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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 79 MAGGIO 2019 CITTÀ DEL VATICANO Le voci delle donne

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Page 1: Le voci delle donne - Vatican News...stillate e concentrate. La voce delle donne nasce così. Mi sono detta: perché non an-dare a cercare, in una sorta di viaggio in-tellettuale e

D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 79 MAGGIO 2019 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Le vocidelle donne

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numero 79maggio 2019

DO CUMENTI

La vocedelle donne

A CURA DI SI LV I A GUIDIA PA G I N A 3

LIBRI

Il filo d’E u ro p a

CAROLA SUSANIA PA G I N A 28

DODICI PUNTIDI F R AT E L L A N Z A

Maria nel Corano

SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEHA PA G I N A 30

SIMBOLINELLA BIBBIA

Le vesti parlano

IV E TA ST R E N KO VÁA PA G I N A 35

VU LT U M DEIQUA E R E R E

Un cambiamentodi paradigma

CAROLINA BLÁZQUEZ CASAD OA PA G I N A 40

«S pero che le donne nel tempo a venire farannomolto». Così scriveva Mary Ward quattro seco-li fa riflettendo sul ruolo delle donne nellaChiesa e nel mondo. Questo numero di Donne

Chiesa Mondo vuol render testimonianza al la-voro per l’appunto prezioso che le donne hanno svolto, e continuanoa svolgere, quali membra vive della Chiesa e di altre culture e tradi-zioni religiose. Lo fa partendo, nella fattispecie, da uno spaccatodell’impegno delle donne nelle Università Cattoliche e Facoltà teolo-giche soprattutto in Italia.

Nella tavola rotonda «La voce delle donne» a cura di Silvia Gui-di, teologhe, bibliste, storiche, filosofe, ragionano, a nome di tutte ledonne, sui presupposti che contribuiscono a far affiorare più distinta-mente, nell’ambito delle ricerche e discipline di ognuna, la sensibilitàed il modo di pensare femminile. Questi presupposti vanno dalla«conoscenza delle modalità diverse di leggere l’essere donna all’inter-no della Chiesa», alla necessità di riscoprire «una tradizione delledonne che comunque parla, che comunque è viva», all’applicazionedi un rigore serio nell’elaborazione delle categorie dello studio e del-la ricerca della differenza di genere. Fanno parte della sensibilitàfemminile, sostengono alcune, il desiderio di intensificare le connes-sioni tra creazione artistica, teologia e spiritualità e anche la capacità,ribadiscono altre, di trovare correlazioni tra ambiti apparentementelontani e distanti. Ma ciò che in particolare accomuna queste voci inconversazione tra loro è il desiderio di adoprarsi in generale per unacultura di reciprocità fra uomo e donna, in un rapporto libero daogni sudditanza, nella consapevolezza che anche la Chiesa come po-polo di Dio ha bisogno che si uniscano tutte le energie maschili efemminili per la sua evangelizzazione. La sfida sembra dunque esserequella di collaborare, condividere spazi, combattere il clericalismosotto ogni forma si presenti, nonché pregare e pensare insieme, uomi-ni e donne insieme. Ascoltandole con maggior attenzione, giunge poianche da queste voci, seppur indiretto, l’invito molto concreto a tuttele donne perché operino insieme con lealtà e fiducia, trasmettendo

EDITORIALE

Camminare insiemeALL’INTERNO

In copertina: Cliff Rowe«Three Women Talking»

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DO CUMENTI

La vocedelle donne

a cura di SI LV I A GUIDI

Pubblichiamo ampi stralci dell’incontro che si è tenuto il 1° aprile scor-so nella redazione de «L’Osservatore Romano», dedicato ai temi af-frontati nel libro La voce delle donne. Pluralità e differenza nel cuore del-

la Chiesa, di Sabina Caligiani (Milano, Edizioni Paoline, 2019, pagine224, euro 17). Il saggio raccoglie diciassette voci di donne, che opera-no nel panorama ecclesiale e storico-filosofico. Angela Ales Bello,Cettina Militello, Serena Noceti, Marinella Perroni, Cristina Simonel-li, Adriana Valerio, Francesca Brezzi, Yvonne Dohna Schlobitten so-no solo alcune delle bibliste, storiche, filosofe, artiste che, attraversole pagine di questo volume, aprono uno spiraglio sul pensiero femmi-nile e sul contributo da esso offerto al pensiero e alla Chiesa, dalconcilio Vaticano II a oggi. Oltre a molte delle autrici hanno parteci-pato diverse altre donne e studiose per discutere, a partire dai temidel libro, su come interagire con il quotidiano della Santa Sede aper-to al libero confronto tra le visioni “plurali e differenti” sul mondo esul ruolo della donna nella Chiesa.

SABINA CALIGIANI — Perché La voce delle donne? Avvertivo da tempoil bisogno (intellettuale, interiore) di approfondire una serie di temirelativi alla questione femminile, privilegiando gli strumenti dell’an-

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romano

Comitato di DirezioneFRANCESCA BUGLIANI KNOX

ELENA BUIA RUTT

YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN

CHIARA GIACCARDI

SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEH

AMY-JILL LEVINE

MA R TA RODRÍGUEZ DÍAZ

GIORGIA SA L AT I E L L O

CAROLA SUSANI

RI TA PINCI (co ordinatrice)

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I A GUIDI

VALERIA PENDENZA

SI LV I N A PÉREZ

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

alle giovani generazioni il desiderio di partecipare ad un rinnovatoprocesso di “umanizzazione”, cui accenna Carola Susani nella suarecensione, e di accoglienza di voci “a l t re ” nelle quali è sempre pos-sibile trovare punti fruttuosi di incontro e dialogo, come ben ci mo-stra Shahrzad Houshmand Zadeh nel suo articolo su «Maria nelCorano».

Soprattutto queste voci di donne son destinate ad ispirare il grup-po del Comitato di Direzione di questo giornale nel suo sforzo di ri-disegnare la rotta, calibrare il passo, individuare la meta di un cam-mino iniziato già sette anni or sono. «Bisogna aprire un cantiere»,aveva dichiarato Papa Francesco ai giornalisti nel volo di ritorno daRio de Janeiro il 28 luglio 2013. Donne Chiesa Mondo è pronta adaprirlo con coraggio, con amore ed in libertà, nella fedeltà alla Paro-la, in vista di un’unica meta, quella di dare il giusto riconoscimento ele giuste opportunità all’operato femminile in ogni campo, sociale ereligioso e, contemporaneamente, favorire la comunione e l’unità ec-clesiale. «La posta in gioco», riadattando l’espressione di Anne-Ma-rie Pelletier, è un’autentica conversione d’animo che permetta alla re-lazione uomo-donna di trovare un equilibrio a beneficio delle donne,della società e delle diverse fedi. Ciò sarà possibile solo coniugandol’esperienza e la voce degli uomini e delle donne in un cammino co-mune, scevro di subalternità e assoggettamento.

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sciolta nel dialogo e nel colloquio, nella biografia e nella vita. Nellastesura di questo lavoro, ordinando le interviste nella loro sequenza,mi ha colpito l’aumento di senso, l’emergere di significati nuovi ge-nerati dai nostri incontri, dal fatto che le voci, pur individualmentecaratterizzate, si facessero involontariamente eco e richiamo da un ca-pitolo all’altro, stabilendo terreni comuni e suggerendo approcci dinuove strade. È la virtù dello scambio, la fecondità che nasce dallaricerca e dalla condivisione di percorsi e obiettivi comuni.

ADRIANA VALERIO — Ho insegnato Storia del cristianesimo e dellechiese alla Federico II di Napoli, sono co-fondatrice del Coordina-mento delle teologhe italiane e sono stata presidente dell’Asso ciazio-ne europea delle teologhe. Mi interesso prevalentemente di storia edi storia dell’esegesi femminile portando avanti da più di 10 anni ilprogetto internazionale e interreligioso «La Bibbia e le donne». Lamia domanda è sugli aspetti organizzativi, su come, cioè, si possonofar interagire, in un giornale come «L’Osservatore Romano», i temiemergenti del quotidiano con le nostre specifiche competenze nellediscipline teologiche (l’esegesi, la storia, la dogmatica, l’ecclesiologia,la liturgia, l’antropologia, la pastorale ecc...). Forse si potrebbe creareuna struttura organizzativa, con persone responsabili dei singoli set-tori, in modo da mettere su un team di lavoro per far conoscere itanti aspetti che riguardano oggi la ricerca delle teologhe che hannoapportato tante novità circa le diverse modalità di considerare ledonne e i loro ruoli all’interno della Chiesa.

STELLA MORRA — Insegno alla Gregoriana teologia fondamentale.Credo che uno dei problemi eterni di tutti i giornali e quindi anchede «L’Osservatore Romano» sia quello del rapporto tra notizia e ri-flessione. Ci sono delle notizie, perché un giornale si occupa di que-sto, e poi c’è una riflessione possibile sulle notizie che può essere lapagina culturale. Io credo che, ad esempio, una delle questioni siaproprio questa, rispetto al tema delle donne e alla loro partecipazio-ne sia in fase di ricerca delle notizie sia in fase di approfondimentoculturale. Per esempio, non credo che le donne su «L’O sservatoreRomano» debbano scrivere solo di questioni o temi di donne. Se suogni notizia ci sia cura, ad esempio, di ascoltare sempre una vocemaschile e una voce femminile — si parli di qualsiasi cosa — questopotrebbe essere un primo passo, il che non esclude che poi ci sianoalcuni punti specifici rispetto alla riflessione delle donne in cui cipossa essere un dato più visibile. Ma già questo livello di ordinarietàsecondo me potrebbe essere un piccolo criterio molto concreto.

Seconda questione, ci sono temi delle esperienze delle donne chepossono invece essere girati al contrario: non rimanere l’occasione di

tropologia cristiana. Ero in piena fase di raccolta e di studio di mate-riali sulla differenza di genere, quando m’imbattei nel testo di una fi-losofa e teologa tedesca, Beate Beckmann Zöller. Le donne “muovo-no” i Papi? si chiede l’autrice. Sono state in grado, a dispetto dellerigide gerarchie della Chiesa nella storia, d’influenzare un mondo do-minato dagli uomini? La risposta è sì, e fa il titolo del libro: Le donne

muovono i Papi (“Die Frauen bewegen die Päpste”). Ne sono state ca-paci. Sei esemplificativi ritratti di donne, vissute nell’arco di parecchi

secoli, dal Medioevo alla contemporaneità, da Ilde-garda di Bingen a Edith Stein, “p ro f e t e s s e ”, che

con il loro magistero di pensiero e di azione,esercitato in tempi e modi diversi, hanno posto

le basi del dibattito odierno sulla differenzadi genere, teologico e non solo, e della co-

struzione di una teologia “al femminile”.L’ispirazione di un libro può nascere,spesso nasce, oltre che dalla concretaesperienza di vita, anche da altri libri.Che sono essi stessi esperienze vitali, di-stillate e concentrate. La voce delle donne

nasce così. Mi sono detta: perché non an-dare a cercare, in una sorta di viaggio in-tellettuale e vitale, che mescolasse teoria eapproccio concreto, personale, l’ideale

prosecuzione moderna di quel percorso trac-ciato dalle protagoniste di Beate Beckmann Zöl-

ler? Mi ha affascinato ipotizzare che il robusto filo della storia potes-se stabilire una genealogia e una continuità tra quelle donne straordi-narie del passato e le tante di oggi che sono al lavoro su quegli stessitemi, nelle sfide del cambiamento poste dalla modernità. A tal puntoda indurmi a compiere una sorta di viaggio, di viaggio reale, fatto diinterviste, alla ricerca di religiose e laiche che fanno rivivere oggi, svi-luppandola, l’eredità del passato. Ne ho scelte alcune, portatrici distorie e di esperienze significative, tutte diverse tra loro, incontrando-le nei loro luoghi di lavoro e in particolare nelle università pontificie,dove, soprattutto, dopo il vento nuovo del Vaticano II, hanno avutola possibilità di insegnare e di ricercare. Le ho intervistate secondoun registro giornalistico, più che teorico e dottrinale. Ognuna di que-ste studiose mi ha dischiuso orizzonti inimmaginati, di straordinariointeresse. Ho preferito che La voce delle donne parlasse attraverso leloro voci. La teologia ha dialogato dal vivo con la filosofia, la storia,la sociologia, la bioetica, l’arte, la comunicazione. L’empatia che ciha unite ci ha regalato la possibilità di costruire insieme interviste, dacui alla fine è emersa non solo l’elaborazione teorica, ma la teoria di-

«La vocedelle donne»nasce cercandol’idealep ro s e c u z i o n edel percorsotracciato dallep ro t a g o n i s t edel librodi BeateBeckmannZöller«Le donnemuovonoi Papi»

Nelle illustrazioniparticolari di dipinti

del Beato Angelico

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piccolo articolo proprio sulla sororità. Ho colto con piacere l’iniziati-va del giornale di creare un team di persone il più possibile inclusi-vo. Questo mi sembra un aspetto importante: il fatto che le donnenon debbano scrivere solo di donne, in una sorta di riserva indiana.

