boards nei sistemi anglosassoni) e rappresentano una innovazione profonda in

un’area da sempre considerata come riservata al personale accademico. Si ripresenta

qui l’ambiguità legata alle funzioni sociali dell’università che invita a considerare

simili inserimenti come esempi di sviluppo della “democrazia deliberativa”(Ferlie,

Musselin, Andresani 2007).

Sul reale peso e le effettive aree di influenza dei Boards costituiti da un mix di

componenti interne ed esterne all’accademia le valutazioni sono difformi. Appare

sempre più evidente, tuttavia, la tendenza a creare una diarchia Rettore-Board a

scapito del ruolo di organi prettamente accademici come il Senato, particolarmente in

termini di influenza nei processi decisionali. Si ritiene infatti che un tale sistema sia

maggiormente efficace e produca risultati migliori nel funzionamento dell’istituzione

rispetto a forme più collegiali di governo. Emerge dunque la tendenza a creare

infrastrutture manageriali a fianco o in sostituzione delle strutture accademiche. Ne

deriva che i processi decisionali propri agli accademici vengono integrati all’interno

di percorsi amministrativi dell’organizzazione universitaria, tal ché gli accademici

stessi risultano sempre più avere titolo e riconoscimento nella misura in cui fanno

4

parte dei processi decisionali istituzionali e non si limitano alle tradizionali funzioni

dell’insegnamento e la ricerca (Bleiklie, Kogan 2007). Si tratta – come si vede – di un

passaggio da forme collegiali di governance a forme di razionalismo organizzativo

dove prevalgono le logiche manageriali su quelle tradizionali delle professioni

(corporazioni) accademiche.

Gli effetti di queste forme di governance sulla tradizionale percezione del proprio

ruolo professionale del personale accademico non possono essere certamente positivi

e si riflettono sul diverso grado di resistenza che simile tendenza (come, del resto,

l’introduzione delle più generali logiche del NPM) ha incontrato nei paesi

dell’Europa continentale (De Boer,Huisman,Meister-Scheytt 2007).

D’altro canto, va sottolineato il ruolo centrale acquisito dal settore dell’istruzione

superiore per lo sviluppo dell’economia e della società in Europa all’interno della

nascente “Area Europea d’Istruzione Superiore” di cui il Processo di Bologna e la

Dichiarazione di Lisbona sono gli esempi formalmente più vistosi. Da qui anche

l’importanza peculiare della governance delle istituzioni universitarie e delle sue

trasformazioni.

3. – Caratteristiche dell’università in Italia

In Italia tuttavia il tema non ha assunto sin ad ora un rilievo particolare. E’ ben vero

che vi sono state proposte di trasformazione promosse per lo più dei diversi governi e

dalla Conferenza dei rettori (CRUI) o da alcuni tra i pochi studiosi della materia.3 Ma

mentre queste esercitazioni sono rimaste nell’ambito di circoli ristretti di studiosi, di

recente il governo ha fatto circolare un Disegno di legge di riforma4 che introduce

una diarchia rettore-consiglio di amministrazione, modifica la composizione di

quest’ultimo in favore di una rilevante presenza di elementi esterni all’università,

3 Vanno ricordate le elaborazioni di un “gruppo consultivo” promosso dal MIUR e coordinato da Massimo Egidi allora rettore dell’Università di Trento, dell’associazione Treelle assieme alle proposte della CRUI nei documenti del 2004 e 2008. Si veda al riguardo Capano 2004;2008 4 Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio (28 ottobre 2009)

5

unifica le strutture di base della didattica e della ricerca (facoltà e dipartimenti) e

sottopone a controlli ministeriali i bilanci degli atenei, mentre appare avviato ad

attivare la tanto attesa agenzia nazionale di valutazione (ANVUR).

Ora, sembra evidente che il Disegno di legge (soggetto a modifiche e rinvii da alcuni

mesi e destinato a probabili correzioni nel dibattito parlamentare) si ispiri al modello

inglese che, come si è detto, nasce da un lungo processo di diffusione dell’idea neo-

liberale introdotta dai governi conservatori guidati dal primo ministro Margaret

Thatcher negli anni ‘70. Sarebbe dunque utile ricostruire il lungo processo di

radicamento di tale modello, evidenziandone l’articolazione a livello dell’intero

sistema d’istruzione superiore e non dimenticandone gli aspetti storicamente

specifici. Tuttavia, rimandando ad altra occasione la ricostruzione del processo nella

realtà britannica,5 si possono qui segnalare le ragioni delle presumibili difficoltà che

un tale progetto verrà ad incontrare nella sua eventuale realizzazione in Italia.

Innanzitutto, manca nel nostro sistema universitario una tradizione di apertura al

mondo esterno che si traduca in una politica di ateneo rivolta ad esercitare quella che

a livello internazionale si definisce la “terza missione” dell’università: quella di

fornire appunto risposte alle diverse e crescenti richieste di applicazione della

conoscenza allo sviluppo della società. Tale carenza si salda, sebbene si tratti di due

problematiche diverse, con la resistenza ad accettare partecipazioni esterne (vissute

come intrusioni) alle decisioni politiche degli atenei. Le stesse politiche degli atenei

sono in realtà la sommatoria delle attività delle diverse aree disciplinari che non sono

sottoposte a strategie complessive istituzionali ma vivono di logiche proprie. Da cui il

ruolo attribuito al rettore come coordinatore e mediatore delle diverse esigenze

settoriali. Questo meccanismo decisionale forniva buoni risultati in un sistema

centralizzato di tipo napoleonico-humboldtiano che ha caratterizzato l’istruzione

superiore italiana praticamente a partire dall’unità dello Stato.

Modificare queste logiche di funzionamento così ben radicate non è cosa semplice. In

parte lo si è visto con l’introduzione della riforma degli ordinamenti didattici che

5 Si vedano tra gli altri i contributi di Becher,Henkel,Kogan 1994; Kogan and Hanney,2000; Reed,2002; Fulton,2002,2003; Taylor,2005; Shattock,2006

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presupponeva una larga e autonoma partecipazione delle università alla sua

realizzazione, specie nella dimensione qualitativa (modifica dei contenuti degli

insegnamenti in funzione dei due livelli di formazione e delle prospettive di

prosecuzione degli studi al secondo livello ovvero di inserimento nel mercato del

lavoro). In realtà, si è assistito al prevalere di quella capacità organizzativa detta di

buffering che consente al mondo universitario di attenuare l’impatto dei fenomeni

provenienti dall’esterno resistendo al cambiamento con forme di reazione adattiva

detta di “conservatorismo dinamico”. E la forza di una tale capacità di resistenza al

cambiamento è rappresentata con molta evidenza dalla disponibilità della

corporazione accademica a pagare dei prezzi alti pur di non dover cambiare (le

recenti vicissitudini legate alle riduzioni delle risorse finanziarie alle università

sembrano confermare l’assunto). E tuttavia la storia insegna che non occuparsi dei

propri interessi si rivela quasi sempre perdente (Capano,Tognon, 2009).

Ma è pur vero che il modello anglosassone di verticalizzazione della leadership e di

governance elettiva esercita un fascino particolare anche su diversi sistemi

d’istruzione superiore dell’Europa continentale che sono venuti introducendolo – sia

pure con una serie di adattamenti - negli ultimi anni, sotto la pressione della crescente

competizione tra sistemi nazionali e tra singole istituzioni (si pensi al proliferare delle

classifiche nazionali e internazionali degli atenei). E il fascino deriva da una duplice

convinzione: (i) che, da un lato, sia ormai inadatto il modello di controllo dello Stato

sul sistema formativo basato sul principio della “omogeneità legale” (nell’ambito di

una progressiva perdita di legittimità dello Stato centralistico), e (ii) che, dall’altro, la

richiesta generalizzata di competenze, ritenuta indispensabile per il successo

individuale nel mondo economico, si combini virtuosamente con l’introduzione di

regole di quasi-mercato (la competizione tra istituzioni per il miglioramento della

qualità dei prodotti). Su questi presupposti il modello anglosassone appare di gran

lunga più idoneo di quello a lungo sperimentato nei sistemi dell’Europa continentale.6

6 Sulle differenze di origine dei sistemi d’istruzione superiore si possono vedere,tra gli altri, i contributi di Neave,2002a;2002b;Moscati,2004

7

E’ ancora troppo presto per valutare l’introduzione di questo modello nelle realtà di

paesi come l’Austria, la Svezia, la Danimarca o il Giappone, ma resta l’interesse per

gli effetti di così profonde modifiche delle forme organizzative e di distribuzione del

potere all’interno di sistemi e di mondi accademici storicamente organizzati secondo

ben diverse logiche. Si tratta certamente di mutamenti non solo organizzativi ma

anche antropologico-culturali che in quanto tali richiedono tempi lunghi di

sedimentazione, appunto perché vengono a incidere sull’identità professionale dei

soggetti interessati. E sono comunque i soggetti interessati che interpretano le logiche

del contesto normativo nel quale operano. Questo dato appare con particolare

evidenza nel mondo universitario e dunque nelle diverse interpretazioni delle

innovazioni legislative e – per quello che qui più ci riguarda – nella realizzazione

delle forme di governance degli atenei.

Nel caso italiano si può aggiungere che la dialettica tra Stato autore delle riforme e

mondo accademico che deve realizzarle soffre da tempo di una mancanza profonda di

comprensione reciproca che si traduce in forme di conflittualità latente che vanno

dalle misure legislative punitive alle resistenze passive o alle trasformazioni

“cosmetiche,” di pura facciata.

Il non cercare una politica univoca che punti a costruire finalità di cambiamento

condivise, dentro e fuori l’università, impedisce nei fatti un’evoluzione positiva del

sistema (se di sistema si può parlare) d’istruzione superiore nel nostro paese.

Come invertire allora questo meccanismo perverso che attraverso la contrapposizione

del mondo politico e del mondo accademico frena la gran parte dei possibili effetti

positivi dello sviluppo della conoscenza ?

Sul versante della politica sarà importante la presa di coscienza reale della rilevanza

dell’istruzione superiore (comprendente la ricerca scientifica e l’istruzione nel suo

insieme) per la crescita della società. Al di là delle parole lo si dimostrerà innanzitutto

con la rilevanza degli investimenti nel settore (come avviene in tutti i paesi

sviluppati), ma anche con politiche di sostegno e ammodernamento del sistema che lo

collegassero a finalità condivise in uno scenario di sviluppo della società.

8

Da parte del mondo accademico sarà cruciale la riconsiderazione delle finalità del

sistema e del ruolo dei singoli attori al suo interno.

Il nodo comune ai due versanti è legato alla necessità di accettare l’idea

dell’inevitabilità del cambiamento. Per il mondo politico (per le classi dirigenti del

paese) allo scopo di contrastare il processo di marginalizzazione internazionale da

tempo in atto. Per il mondo accademico per essere in grado di dimostrare la propria

legittimità alla auto-gestione del proprio cambiamento (salvando così in forme nuove

la propria autonomia).

Appare chiaro dunque come il processo di inversione dell’attuale tendenza debba

muovere dalla condivisione dei compiti e delle finalità del sistema d’istruzione

superiore. Come risulta da una ormai ricca letteratura internazionale, la direzione da

perseguire è quella della combinazione di nuove finalità e nuovi compiti con quelli

tradizionali. I nuovi compiti di sostegno all’economia non possono infatti cancellare

quelli tradizionali della diffusione della cultura e della conoscenza nel modo più

ampio possibile. Occorre dunque muovere dal presupposto che le diverse finalità

possono coesistere così come è per la ricerca pura e la ricerca applicata. Il quadro

che ne emerge è naturalmente ricco di ambiguità, del resto inevitabili nelle

organizzazioni complesse come l’università7.

Ma il punto di partenza non può che essere questo. In seguito si tratterà di

determinare le priorità attraverso appropriati incentivi nelle direzioni privilegiate. Ed

è sulle priorità che si decideranno le funzioni dell’istruzione superiore e

dell’università pubblica.

In questa logica, l’indagine condotta dal gruppo di ricerca dell’università di Milano-

Bicocca - che qui si presenta in forma sintetica - si propone di segnalare le peculiarità

dei principali sistemi d’istruzione superiore in Europa – con riferimento al caso

italiano - e in essi l’esercizio concreto della gestione degli atenei.

In una fase di incertezza e di trasformazione delle funzioni dell’istruzione superiore

le pressioni per il mutamento delle forme di governo dell’università rivestono un

7 Si veda fra gli altri Bleiklie 1998

9

ruolo cruciale e non per caso sono oggetto dell’intervento legislativo cui si è fatto

cenno All’interno di un quadro vieppiù complesso di ripensamento dell’intervento

dello Stato, di apertura dell’università alle richieste della società e di mediazione fra

esigenza di autonomia e necessità di risorse diversificate, la governance

dell’università risente altresì dell’evoluzione storica del potere interno all’accademia:

da quello della cattedra a quello delle discipline e a quello dell’istituzione, con

commistioni esterne dei diversi portatori di interessi. Da qui l’attualità di questa

ricerca.

Bibliografia Becher,T., Henkel,M.,Kogan,M. 1994 Graduate Education in Britain,London,Jessica Kingsley Bifulco,l. 2008 Gabbie di vetro. Burocrazia, governance e libertà, Milano, Bruno Mondadori Bleiklie,I. 1998 Justifying the Evaluative State: New Public Management ideals in higher education, in “European Journal of Education”,vol.33 (39,pp.299-316 Bleiklei,I,Kogan,M. 2007 Organization and Governance of Universities, in “Higher Education Policy”,20 (4),pp.477-494 Capano, G. 2004 Un po’ di coraggio per cambiare l’università, in “Il Mulino”,n. 5,pp.888-898 Capano, G. 2008 Il governo degli atenei, in R.Moscati, M.Vaira (a cura di), L’Università di fronte al cambiamento, Bologna, Il Mulino Capano, G., Tognon,G. (a cura di) 2009 La crisi del potere accademico in Italia. Proposte per il governo delle università, Bologna, Il Mulino

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De Boer,H.,Huisman,J.,Meister-Scheytt,c. 2007 Mysterious guardians and the diminishing state: Supervisors in ‘modern’ university governance, paper presentato al 29th Annual EAIR Forum, Insbruck, 26-29 agosto (mimeo) Ferlie,E.,Musselin,C.,Andresani,G. 2007 The ’Steering’ of Higher education Systems: A Public Management Perspective, paper del progetto ESF “Higher education Looking Forward”, Bruxelles Fulton,O. 2002 Higher Education Governance in the UK: Change and Continuity, in A.Amaral, G.A. Jones, B.Karseth (a cura di), Governing Higher Education: National Perspectives on Institutional Governance, Dordrecht, Kluwer Fulton,O. 2003 Managerialism in UK Universities: Unstable Hybridity and the Complication of Implementation, in A.Amaral,V.Lynn Meek, I.M. Larsen (a cura di), The Higher Education Managerial Revolution?, Dordrecht,Kluwer Kogan,M.,Hanney,S. 2000 Reforming Higher Education, London, Jessica Kingsley Magalhăes A.M. 2004 A Identidade do Ensino Superior:politica, conhecimento e educaçăo numa época de transiçăo,Lisbon, Fundaçăo Calouste Gulbenkian Magalhăes,A.M. e Santiago,R. 2009 Public management, new governance models and changing environments in Portuguese higher education, paper presentato alla 22ma Conferenza annuale del CHER, Porto,10-12 settembre (mimeo) Moscati,R. 2004 Università, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia del Novecento, supplemento III, Roma Neave,G. 2002a On Stakeholders, Cheshire cats and seers: Changing visions of the University, in The CHEPS inaugural lectures, Enschede,University of Twente Neave,G. 2002 The Stakeholder perspective historically explored, in J. Enders, O. Fulton (a cura di), Higher Education in a Globalising World, Dordrecht, Kluwer

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Neave,G. 2007 From Guardian to Overseer: Trends in Institutional Autonomy, Governance and Leadership, paper presentato alla Conferenza organizzata dal Conselho Nacional de Eduçăo su “The legal Status of Higher education Institutions-Autonomy, Responsibility and Governance”, Lisbona, Febbraio (mimeo) Peters,G. 2001 The Future of Governing, Lawrence, University of Texas Press Reed,M.I. 2002 New Managerialism, Professional Power and Organisational Governance in UK Universities: A Review and Assessment, in A.Amaral, G.A. Jones, B.Karseth (a cura di), Governing Higher Education: National Perspectives on Institutional Governance, Dordrecht, Kluwer Shattock,M. 2006 United Kingdom, in J.J.F.Foster, P.G. Altbach (a cura di), International Handbook of Higher Education, vol.II, Dordrecht, Springer Taylor,L. 2005 The Legacy of 1981: An Assessment of the Long-term Implications of the reductions in Funding Imposed in 1981 on Institutional Management in UK Higher Education, in A.Gornitzka, M.Kogan,A.Amaral (a cura di), Reform and Change in Higher Education. Analysing Policy Implementation,Dordrecht, Springer

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LA RICERCA

NUOVI MODELLI DI GOVERNO DEGLI ATENEI IN EUROPA (Roberto

Moscati)

1. - Introduzione

L’indagine ha scelto tre università in ciascun sistema preso in considerazione,8 tra le

quali una di tipo tecnico, una generalista storica e di grandi dimensioni e una

generalista di dimensioni più contenute e di origini relativamente più recenti.

Intendendo esaminare i processi di cambiamento nella governance delle università, la

decisione di prendere in esame i singoli atenei invece di concentrarsi sui sistemi

nazionali d’istruzione superiore ha tenuto conto sia delle specificità delle diverse

situazioni locali (i rapporti tra ateneo e mondo esterno), sia delle dimensioni e

peculiarità degli atenei stessi, come della presenza di distinte aree disciplinari, ma in

particolare della importanza di chi deve recepire e applicare le spinte al cambiamento.

E dunque si è ritenuto cruciale il ruolo del personale docente e tecnico-

amministrativo ai diversi livelli, in accordo, da questo punto di vista, con quello che

raccomanda Burton Clark che sostiene: “the best to find out how universities change

the way they operate is to proceed in research from bottom-up and the inside-out.

‘System’ analysis done top-down cannot do the job. It misses the organic flow of

university internal development” [Clark 2004, 2].

Così facendo si è inteso evitare, per quanto possibile, il rischio di assumere come

dato di partenza l’esistenza di un trend comune a tutti i sistemi d’istruzione superiore

europei destinati inevitabilmente a confluire in un unico modello. Di conseguenza, 8 I sistemi d’istruzione superiore oggetto dell’indagine facevano riferimento a Francia, Germania,Gran Bretagna,Spagna e Italia. Per ciascun sistema d’istruzione superiore è stato elaborato uno specifico rapporto. In particolare, Carlo Barone ha scritto il country report relativo alla Germania, Stefano Boffo quello relativo alla Spagna, Fabio Di Pietro il rapporto sulla Francia, Roberto Moscati il country report sulla Gran Bretagna, mentre il rapporto sul sistema universitario italiano è stato steso congiuntamente da Stefano Boffo e Roberto Moscati. In ciascun paese sono state analizzate in particolare tre università: Université de Reims, Université de Compiègne, Université de Rennes2, (in Francia); Ruprecht Karl Universität-Heidelberg, Freie Universität Berlin, Technische Universität Berlin,(in Germania); Universitad Politecnica de Valencia, Universitad de Siviglia, Universitad de el Pais Vasco,(in Spagna); Coventry University, University of Bristol, University of Warwick, (in Gran Bretagna);Università di Padova, Università di Roma 3, Politecnico di Torino (in Italia).

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facendo riferimento alle caratteristiche dei sistemi nazionali d’istruzione superiore, si

sono esaminati sia le origini storiche sia gli aspetti organizzativi dei singoli atenei a

cominciare dall’analisi dei rispettivi statuti.

Sono quindi state condotte interviste semi-strutturate ai rappresentanti, nei diversi

livelli, del governo delle università, dai rettori (o loro omologhi), ai pro-rettori (o loro

omologhi), ai presidi di facoltà, direttori di dipartimento, membri dei consigli di

amministrazione (accademici e “laici”), direttori amministrativi, rappresentanti del

personale amministrativo e degli studenti coinvolti in processi di gestione, per un

totale che si è aggirato attorno alle 15-20 interviste per ateneo.

L’ipotesi centrale che si è inteso verificare riguarda la crescita progressiva di una

serie di ragioni economiche e socio-politiche in grado di esercitare una crescente

pressione sui sistemi d’istruzione superiore (e sulle singole università), volta a

modificarne le finalità, il funzionamento e dunque l’organizzazione interna.

Ne dovrebbe essere derivato sia il cambiamento o l’aggiornamento delle finalità

(mission) delle università, sia la ristrutturazione interna delle stesse.

Più in particolare, la pressione ad aprire l’università verso il mondo esterno, al fine di

fornire risposte alle crescenti richieste di uso economico e sociale della conoscenza,

crea la necessità di entrare in competizione per l’acquisizione delle risorse in una

logica di mercato.

Il modello di riferimento per tale cambiamento tendenzialmente diventa quello

anglosassone che si é strutturato da tempo – sia a livello di sistema, sia a livello di

singole istituzioni – secondo una logica competitiva di mercato, con tutta una serie di

conseguenze strutturali e organizzative.

L’incontro tra questa pressione indotta dalla diffusa interpretazione delle funzioni

della conoscenza e dell’istruzione superiore e le tradizioni di funzionamento delle

singole università – inserite nei diversi sistemi d’istruzione superiore – rappresenta

l’aspetto maggiormente interessante di questo processo, che consiste dunque nella

14

diversa combinazione di logiche e modelli tradizionali con logiche e modelli “di

importazione”.

All’interno di questa emergente forma ibrida è sembrato cruciale analizzare in

particolare le trasformazioni nei meccanismi di governo sia a livello meso

(d’istituzione universitaria), sia a livello micro (di articolazione organizzativa di base:

facoltà, dipartimento), attraverso i comportamenti, e dunque principalmente le

reazioni alla richiesta di cambiamento, dei soggetti interessati (il personale

universitario). Le teorie della sociologia dell’organizzazione e della sociologia delle

professioni sono dunque apparse le basi naturali dei riferimenti teorici, cui si devono

necessariamente aggiungere i riferimenti all’etnometodologia e in particolare a quella

componente dell’interazionismo simbolico che sottolinea le dinamiche della

“definizione della situazione” [Collins 1988, 332] , qui riferita alle interpretazioni

dei processi di mutamento ad opera dei soggetti direttamente coinvolti nelle diverse

dimensioni del governo dell’università.

2 L’autonomia delle università

Il governo delle università nei sistemi d’istruzione superiore europei è in

trasformazione per tutta una serie di fenomeni tra loro correlati. La crescente

convinzione della centralità della conoscenza per lo sviluppo economico e sociale ha

modificato le finalità dell’istruzione superiore ed ha accresciuto la domanda sociale,

spingendo le università ad aprirsi al mondo esterno ed innalzando il livello di

autonomia degli atenei.

Ad un tempo, la dipendenza del sistema d’istruzione superiore dallo stato si è andata

modificando, soprattutto in ragione delle difficoltà per quest’ultimo di coprire i

crescenti costi del sistema. Ne è derivato che il finanziatore principale (lo stato) ha

sviluppato la richiesta di verificare la produttività dell’istruzione superiore anche

laddove l’autonomia del sistema formativo pubblico era più consolidata (Il Regno

Unito). Per contro, nei sistemi dove il controllo dello stato era per tradizione

15

stringente e tendente a garantire l’uniformità dell’offerta formativa (sistemi

napoleonici), si è attribuita alle singole istituzioni una crescente autonomia di

iniziativa, accanto alla quale si è venuta sviluppando una serie di verifiche ex-post

delle performances (non la sparizione della presenza dello stato quindi, bensì, come

sostiene Christine Musselin, “l’état autrement”) [Musselin 2001, 196].

Le mutate condizioni sociali ed economiche hanno dunque creato i presupposti per

una maggiore autonomia degli atenei e li hanno posti in vario modo in competizione

per l’acquisizione dei riconoscimenti e l’incremento delle risorse.

Autonomia e competizione hanno esercitato inevitabilmente una forte influenza sui

valori che caratterizzano l’istruzione superiore e in particolare sui sistemi di governo

degli atenei. Per meglio dire, si è venuta sviluppando la necessità di giustificare le

trasformazioni dei sistemi d’istruzione superiore e così, ai valori tradizionali di

collegialità, collaborazione, libertà individuale dei docenti/ricercatori, come a quelli

di autonomia della ricerca e dell’offerta formativa, che caratterizzavano la comunità

accademica, si sono venuti sovrapponendo nuovi modelli connotati come positivi

(dunque considerati in termini valoriali), quali l’assunzione di responsabilità nel

compimento delle proprie attività professionali (accountability) nei confronti dei

soggetti coinvolti nelle stesse (gli stakeholders), assieme al passaggio da una gestione

amministrativa ad una gestione manageriale delle istituzioni formative e di ricerca,

tra loro poste in competizione.

In particolare, il processo di diffusione dei nuovi modelli interpretativi circa le

finalità dei sistemi d’istruzione superiore e delle istituzioni formative viene

presentato come doveroso perché giusto, e giusto (dunque dotato di valore) perché

utile alla società.

In questa prospettiva la competizione tra università rappresenta la logica del mercato

e si applica a diversi livelli: a livello locale (dove peraltro è chiamata a coesistere con

il valore simmetrico della cooperazione, sovente al fine di creare sinergie

indispensabili al raggiungimento di una massa critica utile alla competizione

internazionale: vedi il fenomeno dei PRES – Polo di Ricerca dell’Insegnamento

16

Superiore – in Francia); ma anche a livello nazionale e, appunto, internazionale, nei

confronti delle entità e dei soggetti che intendono/devono servirsi dei prodotti del

mondo accademico. Ad un tempo è facilitata la competitività tra aree disciplinari e

scientifiche all’interno della stessa istituzione, in funzione delle richieste esterne

(espresse o anche solo potenziali). Così il reperimento di risorse aggiuntive va

interpretato secondo le stesse logiche di mercato, sotto forma di offerta di servizi

legati alla conoscenza. L’apertura al mondo esterno, in questa prospettiva, significa

dunque maggiore dipendenza da logiche diverse da quelle proprie dell’accademia e

soprattutto caratterizzate da un rapporto con il mercato che implica maggiore

flessibilità, capacità di adattamento nel proprio funzionamento e minori regole

vincolanti rispetto al tradizionale modus operandi degli universitari.

Comporta altresì lo sviluppo di nuove qualità nel personale docente, di ricerca e

tecnico-amministrativo delle università. La competitività – si dice – richiede rapidità

nella presa di decisioni e questo incide sui comportamenti dei singoli, ma soprattutto

sui meccanismi decisionali e sulle strutture coinvolte nel processo di elaborazione

delle politiche di ateneo.

Da qui la crescente centralità dei temi legati al governo delle università e alle

caratteristiche riconosciute alla leadership che, a loro volta, appaiono strettamente

legate all’immagine che l’università assume nei distinti momenti storici e nelle

diverse società. A quest’ultimo riguardo, appare opportuno richiamare qui

sinteticamente la tipologia elaborata da Robin Middlehurst [Middlehurst 1995], che

propone un collegamento tra il modo di intendere l’università e le connesse

specificità della sua leadership, riferendosi fondamentalmente a tre casi: l’università

come comunità di professionisti, l’università politico-burocratica e l’università a rete.

L’università intesa come comunità di professionisti sottolinea la rilevanza sia della

competenza e dell’esperienza (“seniority”) come fonti dell’autorità, sia di alcuni

interessi comuni, condivisi principalmente a scopo di autodifesa,

autoregolamentazione e sviluppo della professione o della disciplina, ma sopratutto si

caratterizza per il valore attribuito all’autonomia dei singoli. In questa prospettiva il

17

leader è visto come rappresentante delle aspirazioni e dei successi della collettività e

la leadership è basata sulla negoziazione, la persuasione e il raggiungimento del

consenso, mentre l’autorità e la capacità di esercitare una significativa influenza si

fondano sulla riconosciuta esperienza e credibilità professionale. In questo senso il

leader deve poter simboleggiare i valori del gruppo e da lui ci si aspetta che svolga

una intensa attività di consultazione e condivisione delle pratiche di gestione

dell’istituzione.

L’università caratterizzata dal prevalere delle logiche politico-burocratiche è, per

contro, sede di possibili competizioni tra aree disciplinari portatrici di valori e

interessi diversi per la varietà di finalità, strategie e referenti esterni, sovente peraltro

legati a peculiarità epistemologiche. I conflitti sono dunque potenzialmente derivanti

dalle differenze di valori e tesi alla conquista di spazi e di rilevanza interna

all’istituzione. La dimensione burocratica tende qui a sottolineare la necessità di

ordine, regolazione e controllo, attraverso catene gerarchiche di comando, di

definizione attenta di ruoli e responsabilità e di procedure fondate su finalità

condivise. L’utilità di una tale organizzazione della complessità, attraverso la

formalizzazione dell’articolazione interna, è giustificata sia dalla diversificazione

disciplinare sia dalla rilevanza crescente dei rapporti col mondo esterno (con gli

sponsor, i clienti, gli stakeholders) nei confronti del quale l’istituzione deve essere

affidabile (accountable).