FRANCESCA BREZZI — Voglio intanto ringraziare Sabina Caligiani perla “p ersecuzione” nei nostri confronti, che ha dato luogo a questa na-scita di cui siamo tutte felici. Sono filosofa di professione ma voglioaccennare il mio grande debito nei confronti delle teologhe, in parti-colare Marinella Perroni e anche a delle storiche, come Adriana Vale-rio, che hanno veramente cambiato il mio modo di vedere gli studi.Con Angela Ales Bello abbiamo seguito il corso di studi di filosofia“tradizionali”. Data la nostra età, non si studiavano allora le filosofe,ma poi hanno fatto irruzione nella mia vita che da quel momento ècambiata. Dunque, questo libro offre alcune indicazioni per il futuro.In qualche modo, senza sapere chi erano le altre partecipanti, oggi siè realizzata, mi piace usare un’espressione di una teologa che io ap-prezzo molto, cioè è venuta fuori “una tela di tanti colori” (Antoniet-ta Potente ama usare questo termine). Credo che dovremmo partireda qui, e quindi aprirci alla diversità e alla possibilità di trattare tantitemi. Del resto io vengo dalla filosofia tradizionale, mi sono occupa-ta e mi occupo tuttora di tante altre questioni, non studio solo leproblematiche femminili. Mi occupo anche di diritti umani, di eticacontemporanea, pochi giorni fa ho tenuto una conferenza sulla storiae la memoria. Noi possiamo parlare di tanti argomenti, però io credoche nel momento in cui ne parliamo noi, che siamo state toccate chipiù chi meno, dalla filosofia “femminile” (abbiamo discusso tantocon Marinella Perroni di quale termine usare nel suo bel libro Noncontristate lo Spirito del 2007 quando non si poteva utilizzare il termi-ne teologia femminista), porteremo le nostre precomprensioni didonne, cattoliche, cristiane, che si sono interrogate in quanto donnesu certe tematiche e quindi porteremo un pensiero altro, una soluzio-ne diversa.

SUOR BE AT R I C E SA LV I O N I — Sono una paolina. Mi sento un po’ inti-midita perché non sono filosofa, non sono teologa e sono semplice-mente una suora che ha accettato una proposta vocazionale da partedi Dio. Ho accettato una vocazione che, almeno all’epoca, era ancoradi abbastanza difficile “masticazione”: che una congregazione, unafamiglia religiosa, in questo caso la famiglia paolina, lavorasse a ser-vizio del Vangelo con gli strumenti della comunicazione e dell’infor-mazione e con i criteri dell’imprenditoria sana, questa è una cosa chenoi stesse ancora non siamo riuscite a digerirla, figuriamoci cin-quant’anni fa. Volevo riprendere il discorso che è stato fatto anche daMarinella Perroni. Fin da un altro libro, quello che abbiamo pubbli-

una promozione ma una risorsa per tutti. Uno di questi secondo meè la questione del passaggio fra le generazioni. Anche qui suggeriscoun piccolo criterio, per esempio sulle questioni che riguardano ledonne: chiedere sempre un contributo differenziato in base all’età,una giovane donna e una donna più anziana che ha delle competen-ze e una maggiore esperienza. Per esempio, sui temi delle donnequesto passaggio generazionale è una questione grande, che in que-sto senso diventa una risorsa per tutti. Avere trent’anni oggi è diver-so che avere avuto trent’anni trent’anni fa, è radicalmente diverso nelbene e nel male.

MARINELLA PERRONI — Sono una biblista e ho fondato il Coordina-mento delle teologhe italiane. Prima di tutto volevo chiedere un po’più di profilatura alla frase detta dal direttore secondo cui una dellefinalità de «L’Osservatore Romano» è “raccontare storie”, perché“raccontare storie” può voler dire tutto e niente. Un conto è raccon-tare storie come stile letterario, un conto è dire che la struttura delgiornale è raccontare storie. Mi domando poi se lo scopo di questonostro incontro sia quello di cominciare a costituire un database dirisorse femminili. Sarebbe un primo passo, ma certamente non suffi-ciente. È altrettanto necessario, infatti, dotarsi di persone che aiutinoa capire che certi temi, che sembrano innocui, anzi promozionalidell’umano, vanno considerati oggi più complessi e problematici. Ve-do ad esempio che «L’Osservatore Romano» ha posto come “p a ro l adell’anno” la parola f ra t e r n i t à . Splendido, il Papa ne ha parlato, tuttala storia della fede cristiana è storia di fraternità, vissuta o negata.Ma: quanto si è consapevoli del fatto che esiste la s o ro r i t à e di cosaha comportato per le donne declinare la s o ro r i t à ? Voglio dire che ècertamente necessaria l’equiparazione delle risorse tra uomini e don-ne, ma dovrebbe esserci anche lo sforzo di capire che su alcuni temiormai esiste una cultura delle donne, un pensiero delle donne, unatradizione delle donne. E una cosa è certa: questa cultura, questopensiero e questa tradizione fanno fatica a essere conosciute e ricono-sciute come tali, soprattutto nella Chiesa. Bisogna rendersi contoche, proprio a livello di formulazione delle tematiche, non si può piùlasciare da parte una tradizione che si è costruita in questi ultimi duesecoli per provare a ripensare le cose anche a partire dalla prospettivadelle donne. Si tratta di un fatto che ha una portata non irrilevanteed è, invece, quasi inedito per il giornalismo generalista italiano.

GIORGIA SA L AT I E L L O — Sono professoressa ordinaria della facoltà diFilosofia della Pontificia Università Gregoriana ed invitata dell’Ate-neo pontificio Regina Apostolorum. Questa apertura alla declinazio-ne al femminile, in realtà, nel piccolo si è già fatta. Perché in uno de-gli ultimi numeri de «L’Osservatore Romano» è uscito anche un mio

Oggi è venutafuori“una teladi tanti colori”. . . C re d oche dovremmopartire da qui,e quindi aprircialla diversitàe allapossibilitàdi trattaretanti temi

Quantosi è consapevoli

del fattoche esiste

la sororitàe di cosa ha

comportatoper le donne

d e c l i n a rela sororità?

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YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN — Sonotedesca e l’unica non italiana in questogruppo. Sono docente incaricato as-sociato alla Pontificia UniversitàGregoriana. Tengo corsi di Esteticae di Spiritualità dell’arte contem-poranea. La mia formazione è unp o’ atipica. Infatti ho studiatoinizialmente giurisprudenza,completando tutto il percorsodi giurista, ma ho poi prose-guito nello studio della filoso-fia per arrivare, infine, a undottorato in storia dell’arte. Unpercorso che ora, e questo è interes-sante, mi ha portato allo studio della teologia. Al momen-to sto concludendo un dottorato a Fribourg con una ricerca tra arte,estetica, religioni e teologia. Mi preme dire che alla fine sono arrivataalla teologia, proprio per approfondire quello che ho capito nell’arte,nell’estetica e nella spiritualità. Sono un membro fondatore di ungruppo internazionale di donne (ora anche uomini), per aiutare a de-finire “ciò che è intrinseco alla teologia femminile”. Da quattro annilavoriamo insieme e abbiamo anche realizzato dei convegni. Secondome se vogliamo che la voce delle donne abbia un significato per ilmondo e soprattutto per il mondo della Chiesa, dovremmo veramen-te trovare un modo per realizzare quella inter, multi e trans-discipli-narietà, che anche la costituzione Veritatis gaudium propone. Oggi sitende a considerare poco sul serio l’arte, e la creazione artistica; cosache secondo me è sbagliata perché esse sono pura teologia. Il teolo-go Romano Guardini ha capito questo aspetto dell’arte, ed è arrivatoalla teologia senza “u s a re ” l’arte. Serve un sistema trans-disciplinare,per capire soprattutto il metodo. Che cosa è il metodo della filoso-fia? Che cosa è il metodo della teologia? Sono questioni importanti.Secondo me dopo quattro anni di lavoro in quel gruppo, abbiamoiniziato a sviluppare i criteri (la consapevolezza, l’ascolto e lo sguar-do), metodi, e concetti femminili nel dialogo, nell’o rg a n i z z a z i o n e ,nella leadership e nell’educazione. Certamente noi insegniamo, inmodo indiretto, noi educhiamo i sacerdoti, gli studenti. Ma secondome non è ancora così ovvio che il nostro, io lo chiamo, “sentire intel-lettuale” delle donne sia veramente un metodo, un modo scientificodi procedere che, potrebbe essere verificato, definito e così entrareanche nell’insegnamento delle diverse università. Questo mi sta acuore. È difficile definire un “criterio femminile” o dei “sensi spiri-tuali femminili”. Ma secondo me se ci incontriamo regolarmente, co-

cato sulla Pòlis, che era un omaggio, appunto, alla sua ricerca e alsuo pensiero, Marinella si esprimeva con queste espressioni che nonsono sicura di tradurre giustamente ma che traduco come le ho capi-te: quando si promuove il pensiero femminile, diceva, non si pro-muove la donna ma si fa cultura intera. Una cultura che è solo ma-schile, con tutto il rispetto anche per certi uomini che stimano e ri-spettano molto le donne, è una cultura monca quindi non è cultura.Per cui parlare di tutto, donne e uomini, con le proprie competenze,credo che dovrebbe diventare normale proprio per favorire la circola-zione della cultura non tanto la promozione della donna.

SUOR MARCELLA FARINA — Insegno teologia alla facoltà di Scienzedell’educazione all’Auxilium. Da diverso tempo mi sto interrogando,già dal grande giubileo, su che cosa trasmettiamo alle nuove genera-zioni. Stiamo parlando della “generazione zeta”, che ignora del tuttoi nostri percorsi, del tutto i nostri problemi ma anche le nostre acqui-sizioni scientifiche. Come si fa a raggiungere questa generazione chepoi dovrebbe, magari, prendere posto nella cultura anche universita-ria, perché magari sono già a livello universitario come studenti? C’èun analfabetismo in questo campo molto grande. Mi chiedo anchecome «L’Osservatore Romano» possa raggiungere queste generazio-ni. Che tipo di strategie utilizzerà? Pochi giorni fa abbiamo svoltoun convegno sull’azzardo, che non è un gioco. Praticamente, sono iragazzini che giocano, cercano l’azzardo fine a se stesso. Allora, for-se, anche queste problematiche molto presenti nel mondo giovanilepotrebbero essere affrontate da noi donne perché percepiamo la diffi-coltà ma anche i rischi di questi ragazzi, della loro solitudine, dellamancanza di una famiglia, di ascolto. Ragazzi che magari non sonointeressati al problema dell’essere donne o dell’essere uomini perchévivono quello che pensano di vivere, magari anche nascondendo ri-sorse e talenti. Sul come raggiungerli, magari trovando qualche stra-tegia, coinvolgerli, farli parlare, chieder loro che cosa li spinge ad an-dare all’azzardo, cosa li spinge ad andare verso queste dipendenze(alcool ma non solo), verso quest’uso di mass media così massiccioche poi fa perdere i contatti con la realtà. Penso che le suore espertenella comunicazione potrebbero darci un aiuto. Per me queste sonograndi problematiche, perché essendo in una facoltà di Scienzedell’educazione, vedo davvero come le nuove generazioni sono “al-t re ”, noi diciamo generazione zeta perché ormai i millennials sonogià oltre, rispetto a queste generazioni. Per me questo è un obiettivomolto importante.

An c h ele problematiche

molto presentinel mondo

giovanilepotrebbero essere

a f f ro n t a t eda noi donne

p e rc h ép e rc e p i a m o

la difficoltàma anchei rischi di

questi ragazzi

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MANUELA TERRIBILE — Fino a pochissimi mesi fa ho insegnato inuna scuola e quest’anno insegno teologia in un’università cattolica.Credo che ci siano due temi in cui le donne potrebbero offrire unariflessione che potrebbe incrociare anche il percorso de «L’O sserva-tore Romano»: il primo, che suppongo sia caro a Papa Francesco,ma credo che tocchi la carne di tutte noi, è il clericalismo, cosa sucui si possono dire molte cose e, anche il loro contrario, a seconda dichi sta parlando. È necessario tenere presente che le donne non sonoesenti da questo “difetto di fabbrica” per il solo fatto di essere don-ne. Il tema andrebbe comunque sviluppato: “clericalismo” è una del-le tante parole che può non significare nulla o addirittura può gioca-re contro Papa Francesco. Cosa che a me in questo momento dellastoria (mia, della Chiesa e degli altri), dispiacerebbe molto.

L’altro tema, difficilissimo, è quello che chiamo l’“interruzione del-la tradizione”. Il 95 per cento, forse di più, delle parole che la Tra d i -tio fidei usa non hanno nessun significato per i più giovani, ma ancheper le generazioni precedenti, per quelli che le conoscevano e che co-minciano ora a sentirle un po’ sbiadite. Sono parole — a meno cheuno non abbia una comunità che le incarna — che sembrano, per dir-la con Gozzano, “piccole cose di pessimo gusto”. Credo che questidue temi meriterebbero una voce delle donne. C’è poi una cosa chele donne possono esprimere ed è un valore serio, un valore direi“pro cessuale”: se guardo alle persone qui presenti mi viene da pensa-re che abbiamo diverse forme di appartenenza alla Chiesa. E questonon è senza peso. La vita religiosa ha un suo senso che è solo suo esenza la vita religiosa la Chiesa sarebbe un po’ diversa, avrebbeun’altra faccia. Ci sono, qui e nel mondo, le donne che insegnano ele donne che non insegnano, le donne che vengono dall’Italia o daaltrove. Credo che ci sia una varietà, non solo di storie, ma di com-petenze molto forte che diventa carburante. Questa pluralità delledonne può essere adoperata, almeno per tessere una tela. Quanto alclericalismo, chiunque di noi qui ne ha fatto esperienza, altrimentinon saremmo qui. Nessuna di noi forse pensa la stessa cosa di un’al-tra, almeno lo spero. Questo non è un problema, ma una risorsa.

ANGELA ALES BELLO — Ho insegnato all’Università Lateranense.Una cosa importante che abbiamo fatto è promuovere le donne filo-sofe in particolare le fenomenologhe: Edith Stein, di cui abbiamotradotto tutte le opere che stiamo continuando a revisionare a partiredalla nuova edizione tedesca, Hedwig Conrad-Martius e Gerda Wal-ther. Tre filosofe molto valide che abbiamo fatto conoscere in Italia eanche a livello internazionale; i frutti di tale lavoro stanno maturan-do ai nostri giorni in modo molto significativo, per cui intendiamocontinuare su questa strada. Tutte le cose che avete detto certamente

Clericalismoe interruzionedella tradizione:questi due temim e r i t e re b b e rouna vocedelle donne

noscendo il modo di pensare gli uni degli altri, è possibile arrivare adefinire meglio il nostro percorso.

CECILIA CO S TA — Sono una sociologa e insegno sociologia dei pro-cessi culturali e dell’educazione. Vivo una sorta di situazione di con-fine, perché sono docente sia a RomaTre, un’Università statale, sia damolti anni all’Istituto superiore di Scienze religiose, Pontifica Uni-versità Lateranense. “Rischiando” accademicamente, mi sono occupa-

ta molto del legame tra sociologia e teologia, puntando sull’i n t e rd i -sciplinarietà non a parole, ma nei fatti. Nel mio piccolo, in qual-che modo, sono riuscita a far passare una certa sinergia tra disci-pline differenti. Yvonne Dohna ha parlato della possibilità di in-

trodurre dei criteri scientifici femminili nel dibattito intellettua-le. Intanto, direi che c’è un certo “stile” femminile di di trasfe-rimento della conoscenza: infatti, senza tradire il rigore scien-tifico, una studiosa donna può scrivere con “passione”, con“generosità “ e con la volontà di mettersi al “servizio” di chilegge. Inoltre, pur rimanendo ancorata all’epistemologia ealla metodologia della propria disciplina, una studiosa puòtrovare delle inedite correlazioni e può allargare semanti-camente dei concetti tradizionali per costruire ponti disci-plinari. Rispetto alla mentalità maschile, le donne, forse —

e sottolineo forse —, comprendono maggiormente l’utilitàdi coniugare ambiti speculativi apparentemente lontani edistanti tra loro, che invece, sottilmente, sono molto più le-gati di quello che sembra. Il mondo intellettuale femminilepotrebbe potenziare lo scambio tra la pluralità delle cono-scenze, al fine di dare più spazio alla muldisciplinarità, allatransdisciplinarità, alla “fermentazione di tutti i saperi”, co-me ci ha sollecitato Papa Francesco nella Veritatis gaudium.Per rispondere, invece, agli interrogativi educativi sollevati da

suor Marcella Farina, essendomi occupata in questi anni dellarealtà giovanile in chiave sociologica, ed essendo stata coinvolta, inqualità di esperta, nella bellissima esperienza del Sinodo dei giovani,mi rendo conto che molti dei nodi problematici delle generazioniemergenti hanno bisogno di essere affrontati con una particolare sen-sibilità “femminile”, come per esempio, tra gli altri: l’incapacità dimolti di loro di essere realmente protagonisti della loro vita, di avereun senso profondo della libertà e di essere affascinati dal rischio.Una ricerca del rischio che, a volte, nasce dalla paura, da un vuoto, eche alcuni giovani inseguono, come surrogato emotivo, nelle situazio-ni più diverse: nell’abuso di alcol, nella droga, nelle discoteche, nellavelocità e nello stordimento.

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ro ordinato e tocco con mano come questi ragazzi siano tentati conti-nuamente dall’idea di sentirsi superiori a chi non è ordinato e quindia tutte le donne per definizione, stante la prassi della Chiesa cattolicadi non ordinare i battezzati di sesso femminile. A volte è proprio ilmodo in cui gli viene proposto il ministero ordinato a spingerli asentirsi «per vocazione» sopra altri e questo nonostante si ripeta chequesto essere posti sopra è un servizio: il messaggio in realtà è con-traddittorio perché nessun servo è posto sopra, per definizione.L’ambiguità produce effetti perché il clericalismo dilaga nella Chiesae, strettamente connesso con esso, il sessismo, l’idea cioè che i sessinon siano paritari ma gerarchicamente ordinati (in alto, ovviamente,stanno i maschi). Credo che le strategie per affrontare questa situa-zione siano fondamentalmente due.

La prima è il rigore scientifico. Il rigore scientifico è fondamenta-le, perché troppo spesso, anche in contesti qualificati, le donne ven-gono approvate o cercate per il loro “stile”, troppo spesso definitoaccogliente o materno. Quando accade questo abbiamo già persoperché tali affermazioni indicano che non si riconosce la fondatezzadel nostro pensiero, tanto da poterlo riconoscere come vero e condi-viderlo, ma ci si compiace di qualcosa di decorativo, che può esserelodato senza che entri nelle elaborazioni culturali e nelle prassi (co-me una bella illustrazione di copertina).

La seconda strategia consiste nel creare spazi condivisi con gli uo-mini. Le donne, infatti, non solo devono essere considerate come pie-namente umane e pienamente protagoniste della vita ecclesiale, ma ènecessario si sviluppi una nuova relazione con gli uomini, che nonpossono più rapportarsi con noi come se non fossimo emancipate.Questa nuova relazione comporta un ripensamento anche del ma-schile ed è capace di aprire una nuova era della storia umana, in cuinessun sesso domini sull’altro. Per fare tutto questo è essenziale crea-re spazi condivisi nei quali si riescano a vivere luoghi e momenti incui, anche sporadicamente, una donna sia in posizione gerarchica-mente superiore o almeno alla pari con i colleghi uomini, luoghi emomenti in cui la stima reciproca, la collaborazione e le relazioniamicali mettano in crisi lo schema mentale sessista che nella Chiesapersiste fortissimo e che fa pensare a tutti noi che le donne in fondosono utili, ma non indispensabili.

STELLA MORRA — Grande questione quella dei giovani: se «L’O sser-vatore Romano» può contribuire a cambiare l’atmosfera rispetto aigiovani, questa sarebbe una bella sfida. Sull’interscambio, cioèsull’agire rispetto ad alcune mentalità come questa di cui benissimodiceva Simona Segoloni, un certo ruolo un quotidiano come «L’O s-

sono ottime. Io credo che il progetto che dobbiamo coltivare è quellodi essere unite nella visione comunitaria del pensare e fare insieme.

FRANCESCA BREZZI — Riprendo la parola perché vorrei rispondere al-la domanda precisa di Yvonne sul metodo, giusta domanda. Credoche il metodo sia stato portato avanti proprio dal pensiero femminilein due aspetti (poi chiedo se siamo tutte d’accordo su questo perchéquesto potrebbe essere un punto di partenza): gli studi femminili intutte le loro declinazioni che qui abbiamo visto ben rappresentate,hanno due caratteristiche, secondo me, e cioè, semplificando, la di-mensione critica e quella creativa. Questi studi rappresentano un pro-getto critico, nel senso che devono assolutamente rileggere tutta latradizione, attuando l’ermeneutica del sospetto di cui parlano le teo-loghe. Progetto critico, il che vuol dire che c’è un grande lavoro daaffrontare come già stanno facendo le storiche. E poi c’è un progettocreativo, cioè trovare nuove parole, nuovi simbolismi, parole che, co-me giustamente dice Angela Ales Bello, si fanno prassi. Sembra mol-to semplice ma di fatto non lo è, però forse può essere un elementoche ci accomuna in tutte le varie dimensioni dei nostri studi. Perchétutte abbiamo operato questa opera di revisione critica di un passatoin cui noi non eravamo presenti, in cui dico noi come donne, comestudiose, come teologhe, come filosofe. Anche io ho frequentato lafacoltà di teologia, negli anni Settanta a Milano, ero anche incinta,quindi è stata una cosa eccezionale il fatto che mi abbiano accettato,anche se mi dicevano “lei non riesce a completare le presenze neces-sarie” (perché a maggio nasceva mia figlia). Il clima di rilettura è ne-cessario secondo me proprio perché non è vero che la tradizione ècattiva o è muta nei confronti delle donne, la tradizione parla, è viva;si tratta di far emergere la sua capacità di innovazione. Sono solitausare il paragone con la Cappella Sistina, il restauro della CappellaSistina, che ha creato tanti pareri discordi. Si è trattato di rimuoverele ombre che offuscavano i colori originali e anche qui si tratta di to-gliere le ombre che offuscano. Quante volte abbiamo discusso conAngela Ales Bello l’antropologia cristiana, nella Genesi l’antrop ologiaè chiaramente duale non possiamo nasconderlo, che poi non sia stataconsiderata, o discussa è un’altra questione. Serve quindi un progettocritico, l’ermeneutica del sospetto, però insieme a un progetto creati-vo, nuove parole, nuovi simbolismi, perché è vero le parole sono usu-rate e quindi dobbiamo trovare nuove parole, inedite.

SIMONA SEGOLONI — Insegnando teologia sistematica in una facoltàecclesiastica (io insegno infatti Teologia sistematica all’Istituto teolo-gico di Assisi, aggregato alla Pontificia Università Lateranense), hodi fronte a me molti studenti — circa due terzi — candidati al ministe-

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me mere esecutrici dei loro ordini), mi invitò a insegnare in Grego-riana dicendomi che si potevano fare anche delle eccezioni. Ho inse-gnato trent’anni alla Gregoriana, ma non ho mai voluto l’incarico atempo pieno, perché sentivo forte la vocazione di comunicare la Pa-rola di Dio direttamente al popolo. E mi sono accorta di una cosa,che quello che diceva Martini, che cioè all’università non è il sessoche conta, ma la competenza, non funziona nei seminari. Oggi nelleuniversità pontificie ci sono ormai molte donne che insegnano, machi è presente nei seminari dove si plasmano i futuri presbiteri? Neiseminari donne non se ne vedono. Quello che diceva Simona Sego-loni l’ho sperimentato direttamente e ne ho parlato. Ad esempio alconvegno di Aquileia, dove erano presenti più di quindici vescovi: hofatto notare che, prima di parlare del sacerdozio alle donne, è oppor-tuno chiedersi chi forma i seminaristi, i futuri sacerdoti. Se fosserostati in famiglia sarebbero stati in contatto con il papà, la mamma,il fratello, la sorella... In seminario, ormai, non vedono più nean-che la cuoca. Noi parliamo di clericalismo, ma se i chierici vivonoancora segregati non possiamo poi meravigliarci di ciò che suc-cede. Un tempo le mie consorelle potevano studiare nei semi-nari, ma poi hanno dovuto ritirarsi e andare nelle facoltà teo-logiche; trovo questa cosa detestabile. Pensiamo all’accom-pagnamento spirituale. Ho avuto modo di predicare gliesercizi spirituali a presbiteri e seminaristi di diverse dio-cesi, i quali, durante i colloqui, mi hanno espresso il de-siderio che sia una donna la loro referente, la madrespirituale. Me ne sono fatta portatrice ai loro vescovi,nella speranza che qualcosa cambi. Non dimenti-chiamo che santa Caterina prima di trent’anni eragià guida spirituale di chierici e vescovi... Un gior-nale come «L’Osservatore Romano» non può forseentrare in certi ambiti, però se si scrivono determi-nate cose non sarebbe male, visto che tra i lettori ci sono vescovie cardinali.

Per quanto riguarda il metodo, tra le teologhe della prima, secon-da generazione e le teologhe della nuova generazione sarebbe interes-sante confrontare gli approcci diversi, perché determinate cose le piùgiovani le saltano di pie’ pari. A me sta molto a cuore il livello dellaprassi, e mi pare che se è difficile una ecclesiologia di comunione,ancora più difficile è una pastorale di comunione. Non ci siamo pro-prio. Cerco di impegnarmi molto su questo fronte, perché nuovi ateicrescono e le quarantenni fuggono... Sono pienamente d’accordo — echiudo — che qui si tratta non solo di dare spazio alle donne, ma di

servatore Romano» può averlo. A quel punto non mi interessa se èun maschio o una donna che scrive, però riflettere sul maschile, ri-flettere su questa identificazione strutturale è molto importante. Unadelle esperienze che mi ha segnato nell’insegnamento è stata che unostudente che seguiva il mio seminario, per le prime tre lezioni è statomolto polemico, e una parola su due era “che cosa può insegnarmiuna donna?”. È diventato, non molto tempo fa, vescovo e mi hascritto dicendomi che dovevo essere consapevole che c’era in giro peril mondo un vescovo che, tutte le volte che una donna gli parlava,pensava “ascoltala con attenzione perché potrebbe insegnarti tantoquanto ti ha insegnato la Morra”. Io considero questo una mia vitto-ria personale. Ma non basta, però. Nel senso che ognuna di noi haavuto almeno una piccola vittoria personale, ma la questione è chenon ci deve essere più nessuno che pensa “che cosa può insegnarmiuna donna?”. Credo che la battaglia al clericalismo è una cosa che fabene a tutti, fa bene agli uomini e alle donne, anche alle donne ten-tate di clericalismo, ma non una battaglia generica, non semplice-mente a parole, in questo ha ragione Manuela Terribile, dobbiamoessere precise e chiarire bene cosa intendiamo quando diciamo “cleri-calismo”. Dobbiamo andare a lavorare sulla trasmissione di una cul-tura delle donne che è qualche cosa che in parte c’è, molte cose sonogià state pensate, dette e scritte ma, contemporaneamente, in partesono ancora da pensare o comunque da tradurre rispetto al passaggiogenerazionale. Anche questa è attenzione ai giovani e il problemanon è che i giovani leggano «L’Osservatore Romano» ma che chi hadella responsabilità, chi è prete, vescovo, che legge «L’O sservatoreRomano», tratti con i giovani in un altro modo, trasmettendo unacultura delle donne, una cultura che le donne hanno elaborato e con-tinuano a elaborare.