Nella dimensione politico-burocratica la leadership deve legittimare le differenze di

valori e interessi, operando per raggiungere finalità condivise attraverso mediazioni e

compromessi, ma anche, in certi casi, mirare a trarre vantaggio delle differenze,

governando secondo il principio del “divide et impera”. Sotto il profilo della gestione

burocratica la leadership delle università sovente è spinta ad assumere caratteri

manageriali per l’enfasi posta sulla presa delle decisioni e la definizione di sistemi di

controllo e coordinamento.

Infine, nelle forme più moderne l’università si presenta come un sistema a rete, cioè

formato da elementi interagenti collegati ad altri sistemi esterni (le comunità locali, i

18

gruppi internazionali di ricerca, il mondo economico ai diversi livelli) attraverso una

rete che coinvolge solo alcuni dei propri elementi (dipartimenti, centri di ricerca,

facoltà).

In particolare, riferendosi ai nuovi modelli di università, emerge come la leadership

tenda a divenire inevitabilmente sempre più diffusa ed a coinvolgere i singoli soggetti

ai diversi livelli all’interno dell’istituzione, giustificando in tal modo l’uso dello

stesso termine di “governance”.

3 – La governance dell’università in Europa

Il termine di ”governance” è stato identificato con la struttura di relazioni che tiene

insieme la coerenza organizzativa, e dunque autorizza politiche, programmazioni,

decisioni, e altresì fornisce riscontri della loro correttezza, coerenza e convenienza.

Per contro, il “management” consiste nel raggiungere le mete prefissate attraverso

l’attribuzione di responsabilità e risorse, oltre al monitoraggio della loro efficienza ed

efficacia. L’”amministrazione”, a sua volta, può essere intesa come il processo di

interpretazione e perseguimento delle finalità dell’organizzazione, in accordo con le

politiche e le procedure stabilite [ Gallagher 2001;Meek 2003, 12].

La governance è dunque riferita al contesto nel quale le università operano e, quindi,

anche ai processi e alle strutture attraverso e con le quali si raggiungono (o, meglio, si

mira a raggiungere) i risultati prestabiliti. Si può dunque sostenere che il concetto di

governance incorpori quelli di management, amministrazione e leadership

istituzionale. Come ha sostenuto Renate Mayntz, il termine governance comprende

dunque un sistema di regole e altresì il modo in cui tale sistema opera. A sua volta il

sistema di regole va considerato come un quadro istituzionale secondo il quale gli

attori di un particolare campo di politiche orientano le loro attività [Mayntz 2004, cit.

in Kehm, Lanzendorf 2006, 15].

Un modello di riferimento molto noto per definire le dimensioni della governance è

quello del “triangolo di governo/coordinamento” elaborato da Burton Clark: si tratta

19

di un sistema di regole dirette ai comportamenti degli attori del mondo accademico e

variamente influenzato vuoi dal mercato, vuoi dallo stato, vuoi dall’oligarchia

accademica. Il triangolo è stato successivamente modificato dallo stesso Clark

aggiungendo un quarto angolo, costituito dalla leadership gerarchica e

imprenditoriale delle istituzioni accademiche. Si ottiene così un parallelogramma del

potere che rappresenta un regime di governance nel quale – nelle diverse circostanze

– viene a prevalere una delle quattro componenti [Clark 1983; 1997]. Occorre

conseguentemente chiedersi come e perché emergano nuove forme di governance.

Innanzitutto, osserviamo come alcune caratteristiche di contesto quali l’alto livello

raggiunto dalla spesa pubblica per l’istruzione superiore, assieme alla collocazione

relativamente bassa dell’istruzione superiore nell’agenda politica delle priorità dei

governi nazionali, abbiano facilitato lo sviluppo dell’autonomia-controllata degli

atenei e correlativamente la spinta alle modifiche della governance. Ad un tempo, la

globalizzazione e l’internazionalizzazione accelerata dei processi di produzione e

distribuzione della conoscenza hanno dato avvio ad una contrapposizione tra diversi

attori (uomini politici, intellettuali, accademici, studenti, rappresentanti

dell’economia) circa la vera natura del sapere e le sue utilizzazioni. Si sono

sviluppate nuove lotte di potere tra diversi gruppi, nel mondo politico e in quello

economico, attorno alle funzioni delle strutture formative e produttrici di conoscenza,

che hanno visto il crescere delle applicazioni del pensiero neo-liberale rappresentato

dalla teoria del “New Public Management”. Secondo questo approccio, l’università

va trasformata da istituzione a “legami deboli” (loosely coupled) in organizzazione

saldamente strutturata, al fine di potersi collocare efficacemente in dinamiche di

mercato, e dunque sopportare logiche competitive e richieste di affidabilità attraverso

verifiche.

Nello specifico, il cambiamento di fondo ha riguardato i tradizionali modi di

interpretare la relazione tra università e società. Si assiste infatti ad una crisi di

egemonia dell’università come autonoma sede di creazione e trasmissione di sapere,

cui si aggiunge una crisi di legittimazione a seguito delle difficoltà di incontro tra

20

domanda e offerta del prodotto dell’istruzione superiore nel mercato del lavoro (crisi

di employability), ma in particolare si manifesta una crisi istituzionale per la

peculiarità organizzativa di un’università la cui maggiore autonomia relativa viene

attribuita in un contesto di subordinazione a standard di efficienza e di produttività

propri al modello manageriale che prende piede nella realtà accademica.

Nelle università europee si sono dunque registrati mutamenti nelle forme di

governance, che hanno spostato l’equilibrio del potere e dell’autorità in direzione di

uno sviluppo di nuove strutture centrali. L’amministrazione centrale viene rinforzata

ed acquista un ruolo cruciale. I tradizionali sistemi “bicamerali”(Senato accademico e

Consiglio di Amministrazione in Italia) evolvono verso un rafforzamento delle

capacità amministrative. Cresce la partecipazione di soggetti esterni portatori di

interessi (gli “stakeholders”) negli organi decisionali e parallelamente si accentuano

le critiche alla collegialità dei processi decisionali e si propende verso la

centralizzazione delle decisioni al più alto livello istituzionale, con conseguente

riduzione, in alcuni casi (Francia), delle decisioni a livello disciplinare (dipartimenti).

I rettori a volte sono nominati e non più eletti, mentre i presidi e i direttori di

dipartimento (i middle managers) sono visti come professionisti dell’amministrazione

e dunque possono venir nominati dal rettore. In determinati casi essi vengono a far

parte, con alcuni dirigenti amministrativi, di una sorta di giunta informale di

consulenza al rettore [Amaral, Jones, Karseth 2002, 287].

Ecco che allora i ruoli deputati al governo delle università si vengono modificando,

anche se in realtà non si assiste alla sostituzione completa di un modello ad un altro.

Così il ruolo di primus inter pares, tradizionalmente attribuito ai leader nei diversi

ruoli (rettore, preside di facoltà, direttore di dipartimento o di corso di laurea), non si

può dire sia sparito né abbia perso di legittimità, bensì venga a combinarsi con altri ai

quali, peraltro, i leader accademici non sono stati preparati (come le capacità di

gestione, di valutazione e di programmazione) [Musselin 2001].

Quanto alla governance si pone il problema della costruzione di una leadership

collettiva sufficientemente coesa ma basata su logiche diverse da quelle tradizionali.

21

Infatti, i principi tradizionali di collegialità, coerenti con il ruolo di primus inter pares

e destinati a costruire forme di consenso, non si rivelano così adatti alla

identificazione di priorità e alla realizzazione delle decisioni prese: si tratta dunque di

sviluppare nuove modalità di consenso e forme di cooperazione in un processo

decisionale che proviene in genere dal vertice (rettore/président/vice-

chancellor/rektor) e che deve trovare corrispondenza a livello dei presidi/direttori e

da qui a quello del personale docente. Cresce dunque il ruolo dei dirigenti intermedi,

il cosiddetto “middle management”, che devono svolgere più che mai compiti delicati

di trasmissione nei due sensi delle istanze e delle decisioni. Ai diversi livelli di

responsabilità si sommano dunque ruoli tradizionalmente accademici con ruoli di

stampo manageriale, difficilmente combinabili e fonte di disagio sia tra i diretti attori

dei ruoli di leadership, sia tra i membri della collettività accademica. I primi si

sentono infatti sopraffatti dalle incombenze organizzative difficilmente combinabili

con quelle tradizionali della didattica e della ricerca e inoltre non riescono facilmente

ad acquisire la capacità di guardare al di fuori dell’università, né di immedesimarsi

nelle aspettative esterne. Il personale docente, d’altro canto, non accetta facilmente la

nuova concezione della leadership accademica, né la logica della riduzione di parte

dell’autonomia individuale in nome di un vantaggio collettivo. Stenta a farsi largo, in

sintesi, la concezione dell’appartenenza ad una istituzione e l’adesione alle

trasformazioni dei propri ruoli professionali in ragione delle nuove finalità attribuite

all’istruzione superiore e in conseguenza alle università.

Uno degli aspetti che evidenziano la difficoltà a recepire il processo di transizione è

rappresentato dalla scarsa attenzione dedicata allo sviluppo della leadership

accademica. L’avversione al concetto di managerialità è probabilmente una delle

principali ragioni che spiega il ricorso a stereotipi e luoghi comuni che fanno ritenere

la leadership come una dote naturale, oppure un’arte, o una capacità che si acquista

con l’esperienza. Simili atteggiamenti automaticamente escludono la necessità di una

formazione professionale specifica, con il rischio tuttavia di finire per essere costretti

ad adottare modelli applicati in altri contesti.

22

4 – Fasi e caratteristiche del cambiamento

Allo stato dei fatti ci si può tuttavia domandare se la rivoluzione manageriale stia

davvero occupando le strutture di governance dell’università o se invece il

managerialismo sia solo uno strumento politico di tipo retorico, utile ad incoraggiare

l’adattamento alle nuove condizioni di funzionamento delle istituzioni accademiche.

In effetti, il managerialismo non convince come unico paradigma per la gestione delle

istituzioni pubbliche e il modello tradizionale trova ancora applicazioni in particolare

nel settore dell’istruzione superiore, dove non si riscontrano forme di management

puro e dove l’autogoverno accademico e la regolamentazione statale mantengono un

peso considerevole.

Non va inoltre trascurata tutta una serie di effetti negativi, in parte prodotti o quanto

meno incentivati dall’applicazione delle nuove forme di governance e di

management. Si assiste infatti alla progressiva trasformazione degli accademici in

lavoratori della conoscenza con la crescente “proletarizzazione” della professione. Il

declino del “dominio dei Dons” sembra coincidere con il declino dell’autonomia

istituzionale delle università (attraverso il crescente controllo dello stato sotto forma

di valutazione) [Halsey 1992]. E tuttavia va ricordato come la crisi della collegialità

accademica, in quanto guida della vita universitaria, si sia manifestata prima dello

svilupparsi delle teorie neo-manageriali.

Piuttosto sembra che il Nuovo Management Pubblico spinga le università verso una

situazione caratterizzata da “scarsa fiducia e forte controllo”, che appare la

conseguenza della nuova autonomia regolata. La tradizionale fiducia su cui si

fondava la dinamica sociale nell’università viene, infatti, progressivamente sostituita

dalla verificabilità dell’affidabilità (accountability). Ne deriva che il crescente

controllo burocratico e manageriale proprio delle logiche di mercato rappresenta, di

fatto, una messa in dubbio della probità morale del corpo accademico. E tuttavia,

secondo molte evidenze, le organizzazioni efficienti si fondano sulla fiducia. Ci si

23

può domandare, in conseguenza, quali siano le condizioni istituzionali che

favoriscono la fiducia o la sfiducia.

La domanda si collega al problema della coerenza tra organizzazione centrale delle

istituzioni accademiche (approccio manageriale, struttura gerarchica del potere) e

funzionamento concreto delle strutture di base, della didattica come della ricerca. Se

le logiche e i valori accademici sopravvivono, le pratiche collegiali sono o no

indispensabili per la sopravvivenza delle istituzioni universitarie? In caso di risposta

affermativa va forse aperta una riflessione su possibili forme ibride di organizzazione

accademica [Amaral, Jones, Karseth, cit., 294]. Va detto che nell’attuale situazione di

incertezza sul piano della identificazione dei processi e dei livelli decisionali, molti

accademici avversano il funzionamento degli organismi collettivi (“troppe riunioni

senza presa di decisioni”) e se sono coinvolti in forme di “capitalismo accademico”

(nel senso che i loro interessi professionali si rivolgono per lo più al di fuori della vita

dell’ateneo) appaiono favorevoli alla concentrazione del potere a livello centrale

[Amaral, Fulton, Larsen 2003, 277].

Sia pure di fronte a una serie di segnali a volte tra loro contraddittori e tenendo ben

presente le specificità dei sistemi nazionali d’istruzione superiore, sembra possibile

tuttavia identificare alcune tendenze comuni, o quanto meno simili, nelle diverse

realtà istituzionali.

Non si è imposta, innanzitutto, una sola definizione di governance, anche se una serie

di innovazioni si sono diffuse e stanno diffondendosi: i controlli e le forme di

incentivo/sanzione sono aumentati; l’autonomia operativa delle singole istituzioni è

cresciuta, ma anche le regole stabilite dai governi, e si è moltiplicata la ricerca di

legittimazione attraverso il meccanismo di accountability. In ogni caso la

regolamentazione statale ha ancora un suo rilievo, specie nell’Europa continentale.

Al riguardo va ricordato, all’interno di una diversa origine storica del sistema

d’istruzione superiore continentale europeo rispetto a quello anglosassone, come

l’università sia sempre stata, nel primo, un’istituzione statale e come sia dunque stato

cruciale il ruolo regolatore dello stato nei suoi riguardi. Da qui anche i dubbi circa le

24

logiche di mercato e i processi di privatizzazione dei settori pubblici presenti nei

paesi europei.

Si è dunque indebolito l’autogoverno accademico, ma non si prevede una sua

sparizione. Circa il suo impatto molto sembra dipendere dal tipo di leadership attuata

da chi occupa posizioni di comando. Sempre più frequentemente, del resto, vengono

a configurarsi situazioni nelle quali i leader accademici appaiono spinti a svolgere

ruoli di intermediari fra valori accademici e domande esterne [Kehm, Lanzendorf,

cit., 207].

Resta aperta la verifica del grado di realizzazione delle tendenze generali – qui

sommariamente indicate – nei diversi atenei collocati all’interno degli specifici

sistemi d’istruzione superiore europei presi in esame dalla ricerca.

Bibliografia

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2003 A Managerial Revolution?, in A.Amaral, V.L.Meek, I.M.Larsen (eds.), The Higher Education Managerial Revolution?,Dordrecht, Kluwer Academic Publishers,pp.275-295

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Musselin,C. 2001 La longue marche des universités françaises, Paris, PUF

26

L’AUTONOMIA ISTITUZIONALE E LA PROFESSIONALITA’ DELLA

GESTIONE (Carlo Barone)

1. Gradi di autonomia

L’esame dei casi studiati suggerisce di introdurre una distinzione di fondo costituita

dal grado di autonomia di cui godono gli atenei nei diversi sistemi d’istruzione

superiore, un aspetto che consente di mettere in luce gli elementi, che sono apparsi

influenzare il caratterizzarsi delle forme di governance nelle diverse realtà, ancorché

occorra subito aggiungere che si tratta dovunque di una autonomia variamente

limitata.

In Germania una serie di leggi federali e statali ha notevolmente aumentato i margini

di autonomia degli atenei, ma le burocrazie dei Länder tendono a mantenere un certo

grado di controllo diretto. I Länder decentrano molto “a parole”, ma poi cercano di 

trattenere  un  margine  d’interferenza  sull’operato  degli  Atenei9.  Inoltre,  le 

dinamiche di coalizione politica, o anche solo le convinzioni dei singoli Ministri 

dell’Istruzione di ciascun Land, possono spingere in avanti, oppure al contrario 

rallentare,  le  tendenze  al  decentramento.  Tuttavia,  nel  complesso,  la 

trasformazione in corso appare di vasta portata e in particolare si manifesta in 

alcuni comparti:

introduzione di budget globali,  con  la possibilità per gli Atenei e  le Facoltà non 

solo di gestire più flessibilmente le diverse voci di spesa, ma anche di spostare 

risorse da un anno all’altro, accantonando fondi (es. per progetti di ricerca molto 

onerosi)  secondo  una  logica  di  investimento  di medio  periodo,  che  prima non 

era neppure concepibile; 

reclutamento del personale, con controlli diretti da parte del Land che risultano 

indeboliti e la definizione degli organici che viene ormai considerata, in generale, 

una questione  interna degli Atenei. Non mancano alcune  interferenze da parte 

9 Peraltro non si deve pensare che tali intromissioni siano sempre male accette da parte dei Rettori. Talvolta costoro possono usarle come uno scudo protettivo, specialmente quando sono chiamati a prendere decisioni impopolari (“devo tagliare questa Facoltà perché è il Ministro che me lo chiede”).

27

dei  Ministeri  dell’istruzione:  ad  esempio,  questi  ricevono  la  documentazione 

delle  procedure  concorsuali  e  possono  invalidarne  o  sovvertirne  gli  esiti  (non 

solo per vizi formali). Oppure, può capitare che il Land non solo tagli i fondi a un 

Ateneo ma  informalmente indichi pure quali aree di ricerca, o addirittura quali 

cattedre, preferirebbe che venissero tagliate; 

definizione  dell’offerta  formativa: agli  Atenei  spetta  ora  un  potere  effettivo  più 

ampio  nella  decisione  di  aprire  nuovi  corsi  di  laurea,  di  avviare  scuole  di 

dottorato o altre iniziative didattiche. Anche in questo caso, il Land mantiene un 

potere  di  controllo  preventivo, ma  solo  di  rado  se  ne  avvale  per  bloccare  tali 

iniziative.  Peraltro,  accanto  a  questi  controlli,  si  sta  affermando,  sebbene 

lentamente  e  parzialmente,  un  sistema  di  accreditamento  dei  corsi  basato  su 

agenzie esterne private specializzate; 

contribuzione  studentesca:  l’interpretazione  tradizionale  del  dettato 

costituzionale  sul  diritto  allo  studio  sembrava  comportare  l’impossibilità 

d’imporre  tasse  agli  studenti,  mentre  ora  ciascun  Ateneo  può  stabilire  di 

chiedere loro un contributo. Comunque, sinora le università sembrano piuttosto 

caute nel percorrere questa via, malgrado il loro cronico sotto‐finanziamento. 

In Francia una vera autonomia decisamente più libera dalla “tutelle” ministeriale non

sembra prossima. Il sistema di contrattualizzazione creato negli anni ’80 resta un

elemento centrale del sistema e il ruolo di controllo del ministero si mantiene forte,

anche se le università hanno acquisito importanti spazi di autonomia e responsabilità.

In particolare la recente legge LRU (Libertà e responsabilità delle università, detta

anche legge Pécresse, dal nome della ministra che l’ha promossa) dell’agosto 2007

spinge verso un ancora più deciso accrescimento della capacità di governance

autonoma delle università, conferendo loro maggiori competenze, che passano

soprattutto attraverso il potenziamento del ruolo dei presidenti ed un maggior peso

nella gestione del budget. Ma, con qualche eccezione, non poche sono state le

resistenze alla legge dal mondo accademico e da quello studentesco, dovute

principalmente al timore che, con il rafforzamento dei poteri del presidente

28

dell’università, vi sia un rischio di deriva manageriale a detrimento delle

rappresentanze democratiche. Presso l’Université Rennes 2 Haute Bretagne e

l’Université de Reims Champagne Ardenne – URCA, i Président ed il loro staff, in

generale, difendono la legge e rivendicano una maggiore autonomia dal controllo

ministeriale, ma questo a fronte, soprattutto nella prima università, di resistenze

ideologiche da parte di studenti e non contenute frange accademiche, nonché di

un’idea di servizio pubblico legata ad una visione “statalistica” e di tutela sindacale.

E tutto ciò chiaramente rispetto ad un’autonomia il cui punto debole consiste nel fatto

di essere ancora piuttosto relativa.

In Italia, il controllo sui percorsi formativi imposto dalla legge sugli ordinamenti

didattici del 1999 si è accentuato negli ultimi tempi con l’introduzione dei requisiti

necessari per l’attivazione dei corsi di laurea. Si è trattato, infatti, dell’esempio più

significativo di limitazione dell’autonomia degli atenei, caratterizzata dalla

determinazione governativa del numero dei docenti di ruolo imposto come

indispensabile per la creazione (o il mantenimento) dei corsi di laurea. Tale

limitazione, introdotta al fine di ridurre la proliferazione dell’offerta formativa priva

di un congruo numero di docenti incardinati stabilmente nell’università, ha segnalato

peraltro l’inadeguatezza di diversi atenei nella gestione della propria autonomia.

Inoltre, l’incidenza del governo è risultata particolarmente evidente anche nelle

recenti misure relative ai processi di reclutamento del personale docente, da tempo

bloccati in attesa di una trasformazione, che toglierà in larga misura la possibilità alle

università di assumere il personale docente, attraverso concorsi banditi localmente a

favore di un ritorno a sistemi concorsuali centralizzati a livello nazionale. A ciò si

aggiunge la distribuzione di una frazione del finanziamento agli atenei, secondo

modalità di valutazione largamente opinabili e dal sapore maggiormente punitivo

(meno risorse a chi non ha raggiunto livelli di prestazioni non dichiarati in

precedenza) che non di stimolo. Va ricordato al riguardo come in Italia non sia attivo

un reale sistema nazionale di valutazione della didattica e della ricerca, sin qui

lasciata ad iniziative operanti senza conseguenze di sorta, come la valutazione della

29

didattica da parte degli studenti (i cui risultati sono in genere tenuti riservati), o la

valutazione delle attività di ricerca, condotta una tantum da una istituzione di nomina

ministeriale (CIVR) e rimasta senza seguito. Ma l’intento di controllo “punitivo” del

governo nazionale si è evidenziato soprattutto con la riduzione dei finanziamenti

ordinari al complesso degli atenei che di fatto blocca per molte università (specie per

quelle generaliste dove il bilancio dipende per oltre il 75% dal finanziamento

pubblico) ogni possibile politica autonoma.

In Gran Bretagna sono note le procedure di valutazione da parte delle istituzioni

pubbliche specifiche, che incidono sull’ammontare della risorse distribuite dal

governo, mentre tra i limiti all’autonomia è compresa la determinazione del numero

di studenti reclutabili. Ad una visione d’insieme si può sostenere che la dialettica

controllo dello stato/autonomia degli atenei rappresenti ancora oggi un aspetto di

fondo del sistema d’istruzione superiore inglese.

Ora, è comprensibile che possano svilupparsi tensioni tra le strutture di governance (il

Council) e quelle esecutive: sono le stesse che si ritrovano tra governance e

management in ogni organizzazione. Al riguardo va ricordato che le università

britanniche, anche se finanziate in modo spesso massiccio dal governo e

caratterizzate da comportamenti che sovente appaiono da servizio pubblico, sono

tuttavia delle corporazioni indipendenti: sono cioè un’entità autonoma con una

propria dimensione legale e non sono parte del servizio pubblico.

D’altro canto, il controllo dello stato cui è legato il contributo finanziario viene

considerato, nei casi delle migliori università che possono contare su forti legami con

settori diversi dell’economia, più come un freno che come un’opportunità.

Nell’University of Warwick il tema dell’autonomia viene ribadito con molta forza dai

diversi componenti la governance e si manifesta appunto nello sforzo di

contenimento dell’incidenza dei contributi statali sul bilancio di ateneo. Meno

incidenza delle finanza pubblica significa meno dipendenza dalle regole statali nelle

scelte di politica accademica e meno vincoli burocratici. Questo atteggiamento,

presente anche in altri atenei come Bristol, a Warwick, è particolarmente forte,

30

proprio in relazione alla rilevanza che l’aspetto imprenditoriale assume e che richiede

una accentuata flessibilità per relazionarsi con le realtà del mondo esterno.

Per converso, in Spagna sembra emergere un contesto che si potrebbe definire di

nuova autonomia regolata, in cui l’autonomia concessa dai ministeri (a livello

nazionale e regionale) alle singole istituzioni non è ancora così ampia come potrebbe

essere, poiché risulta limitata, per alcuni aspetti sostanziali, dalla tradizione

centralistica del sistema e da forme nuove di centralizzazione.

I corsi di laurea con valore legale del titolo di studio devono essere accreditati, anche

se vi è ampia libertà di offrirne di propri, privi del valore legale. Mentre in

precedenza, infatti, era sufficiente rispondere ai requisiti generali previsti dalla legge

ed alle altre regolamentazioni su lauree e curricoli per vedersi riconosciuti i propri

titoli di studio, con la Ley de Reforma Universitaria -LOU del 2001 e con la Ley de

Reforma de la LOU-LRLOU del 2007, ogni singolo programma deve essere

accreditato al fine di veder riconosciuto il valore legale dei titolo di studio. Il

ministero nazionale ha dunque un ruolo cruciale nella decisione sulla ammissibilità

dei nuovi curricula che, pur proposti dalle singole istituzioni universitarie (i cui

interessi sono tutelati a questo livello anche dalla CRUE – Consejo de Rectores de

Universidades Espanolas), devono rispondere a determinati requisiti previsti a livello

nazionale; un po’ come, nel caso italiano, avviene col decreto delle classi. Inoltre, ci

deve essere anche la specifica autorizzazione del ministero regionale, il cui assenso è

fondamentale, in quanto previsto dalla legge e per la sostanziale ragione che esso

resta il principale finanziatore delle università pubbliche (70-75% del totale)

attraverso diverse e specifiche “formule”. A questo fine i ministeri, quello nazionale e

quelli regionali, trovano nelle rispettive Agenzie per la valutazione della qualità e

l’accreditamento uno strumento centrale di intervento nella vita delle istituzioni: sono

ANECA – Agencia Nacional de Evaluaciòn del la Cualidad y Accreditaciòn, ed

omologhi regionali che accreditano i corsi ed hanno competenza tanto sulla qualità

della didattica che su quella della ricerca. Si può affermare così che valutazione e

31

accreditamento sono un altro strumento che contribuisce a limitare l’autonomia

istituzionale in Spagna, anche se l’uso di indicatori di performance non si estende alla

valutazione di strutture o di interi atenei, salvo che per una parte (es. contratti di

programma) dell’intero ammontare di risorse concesse. In questo quadro, le

limitazioni si estendono anche all’importo delle tasse (che apportano in media il 15-

20% delle risorse disponibili per le università) che è fissato dai singoli governi

regionali all’interno di un ventaglio stabilito dal Consejo de Coordinaciòn de

Universidades. Anche la missione dell’università resta in larga misura determinata

dai ministeri nazionale e regionali e, del resto, la stessa governance interna delle

istituzioni universitarie, pur essendo specificamente regolata dagli statuti

autonomistici, non è davvero del tutto autonoma e segue modelli largamente

vincolanti su composizione e natura degli organi unipersonali e collegiali, determinati

dall’autorità ministeriale con leggi sia nazionali che regionali. Occorre aggiungere

però che in alcuni casi, come ad esempio quello dell’elezione del rettore o della scelta

fra elezione o nomina dei direttori di istituto, la legge lascia la specificazione agli

statuti e che questi ultimi hanno ormai ampia libertà di aggiungere organi specifici.

Selezione ed accesso degli studenti sono, a loro volta, solo in parte decisi

autonomamente dalle università: queste ultime fanno infatti le loro proposte, ma la

decisione finale spetta comunque ai ministeri nazionale e regionale.

In tutte le università spagnole analizzate si conferma questo contesto tendenziale di

crescenti limiti all’autonomia da parte dei ministeri competenti, tanto più sotto il

profilo dell’attribuzione di risorse: nel corso dell’indagine di campo si sono registrati

casi di intervento limitativo da parte del governo regionale sui corsi di laurea

proposti, su iniziative per la creazione di nuove università e così via. Questi interventi

sono avvertiti dai responsabili accademici come una limitazione che riduce in

maniera significativa l’autonomia ed il potere discrezionale delle singole istituzioni.

Va tuttavia, infine, sottolineato che ad oggi l’invasività dei ministeri locali e

nazionale non si basa che parzialmente, come invece accade in altri contesti

nazionali, sulla valutazione: le formule per l’attribuzione delle risorse e lo stesso

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accreditamento sono, il più delle volte, limitate ai singoli corsi di laurea e non

estendono l’uso di indicatori di performance alle strutture o alle istituzioni nel loro

complesso. Per altro verso, strutture nazionali centrali create di recente allo scopo di

indirizzare e, parzialmente, governare il sistema, come il Consejo de Coordinación

Universitaria o come il Consejo de Universidades, non risulta che abbiano un

impatto forte e decisamente percepito nella vita dei tre atenei analizzati.

Tutto questo insieme di materie di competenza ministeriale configura, per alcuni

studiosi, un vero processo di ri-centralizzazione del sistema [Mora 2003].