SUOR ELENA BOSETTI — Sono una suora della famiglia paolina, laCongregazione delle suore di Gesù Buon Pastore conosciute come“Pa s t o re l l e ”, proprio per un discorso di reciprocità con i pastori dellaChiesa. I fondatori sono furbi. Se il beato Giacomo Alberione ciavesse chiamato “p a s t o re ” probabilmente non avremmo avuto l’ap-provazione, sapeva di protestante... Ma “p a s t o re l l e ” (piccole pastore)è andato bene, promosse a pieni voti. Il ragionamento di don Albe-rione era comunque audace, ispirato alla Genesi: se non è bene chel’uomo sia solo, allora non è bene che neanche il prete sia solo.

Ho cominciato a insegnare alla Gregoriana su richiamo del cardi-nale Martini, quell’anno che è stato rettore. Gli feci notare che nonavevo ancora il dottorato in teologia, ma lui, vedendo quello che fa-cevo per le mie consorelle per portarle ad avere una cultura teologicaanaloga a quella dei sacerdoti (in modo che non fossero trattate co-

La battagliaal clericalismo

è una cosache fa bene

a tutti,fa bene

agli uominie alle donne,

anchealle donne

tentatedi clericalismo

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profonda dell’uomo. Per noi che ci occupiamo di arte, la materia ègià interdisciplinare, soprattutto l’arte cristiana che esprime la teolo-gia, filosofia, antropologia, storia, scienze umanistiche etc…. Ma c’èsoprattutto la vita. A volte nell’osservare un evento si può “v e d e re ”un quadro. Una volta, mi è capitato di notare un senzatetto, sporco emalato, che stava seduto a terra, tra le bucce arancioni degli agrumirovesciatesi da un cassonetto di immondizia. Lì c’era un mondo,quell’uomo in quel momento non era più un emarginato, ma il pro-tagonista attivo di un momento artistico, tra me e lui si è instauratauna comunicazione silenziosa di bellezza, tra la bruttezza e il marciu-me che lo circondavano, brillavano i suoi occhi e lì ho percepito ilmistero divino, e mentre quell’uomo riacquistava tutta la sua dignità,la perdevano tutti coloro che indifferenti gli passavano accanto. Hocosì capito gli artisti che, nelle loro opere, danno spazio agli emargi-nati: l’arte ridona loro ciò che il mondo gli ha tolto e cioè l’umanità.L’arte è questa! Ed educare all’arte cristiana significa togliere all’op e-ra il velo dell’apparenza per affondare nel mistero divino.

I vescovi, e il clero in generale, potrebbero prendere in considera-zione l’arte come un valido elemento per la pastorale, e non soloconcentrarsi nella musealizzazione. Ci sono anche molti giovani arti-sti che vorrebbero collaborare con la chiesa e molti fedeli che vorreb-bero essere aiutati alla fruizione delle opere d’arte cristiana. In sinte-si, manca una vera pastorale dell’arte e per questo mi piacerebbe chesi istituissero nei seminari e nelle università cattoliche discipline qualila “pastorale dell’arte” o la “comunicazione dell’arte cristiana”. Speroche questo giornale possa portare questi temi all’attenzione dei suoilettori.

CAT E R I N A RUGGIU — Ringrazio di questo momento di profondacompartecipazione del nostro vissuto. E questo credo che ci uniscaprima di qualsiasi altra cosa. Sono una coautrice del libro anche senon ho le vostre qualifiche, non sono teologa. Ho insegnato storia efilosofia a Roma, a Firenze e a Milano, e quindi sono stata chiamataalla redazione del periodico «Città Nuova». Attualmente collaboro alCentro Chiara Lubich del Movimento dei Focolari. Quindi inizial-mente ero un po’ perplessa ad accettare, però quando Sabina Cali-giani mi ha chiesto di parlare di “Chiara e la donna” l’ho fatto volen-tieri per diversi motivi. Papa Francesco, nella visita che ha fatto allacittadella del Movimento a Loppiano nel maggio 2018, ci ha dettoche il movimento era appena agli inizi, sottolineando con forza l’im-portanza di costruire una cultura dell’unità, non dell’uniformità.Chiara è stata — a mio parere — una donna profondamente ancorataalla tradizione della Chiesa, in linea con le grandi figure femminiliche di secolo in secolo l’hanno arricchita, e allo stesso tempo forte-

sviluppare una cultura di reciprocità, perché allora si costruisce ancheun nuovo modo di essere Chiesa.

MANUELA TERRIBILE — Quest’anno sto vivendo una bellissima av-ventura, quella di insegnare Dogmatica alla Lumsa, una universitàdove non esiste una facoltà di teologia. La teologia nelle universitàcattoliche è un insegnamento parallelo che serve a incarnare l’aggetti-vo “cattolico”; lì c’è un altro punto di vista, un altro orizzonte. Ilpunto di vista è quello di un numero, piuttosto alto, di ragazze e ra-gazzi che hanno la mentalità dei ventenni di adesso. Talvolta si com-portano come se fossero ragionieri di se stessi, non capiscono niente

di cose teologiche, ma soprattutto che non hanno quasi nessuna in-tenzione di capirle. Questo rende il mio lavoro molto divertente.Noi continuiamo a pensare, giustamente provando dolore, a unaChiesa dove il problema più grosso sembrano essere i sacerdoti equesto, ahimé, è vero. Ma la questione va anche ampliata: se noicontinuiamo a tirare su generazioni di ragazzi che hanno una cul-tura declinata con alcuni paradigmi e poi nella fede, semmai neavessero una, non hanno parole per nominare le loro strade, nonrimarranno; nella società in cui viviamo non c’è nessuno bisognodi rimanere nella Chiesa. Stare nella Chiesa non porta vantaggi,tranne, forse, per quelli che diventano completamente clericali.

CRISTINA MAND OSI — Quando ho iniziato la mia attività gior-nalistica mi sono dedicata alle pagine culturali e soprattuttoall’informazione religiosa e così mi sono diplomata prima in

scienze religiose e poi ho conseguito la licenza in scienze dellacomunicazione all’Università Pontificia Salesiana. Ho svolto anche

varie attività nell’ambito della comunicazione e in particolare nell’Uf-ficio per le comunicazioni sociali della diocesi di Frosinone-Veroli-Fe-rentino. In seguito, mi sono appassionata al mondo dell’arte e cosìmi sono iscritta alla Pontificia Università Gregoriana dove oggi sonouna dottoranda di ricerca in beni culturali della Chiesa. Quando horicevuto l’invito a partecipare a questo incontro, organizzato da«L’Osservatore Romano», ho accettato ben volentieri perché vorreiche trovasse spazio nel giornale un approccio all’arte, intesa comeluogo del vissuto e non come un bene meritevole di interesse, sola-mente per la sua valenza storico-artistica, ma come un luogo multi-culturale, di incontro, di esperienza e di apertura all’a l t ro .

L’arte non riesce a svilupparsi in contesti di chiusura, perché sinutre di suggestioni, di interpolazioni, di rimandi e più ricchezza dielementi si offre all’artista più egli riesce a esprimere al meglio ancheil suo profetismo. Ciò significa, per un giornale, anche tirare fuori daun’opera d’arte l’umanità, la cronaca, le storie e la dimensione più

L’arte ridonaagli emarginaticiò cheil mondo gli hatoltoe cioèl’umanità.L’arte è questa!

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sull’approccio multidisciplinare, sul rigore, eccetera… però anchequesto, cioè andare in alcuni gangli vitali della vita delle persone edelle donne. Io per passione, per esperienza, per esempio mi sonooccupata molto di allattamento sia in senso sociologico, sia di vissu-to, ed è uno di quegli snodi nella vita di una donna che dice molto,sul suo modo di stare al mondo, di relazionarsi, di vivere la contem-plazione nell’azione, la spiritualità. Ecco, stare anche in questi gangliqua mi sembra importante. Io non ho alle spalle studi di genere, so-no arrivata a questo tipo di impegno soprattutto per la sofferenza dicome veniva rappresentata la donna credente, qualcosa che mimetteva in estremo disagio; poi ho trovato altre che vivevanoquesto stesso disagio e ci siamo rese conto che quel disagiodella rappresentazione, in realtà, andava a raccontare unastoria molto più profonda, che è quella che abbiamo sentitoqui stamattina, cioè quella di una presenza femminile nellaChiesa che è una presenza che soffre, non soltanto costrui-sce e fa, ma anche soffre. Tutto questo mi ha permesso dirileggere alcune esperienze della mia vita. Come vive ladonna il proprio percorso di orientamento vocazionale(che è completamente diverso da come lo vive un uomo)?Mi interessano questi snodi.

EMILIA PALLADINO — Insegno nella facoltà di Scienze so-ciali della Gregoriana e ho una formazione particolare: ilmio primo titolo di studio è la laurea in fisica con indirizzocosmologia e ho fatto per qualche anno ricerca scientificafra l’Osservatorio di Monte Mario e il Laboratorio di co-smologia sperimentale della Sapienza a Roma. Poi ho la-sciato questi studi per intraprendere il percorso accademiconella Facoltà di scienze sociali della Gregoriana, dove hopreso la licenza e il dottorato in dottrina sociale della Chie-sa e ho continuato lì la carriera nella docenza universitaria.Da qualche anno sono stati cancellati dal piano di studi gliinsegnamenti dedicati alla famiglia, come ad esempio la so-ciologia della famiglia, anche se compare il mio corso sulledonne che però, proprio perché non c’è una formazione mi-nima sul tema delle relazioni fra i sessi, spesso è faticoso eforse poco incisivo in termini di preparazione accademica.

Ma la questione più seria sollevata da una tale impostazione èche quello che riguarda la vita concreta delle persone è affrontatosolo dalla teologia morale e non vi sono insegnamenti di altre disci-pline che sugli stessi argomenti dialogano con i contenuti teologici. Ec-co se «L’Osservatore Romano» riuscisse a sganciare la lettura dellavita ordinaria da un’impostazione esclusivamente morale (che può ri-

mente immersa nelle istanze più sentite del nostro tempo, che ha sa-puto discernere e interpretare nella conduzione stessa del Movimen-to. Un esempio: presidente dei Focolari sarà sempre una donna, coa-diuvata da un co-presidente e da un consiglio a sua volta formato inparti uguali da uomini e donne. I giovani sono “soggetto attivo” esono interpellati non solo nelle cose che li riguardano direttamente —come le giornate della gioventù o il Sinodo per i giovani a cui hannopartecipato dando il loro contributo — ma anche nelle questioni chetoccano l’intero Movimento. Chiara è stata definita “donna del dialo-go” che lei ha voluto e perseguito lungo l’intero corso della sua esi-stenza, a partire da quello all’interno della Chiesa, e sappiamo quan-to esso sia difficile e allo stesso tempo necessario. Mi pare che questadonna del nostro tempo, Chiara Lubich, abbia molto da dire allaChiesa oggi, e in futuro.

PAOLA LAZZARINI — Non so bene perché sono qui dal momento chenon sono una docente, sono una sociologa fieramente extra accade-mica, nel senso che faccio ricerca con un’associazione multidisciplina-re, ma non dentro l’università, ho fatto un dottorato in sociologiadella religione. Allora sono qui, credo, perché un anno e mezzo faormai, attraverso un percorso nato dai social ho dato vita a un’esp e-rienza che si chiama «Donne per la Chiesa» che, dai social, ha presoanche un po’ di vita extra web, nel senso che sono nati dei gruppi esiamo su sei città, con altre donne che ci stanno chiedendo di farepartire degli altri gruppi altrove e quindi ci stiamo organizzando. Ab-biamo costituito un’associazione il mese scorso, siamo proprio neona-te. Allora, io qua mi sento di portare l’esperienza non delle teologhema l’esperienza delle donne, quelle che stanno nelle associazioni co-me me. Io vengo dall’esperienza aclista, l’esperienza delle donne chestanno nelle parrocchie, che fanno le catechiste. Pensando un po’ aquesto incontro mi è venuta in mente la citazione di una canzone,Panic degli Smiths che dice “spegnete quella musica perché non diceniente di me e della mia vita”. Allora, questo secondo me, deve esse-re il centro e il cuore della questione, cioè bisogna suonare una musi-ca che dica qualcosa della vita delle persone. E, in particolare, iopenso alle lettrici donne. Cosa intendo per “dire qualcosa della vitadelle persone”? Mi ricordo un breve saggio molto bello di una teolo-ga che è un’amica di molte di voi, e sono felice di poter dire anchemia, Tina Beattie. Tina dice che quando ha iniziato a studiare teolo-gia dopo aver avuto i figli, la prima volta che le hanno parlato diepistemologia lei ha capito episiotomia. Perché l’episiotomia èun’esperienza che lei aveva provato nella carne e sapeva cosa era,l’epistemologia non sapeva cosa fosse. Mi sembra importante questo,partire anche, fermo restando tutto quello che è già stato detto

Questosecondo me,deve essere

il centroe il cuore

della questione,cioè bisogna

s u o n a reuna musica

che dicaqualcosa

della vitadelle persone

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rio. Esplorare concretamente cammini e aprire visione relazionalenell’educativo anche all’interno della Chiesa penso sia indispensabile.Un punto a fondamento, un’attenzione intelligente penso si debbaporre nei cammini formativi e nelle prassi usate per l’educativo deipresbiteri, Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, e dei consa-crati e delle consacrate, Ratio Formationis, laddove l’educativo all’hu-

manum dovrebbe essere rivisitato nel suo splendore originale, rivisi-tando anche l’interdisciplinare, il simbolico, il lessicale, il performati-vo senza false separatezze.