Le forme di governance che si vengono articolando nelle diverse università risentono

in vario modo anche delle relazioni che intercorrono tra poteri pubblici centrali e

singoli atenei. Così in Francia i contratti quadriennali finiscono con il richiedere

l’elaborazione e presentazione di piani di ateneo, che il Président deve organizzare e

sostenere, acquisendo in tal modo un maggior grado di potere sui rappresentanti dei

settori disciplinari. Inoltre con la legge LRU la durata del mandato del Président,

passando da cinque a quattro anni, favorisce una stretta relazione tra il contratto

quadriennale, che si configura sempre più come programma politico, e l’operato dello

stesso Président nel rappresentare istanze interne d’ateneo e sollecitazioni esterne

(poteri pubblici centrali). Il presidenzialismo nelle università francesi si sostanzia nel

ruolo di crescente rilievo acquisito dal Président e dalla sua équipe cui si affianca di

regola un Consiglio di amministrazione efficiente. Tuttavia in due università sulle tre

oggetto dell’indagine i Consigli di Amministrazione non sono risultati all’altezza del

ruolo. Di fatto, se è sempre evidente l’entusiasmo di Président ed équipe verso una

concezione centralizzatrice della governance, non è altrettanto conseguente la

traduzione delle intenzioni in azioni coerenti: i Consigli di Amministrazione

dell’Université di Rennes 2 e dell’URCA di Reims sono lenti e pletorici, ed il peso

politico della forte presenza sindacale è una delle ragioni di tale lentezza. Nel primo

caso in particolare il CA soffre e, per così dire, fa soffrire, nel senso che costituisce

un freno alle scelte, anche se poi arriva sia pure lentamente a convergere con la linea

33

presidenziale; nel secondo invece risulta decisamente smarcato dall’équipe del

Président ed appare più debole nel resistere alle indicazioni presidenziali. Solo presso

l’Université de Technologie di Compiègne il CA è un facile alleato del Président, ma

allo stesso tempo funge per lo più da vero organo di garanzia e sorveglianza,

efficiente e corretto: l’UTC di Compiègne è di fatto l’unica delle tre università

visitate in cui non si è sentito definire il Consiglio d’Amministrazione una sorta di

“registratore di cassa”, espressione invece utilizzata diverse volte dagli intervistati

delle altre due università, con una chiara connotazione naturalmente negativa.

E nei tre casi si sono presentati tre diversi Président con diverse strategie variamente

orientate in senso consensuale o manageriale o democratico. Ne deriva una

governance che risente molto nettamente della personalità del Président.

Particolarmente interessante appare, in questa prospettiva, il caso della Germania ove

sembra prendere piede il modello dell’università-impresa con rafforzamento delle

funzioni di leadership dei rettori a detrimento degli organi collegiali, al fine di

rendere più rapidi i processi decisionali. Questo  modello  trae  legittimazione, 

innanzitutto,  dalla  constatazione  delle  inefficienze  e  delle  inadeguatezze  del 

modello tradizionale di governance [Kehm, Lanzerdorf 2006]. Anche per questo, 

benché  le  sue  radici  ideologiche  non  siano  certo  ambigue  agli  occhi  del  corpo 

accademico,  questo  modello  trova  crescenti  consensi  “bipartisan”  dentro  le 

università tedesche e viene promosso da governi federali e statali di vario colore 

politico, seppure con accentuazioni diverse.  

Insomma,  la  legittimazione  di  una  leadership  forte  e  della  concorrenza  come 

meccanismo  regolatore  valido  e  utile  anche  al  di  là  della  sfera  strettamente 

economica, non è più patrimonio esclusivo di una sola parte politica. 

Al rettore (che tende sovente ad essere chiamato “presidente”) si affianca una sorta di

giunta esecutiva di ateneo (comprendente rettore, pro-rettori e cancelliere). Il suo

potere è favorito da iniziative esterne come l’Exzellenzinitiative che , un po’ come i

piani quadriennali francesi, costringe alla elaborazione di programmi pluriennali di

ateneo che comprendono scelte di priorità interne. Inoltre, va tenuta presente l’

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emergente cultura della valutazione e soprattutto della classificazione (il rating e il

ranking) delle università.

La competizione tra gli atenei che ne consegue giustifica una leadership forte, in

grado di rappresentare gli interessi dell’istituzione nei confronti del mondo politico

ed economico. Il caso dell’università di Heidelberg (in una prima tornata rimasta

fuori dalla lista di atenei considerati nella Exzellenzeinitiative per responsabilità

attribuita al rettore e al suo staff) conferma l’incidenza di questi elementi esterni. In

Germania peraltro il rettore ha voce diretta nel reclutamento dei docenti e, con

l’avallo del Senato, fissa regole e criteri per la ripartizione delle risorse alle Facoltà.

Nessuna iniziativa analoga è invece presente ( né appare programmata) nei casi

italiano e spagnolo. In Italia, infatti non si possono paragonare i piani triennali che le

università sono tenute a presentare al ministero dell’Istruzione, l’Università e la

Ricerca Scientifica ai piani quadriennali francesi (né sul piano della concertazione col

ministero né su quello della verifica delle realizzazioni effettive), mentre la ricerca

dell’eccellenza non assume le forme di un piano nazionale ma si identifica con alcune

poche (non raggiungono la decina) istituzioni di riconosciuto prestigio.

2 – Professione Rettore ?

In alcuni sistemi d’istruzione superiore sembra emergere altresì una tendenza alla

creazione (informale) di una carriera politica accademica  E’ il caso della Germania 

dove i Rettori sono persone che quasi sempre sono approdate all’incarico dopo 

una  lunga  attività  di  politica  universitaria.  Molto  spesso  tale  incarico  è  stato 

preceduto da altri ruoli: Preside di Facoltà, membro del Senato accademico, Pro‐

Rettore. Evidentemente, si tratta di docenti interessati a questo tipo di percorso. 

Senza contare che  la posizione di Rettore è d’indubbio prestigio (quanto meno 

negli  Atenei  che  godono  di  buona  reputazione),  trova  apprezzabili 

riconoscimenti economici e può aprire l’accesso ai network politici nazionali ed 

europei. Al termine del suo mandato, il Rettore può tranquillamente decidere di 

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non  tornare  a  fare  il  professore,  viste  le  buone  opportunità  di  ottenere  altri 

incarichi direttivi e di prestigio  fuori dall’Ateneo (es. nei diversi enti  federali e 

statali  che  si  occupano  d’istruzione  superiore,  negli  Universitätsrat  di  altre 

università, ecc.). 

Si vede bene, dunque,  come  il  rafforzamento delle prerogative del Rettore e  la 

creazione  di  un  percorso  di  carriera  professionale  costituiscano  tendenze 

emergenti che si rafforzano a vicenda. 

 Il fenomeno è recente ma sembra diffondersi e trova un riferimento in una analoga

tendenza registrata in Gran Bretagna. Anche qui infatti i Vice-Chancellor vengono da

esperienze di ruoli di governo per lo più occupati in altre università. Così alla

Coventry University la Vice-Chancellor è stata prima Pro-Vice-Cancellor e Dean in

una università diversa; alla University of Warwick il Vice-Chancellor era Pro-Vice-

Chancellor alla Oxford University, quello che lo aveva preceduto era stato Vice-

Chancellor all’University of Bath. Il Vice-Chancellor della University of Bristol è

stato direttore di dipartimento e Dean di facoltà in una differente università. La

possibilità di reclutare da altro ateneo i Vice-Chancellor - che vengono nominati e

non eletti - favorisce naturalmente il formarsi di questo tipo di carriera, ma la

crescente necessità di competenze gestionali spinge nella stessa direzione anche altri

sistemi d’istruzione superiore.

Del resto, si sono visti casi analoghi anche in Italia limitatamente nelle università

private, dove i rettori sono eletti con modalità ristrette o nominati da gruppi di

“garanti”. E sempre più si avverte la necessità di formare con corsi ad hoc il

personale che assume ruoli di responsabilità gestionale: alla Coventry University, ad

esempio, sono ormai consolidati i corsi di aggiornamento per i direttori di

dipartimento.

Non risultano invece evidenze relative alla nascita di autonome e separate carriere

politiche accademiche in Spagna, Italia e Francia. Resta comunque sempre vero che

solo una specifica minoranza di accademici, forniti per lo più di esperienza come

presidi di facoltà o direttori di dipartimento o, meglio, pro-rettori, accedono alla

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massima carica istituzionale. Al riguardo si può affermare che in tutti e tre questi

paesi, con l’estensione della domanda sociale di servizi universitari, con l’aumento di

vincoli finanziari e col moltiplicarsi delle attività di valutazione e con la conseguente

crescita della competitività fra atenei, si manifesta uno iato palese fra il ruolo sempre

più manageriale richiesto dalla “professione” di rettore e le competenze acquisite nel

corso della carriera accademica. Quale sia la soluzione che si prospetta per colmare

tale iato non è ancora dato vedere, anche se i provvedimenti di riforma della

governance universitaria, in discussione o appena approvati nei tre paesi, sembrano

comunque indicare una consapevolezza dell’esigenza di rimodellare la figura del

rettore secondo contorni di natura più decisamente manageriale.

Bibliografia

Kehm,B.M., Lanzendorf, U. (eds.) 2006 Reforming University Governance. Changing Conditions for research in Four European Countries, Bonn,Lemmens

Mora, J.G (2003) “La mejora de la eficacia de la ensenanza superior en el nuevo

contexto europeo”, Papeles de Economia espanola, 95

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38

DINAMICHE INTERNE E RAPPORTI COL MONDO ESTERNO DELLA

GOVERNANCE MODERNA (Fabio Di Pietro)

1 - L’organizzazione dei rapporti centro-periferia nelle istituzioni universitarie

Appare ben comprensibile come le responsabilità di governo di una università

autonoma che viene spinta ad accettare regole di mercato, con in particolare la

crescente competizione tra atenei per la conquista di risorse aggiuntive a quelle

“governative”, siano ovunque avvertite come cruciali e agiscano per un

miglioramento del grado di efficienza dei processi decisionali. Per le stesse ragioni si

richiede una strategia dell’ateneo nei riguardi del mondo esterno secondo un

programma fatto di relazioni con partner di varia natura e di piani di sviluppo

pluriennale. Appare chiara la necessità di un sistema di governance adeguato a tali

compiti. Ad un tempo, le articolazioni tradizionali delle istituzioni universitarie in

aree scientifico-disciplinari, con logiche e procedure differenti, assieme alle tradizioni

di procedimenti democratici e tendenzialmente egualitari, rendono problematica ogni

forma di governance che si ispiri, anche alla lontana, alle prassi aziendali e ai sistemi

manageriali. Le soluzioni che nei diversi atenei vengono sperimentate per

contemperare le diverse esigenze, al fine di ottenere risultati positivi senza

raggiungere livelli troppo accesi di conflittualità, sono abbastanza simili in contesti

tra loro diversi. Da un lato il rettore/presidente viene affiancato da un comitato di

direzione o bureau del Président (in Francia), da una Junta de Gobierno ed equipo

rectoral (Spagna) o Praesidium che in Germania è costituito da pochi membri (pro-

rettori; direttore generale/amministrativo) e che si riunisce di frequente al fine di

mettere a punto la politica dell’ateneo e seguirne la realizzazione.

In Francia il bureau del Président costituisce il gruppo, l’équipe di direzione, intorno

al quale si va costituendo un vero e proprio organo intermedio tra potere esecutivo e

legislativo, quasi strutture “ buffer” tra presidente e consigli centrali. Nell’Université

di Rennes 2, dopo la sua elezione, il Président ha proposto al CA un bureau composto

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da 3 Vice-Président generali e 5 Vice-Président incaricati di specifiche aree di

pertinenza quali ad esempio relazioni internazionali, risorse tecnologiche ed altre, a

cui si aggiungono il Vice-Président degli studenti, 4 incaricati di missione, il

segretario generale, il capo dei servizi contabili ed il capo del gabinetto e

responsabile di presidenza.

Un caso a parte è invece quello delle Università tecnologiche come l’UTC di

Compiègne, in cui il Président, che qui si chiama Directeur, presiede un comitato di

direzione (direttorio) composto da direttori di dipartimento (detti operazionali) e dai

cosiddetti direttori funzionali. Questi ultimi hanno un ruolo strategico e solo in parte

comparabile con quello assunto dai Vice-Président nel bureau di presidenza di altre

università, in cui essi costituiscono di frequente il nucleo più ristretto dello staff

presidenziale. I direttori funzionali sono tutti “contrattuali”, vale a dire soggetti

reclutati direttamente dal Directeur dell’Università, secondo specifica procedura, a

differenza del restante personale accademico, reclutato secondo la procedura

nazionale di norma. In questo modo i direttori funzionali diventano a tutti gli effetti

uomini di fiducia del Directeur, più interessati ad una carriera manageriale che

accademica tradizionale.

Quanto all’Inghilterra, un buon esempio è rappresentato dall’University of Warwick

dove il “Senate Steering Committee” è costituito dal Vice-Chancellor, il Deputy-

Vice-Chancellor, i cinque Pro-Vice-Chancellor, i presidi dei quattro consigli di

facoltà, il preside della Graduate School e il presidente della Student Union. Il

Committee si riunisce ogni lunedì con la partecipazione anche del Registrar (Direttore

amministrativo) ed è di fatto l’organo che prende le decisioni (e le propone agli

organismi collegiali), ma che anche segue la realizzazione delle decisioni prese,

dunque l’insieme della vita dell’ateneo.

Ma naturalmente la governance non si esaurisce a questo livello. Infatti, il livello di

base si articola nelle diverse aree scientifiche e dunque nelle facoltà e dipartimenti

che fanno capo alle sedi di presentazione delle diverse istanze, in primo luogo il

Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione.

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La logica complessiva è non infrequentemente caratterizzata da una fitta rete di

consultazioni e raccolta di opinioni prima di arrivare (o meglio, di ritornare) al

livello centrale più alto che prende la decisione finale e procede alla realizzazione

dell’iniziativa decisa.

Allo stesso modo funzionano le facoltà ed è questa una delle ragioni per cui i deans

hanno acquistato un ruolo maggiore e più grandi responsabilità. Oggi il potere dei

deans è cresciuto perché le facoltà sono diventate più importanti ed è a questo livello

che si provvede ad esempio a bilanciare le esigenze e l’andamento dei dipartimenti

che fanno capo alle diverse facoltà. Fra gli aspetti di novità c’è anche uno sforzo a

livello centrale di rispettare le diverse strategie dei deans nella gestione delle facoltà

ma altresì di metterli in contatto fra loro allo scopo di rinforzare lo spirito di

appartenenza all’università

Anche nel caso della Spagna il rettore può contare su un proprio gruppo di fiduciari:

esistono così una equipo rectoral, formata da un certo numero di prorettori scelti dal

rettore per compiti specifici, ed un Secretario General, a sua volta nominato dal

rettore, che insieme ai prorettori ed al Gerente ( nominato dal governo) formano la

Junta de Gobierno. Anche in questo caso appare chiara una spinta al prevalere del

governo centrale del rettore rispetto agli organi rappresentativi ed in particolare al

Consejo de Gobierno, specie nelle università generaliste. Ma questo aspetto di

centralismo interno si sviluppa, sempre nel caso delle università generaliste, anche e

soprattutto nel rapporto fra organi centrali e periferici degli atenei. Ciascuna struttura

didattica o di ricerca replica a livello periferico gli organismi presenti a livello

centrale, con un decano o direttore eletto, con elezione diretta o da parte di una Junta,

a sua volta eletta (fa eccezione soltanto il caso degli istituti nella Politecnica di

Valencia, il cui responsabile è nominato dal rettore). Quello che si evidenzia è un uso

di tipo egualitaristico da parte del gruppo rettorale del trattamento ( in termini di

risorse e di rappresentanza negli organi centrali) riservato a strutture didattiche o di

ricerca di peso diverso e tra dipartimenti e strutture didattiche: si tratta palesemente di

una pratica, più forte, diffusa e palese nelle università generaliste, che di fatto appare

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strumentale ad un disegno di centralismo consensuale volto ad accentuare il potere

del gruppo dirigente a scapito delle decisioni collegiali, pur mantenendo un certo

livello di consultazione di tutte le istanze periferiche. Mettendo tutte le strutture

periferiche della didattica e della ricerca sullo stesso piano, si svuota di fatto il ruolo

delle articolazioni più attive e portatrici di identità più consolidate, che avrebbero

maggiori ragioni per chiedere di condividere le scelte strategiche. Tuttavia occorre

sottolineare che questa modalità produce spesso situazioni di rallentamento, quando

non di stallo e che finisce per disperdere quella nettezza e quella rapidità che sono

tratti essenziali dell’efficacia della presa delle decisioni. Nella Politecnica de

Valencia, invece, questo carattere di centralismo consensuale è ben più limitato,

poiché confligge con strutture molto forti e tendenzialmente autonome (con propri

rapporti- anche finanziari- con il tessuto produttivo ed istituzionale esterno) che sono

bensì consapevoli della propria forza, ma al tempo stesso persuase della necessità di

un governo efficace e non paralizzato da veti incrociati prodotti da egoismi

disciplinari o di facoltà.

In generale, le strutture didattiche delle università spagnole ( scuole e facoltà)

faticano ad avere un peso nei confronti del rettorato ed il processo decisionale è di

tipo top-down, salvo nei casi in cui abbiano un’identità forte ed un altrettanto forte

“mercato” nella formazione ed eventualmente nella vendita di servizi tecnologici: è

quest’ultimo il caso della Politecnica de Valencia. Nel caso dei dipartimenti, si assiste

ad un loro evidente ridimensionamento e si verifica operante, anche nelle tre

università considerate, la previsione della LOU del 2001 che ha teso a svuotarne

progressivamente il ruolo. Particolarmente chiaro appare questo aspetto nella

università tecnica, ove si osserva una moltiplicazione degli istituti o centros, (nuove

strutture di aggregazione dei ricercatori, con una accentuata apertura verso l’esterno,

il cui direttore, secondo lo statuto dell’università, viene nominato dal rettore e non –

come nelle altre università esaminate- eletto dai docenti) e dei gruppi di ricerca in

seno ai dipartimenti, che ne portano a compimento l’effettivo e profondo

ridimensionamento funzionale.

42

Nelle due università generaliste spagnole i gruppi appaiono avere il medesimo

effetto, ma la creazione di istituti di ricerca è molto più limitato e per conseguenza

più ambiguo e contraddittorio risulta, infine, lo svuotamento di attribuzioni dei

dipartimenti. In conclusione, pur con importanti differenze fra università generaliste

ed università tecnica, le strutture di ricerca e di servizio di tutti e tre gli atenei

spagnoli considerati sembrano godere di una relativa maggiore autonomia, che nel

caso della Politecnica di Valencia assume persino i contorni di un’impresa autonoma:

in questi casi, appare piuttosto chiaro che il processo decisionale è spesso dal basso

verso l’alto.

Una situazione per alcuni versi simile si registra anche in Italia, ove si ritrova una

dialettica centro-periferia all’interno degli atenei analizzati che, per le università

generaliste, appare largamente improntata ad aspetti di centralismo, a volte anche di

tipo consensuale, come ad esempio nel caso dell’ateneo di Roma 3, che propone

l’immagine di un ateneo guidato “con mano forte” nella sua dialettica interna, che

resta comunque ampia e tocca tutte le istanze che compongono l’università, in modo

che non si arrivi a contrapposizioni laceranti e ad irrigidimenti definitivi. E questo sia

per l’attento lavoro preparatorio che viene effettuato, sia anche per la specifica

tecnica di direzione dell’assemblea negli organi collegiali. Così il rettore, che peraltro

può contare su un tasso di consenso molto elevato (che si basa sull’attenta cura

dell’informazione offerta), esercita il più delle volte una forza propositiva trainante.

E’ invece diverso il caso del Politecnico di Torino, ove le grandi scelte strategiche

sono decise dal rettore ( e dal suo gruppo, che gode di amplissima autonomia sugli

specifici terreni delegati) solo dopo un’attenta informazione ed una consultazione

puntuale delle istanze di maggior peso a livello periferico, mentre queste ultime, che

godono a loro volta di ampia autonomia, tendono ad avere un alto livello di

identificazione con l’istituzione e a far prevalere un atteggiamento universalistico.

Elevata, e forse comparabile al caso spagnolo, appare dunque nel Politecnico di

Torino il livello di autonomia delle diverse strutture ( centri, parchi scientifici ecc.)

che hanno per missione il rapporto con il mondo esterno, il trasferimento delle

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tecnologie ed il passaggio dalla innovazione alla ingegnerizzazione: anche in questo

caso a prevalere è una logica di impresa e, da parte del rettore e del suo gruppo,

appare estremamente limitato, se non nullo, il livello di interferenza sulle scelte.

Nell’Università di Padova sembra svilupparsi una situazione intermedia: lo Statuto

approvato di recente ha creato la ”Consulta dei direttori dei dottorati di ricerca”e la

“Consulta dei direttori delle scuole di Specializzazione di Area Medica” che si

aggiungono alle “Commissioni Scientifiche di Area”, la”Commissione Scientifica di

Ateneo”, la “Commissione -Didattica di Ateneo” e il Consiglio degli studenti”,entità

già contenute nello statuto precedente. Emerge dunque la tendenza a moltiplicare le

strutture collegiali destinate alla aggregazione degli interessi settoriali e alla

traduzione ai livelli maggiori delle istanze di base.

D’altro canto, lo Statuto dell’Ateneo sottolinea l’autonomia gestionale delle Facoltà

[taglio]e dei Dipartimenti. Particolarmente significativa appare l’attribuzione

statutaria al Dipartimento del compito di concorrere all’organizzazione delle attività

di insegnamento dell’Ateneo e di avanzare proposte alle Facoltà circa l’istituzione,

destinazione e modalità di copertura dei posti di professore e ricercatore e, altresì, di

organizzare Corsi di formazione e aggiornamento del personale tecnico-

amministrativo.

Nel caso patavino, si può dunque sostenere che tra le intenzioni del rettore e dei suoi

più stretti collaboratori ci sia stata quella di decentrare il più possibile l’apparato

centrale sia dal punto di vista amministrativo sia per quello che riguarda i centri

decisionali. Questo ha comportato un proliferazione di centri decisionali o di

consultazione: ad esempio prima di ogni riunione del Senato si riuniscono il collegio

dei presidi e la consulta dei direttori di dipartimento; e tuttavia sembra evidente

l’intenzione di coinvolgere nel processo di presa delle decisioni il maggior numero

possibile dei diretti interessati. Ci si può peraltro domandare se all’interno di questo

sistema di delega diffusa le decisioni siano davvero sempre compartecipate.

In diversi contesti la tendenza a fornire occasioni di rappresentazione delle proprie

esigenze produce un allargamento del numero dei membri dei Senati Accademici o

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comunque degli organismi di rappresentanza delle diverse componenti scientifico

disciplinari. Specialmente nelle università generaliste si evidenzia la necessità di

suddividere i lavori in commissioni. A ciò si aggiungono organismi di consultazione

che – come si è appena visto nel caso dell’Università di Padova - mirano a coordinare

di presidi di facoltà e i direttori di dipartimento nel tentativo di omogeneizzare le loro

strategie operative e conseguentemente le richieste nei riguardi degli organismi

centrali di ateneo.

Ne risulta quindi un ruolo cruciale dei presidi di facoltà e dei direttori di

dipartimento: ruolo soggetto a diverse pressioni. Da un lato, le esigenze di

governance e di espressione di una politica di ateneo tendono a limitarne l’impatto

nei momenti finali del processo decisionale. Dall’altro, i rettori hanno sovente

bisogno di avere nei presidi dei sostenitori delle loro politiche.

In Germania i presidi sembrano conoscere un rafforzamento piuttosto modesto 

delle  loro  prerogative.  Sono  chiamati  a  prendere  più  iniziative  rispetto  al 

passato, ad esempio quelle di promozione esterna della facoltà o di negoziazione 

con i Rettori. Non hanno, però, praticamente alcuna leva per far valere i propri 

indirizzi, per imporre una strategia ai colleghi, soprattutto perché i loro margini 

di controllo sulle risorse umane e organizzative di facoltà sono scarsissimi. Non 

hanno  il  bastone  per  piegare  i  colleghi  alle  proprie  decisioni,  ma  neppure  le 

carote per convincerli con le buone. Rimane loro, quindi, un ruolo di mediazione. 

Se  alcuni  Presidi  “di  buona  volontà”  si  avvalgono  delle  crescenti  possibilità 

d’iniziativa che spettano loro e si adoperano per costruire questo consenso, ma 

la gran parte si limita all’ordinaria amministrazione, cercando di perdere meno 

tempo possibile.

Non  stupisce  quindi  che  nella  stessa situazione tedesca il ruolo non sia molto

ambito, prevalentemente per la difficoltà di esercitarlo a fronte delle pressioni

provenienti dai colleghi rappresentati e della indipendenza acquisita dai dipartimenti.

Questi ultimi, dal canto loro, godono ovunque della rilevanza crescente della ricerca

all’interno dell’università. Ne deriva una maggiore autonomia dei dipartimenti ma

45

anche, in alcuni casi, la loro difficoltà interna a coordinare i diversi gruppi di ricerca

che tendono a loro volta ad autonomizzarsi.

Nel complesso la posizione del middle management appare contraddittoria e in fase

di revisione dei propri ruoli. Collocato in posizione intermedia tra corpo docente e

direzione dell’ateneo deve associarsi a quest’ultima nelle politiche complessive e

deve altresì farsi tramite e difendere le richieste del proprio settore, ma ad un tempo

giustificare ai propri rappresentati le decisioni non sempre favorevoli assunte dal

vertice.

Problema ben evidenziato in Francia, soprattutto nei due atenei generalisti (Rennes 2

e URCA di Reims), dove la forza del middle management è molto correlata alla

capacità dei soggetti di staccarsi, almeno relativamente, da logiche prettamente di

facoltà e dal peso, per la verità sempre meno efficace in diversi contesti, di alcuni

potenti decani (mandarinati), per abbracciare la visione complessiva dell’ateneo. Ma

il ruolo dei presidi di facoltà (i cosiddetti direttori di UFR – Unité de Formation et

Recherche) in questa dinamica è ambiguo: essi partecipano alle riunioni del bureau,

ma come invitati e non come membri formali.

Presso l’Université di Reims Champagne-Ardenne, pluridisciplinare ed estesa al

livello regionale, è interessante notare come, a fronte di una situazione di resistenza

soprattutto da parte delle facoltà scientifiche, e di una relazione negoziale permanente

del middle management (direttori di facoltà) con la presidenza, si è realizzata una

linea presidenzialista, che ha razionalizzato la ricerca intorno a 5 poli ed allo stesso

tempo ha costituito la figura del responsabile di polo, espressione di un middle

management sui generis. In sostanza, la politica di ricerca, definita dal Consiglio

Scientifico, è messa in opera, sotto l’autorità del Président, dai Vice-Président, che

s’appoggiano a loro volta su 5 responsabili, incaricati di missione dal Président con la

funzione di rappresentare i grandi poli tematici intorno ai quali si articola l’attività di

ricerca. Il sistema dei poli risulta così assolutamente centrale nella governance di

questa università, al fine di garantire un controllo ed uno sviluppo strategico della

ricerca che rispondano ad un disegno complessivo d’ateneo piuttosto che a logiche ed

46

interessi eccessivamente legati alle UFR. Da qui una posizione oggettivamente

scomoda dei responsabili dei poli, tra politica centrale e presidenziale da una parte e

dall’altra singole unità di ricerca che tentano di scavalcare i passaggi gerarchici e di

gestire autonomamente i rapporti con i soggetti esterni.

In Spagna il middle management si conferma sostanzialmente espressione della

propria base elettiva: in tutte le università prese in esame non appare verificata

l’ipotesi di una crescita del ruolo manageriale e di un distacco tendenziale dalla

propria base accademica. In media, decani e direttori appaiono scarsamente dotati di

capacità gestionali e nei casi in cui questo avviene appare piuttosto il risultato di una

cultura della struttura e di una pressione dal basso che non l’effetto di una richiesta

dal centro rettorale. Del resto, nonostante il centro rettorale faccia formalmente

mostra di tenere in gran conto il loro parere, in realtà il loro peso nelle scelte

strategiche dell’ateneo è ben modesto. Tutti i casi analizzati sembrano confermare un

forte attaccamento del decano o direttore alla propria base accademica di facoltà,

escuela, istituto o dipartimento, le diversità semmai articolandosi a partire dalla

identità e dalla dimensione della struttura di riferimento: quando l’identità è forte e la

rilevanza, in termini di ricerca o formazione o servizi, è cospicua, il direttore o

decano tende sostanzialmente ad ignorare il centro rettorale; quando la struttura è

debole, sembra piuttosto che il decano o direttore finisca per essere ignorato dal

centro di governo rettorale.