LAU R A C. PALADINO — Sono biblista, ma la mia formazione non ècominciata nelle università pontificie. Ho due lauree e un dottoratoconseguiti nelle università statali. Ho scelto di studiare Bibbia a Ge-rusalemme, all’età di quindici anni, avendo avuto come guida delpellegrinaggio un padre francescano straordinario che era padre Pie-tro Kaswalder. Gli devo questo ricordo perché in quell’esp erienzapresi la decisione di dedicare i miei studi alla Sacra Scrittura. Al mo-mento di scegliere l’università una idea mi ha guidato: portare ilVangelo dove non c’è, e quindi dedicarmi alla Bibbia nelle universitàstatali e pubbliche, prima Roma, poi Bologna. Il tema che ho studia-to, senza inizialmente sceglierlo, è sempre stato quello del matrimo-nio, forse mi fu assegnato perché ero donna, può essere. Fu comun-que una rivelazione, sia per il mio percorso di vita personale che perla focalizzazione delle mie ricerche successive. Studiando le declina-zioni dell’argomento ci si rende subito conto del fatto che si tratta diun tema originario, costitutivo: questo “non è bene che l’uomo siasolo” (Genesi 2, 18) non è, evidentemente, per gli sposati e basta, maè per tutti. Così, piano piano, avendo studiato il matrimonio ho co-minciato a seguire in particolare esercizi spirituali per coppie di spo-si, cosa che faccio ancora, e capitava che facendo la predicatrice qual-che coppia venisse a parlarmi, volesse cioè una direzione spirituale; ame questa cosa sembrava molto strana e ne parlai con il mio padrespirituale, il quale mi disse: “Ricordati che la tua è una vocazione pa-storale”. Io conserverò sempre la memoria di quel momento e diquelle parole, perché mi hanno guidato da allora in poi: pastoralevuol dire che non è maschile o femminile, ma descrive un compito,una vocazione e una missione, rivolta a uomini e a donne, ciascunocon la sua differenza. Il mio padre spirituale era un sacerdote, anziera un vescovo, faceva parte dunque della gerarchia: lo dico per sot-tolineare la necessità che conserviamo la fiducia piena nel fatto chec’è dentro la gerarchia consapevolezza e apprezzamento per quantocome donne facciamo. Egli mi disse ancora: “Tu puoi fare tutto quel-lo che ha fatto Maria. E tu pensi che non ci andassero per consi-glio?”. Effettivamente Lei era nel consesso degli Apostoli, ha accom-

schiare di essere giudicante) credo che sia molto utile per tutta la co-munità ecclesiale.

Il secondo punto riguarda i linguaggi. Va trovato infatti il modoper parlare a tutti attraverso strategie comunicative convincenti. Adesempio non andrebbe sottovalutata l’importanza della rete che rag-giunge più persone di quanto non faccia la carta stampata.

Infine, rispetto al tema degli stereotipi di cui ha parlato suor Ele-na, credo che la loro conoscenza sia una chiave interpretativa dellarealtà anche in termini sociologici: gli stereotipi sono ovunque e nonsolamente sul maschile e sul femminile. Se si riuscisse a smascherarela menzogna sulla quale spesso si poggiano gli stereotipi e i pregiu-dizi sarebbe una cosa davvero importante e si potrebbe offrire un’al-tra chiave di lettura del rapporto fra natura e cultura, oggi in larga

parte citato a sproposito.

SUOR NICLA SP E Z Z AT I — Sono una religiosa della Congrega-zione delle Adoratrici del sangue di Cristo. Ho insegnato

Sociologia dei processi culturali presso l’Università de-gli Studi Aldo Moro di Bari, e insegno presso ITVC

Claretanum, Pontificia Università Lateranense e loStudium della C I V C S VA , privilegiando sempre la ricerca

e la passione per l’educativo in tutte le sue espressioni.Ho reso il mio servizio alla Sede apostolica presso la

Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le societàdi vita apostolica per dodici anni, di cui sette come sottose-

gretario del Dicastero. Mi sembra fondamentale credere inun’utopia possibile: far convergere il nostro pensiero sull’identitàdell’humanum. Occorre procedere in cammini che nella propria iden-tità, maschile e femminile, dialogano e convergono nella crescita. Oc-corre avviare e continuare processi che non rivendichino, non separi-no, ma compongano pensiero e prassi nuove. Il focus a cui guardare èil mistero umano, maschile e femminile, da cui nasce ogni tesi di vitasecondo il modus originale. Mi pare indispensabile che accogliendo,evidenziando e rendendo giustizia alle quaestiones della donna si vadaoltre. Occorre continuare ad accendere ragionevolezze che confermi-no nelle prassi non la possibilità solitaria del femminile, ma il datoirrinunciabile dell’humanum, maschile e femminile, che diventa gene-rativo a ogni livello. Questo vale anche per la Chiesa. Alcuni degliinterventi che mi hanno preceduto hanno parlato delle nuove genera-zioni, dell’atto formativo, di una visione futura: sono d’accordo, è lìche dobbiamo puntare. Occorre far corpo di alleanza, rete generati-va, liberando il sim-bolico, cioè il primato del legame e della relazionepresente nella complessità della realtà creata, dall’umano al planeta-

P a s t o ra l edescriveun compito,una vocazionee una missioneche non èmaschileo femminile,ma è rivoltaa uominie a donne,ciascunocon la suad i f f e re n z a

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molto volentieri, perché qui si tratta non solo di preparare un libroma di diffondere un pensiero. Stavo pensando quanto è importanteche lo leggano le donne per responsabilizzarsi di più, per rendersipiù consapevoli della loro possibilità grazie alla loro ricchezza inte-riore tipicamente femminile e che lo leggano gli uomini che devonocapire di più. Certamente qui è uscito il tema che gli uomini dovreb-bero aprire di più le strutture e che noi verso di loro dovremmo esse-re più propositive, sperando che si aprano. La Chiesa ha bisogno chesi uniscano tutte le energie maschili e femminili per la sua evangeliz-zazione.

VALENTINA BRACHI — Sono una giovane studentessa prossima al ma-trimonio; maestra di religione cattolica, vaticanista per hobby. Duran-te il percorso universitario — mi sono laureata presso l’Università de-gli Studi di Firenze in storia del cristianesimo moderno e contempo-raneo — grazie alla guida della professoressa Bruna Bocchini Camaia-ni, sono entrata in contatto con il Coordinamento delle teologhe ita-liane, sul quale poi ho svolto la mia tesi di laurea. Da questa mia vo-glia di approfondire il ruolo delle donne nella Chiesa, è nata la ne-cessità di approcciarmi al mondo teologico. Mi sono iscritta all’Isti-tuto di scienze religiose di Firenze. All’interno di questo Istituto cisono molti giovani che, laici e religiosi, hanno la possibilità di con-frontarsi tutti i giorni in una dimensione senza dubbio privilegiata.

Quello che però spesso ci manca è un mediatore che colleghi laprima generazione di teologhe e l’attuale in formazione. Una figurache riesca a valorizzare l’identità e la pluralità delle donne, con unasemplicità inclusiva e non esclusiva. Ho avuto la fortuna di poterscrivere, per «L’Osservatore Romano», un breve articolo sulla festadi san Valentino. Una piccolissima esperienza che però è riuscita adaprirmi gli occhi, poiché è stata in grado di avvicinare amici e cono-scenti, a una realtà che non conoscevano. Per questo ritengo impor-tante la figura di un mediatore in grado di costruire un ponte tra lateologia e noi donne. Reputo opportuno che sia valorizzato anche ilrapporto con i giovani, tema che mi sta particolarmente a cuore. Nel-lo scorso sinodo dei giovani, a mio avviso, poteva essere maggior-mente richiesta la voce delle ragazze e dei ragazzi. È mancato, forse,proprio quel mediatore tra la Chiesa, il mondo e i giornalisti. Anchese i frutti di un lavoro consapevole sono visibili dalla nascita dell’im-portante documento finale.

Infine le donne: io mi sento nipote del Vaticano II e auspico unVaticano III. Il Vaticano II a noi giovani sembra lontano, ci pare par-te del passato. Sento la necessità di un coinvolgimento generaziona-le; a lezione parliamo di una Chiesa giovane, la cui identità rischia

pagnato la Chiesa nascente con la sua presenza, presenza di unaDonna che era stata abitata dalla Parola eterna del Padre; da quelmomento in poi ho capito chiaramente questa verità e questa voca-zione. Poi è capitato che mi ha chiamato qualche vescovo, come di-ceva suor Elena, particolarmente illuminato. Ricordo la prima voltache successe: mi chiamarono da una diocesi e il vescovo mi invitòper fare gli esercizi spirituali ai suoi sacerdoti. Ero ancora molto gio-vane e ricordo tanti sguardi, positivi e negativi. Il vescovo, uomo digrande sapienza, mi aveva chiesto di parlare di sponsalità del sacer-dozio, di calare dunque questa chiamata, che è per tutti, nella vita enella missione del presbitero. Fu una esperienza che mi fortificò mol-to, e mi convinse ancora di più della necessità di credere in una pre-senza feconda delle donne, e della loro parola, nella vita della Chie-sa, e nella apertura che la gerarchia mostra in questo senso. Ora inse-gno anche nelle Università Pontificie, tra cui la Pontificia UniversitàGregoriana, perché poi ho preso i titoli pontifici, e in particolare in-segno agli stranieri candidati al sacerdozio. Ad essi, nei singoli temidi studio, porto evidentemente i miei argomenti prediletti, che neltempo si sono arricchiti ma non sono cambiati. L’argomento centralesu cui riflettere nella Chiesa di oggi è a mio parere quello della rela-zione feconda che intercorre tra l’uomo e la donna, nella loro diffe-renza che conduce a unità. La differenza è principio di vitalità: sitratta di una verità esistenziale, oltre che scientifica. L’obiettivo èsottolineare questa differenza senza porre l’accento sull’uno o sull’al-tro dei due poli, perché entrambi devono essere valorizzati per il be-ne dell’umanità e della Chiesa. Come ho detto a Sabina nel corsodell’intervista, e come ho ribadito nel libro, ritengo che sarebbe unerrore controbattere a millenni di predominio maschile con la stessamodalità unilaterale, altrettanto dannosa. Ci è richiesto uno stile dif-ferente. Ci può aiutare l’immagine degli sposi. Cos’è il matrimonio?È una collaborazione, è una chiamata a stare insieme per fare unacarne sola, senza predomini o prevaricazioni dell’uno o dell’altra.Parliamo di questo anche nella Chiesa, di come possiamo collaborarecon le nostre differenze, perché siamo differenti, di come possiamotrovare vie di collaborazione concreta, reale, valorizzando ciò che èdifferente, con fiducia reciproca, per fare una carne sola, che è ilcorpo mistico di Cristo. Credo che questa sia la sfida della nostraep o ca.

SUOR MARIA LETIZIA PANZETTI — Sono della Congregazione delleFiglie di san Paolo e ho avuto la fortuna di lavorare nell’area dellacomunicazione, editoriale e audiovisiva, nella comunità delle Paoline,che è diffusa in più di cinquanta paesi in tutto il mondo. Voglio solodire un grazie a Sabina Caligiani con la quale abbiamo collaborato

Quello chespesso ci mancaè un mediatoreche colleghila primag e n e ra z i o n edi teologhee l’attualein formazione.Una figurache riescaa valorizzarel’identitàe la pluralitàdelle donne

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MARINELLA PERRONI — Posso essere solo telegrafica e rischio quindidi essere apodittica. Io rifiuto totalmente di ritrovarmi nella parola“femminile”, perché rischia di essere la somma di tutti gli stereotipi eha, di fatto, una forte carica che va contro l’identità delle donne. Tut-te le volte che voi lo avete usato, dentro di me io ho dicevo “no”.Qualcuna ha fatto riferimento alla pubblicazione del Coordinamentodelle teologhe italiane Non contristare lo spirito. Ha visto la luce 12 an-ni fa e ricordo che fin da allora discutevamo quale termine dovessi-mo usare, se femminista o femminile. Ci siamo sempre trovate d’ac-cordo che se il termine femminista è così detestato, soprattutto nellaChiesa, vuol dire che non garantisce la sopravvivenza degli stereotipied è, quindi, sano. Chiaramente parliamo di categorie di pensiero, distrumenti di analisi oltre che di movimenti storici. Questo mi portaalla seconda questione. Mi sembra che Yvonne l’abbia centrata per-fettamente quando ha parlato della necessità di scegliere criteri. Ledonne non sono tutte uguali, né sono un magma indistinto in cuitutte condividono il fatto di avere una sessualità femminile. Che oggile donne debbano essere integrate dovunque risponde a un criterio digiustizia antropologica. Ma io non voglio essere scelta solo perchésono donna. In particolare nella Chiesa, essere donna si carica di am-biguità e troppo spesso altro non significa se non una proiezionedell’idea clericale sul femminile. Credo che dobbiamo pretendere cheoggi, dopo 150 anni che le donne provano a far sentire la voce dellaloro differenza, siano ormai chiari i criteri per saper valutare il pesospecifico delle diverse donne. Al criterio della differenza sessuale sidevono aggiungere quello della competenza e quello dell’apporto cri-tico.