Per contro, nelle università italiane il ripensamento circa i ruoli del middle

management tarda a svilupparsi dal momento che il tema della governance resta

legato alla dialettica rettore-senato accademico-consiglio di amministrazione. E’ pur

vero che il senato non è più costituito dai soli presidi di facoltà ma resta che al rettore

compete ancora largamente il ruolo di mediatore tra gli interessi disciplinari

rapresentati dalle facoltà (e in misura minore dai dipartimenti). Le ipotesi di riforma

in discussione prevedono un aumento dei poteri di iniziativa e decisionali, con

l’accrescimento parallelo dei poteri del direttore amministrativo (o direttore generale)

ma del ruolo dei presidi di facoltà e dei direttori di dipartimento non si parla

47

esplicitamente, il nodo cruciale essendo piuttosto quello della presenza o meno dei

membri “laici”nei consigli di amministrazione.

2 - Gli organi collegiali e il rapporto con gli stakeholders

Nel processo di trasformazione della governance universitaria un elemento di

profonda criticità risiede nel ruolo assunto in alcuni casi dai membri laici nel CdA o

in altre strutture gestionali di nuova creazione.

Il modello di riferimento in questi casi è quello inglese, dove gli organi di

consulenza, indirizzo e sostegno esterno sono cruciali per la governance delle

università. Così il Council (a maggioranza “laica”) dell’University of Warwick ha

specifiche responsabilità nel campo finanziario, oltre a rappresentare l’università sul

piano legale e a valutarne i programmi strategici, a nominare il Vice-Chancellor (ed

eventualmente revocarlo), a nominare il Registrar e garantire il corretto

funzionamento delle iniziative dell’ateneo, ma altresì a fornire indirettamente un

canale di collegamento ad alto livello tra Università e mondo economico (locale,

nazionale e internazionale) grazie alle cariche sociali occupate dai suoi membri.

Analoghe considerazioni si possono fare per il Board of Governors della Coventry

University (almeno la metà dei suoi membri devono essere non-accademici), e per il

Council dell’University of Bristol (composto da 26 membri di cui solo 6 accademici).

In Spagna sono le Comunità autonome a regolare la composizione del Consejo Social

(che ha compiti di supervisione strategica in materia economico-finanziaria) e il

numero dei suoi membri non-accademici che rappresentano comunque la

maggioranza (34 su 40).

Nel sistema iberico peraltro si può addirittura affermare che negli anni vi sia stato un

progressivo regresso rispetto alla sensibilità anticipatrice espressa riguardo

all’esigenza della presenza di “membri laici” già dalla LRU-Ley de Reforma

Universitaria del 1983 con l’obbligo della istituzione presso ogni ateneo di un

apposito Consejo Social con ampie funzioni consultive e con specifici poteri

48

deliberativi in materia di bilancio. La LOU del 2001 recepisce infatti la diffusa

consapevolezza del mancato funzionamento di questi organi, riducendone largamente

le funzioni e relegandoli ad un ruolo consultivo ed opzionale e la Ley de Reforma

della LRU del 2007 non sembra imboccare in merito una direzione capace di

consentire una rivitalizzazione di queste strutture. Questa paralisi del Consejo Social

si evidenzia in tutte e tre le università spagnole esaminate. Emerge una enorme

difficoltà di presenza e di voice degli stakeholders nelle sedi ufficialmente previste a

tale scopo: il Consejo Social appare un organismo in palese declino e non sono alle

viste nuove strutture cui delegare compiti analoghi di raccordo complessivo fra

università e società. Ma qui si evidenzia ancora una volta una forte differenza fra le

due università generaliste e l’università tecnica: quest’ ultima ha creato una varietà di

istituti, centri, parchi tecnologici e strutture che, pur avendo ciascuna un compito

definito e non paragonabile a quello complessivo che si prevedeva originariamente

per il CS nella LRU, sommate tutte assieme sembrano perfettamente in grado di

rendere vivo ed operante il dialogo con la società. Anzi, si può affermare che nell’

università tecnica il Consejo Social non funziona perché in definitiva non ce ne è

bisogno, non serve una struttura come questa per rispondere alle domande della

società. Diverso è il caso delle università generaliste, ove il declino -o, sarebbe

meglio dire, il mancato decollo- del Consejo Social non trova che sostituti parziali e

temporanei. Così, anche il dialogo università – società risulta essere, a sua volta,

parziale e temporaneo e, più in generale, molto frammentato e dunque i rischi di

separatezza fra domanda ed offerta di alta formazione, come fra ricerca e servizi,

sono assai elevati e non trovano soluzione, allo stato, in strutture interne agli atenei.

Nelle due università generaliste una funzione parzialmente vicaria del Consejo Social

viene svolta dalle Fondazioni, che operano come strutture laterali degli atenei per

intrattenere rapporti col mercato in condizioni meno vincolate di quelle concesse dal

regime giuridico cui sono sottoposte le università (le legge della Comunitat

Valenciana impedisce la creazione di fondazioni, ma la PV ha trovato, come detto,

ben altre e più efficaci soluzioni nella costruzione di una vasta rete di istituti e centri):

49

tuttavia, quanto emerge dall’indagine di campo sembra mettere in evidenza di queste

strutture più il ruolo di strumento per l’elusione delle rigide norme pubblicistiche che

vincolano le università che non quello di facilitare i rapporti con l’esterno.

Nel sistema francese la nuova legge riduce il numero complessivo dei membri del CA

ed aumenta l’incidenza percentuale dei membri laici rispetto alla rappresentanza

interna: il consiglio d’amministrazione passa da un numero che oscillava da 30 a 60

membri (ma per lo più attestato su quest’ultimo valore) a un numero che va dai 20 ad

un massimo di 30 componenti; inoltre accresce i propri poteri: può creare

direttamente UFR, definire principi generali di ripartizione dei compiti di servizio del

personale e proporre nomine dopo avviso del comitato di selezione.

Tuttavia, il ruolo delle personalità esterne, almeno nella fase precedente alle

trasformazioni del CA apportate della nuova legge, sembra ben poco rilevante sia

nell’Université di Rennes 2 che presso l’URCA di Reims: si tratta di una funzione

piuttosto limitata e poco determinante, anche perché scarsamente esercitata, sia per la

frequente diserzione alle riunioni dei consigli, sia per la qualità, spesso dubbia, degli

eventuali interventi. Ben diversa invece la situazione all’UTC di Compiègne: i

membri laici sono personalità esterne autorevoli e molto presenti, peraltro decisive

nella governance dell’università nella sede del CA, che è per l’appunto presieduto da

una di esse (viene dai vertici della casa automobilistica Renault) e non dal Directeur /

Presidente.

Per contro, il modello inglese non trova, al momento, particolari consensi soprattutto

in Germania e in Italia. Nei due sistemi le resistenze alla partecipazione dei

rappresentanti della società alla vita e ai processi decisionali dell’università si

conferma molto solida al di là degli aspetti formali.

In Germania gli Universitätsrat non sembrano aver dato un buon risultato. Questo

organo, introdotto dai Länder allo scopo di controllare l’operato dei rettori e dei

cancellieri e composto da membri sia accademici che esterni nelle tre università

analizzate (ma teoricamente anche da soli membri “laici”), non ha nei fatti funzionato

con efficacia, vuoi per lo scarso interesse a parteciparvi dimostrato dai membri

50

esterni, sovente peraltro non dotati della necessarie competenze per svolgere un ruolo

effettivo di controllo, vuoi per il meccanismo di nomina degli stessi che è messo in

atto dal rettore, cioè da chi dovrebbe essere controllato. A ciò va aggiunta la

resistenza di tipo culturale assai diffusa nel mondo accademico tedesco nei riguardi

dei membri laici, ritenuti non in grado di comprendere le logiche accademiche.

Solo  ad  Heidelberg  il  precedente  Universitätsrat,  presieduto  da  un 

intraprendente  imprenditore,  aveva  realmente  tentato di  “cambiare  le  cose”,  e 

dunque  di  incidere  davvero  sulla  gestione  dell’Ateneo.  Questo  aveva  prodotto 

momenti  di  forte  tensione,  specialmente  da  parte  del  Senato.  Anche  in  altri 

Atenei  tedeschi,  secondo  alcuni  intervistati,  gli  scontri  col  Senato  non  sono 

mancati, sino a giungere talora alla paralisi decisionale (è il caso di un’università 

dove  l’Universitätsrat  pretendeva  di  avere  l’ultima  parola  sulla  nomina  del 

Rettore successivo, prerogativa non riconosciutagli dal Senato accademico). Ad 

Heidelberg,  quando  il  mandato  del  precedente,  combattivo  Rat  è  scaduto,  il 

Rettore  ha  optato  per  nomine  più  avvedute,  scegliendo  membri  esterni  più 

accomodanti: la situazione è rapidamente cambiata, le tensioni sono diminuite e 

quest’organo  ha  assunto  la  funzione  simbolica  che  riveste  tuttora.  Interrogati 

sulla situazione passata, gli intervistati dei due atenei berlinesi riportano invece 

un  esito  paradossale:  le  capacità  reali  di  controllo  di  quest’organo  erano 

maggiori anni addietro, quando nel vecchio assetto centralistico esso funzionava 

come rappresentante diretto del Land. I suoi membri erano per questo nominati 

direttamente  dal  Ministro  (del  Land)  e  comprendevano  politici,  sindacalisti, 

funzionari  del  Ministero:  persone  competenti  e  decise  a  controllare  a  fondo 

l’operato degli Atenei.

Analogamente nelle università italiane i membri “laici” dei CdA hanno per lo più

rivelato sia lo scarso interesse sia la modesta competenza nei riguardi delle

problematiche universitarie. Anche qui come nelle università tedesche i loro ruoli

sono apparsi per lo più di tipo onorifico. Nella maggior parte dei casi le figure

rappresentative delle istituzioni pubbliche o private invitate a far parte del Consiglio

51

si sono fatte sostituire da propri sottoposti che hanno svolto ruoli di scarsa o nessuna

rilevanza nei processi decisionali di competenza, del resto con generale soddisfazione

da parte dei rappresentanti il mondo accademico. E’ di qualche interesse rilevare

come in alcune situazioni italiane i rettori abbiano pensato di escludere i “laici” dai

CdA e di creare un comitato di consulenza esterno costituito interamente o

prevalentemente da rappresentanti del mondo economico e politico-sociale locale. E’

il caso dell’Università di Padova dove è in via di costituzione una “Consulta del

territorio”. Dal canto suo, l’Università di Roma Tre ha deciso di non inserire membri

laici nel proprio CdA ma di servirsi, caso per caso, di consulenze esterne su temi

specifici, ritenendo inefficace il contributo di stabili membri laici.

Quanto ai membri “laici” nel CdA del Politecnico di Torino, sebbene in alcuni pochi

casi specifici, dove riescono a mettere in gioco competenze particolari, siano

abbastanza attivi, nei restanti casi se ne registra il silenzio o l’assenza. Il CdA si

riunisce una volta ogni mese, mese e mezzo e le commissioni lo precedono, ma con

qualche maggiore intensità ( in media, due commissioni per ogni sessione di CdA).

E’ tuttavia piuttosto raro che vi sia la presenza degli esterni in questi lavori di

commissione e così finisce che, anche quando intervengono nelle discussioni

plenarie, il loro apporto finisca per cadere un po’ nel vuoto, avendo mancato tutto il

lavoro preparatorio delle commissioni. D’altra parte, è logico pensare che, trattandosi

di soggetti prevalentemente impegnati in altri campi – e per di più campi che

richiedono spesso molto lavoro e presenza - non sia semplice richiedere anche una

prestazione intensa nella veste di membri del CdA, con l’effetto che la presenza di

stakeholders esterni nell’organo competente in materia economico-finanziaria appare

alquanto deludente.

52

Articolo D

LIVELLI DI AUTONOMIA E STRUTTURE DI GOVERNO DEGLI ATENEI

(Stefano Boffo)

1 – Tra decisionismo e condivisione

Un interrogativo che, al termine di quanto sin qui analizzato, può essere utile porsi in

termini riassuntivi riguarda la prevalenza di una struttura verticale ovvero orizzontale

di presa della decisione nella articolazione della governance delle università qui

considerate.

Da un lato, il rafforzamento dei ruoli monocratici a scapito degli organi collegiali (del

rettore nei riguardi del Senato, in particolare) appare evidente negli atenei

appartenenti ai diversi sistemi dell’Europa continentale inclusi nella ricerca. Si

diffondono gli organismi di consulenza del rettore sotto forma di giunte esecutive

ispirate al modello inglese e rappresentanti una parte della governance di un ateneo

autonomo che si pone in competizione con altre istituzioni secondo logiche di

mercato. L’evoluzione avviene sia in via formale (nelle università francesi o spagnole

o tedesche) sia in via informale (le italiane). Ma se il riferimento è quello del modello

inglese, alla sua realizzazione manca in tutti questi paesi un ruolo effettivo dei

rappresentanti degli interessi esterni, che non svolgono una reale funzione nel

Consigli di amministrazione.

D’altro canto, la realtà delle pratiche di governo è costituita da una mediazione tra le

logiche di governance manageriale e quelle tradizionali della compartecipazione alle

politiche istituzionali attraverso la moltiplicazione delle occasioni di incontro,

confronto, coordinamento, a livello intermedio e di base che coinvolgono i diversi

attori del mondo accademico e che servono a mettere in comune le esigenze e i

progetti politici delle diverse aree allo scopo di raggiungere una progressiva riduzione

delle differenze interne. Il meccanismo, nelle università dell’Europa continentale, non

sembra ancora funzionare nella forma circolare in atto negli atenei inglesi, dove le

proposte di politica istituzionale, se nascono dalla “cupola”di vertice vengono poi

53

proposte ai livelli inferiori perché vengano esaminate, discusse e rimandate al vertice

che poi decide senza poter essere criticato per eccesso di autoritarismo: un’accusa che

i rettori intendono in particolare evitare. Tuttavia, anche negli atenei continentali il

procedimento di presa delle decisioni con responsabilità finale dei vertici sembra

venire sempre più accettato dal mondo accademico. Per contro, una modalità che

suscita qualche critica riguarda le procedure di raggiungimento delle decisioni

(segnalate diffusamente nelle interviste al personale docente delle diverse università)

che risultano spesso molto informali e dunque tali da ridurre il rilievo effettivo degli

organi collegiali (Senato e CdA), dove sembra ci si limiti frequentemente a ratificare

quanto deciso “nei corridoi”.

Emerge nel complesso una combinazione di elementi di decisionismo di vertice

(verticalizzazione) e di condivisione delle problematiche a livello di base

(orizzontalizzazione). Questi elementi si combinano in proporzioni diverse in

relazione ad alcuni aspetti organizzativi, come l’elezione o la nomina di alcune figure

della governance, ovvero a seconda dell’articolazione delle componenti interne alle

università (numerosità delle aree disciplinari), o ancora in relazione alla prevalenza

delle discipline orientate o meno al mondo esterno e quindi della ricerca applicata,

come è il caso delle università tecniche incontrate nella ricerca.

Il caso spagnolo sembra illustrare questa situazione in un modo peculiare: il rettore ed

il suo gruppo dimostrano di aver acquisito un ruolo di maggior peso rispetto al

passato ed in tal senso si deve presumere che gli effetti del rafforzamento del potere

del rettore voluto dalle due leggi di riforma universitaria promulgate in questa prima

decade del nuovo millennio ( LOU del 2001 ed Ley de Reforma dellaLOU del 2007)

si siano fatti sentire attraverso tendenze, più o meno marcate, al rafforzamento del

ruolo dell’organo monocratico. Un ruolo che si accresce anche attraverso il dialogo

intessuto con il Consejo de Gobierno ( il supremo organo di governo collegiale

dell’università, che dovrebbe stabilirne le linee strategico-programmatiche): organo

che in sé autonomamente non risulta particolarmente attivo, ma viene attivato proprio

dal rapporto con il rettore e la sua équipe, che cercano in questa relazione una fonte di

54

legittimazione ulteriore, di rafforzamento del proprio potere e di facilitazione della

propria azione. In tutte e tre le istituzioni universitarie spagnole analizzate, questo

gruppo centrale sembra muoversi dentro due binari, non contradditori, costituiti dalla

volontà di affermare le proprie volontà e di decidere all’interno di un elevato livello

di ricerca del consenso, secondo le linee di quello che si può definire decisionismo

consensuale. Una buona illustrazione di questo punto è costituita dal Piano strategico

che ogni ateneo ha redatto su impulso del rettore: esso viene infatti costruito con il

contributo di molti settori dell’università, ma anche rispecchiando il programma

elettorale del rettorato: così, esso è uno strumento di captazione del consenso ma, una

volta redatto, è anche una barriera che si frappone al libero e casuale dispiegarsi delle

richieste degli accademici. La strutturazione in commissioni del Consejo de Gobierno

sembra favorire perfettamente un disegno che potremmo definire appunto di

centralismo consensuale. Con essa infatti il rettore può affermare la volontà sua e del

gruppo che si struttura attorno a lui, potendo “cucinare” le questioni più scottanti in

un iter, lungo a piacere, fatto di discussioni nella Junta e successivamente nelle

diverse articolazioni organizzative del Consejo (sempre presiedute dal rettore stesso o

da un membro della sua equipo, così da imporre ordini del giorno, apertura e

aggiornamenti di sedute, ordini degli interventi e così via, indirizzando la

discussione). Talché quest’ultimo si trova a decidere di soluzioni su cui si sono già

abbondantemente espresse ( per lo più,come detto, risultando “pilotate” dal rettore e

dal suo gruppo) diverse istanze e che risulta difficile smentire.

2. – Il governo delle università tecniche

Un caso di particolare interesse è quello delle università tecniche. Infatti i processi

decisionali della Technische Universität Berlin, dell’Université de Compiègne, come

della Universitad Politecnica di Valencia o del Politecnico di Torino sono apparsi

maggiormente efficienti e “operativi” delle consorelle università nei rispettivi sistemi

d’istruzione superiore. Si può anzi affermare che l’indagine di campo sembra far

emergere alcune caratteristiche che convergono nel delineare, se non un modello di

55

governance omogeneo e specifico delle università tecniche, quanto meno molti forti

elementi di similitudine che concorrono a caratterizzare una specifica tipologia di

governance se non altro per differenza rispetto alle università generaliste. Il primo

elemento attiene alla diversa – e ben più profonda- identità istituzionale diffusa fra gli

accademici delle università tecniche, che esprimono una propensione assai maggiore,

rispetto ai colleghi delle generaliste, ad identificarsi con la propria istituzione

universitaria piuttosto che disperdersi nei recinti disciplinari di appartenenza. Un

secondo elemento ha natura, per così dire, oggettiva e si riferisce alla composizione

del budget di un’università tecnica, che nei casi esaminati risulta dipendere molto

meno, rispetto a quello di un ateneo generalista, dalla contribuzione statale o

regionale. E’ chiaro come questo tipo di composizione del budget consenta molta più

agilità di movimento ed autonomia in relazione alle tendenze centralistiche dei

ministeri.

Al medesimo tempo, questa ridotta dipendenza dalla contribuzione pubblica

testimonia anche dell’esistenza di una trama di relazioni con i soggetti esterni (gli

stakeholders appartenenti al tessuto produttivo ed istituzionale) ben più fitta di quanto

non avvenga nelle università generaliste. In tal modo, anche quando non vi siano

formali presenze di questi ultimi dentro agli organismi di governance dell’ateneo,

viene garantito, in forme più elastiche e certamente più attive, un rapporto costante

con la domanda esterna che mette l’ateneo al riparo dai rischi di ridursi ad una “torre

d’avorio”, come invece accade, almeno in parte, fra le università generaliste. Non è

dunque per un caso che poi questi atenei tecnici si dimostrino capaci di produrre una

larga varietà di strutture in qualche modo coinvolte nei rapporti col mondo esterno e

gestite per lo più in fortissima autonomia rispetto alla stessa governance centrale

dell’istituzione, tanto da assumere spesso i caratteri di una impresa autonoma: istituti,

fondazioni, parchi scientifici, strutture di spin-off, centri di trasferimento tecnologico,

organismi di seed e venture capital. E, assieme a ciò, in tutte le università tecniche si

evidenzia anche una significativa autonomia delle strutture periferiche ( facoltà,

dipartimenti, istituti), più accentuata nel caso della ricerca, ma comunque chiara

56

anche per le strutture didattiche: in ambedue i casi, queste strutture hanno comunque

un ruolo “pesante” ed un potere maggiore in rapporto alla governance centrale

dell’istituzione, che difficilmente può quindi seguire ruoli autocratici del rettore e

derive centralistiche o comunque eccessivamente irrispettose del lavoro collegiale nel

rapporto centro-periferia. Tuttavia ciò non produce affatto, come accade in alcune

università generaliste quando il peso delle strutture periferiche è forte, una

governance paralizzata da un irrisolto rapporto con le strutture periferiche né rettori

incapaci di prendere e far implementare decisioni. Al contrario, da situazioni come

quelle sopra delineate risulta un governo più efficace dell’istituzione, proprio perché

il forte valore dell’identità istituzionale fa premio su tutti i particolarismi disciplinari,

consapevoli comunque che la loro voce ed il loro interesse non possono soverchiare

quelli dell’istituzione nel suo complesso e saranno comunque tenute in debito conto.

Va segnalato, d’altro canto, come si tratti in molti casi di atenei costituiti da poche

aree disciplinari fra loro abbastanza omogenee e con una prevalenza del peso delle

scienze dure applicate. Questo dato ovviamente aiuta l’elaborazione di reali politiche

di ateneo e la loro concreta realizzazione.

3 – Governare l’università nel cambiamento

Nel complesso, si può considerare il tema della governance delle università

all’interno del più ampio processo di evoluzione dei sistemi d’istruzione superiore

che in Europa ha come punto cruciale la trasformazione delle relazioni tra stato e

atenei, rappresentata in particolare dalle nuove forme di autonomia e di verifica delle

prestazioni.

L’autonomia ha cambiato forma, specie nei sistemi centralistici di origine

napoleonica, e spinge alla ricerca di risorse aggiuntive con la conseguente

competizione fra atenei che a sua volta crea una situazione di mercato in varia misura

condizionata (stimolata e limitata) dall’intervento dello stato. Questa nuova

situazione è presente da più tempo in Gran Bretagna, dove è stata metabolizzata

meglio (sebbene non senza problemi) anche in virtù della tradizione di autonomia

57

delle università inglesi, tal ché la difficoltà è consistita nella riduzione del potere di

autogestione accademica in favore dell’intervento (finanziario-valutativo) dello stato.

Nei sistemi d’istruzione superiore dell’Europa continentale questo nuovo tipo di

autonomia è più recente e le conseguenze che ne sono derivate hanno incontrato

maggiori resistenze. Gli esempi di simili difficoltà di adeguamento sono molteplici

nei vari sistemi, così come diverse risultano le reazioni del personale accademico,

anche all’interno del medesimo sistema, a seconda degli atenei.

Come caso esemplare di particolare rilevanza si possono al riguardo segnalare gli

ostacoli certamente non trascurabili che tale modello (oggi identificato come di

origine anglosassone) incontra in particolare in Spagna come in Italia. Nei due paesi,

infatti, il passaggio all’autonomia istituzionale non riesce ancora ad essere

accompagnato da un’affermazione delle tendenze pur ormai presenti in altri sistemi

europei dove esiste da tempo, o si è affermato nell’ultimo decennio, un modello

largamente autonomistico: sono ancora insufficienti, infatti, sia una crescita effettiva

della competitività fra istituzioni sia la diversificazione delle fonti di finanziamento,

mentre ancora inadeguati risultano il livello di responsabilità sociale dell’istituzione

ed anche la forza e l’influenza della domanda di istruzione, ricerca e servizi

universitari [Mora ,Vidal 1998; Mora 2003]. Si oppone all’affermarsi di queste

tendenze una ragione che, fa parte del bagaglio tradizionale delle università spagnole

[Garcia-Garrido 1992] ed italiane [Moscati 2004], e che può essere riassunta nella

mancanza di una tradizione di appartenenza e servizio alla comunità istituzionale,

attraverso cui il personale accademico cessi di considerarsi unicamente come parte di

una disciplina o di un corpo di pubblici funzionari per vedersi anche come parte di

un’istituzione che si rivolge alla propria comunità. Questo aspetto è, in Spagna come

in Italia, aggravato dalla mancanza di una politica dell’istruzione superiore a livello

regionale, che ha reso ancora più difficile l’identificazione con la propria istituzione e

con la propria comunità di riferimento [Mora 2006]. Tutto ciò serve forse anche a

spiegare perché l’analisi di campo effettuata non ha potuto evidenziare né in Spagna

né in Italia, salvo che per le università tecniche, visibili politiche istituzionali capaci

58

di caratterizzare autonomamente l’ateneo, tanto nel contesto interno quanto nella sua

attività nei confronti del tessuto economico e sociale di riferimento.

La combinazione fra questi aspetti sembra evidenziare, soprattutto negli atenei

generalisti italiani e spagnoli, una sostanziale mancanza di capacità di dare impulso a

quella positiva riforma della governance istituzionale che pure la condizione di

autonomia di cui godono potrebbe consentire e che sarebbe una fondamentale

condizione per una loro vera trasformazione. Anzi, la mancanza di una iniziativa in

quella direzione finisce per influenzare l’efficacia delle trasformazioni realizzate in

altri settori: anche nel campo dove maggiori sono le novità operate negli ultimi anni,

quello della riforma dei curricoli e della revisione dei corsi di laurea, c’è infatti da

dubitare che si possa arrivare ad una soluzione capace di farne dispiegare appieno

tutti gli effetti potenziali, senza por mano anche ai problemi di governance, sin qui

trascurati .

Da quanto segnalato si può osservare come anche la governance delle università si

sviluppi secondo varie modalità a seconda delle caratteristiche del sistema di

appartenenza, dei gradi di libertà di cui godono gli atenei, del tipo di controllo

esercitato dallo stato e delle interpretazioni delle nuove situazioni fornite dagli attori

in esse coinvolti.

Così, caso per caso, esistono o meno politiche ben definite di ateneo, e si sviluppano

modi di esercitare il governo a seconda delle dinamiche che si mettono in atto tra

rettore e organi collegiali. Entrano in gioco le personalità dei soggetti, la loro

interpretazione dei rispettivi ruoli professionali e il grado di condivisione delle

finalità dell’istituzione di appartenenza (come si è visto nelle differenze tra università

generaliste e università tecniche).

La ricerca ha cercato di evidenziare i processi di cambiamento in atto mirando a far

emergere, come si è detto, le differenze – a livello di ateneo - tra il sistema

anglosassone e quelli dell’Europa continentale. Due degli aspetti di novità emersi,

rappresentati dai ruoli effettivi dei membri non accademici nei Consigli di

amministrazione e dalla possibile nascita di una carriera “politica” dei capi d’istituto

59

(rettori ed equivalenti, eletti o nominati), appaiono particolarmente delicati ed oggetto

di forti resistenze da parte degli accademici.

L’analisi delle forme di governance a livello di ateneo ha comportato la

considerazione sia del livello istituzionale (l’organizzazione dell’università) sia del

livello soggettivo (la realizzazione fattuale della vita dell’università). Ha consentito

dunque di verificare gli effetti dell’impatto della dimensione normativa (le regole

scritte dei sistemi d’istruzione superiore), sulle forme organizzate delle singole

istituzioni universitarie, a loro volta frutto dell’interpretazione delle situazioni da

parte degli attori nei diversi ruoli, di responsabilità e governo dell’istituzione o di

semplici membri della collettività accademica.

Da questo intreccio emerge, ancora una volta, come i sistemi restino legati alle

interpretazioni (le “definizioni della situazione”) dei soggetti che li realizzano. Nello

specifico, nonostante i nuovi vincoli, nel mondo accademico appare contare sempre

molto la libertà d’insegnamento e di ricerca. L’elemento d’incertezza risiede semmai

nella condivisione delle finalità dell’istruzione superiore. Ma è noto come la

realizzazione delle riforme nei sistemi d’istruzione superiore siano rese complicate e

incerte dalla quantità di attori operanti in larga autonomia e dal carattere diffuso

dell’autorità all’interno delle strutture [Cherych,Sabatier 1986]. Ne deriva che

l’evoluzione dei processi qui presi in considerazione non può (potrà) che essere

caratterizzata da una combinazione di traguardi solo in parte raggiunti o del tutto

mancati, come di effetti inaspettati e di sviluppi non preventivati. Da qui la dinamica

spesso non coerente e non lineare delle diverse forme di organizzazione accademica e

di governance delle università che complessivamente emerge dalla ricerca.

Bibliografia Cerych, L.,Sabatier,P. 1986 Great Expectations and Mixed performances. The implementation of higher education reforms in Europe, Trentham, Trentham Books

60

Garcia-Garrido, J.L. (1992) “Spain”, in: Clark, B. e Neave, G. (eds.) Enciclopedia of

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Mora, J.G (2003) “La mejora de la eficacia de la ensenanza superior en el vnuevo

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Mora, J. G. (2006) “Spain”, in Forest, J.F. e Altbach, P.( eds) International

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Mora, J.G. e Vidal, J. (1998) “Introducing Quality Assurance in Spanish Education”,

in Gaiher, J. (ed.) Quality Assurance In Higher Education: New directions in

Institutional Research, San Francisco, Jossey Bass

Moscati,R. 2004 Università, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia del Novecento, supplemento III, Roma, pp.558-571