GIORGIA SA L AT I E L L O — Inizialmente mi volevo inserire dopo Yvonnepoi ci sono stati tanti interventi che mi hanno stimolata incomincian-do da suor Marcella Farina per cui io racconto solo una piccola espe-rienza che in qualche modo può essere utile. Da circa sei sette annimio marito e io alla Gregoriana siamo chiamati a tenere una lezioneal Centro per la formazione dei formatori al sacerdozio. La lezione lafacciamo parlando metà e metà mio marito e io. Poi nella secondaparte, più ampia, si passa alla discussione e questi formatori fannodomande, ebbene nessuno fa domande a mio marito ma tutti le fan-no a me. Questo può far riflettere. E allora riflettiamo su cosa abbia-mo da poter dire, su come lo possiamo dire, fermo restando che sonod’accordo con l’ultimo intervento di Marinella Perroni, che il puntonon è avere una fisiologia femminile ma avere probabilmente un ba-gaglio di esperienze un po’ diverso.

però di essere ancora troppo ancorata al passato. La novità la dob-biamo fare nostra per viverla e comprenderla. Grazie allo spirito con-ciliare, alle lotte delle teologhe e delle generazioni precedenti, noi og-gi siamo qui, con la possibilità di poter studiare nelle facoltà teologi-che, a chiedere un maggiore coinvolgimento della donna nella Chie-sa. Tutto questo non deve finire, deve essere portato avanti: oggi,non ci dobbiamo stupire che il capo di un dicastero, in Curia, siauna donna ma deve essere prassi, “normalità”.

MA R TA CROPPO — Sono la più piccola fra tutte, ho solo 19 anni: so-no al primo anno di filosofia e studio alla Sapienza. L’anno scorsoho avuto l’occasione meravigliosa di scrivere una delle meditazioni inoccasione della Via Crucis. Mi ha colpito molto la riflessione di Ceci-lia Costa: recuperare un’identità. Non c’è da parte nostra (di noi gio-vanissimi) la necessità di rinnovare o di introdurre nuovi valori piùmoderni — perché il cristianesimo di per sé è moderno, basta a sestesso e non serve aggiungere altro. C’è un problema di identità, darecuperare anche dal punto di vista sociologico del rapporto natura-cultura, — che cosa significa “chi sono io come uomo, come donna,come cristiano” —, per cui non serve demonizzare determinate cate-gorie come la complementarietà o la reciprocità. Se come dice PapaFrancesco non c’è altro Cristo se non il Cristo Crocifisso, forse nonc’è Chiesa che non sia sposa. Bisogna riflettere su questo, e recupera-re queste categorie originarie, come è stato detto sul matrimonio, cheè categoria originaria non solo per gli sposi, ma è anzi insita nell’es-sere umano.

Altra cosa fondamentale: il sentirsi parte di una storia. Forse hoavuto un’esperienza privilegiata, essendomi stato insegnato fin da su-bito un approccio alla fede di questo tipo, e di cui la lettura dellaBibbia in primis è segno. Certamente è importante recuperare unmodo di passare questo a noi giovani, ma non con un linguaggionuovo, direi con un linguaggio “così com’è”, sottolineando il fattoche esso parla della nostra vita. Per esempio, l’espediente evidente inmolta letteratura americana di parlare del deserto e così dell’AnticoTestamento può essere uno degli infiniti punti di partenza (un altromodo di tornare alle domande e alle categorie originarie, anche filo-soficamente parlando). A proposito di letteratura americana, vogliofare l’esempio di una scrittrice che in questo senso è centrale, ovveroFlannery O’ Connor — donna e cattolica — che in una cena tra amicie tra esperti insegnanti, discutendo su cosa sia l’eucaristia, un simbo-lo o no, si è azzardata a dire: “Se è un simbolo, che vada al diavo-lo!”. È necessario recuperare anche questo tipo di linguaggio, senzasnaturare, anzi potenziando, quello che la Chiesa e il cristianesimoda sempre sono. Mi sento di dire soltanto questo.

Non c’è daparte nostra

(di noigiovanissimi)

la necessitàdi rinnovare

o di introdurrenuovi valoripiù moderni.

C’è unp ro b l e m a

di identitàda recuperare

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vita. E secondo me è qui la problematica: che ci siano progetti for-mativi pieni di idealità ma anche con molto realismo che spingano ariconoscere i limiti, le fragilità, le vulnerabilità. Vedendo i progettieducativi, vedo invece che a volte sono molto carenti di realismo.L’altro elemento che vorrei richiamare, già è venuto fuori dalle paroledi Paola Lazzarini: non aver paura di riprendere delle tematiche chesono state emarginate a livello culturale. Temi come l’allattamento, lamaternità, la coppia, l’amore di coppia. Perché trascurando queste te-matiche antropologiche fondamentali stiamo creando anche delle dif-ficoltà nelle nuove generazioni per cui magari si rimanda l’esp erienzadi creare una famiglia, di sposarsi. Secondo me l’esperienza del reali-smo e l’esperienza dell’idealità vanno messe insieme senza emargina-re le tematiche dell’humanum. E vanno ripensate senz’altro critica-mente.

YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN — Sì, bisogna riprendere alcuni temiimportanti. In un continente dove ci sono sempre meno bambini,forse bisogna iniziare prima. Iniziare in primis a comprendere perchénon ci sono più matrimoni, perché nessuno va più nelle chiese. Sieduca a tutte le cose che forse non servono più, che non interessanopiù, invece di educare a un atteggiamento, anche a un atteggiamentodi avere un interesse, di volere relazionarsi, di avere la capacità di di-re no, con tutte le problematiche dell’abuso, di avere la capacità didire che è successo questo e quello. E questo, secondo me ha a chefare con la relazione tra la Chiesa e il mondo, con l’idea che il mon-do è cattivo e la Chiesa è buona. Vorrei riflettere sull’educare esull’avere un approccio, sulla formazione. Sembra sparire, a volte,l’approccio critico, il desiderio di andare oltre, di confrontarsi vera-mente con il mondo, di prendersi delle responsabilità. E secondo meda lì dobbiamo ricominciare.

SABINA CALIGIANI — L’ampio confronto che si è sviluppato va nellastessa direzione. Sono stati offerti molti spunti di riflessione, sonoemerse analisi importanti su esperienze fatte, metodiche da attuare emolteplici tematiche da trattare. Tutto questo può essere l’inizio diun fecondo contributo teorico e umano negli studi e nelle esperienzesulla differenza di genere, nel segno della partecipazione e della con-divisione, dell’apertura alle differenze e della ricerca di nuove sintesie unità complesse. Può nascerne un progetto nuovo, cui possano par-tecipare tutte le donne e anche, ovviamente, tutti quegli uomini con-vinti che la definizione dell’umanità, come emerge da La voce delle

donne, non possa che essere “duale”: il maschile e il femminile, nelledifferenze fondanti che fanno l’armonia dell’umano.

STELLA MORRA — Sottoscrivo in pieno quello che ha già detto Mari-nella Perroni e aggiungo alcune cose. Primo: non amo per niente enon condivido un ragionamento generico, per esempio, che ci sonostereotipi maschili o femminili; perché è vero, ci sono, ma la differen-za di potere esiste e questo fa una differenza radicale.

Secondo: i documenti non devono essere belli ma efficaci, pur sesono scritti male. Non mi interessa che un documento trasmetta piùo meno pathos, importante che sia giuridicamente efficace, nel sensoche deve creare condizioni per cui poi la vita della gente è interpella-ta perché cambiano dati oggettivi per cui si vive meglio e non perchégli si scalda il cuore; questo anzi potrebbe assomigliare a una formadi populismo. Deve toccare la vita della gente e possibilmente mi-gliorarla, deve creare delle condizioni tali per cui, per esempio, nellaChiesa non si stia più a disagio e si cominci a stare meglio.

Terzo: sì, è vero, ci sono migliaia di preti, vescovi bravi e sensibilie gentili, tutti noi ne abbiamo qualcuno amico e ce lo teniamo caroperché ogni tanto rischiamo di perdere la fede e ci andiamo a faredue chiacchiere e ci tiriamo su. C’è tantissima gente generosa, ma so-no stufa che il mio diritto battesimale a essere rispettata nella Chiesasia legato alla bontà o non bontà del vescovo che mi capita. La miadignità battesimale deve essere garantita da qualcosa che sia un po’più oggettivo. Quindi quando si parla di far sentire la voce delledonne non è semplicemente perché dobbiamo essere corresponsabilidi tutte queste cose (cosa senz’altro vera in ultima analisi), ma perchénel frattempo ci hanno calpestato. Questo bisogna dirlo. La storia ciha messo addosso stereotipi. Gli stereotipi sulle donne fanno tantopiù male degli stereotipi sui maschi. E gli stereotipi sui maschi fannomale anche a noi. C’è una sfumatura diversa, per cui fanno male duevolte, perché aumentano il loro potere. Non si chiamano stereotipiquelli, si chiamano illusioni di potere, è un’altra questione.

SUOR MARCELLA FARINA — Collegandomi all’humanum di NiclaSpezzati, ma anche già quando si parlava della nostra azione nelleuniversità, mi sono molto interrogata sul non cadere nel fraintendi-mento istruzione uguale formazione, uguale educazione, perché cer-tamente non basta l’istruzione, non basta la nostra lezione perché av-vengano processi educativi e formativi. In questo senso a me sembrache uno dei punti deboli proprio di questo clericalismo ecclesiale sia-no i progetti formativi, perché c’è un ideale di sacerdozio che vienein qualche modo proiettato nei progetti in cui il sacerdote è appuntocolui che è il pastore, colui che dà la vita per le pecorelle. Ovvia-mente un ragazzo che dalla famiglia entra in seminario, entra con lavocazione e facilmente si identifica con questa esperienza eroica della

Tutto questopuò esserel’iniziodi un fecondocontributoteorico e umanonegli studi enelle esperienzesulla differenzadi genere,nel segno dellapartecipazionee dellacondivisione

La storiaci ha messo

addossos t e re o t i p i .

Gli stereotipisulle donnefanno tanto

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sui maschifanno maleanche a noi

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del nostro tempo, altrettanto scossa, non per via di invasioni ma percrisi, deprivazione di valori, paura, perdita del sentimento dell’uma-no. Rumiz si domanda se anche oggi la risposta non risieda propriolì, in quella regola e in quella postura che somigliano in modo sor-prendente al meglio dell’Europa che abbiamo vissuto e immaginato.Così, da Praglia a Viboldone, da Muri Gries e Marienberg a Cîte-aux, da Orval ad Altötting a Pannonhalma, e nelle altre abbaziesparse per l’Europa, incontrando monaci e più di rado monache, per-sone spesso dalle storie straordinarie, trova la chiave del monachesi-mo benedettino nella «democrazia» e nella stabilitas delle abbazieche in ogni luogo costruiscono nuclei autosufficienti e in relazionecon il territorio, nella Regola e nelle regole, che danno ordine allospazio e al tempo, nel silenzio, nell’ora et labora che tiene insieme at-tività pratica, preghiera e riflessione, nell’ascolto, nel valore dell’acco-glienza.

A Norcia dove le monache, trasferite a Trevi per via del sisma, tor-nano per curare l’orto o badare alle api, la badessa Caterina Coronagli racconta di come le monache africane propongano una via allapreghiera attraverso il corpo, la danza, e di come questa novità siauna ricchezza. Ed è in un’abbazia femminile, a Viboldone, che Ru-miz trova il filo concreto e simbolico che dà il titolo al libro: un’an-ziana monaca che fila, il gomitolo sul pavimento accanto alla tonacanera. La badessa Maria Ignazia Angelini gli racconta di come le umi-liate «nel Trecento filavano e tessevano la lana mentre i monaci lavo-ravano alla tintura». Il simbolo della filatura, secondo la badessaesprime proprio: «il lavoro di umanizzazione dell’Europa che le gio-vani, oggi, sono chiamate a immaginare e a creare».

Il filo d’E u ro p adi CAROLA SUSANI

«I l filo infinito» di Paolo Rumiz ha come sottotitolo Viaggio al-

le radici dell’E u ro p a . Il viaggio comincia nel cuore dell’App en-nino terremotato, fra Castelluccio, Amatrice e Norcia, dove,intatta nella distruzione, si erge la statua di San Benedetto,patrono d’Europa. Luoghi abbandonati per colpa dell’a t ro f i amorale della politica, e tuttavia luoghi potenti, che hanno indote un’immensa forza priva del suo pieno riconoscimento.L’intuizione è che l’Appennino tellurico sia il centro dell’Eu-ropa, il centro propulsore, ancora oggi come lo fu per il mo-nachesimo benedettino, che per via del suo fondatore da lì si

diffuse verso Sud e verso Nord, in una tessitura che diede formaall’Europa. Scoprire cos’è oggi il monachesimo benedettino, rivelarloattraverso luoghi, voci, volti, silenzi, musica, imprese, e al tempostesso dare contenuto alla formula abusata circa le «radici cristiane»dell’Europa è obiettivo, raggiunto in modo serio e talvolta spiazzan-te, da questo libro.

Scritto da un non credente, un cercatore, Il filo infinito ci porta inItalia, Francia, Germania, Austria, Ungheria. Prima però di intra-prendere il viaggio, Rumiz ci provoca a spingerci giù nel tempo, finoa quel VI secolo in cui il mondo occidentale, orfano dell’Impero ro-mano, scosso dalla guerra greco-gotica, frammentato, impoverito, pri-vo di legami, preda di popoli armati, trovò nella Regola di san Bene-detto la strategia, lo slancio quieto per dar vita a un’Europa nuova.A quella terribile soglia Rumiz paragona la condizione dell’E u ro p a

LIBRI

La copertina del libro:Paolo Rumiz,

Il filo infinito,Feltrinelli, euro 15

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libera, accetta da me questo, tu sei Colui che ascolta e conosce» (Co-

ra n o 3, 35).

2. Maria viene messa sotto la protezione di Dio, contro il male,contro Satana: «E quando la partorì, disse: Signore! Ecco che io hopartorito una femmina! Ma Dio sapeva meglio di lei Chi essa avevapartorito. Il maschio non è come la femmina, ma io l’ho chiamataMaria, e la metto sotto la Tua protezione, lei e la sua progenie, con-tro Satana, il reietto. E il Signore l’accettò di accettazione buona»(C o ra n o 3, 36). Lei, Immacolata! Questo dogma che la Chiesa cattoli-ca ha elaborato cento anni orsono, è stato presentato quattordici se-coli fa dal Corano.

3. Maria è il fiore mistico del Corano, cresciuto sotto la diretta at-tenzione del suo Signore; è Nabat, nabatan hasana, il fiore bellissimo,unico. «È Dio che la fa germogliare, di germoglio buono» (C o ra n o 3,37).

4. Maria, giovanissima, viene affidata a Zaccaria, profeta santo deltempo, che rimane stupito per i doni miracolosi che lei riceve. «Eogni volta che Zaccaria entrava da lei nel santuario, vi trovava del ci-bo misterioso, e le diceva: “O Maria, da dove ti viene questo?” E leirispondeva: “Mi viene da Dio, perché Dio dà della sua provvidenzaa chi vuole, senza conto”» (C o ra n o 3, 37).

Con la sua fede saldissima, diventa la maestra di fede dello stessoprofeta, che crede di poter anche lui sperare e chiedere a Dio un fi-glio: «Allora lì, gli angeli danno la buona novella della nascita diGiovanni, profeta fra i buoni» (C o ra n o 3, 39).

5. Maria è la vergine del Corano e suo figlio è Isa ibn Mariam,Gesù figlio di Maria. L’annunciazione viene descritta in modo straor-dinario: «“O Maria, Dio ti annuncia la buona novella di un Verboche viene da Lui e il cui nome sarà il Cristo, Gesù, figlio di Maria,eminente in questo mondo e nell’altro e uno dei più vicini a Dio. Edegli parlerà agli uomini dalla culla come un adulto”. “O mio Signo-re, rispose Maria, come avrò mai un figlio se non mi ha toccata al-cun uomo?”. Rispose l’angelo: “Eppure Dio crea ciò che Egli vuo-le”» (C o ra n o 3, 46 e 47).

6. Maria è santa, devota, pura. Qanitan, seddiqa.

7. Maria sceglie la luce, Dio, sempre! Quando si allontana dallasua famiglia Maria entra in un periodo di meditazione profonda,crea il suo castello interiore. L’espressione usata dal Corano è maka-

nan sharqiyyan, un luogo a oriente. E l’oriente è simbolo del sorgeredel sole, origine della luce (C o ra n o 19, 17).

Maria nel Corano

di SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEH

Il mese di maggio è detto mariano in quanto dedicato alla devozionedi Maria, una figura eccezionale e sempre più considerata via e pon-te tra i popoli, soprattutto tra cristiani e musulmani, che vedono inlei un faro e un modello di fede autentico ed esemplare.

La sua straordinarietà è riscontrata nel Corano: il nome di Mariaappare ben trentaquattro volte nel libro sacro dell’islam, più di quan-te non appaia nel Vangelo.

Maria è sublime. È il fiore mistico: Anbataha nabatan hasana. Èvergine, santa, libera, in dialogo con gli angeli, devota, sapiente, mo-dello per tutti gli uomini di tutte le fedi, recipiente del Verbo di Dio,l’eletta unica del Signore, esempio eccellente.

Maria è l’amata del Corano. Nessun’altra donna è nominata colproprio nome nell’intero testo. Lei è la grande via del dialogo,dell’incontro e della fratellanza spirituale tra cristiani e musulmani.«O Maria, in verità Dio ti ha prescelta e t’ha purificata e t’ha elettasu tutte le donne dei mondi» ( C o ra n o 3, 42).

Ecco la figura di Maria nel Corano in dodici punti:

1. Ancora prima della sua nascita, Maria viene affidata a Dio attra-verso il voto della propria madre, ed è l’unica persona che ha il titolodi m o h a r ra r, libera e liberata, nel libro sacro dell’islam «Quando lamoglie di Imran disse: o Signore, io voto a te ciò che è nel mio seno,

DODICI PUNTI DI F R AT E L L A N Z A

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8. Maria sente la voce degli angeli, è in dialogo con loro: «Quan-do gli angeli dissero: O Maria, ecco che Dio ti annuncia un Verboda parte sua: il suo nome è l’unto, Messia, Gesù figlio di Maria, illu-stre nella vita presente e nella futura, in culla parlerà alle genti, enell’età matura. Essa disse: come potrò avere un figlio quando nes-sun uomo mi ha toccata. Disse: così sia, Dio crea ciò che Egli vuolee gli insegnerà il Libro e la sapienza e la Torah e il Vangelo» (C o ra n o

3, 44-47).

9. Maria, non solo dialoga con gli angeli, ma è esempio sublime,se non unico, tale da poter ricevere, incontrare, accogliere in sé,nell’anima e nel corpo, lo Spirito di Dio ruhon minh, e vedere facciaa faccia lo Spirito Santo, trasformato per lei in una forma umanaperfetta «fa arsalna ilayha ruhana, fatamassala laha basharan saviyya».«Abbiamo mandato verso di lei il Nostro Spirito, apparso a lei sottoforma di uomo perfetto» (C o ra n o 19, 17).

10. Maria è sola, addolorata, il Corano non parla mai di Giuseppe.Racconta il momento della prova grandissima del parto, in una so-cietà che non accetta in nessun modo una ragazza che partorisce sen-za marito: lei si rifugia presso un albero secco e morto. Il testo sacronarra la solitudine e il dolore enorme che Maria incontra e accetta,ricorda il suo grido unico: «Ebbe le doglie accanto al piede di unapalma morta, jiz’innikhla, e disse: fossi morta prima di questo e fossidimenticata!» (C o ra n o 19, 23).

Ma questo dolore non rimane tale. Anzi si tra-sforma radicalmente in gioia: «Allora la chiamò dasotto di lei: non affliggerti. Il Signore ha posto sotto di te sariyyan,

scuoti verso di te il tronco della palma, rinverdisce e farà cadere su dite datteri freschi e maturi, mangia e bevi e il tuo occhio si rallegri»(C o ra n o 19, 26).

Sariyyan è una fontana d’acqua pura che scorre in silenzio e nellanotte. La stessa parola nella forma verbale a s ra viene usata nel Cora-no per il viaggio mistico notturno del profeta Mohammad, meta delcammino ascetico nella tradizione islamica, dalla Mecca a Gerusa-lemme e da Gerusalemme al cielo, per poi fare ritorno nella stessanotte (C o ra n o 17, capitolo di Isra’).

Maria non solo offre il Verbo di Dio al mondo, ma ora lei ha sot-to di sé sariyyan e con la sua fede, scuotendo verso di sé un alberosecco e morto, lo fa risuscitare.

Maria è l’esempio perfetto del fedele, cerca la luce, la accogliesempre, non in un modo passivo, ma sempre attivo.

11. Maria è la madre di Gesù Cristo: Isa Massih, il Messia, coluiche nel Corano è Verbo di Dio, un Suo Spirito, Benedetto do-vunque sia, il prossimo a Dio M u q a r ra b , Servo di Dio, ilprofeta di Dio, Colui che fa miracoli, dà la vista ai ciechi,crea dalla forma di un uccello, un uccello vivo con il suosoffio vivificante. Risuscita i morti, è Colui che dopo la mi-steriosa morte viene innalzato presso Dio, inni mutawaffika

wa rafi’uka ilayya; Gesù nel Corano quasi sempre viene pre-sentato come il frutto del seno di Maria, frutto del fiore mistico,dell’amata di Dio. Isa ibni Maryam: Gesù figlio di Maria.

12. Maria è un modello da seguire, per i musulmani, i cristiani etutti coloro che cercano un esempio perfetto di fede e di verità (C o ra -

no 66, 12).

Perché? Non solo perché Dio a rs a l a ha mandato verso di lei il SuoSpirito, non solo perché ha incontrato la potenza di Dio, Alqa ilayha,

non solo perché Dio ha soffiato e insufflato in lei il suo stesso spiritonafakhna fihe min ruhena. Ma anche perché lei è l’esempio sublime emaestra di sapienza e unità.

Maria ha confermato le parole di Dio, e i suoi Libri, al plurale!L’anima di Maria abbraccia tutti, come una meravigliosa madre.

Mohammad rasul Allah e habib Allah ci fa leggere nel Coranoquesto concetto della pluralità infinita delle parole di Dio: «D i’: “Seil mare si facesse inchiostro per scrivere le parole del Signore, certo ilmare sarebbe esaurito prima che fossero esaurite le parole del Signo-

Le immaginiche illustrano l’articolosono tratte dal volume«Maria - Il culto daOriente a Occidente».Una preziosapubblicazionedell’Istitutodell’Enciclop ediaitaliana Treccani: diecisaggi, 550 immagini inoltre 700 pagine aperteda un contributo delcardinale GianfrancoRavasi.

Maria con Gesù in grembo(particolare, XVI secolo)

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re, e perfino se ne aggiungessimo unoeguale”» (C o ra n o 18, 109).

Cristiani, musulmani: forse sarebbetempo, di usare la parola NOI, noi cre-denti in Dio, creatore dei cieli e dellaterra, un noi di persone, che amandoDio cercano di servirLo nei loro pros-simi umani.

Quale è la via di Dio? E cosa chie-de radicalmente il profeta Mohammadnel Corano?

Due versetti paralleli ce lo spiega-no:

I. «Io non vi chiedo nient’altro co-me ricompensa, tranne una cosa sola:Amore verso il prossimo» (C o ra n o 42,23).

II. «Io non vi chiedo nient’altro co-me ricompensa, ma solo qualcuno chevoglia scegliere la Via del Signore»(C o ra n o 25, 57).

Allora, la via del Signore è: amare ilp ro s s i m o .

In questo mese mariano, mandare dei raggi di speranza, e di rico-noscenza reciproca, verso un mondo che soffre di divisioni, indiffe-renza, ingiustizia e terribili guerre sarebbe un autentico atto mariano.

Creando un NOI di credenti, frutti differenti di un unico giardino,si potrà seguire Maria, il comune e sublime esempio di fede, capacedi accogliere le molteplici parole di Dio. È accogliersi gli uni con glialtri, la via autentica da percorrere, per poi poter accogliere l’umani-tà, amata da Dio. L’Italia ha come patrono San Francesco d’Assisi,quest’anno si celebra l’ottavo secolo del suo incontro con i musulma-ni d’Egitto. Avendo in Maria un modello comune, potrebbe forsel’Italia, come già ha fatto il Libano, scegliere il 25 marzo, giornodell’Annunciazione, come la giornata della fratellanza tra cristiani emusulmani? Papa Francesco nello storico viaggio in Egitto disse sag-giamente: «L’unica alternativa all’incontro tra le civiltà è lo scontrotra le inciviltà». Che il mese di maggio e i suoi fiori primaverili inon-dino le nostre menti del profumo della sapienza mariana, accoglientee universale.

Maria scuote la palma,con Gesù appena nato

sul prato(pagina del Qis.as. al-

Anbiyā´ [Storie dei profeti]di al-Nīshaburi, seconda

metà del XVI secolo)

SIMBOLI NELLA BIBBIA

Le vesti parlano

di IV E TA ST R E N KO VÁ

Per gli esseri umani vestirsi è una necessità quotidiana. Il fatto è cosìovvio che non ci pensiamo tanto. Eppure non esiste nessuno, uomoo donna, che non si sia mai domandato: «Come mi vesto domani,cosa mi metto?». Lo facciamo pensando al tempo che farà o agli im-pegni e agli incontri che ci attendono.

I vestiti servono a riparare il corpo degli esseri umani e allo stessotempo la loro integrità e dignità. Il modo di vestirsi parla anche diidentità, quella individuale e quella collettiva. Con l’abbigliamento sicomunica l’appartenenza a un gruppo sociale o religioso e anche ilruolo assunto. Dagli indumenti si può addirittura percepire lo statod’animo di una persona, intuirne i sentimenti o il temperamento. Ecertamente essi rispecchiano il contesto e la cultura in cui si vive.Occorre però tenere conto anche del fatto che nell’abbigliamentopossono nascondersi anche l’inganno o il pericolo: con esso infattinon solo si esprime l’identità, ma la si può anche dissimulare. Insom-ma, già da queste semplici osservazioni si evince il fatto che l’abbi-gliamento è e rimane senza dubbio un elemento dal vasto spettro in-t e r p re t a t i v o .

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a crescere fino alla maturità (16, 1-7). Si tratta di una sorta di adozio-ne. A partire dal v.8 si descrive poi una nuova fase del rapporto. IlSignore passa per la seconda volta, al tempo della sua giovinezza edegli amori. Stende il suo mantello su di lei per coprirne la nudità,sancendo un’alleanza con la giovane che in tal modo diventa sua (16,8). In questo testo, come in altri del Vicino oriente antico, la vesteassolve una funzione specifica di carattere giuridico: il mantello serveinfatti a identificare il “p ro p r i e t a r i o ” e il gesto parla del suo coinvol-gimento nella relazione con l’altro. La donna entra così sotto la pro-tezione del marito (del Signore) e diventa esclusivamente sua.

Il profeta successivamente sviluppa la metafora delle vesti elencan-do i materiali preziosi con cui sono realizzati gli abiti della giovanedonna. Vestita di stoffe variopinte, coperta di tessuti finissimi, cintadi bisso, calzata di pelle pregiata e adorna di gioielli d’oro e d’a rg e n -to posti sulle diverse parti del corpo, essa diventa sempre più bella edegna di essere regina. Tutto rimanda a un amore incondizionato edeccedente che dona senza misura all’amata riconoscendone la dignità.Un amore sovrabbondante, sottolineato ulteriormente da una secon-da menzione dei preziosi materiali usati per le vesti (16, 10-13). Non èstata la bellezza ad attirare l’attenzione del Signore e a suscitare ilsuo amore, ma — al contrario — è stato il suo amore a farne una don-na di bellezza perfetta (16, 14).

Nella Bibbia però ogni dono ricevuto diventa prova, perché undono è veramente tale quando è accolto con gratitudine e ammini-strato responsabilmente. Ciò avviene anche per la donna-Gerusalem-me. La storia di questa relazione è così marcata da una svolta: ladonna, invece di riporre la sua fiducia nel Signore dei doni, si fa for-te della sua bellezza e inizia a prostituirsi. La metafora delle nozze edella prostituzione era stata usata precedentemente nel libro delprofeta Osea (Osea 1–3), in cui la donna infedele pensa che i suoi do-ni le siano stati procurati dai suoi amanti e non dal marito (Osea 2,7). Nella parabola di Ezechiele la situazione è più grave, perché levesti ricevute dal Signore sono usate per l’idolatria, come dono delladonna a tutti i suoi amanti (Ezechiele 16, 33-34). Come è potuto suc-cedere tutto questo? Nella storia di Gerusalemme è venuta a mancarela memoria: memoria della giovinezza, cioè del momento fondatore(16, 22).

Il motivo vesti/nudità continua a essere presente anche nel prosie-guo del racconto, ove si descrive il castigo divino. Lì sono gli stessiamanti di Gerusalemme che la spogliano dalle sue vesti lasciandolanuda (16, 39). Ma nonostante il tradimento della donna, il Signorenon ha dimenticato la sua alleanza stipulata nei giorni della sua gio-vinezza; e l’ultima parola che le sarà rivolta è una parola di perdono

Nella Bibbia sono diversi gli episodi in cui i vestiti giocano unruolo significativo. Al di là dell’uso pratico legato alla quotidianità,spesso troviamo testi in cui essi assumono una dimensione simbolicae metaforica.

È degna di nota la prima comparsa del verbo “v e s t i re ” nella Bib-bia: essa ha Dio come soggetto (Genesi 3, 21). La narrazione dellacreazione dell’uomo e della donna e della loro disobbedienza al

Creatore (Genesi 2–3) è costruita intorno al motivo della nuditàe del vestito. Quando da parte del Signore viene presentata ladonna all’Adam, egli parla per la prima volta dicendo: «Que-sta volta (essa è) osso delle mie ossa e carne della mia carne.Costei sarà chiamata ’iššah perché da ’iš è stata tratta!». L’uo-mo riconosce nella donna quell’aiuto che gli sta davanti, l’aiutoche gli è pari: si riconoscono, cioè, l’uno nell’altro. Il giardinoaffidato alla loro custodia, con tutti gli alberi buoni da man-giare, evidenzia il dono che giunge prima del comandamentodi non mangiare da uno degli alberi.

A questo punto della narrazione, prima che la coppia disob-bedisca, la donna e l’uomo sono nudi e non si vergognano (2,25). Solo dopo aver preso e mangiato dell’albero della cono-scenza del bene e del male, si accorgono della loro nudità ecercano di coprirla facendosi delle cinture con foglie di fico (3,7). Ma il racconto termina con l’annotazione: «Il Signore Diofece all’uomo e a sua moglie tuniche di peli e li vestì» (3, 21).

Tale chiusura è altamente evocativa e indica l’insufficienza del tenta-tivo delle creature di ricostruirsi la loro condizione originaria: l’uomoe sua moglie non sono in grado di farlo da soli. Infatti, la paura pro-vocata dal riconoscersi nudi ha segnato la loro relazione con il Si-gnore (3, 10). Il vestito donato dal creatore alle sue creature nellanuova condizione in cui si sono ritrovati dopo la disobbedienza, èinvece simbolo del fatto che Dio prende sul serio l’essere umano e lasua libertà. Esso diventa segno dell’amore divino incondizionato edella sua cura premurosa. In tal modo, Dio nobilita la dignità degliesseri umani.

Le vesti sono utilizzate come simbolo dell’amore di Dio anche nelsuo particolarizzarsi verso il popolo di Israele. Il profeta Ezechiele fauso di questa immagine in una bellissima parabola (Ezechiele 16) cheesprime la fede di Israele nell’elezione divina come momento fonda-tore della sua esistenza. Il rapporto tra il Signore e Gerusalemme èevocato dalle metafore della figlia e della sposa. Gerusalemme è co-me una bimba abbandonata nel giorno stesso della sua nascita: eraesposta al rischio della morte, ma lo sguardo compassionevole del Si-gnore la fa vivere e le azioni che il Signore compie per lei la portano

L’autrice

Iveta Strenková è unareligiosa dellaCongregatio Jesu. Si èlaureata in teologiapresso la facoltàteologicadell’UniversitàComenius diBratislava. Hacontinuato gli studipresso la PontificiaUniversità Gregorianadove ha conseguito ildottorato in teologiabiblica con una tesi sullibro del profetaNaum. Dal 2013 al2018 è stata ladirettrice dell’Ufficiodell’Apostolato biblicocattolico di Slovakia(B i b e l w e rk ).Attualmente è ladirettrice del Centro diSpiritualità di MaryWard e lavora nelgruppo di biblistislovacchi suiCommentari all’An t i c o

Te s t a m e n t o , inparticolare sui Salmi esul libro di Naum.

«La cacciata di Adamoed Eva dal Paradiso

terrestre» (Sant’An g e l oin Formis, 1070)

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e di alleanza eterna (16, 60). Così ella conoscerà ilsuo Signore.

Parlando di vesti nella Scrittura sarebbe impossibi-le non ricordare alcune grandi figure femminili qualiTamar, Rut, Ester, Giuditta. Queste storie dell’AnticoTestamento, se lette da una prospettiva cristiana e con

una valutazione etica fondata sui nostri codici, appaionosenza dubbio problematiche. Tentiamo allora di adden-trarci in alcuni di questi racconti per rileggerli da un’altraangolatura: queste donne coraggiose, per riscattare la si-tuazione loro o del loro popolo, cambiano le vesti espo-nendosi al rischio.

Nel libro della Genesi si racconta di una donna chenon si rassegna al suo stato di vedovanza e il cambia-mento delle vesti fa parte dello stratagemma architetta-

to per ottenere un figlio. La vicenda di Tamar (Genesi 38) fa parte delgrande ciclo sulla “discendenza di Giacobbe”, cioè Giuseppe e i suoifratelli (Genesi 37–50), e questo è un dato significativo visto che nelciclo proprio la veste di Giuseppe fa da protagonista ed è il pretestoper l’avvio dell’azione. Con i vestiti qui si esprimono l’affetto e lostato privilegiato dei personaggi; essi possono rappresentare anche illoro potere. Nel capitolo 38 Tamar, dopo la morte di due mariti (i fi-gli di Giuda), viene rimandata a casa di suo padre a vivere come ve-dova. Giuda infatti si rifiuta di darle in marito il terzo figlio. Dopomolto tempo, durante il quale Giuda non ha mutato questa sua deci-sione, egli si reca alla festa per la tosatura del gregge; anch’egli è giàvedovo e sulla strada viene sedotto dalla bellezza di una prostituta.Giuda non riconoscendo sotto il velo sua nuora Tamar, la quale hadeposto i suoi vestiti di vedova fingendosi una prostituta, si unisce alei. Sarà soltanto davanti alla notizia della gravidanza di Tamar cheegli dovrà confrontarsi con la verità, riconoscendo non solo il pegnoche le aveva lasciato, ma anche la giustizia di Tamar: «È più giustadi me» (Genesi 38, 26). In che cosa consiste la giustizia di Tamar, dif-ficile da individuare per la nostra mentalità? Ella si è esposta all’umi-liazione per osservare il comandamento del Signore di «essere fecon-di» e per conservare la discendenza della famiglia. Ed è dalla sua di-scendenza, dal figlio Perez, che nascerà il re Davide (Rut 4, 12. 18-22).

Anche il libro di Giuditta racconta un’altra vicenda di “ro v e s c i a -mento delle sorti”; questa volta però essa coinvolge non solo unapersona, ma un’intera città. Giuditta, rimasta vedova dopo la mortedel marito, già da tre anni e quattro mesi porta vesti di vedovanza ein più si cinge i fianchi di sacco; trascorre i giorni sulla terrazza di

casa nella preghiera e nel digiuno (Giuditta 8, 4-6). Ma avviene chela sua città di Betulia subisce un assedio dal potente esercito di Na-bucodonosor; il popolo è talmente abbattuto da decidere di arrender-si al nemico. Soltanto lasciano a Dio cinque giorni di tempo, qualoraegli voglia intervenire.

In questa situazione di grande pericolo, Giuditta si oppone alloscoraggiamento e alla disperazione della sua gente, decidendo diesporsi al rischio cambiando “lo stile di vita”. Dalla terrazza scendenella casa dove di solito stava soltanto nei sabati e nei giorni di festa;depone il sacco e l’abito vedovile e indossa vesti di festa e ornamenti(10, 2-4). Vestirsi così anche in situazione di pericolo significa confi-dare nella vittoria: Giuditta ha rivolto a Dio la sua preghiera e le suevesti diventano il simbolo di una profonda fiducia in lui. Ma tale fi-ducia non resta inerte e passiva; cambiarsi d’abito è solo il primopasso del cammino verso un piano di liberazione dal nemico.

L’abito e gli ornamenti di Giuditta fanno risaltare ancora di più lasua bellezza e avvenenza (8, 7; 10, 4), qualità che — insieme alla sag-gezza e all’astuzia — diventeranno le armi per la vittoria. Scesanell’accampamento nemico, incontra il generale Oloferne, loda la suasapienza e le abilità del suo genio e riesce a convincere gli avversariche è fuggita per aiutarli a prendere la città. Con la sua bellezza con-quista il generale che, desideroso di possederla, la invita a un ban-chetto. Giuditta, agghindata di vesti e di ogni altro ornamento fem-minile (12, 15), dopo la cena approfitta dell’ubriachezza di Oloferneper tagliargli la testa e guadagnare così la vittoria per il suo popolo.

Giuditta è una donna di grande fiducia, coraggio e disponibilità acambiare il proprio stile di vita e a rischiare. Sul piano simbolico,potremmo dire che mutando le vesti ha ribaltato le sorti del suo po-polo. In tal modo la vedova senza figli ha rigenerato la vita del po-polo che viveva senza speranza; e possiamo immaginare gli abitantidi Betulia che insieme con Giuditta cantano: «Tu mi hai tolto l’abitodi sacco e mi hai rivestito di gioia» (Salmo 30, 12).

Al termine di questa breve rassegna di testi biblici in cui i vestitihanno un ruolo significativo, avendo anche apprezzato la valenzasimbolica del vestito donato agli uomini dal Signore come espressio-ne di amore e di cura, ci piace ricordare che nella Bibbia lo stessocorpo umano è in qualche modo considerato il vestito che Dio hafatto agli uomini. Possiamo così proclamare insieme al salmista: «Seitu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia ma-dre. [...] Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato insegreto, intessuto nella profondità della terra» (Salmo 139, 13-15; cfr.anche Giobbe 10, 11).

Artemisia Gentileschi«Giuditta

con la sua ancella»(1618-1619)

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Un cambiamentodi paradigma

VU LT U M DEI QUA E R E R E

È assolutamente indiscutibile cheuno degli obiettivi del pontificatodi Papa Francesco sia orientato alriconoscimento e alla valorizzazio-ne della speciale vocazione e mis-

sione delle donne nella Chiesa. Tra i suoi moltigesti e parole, che confermano quest’indirizzo inmodo chiaro e inequivocabile, va posta senzadubbio la Costituzione apostolica Vultum DeiQ u a e re re , dedicata alla vita contemplativa fem-minile e firmata il 29 giugno del 2016. Un do-cumento singolare, per molte ragioni, che rap-presenta un cambiamento di paradigma nellacomprensione della vita contemplativa delledonne nella Chiesa.

È nostra intenzione sottolineare alcuni degliaspetti più significativi, che possano offrire unaluce a tutti — perché la vocazione contemplativaè anticipo e annuncio del destino ultimo di ognicristiano e della creazione intera, cioè la chiama-

ta alla comunione sponsale con Cristo — e con-temporaneamente un invito alla lettura integraledel testo.

Esso è il punto culminante di un dialogo conle donne contemplative che la Santa Sede iniziòapertamente anni fa, attraverso diversi questio-nari, inviati a tutti i monasteri del mondo dallaCongregazione per gli istituti di vita consacratae le società di vita apostolica. Questa Costitu-zione nasce pertanto come risposta alla paroladelle contemplative invitate a riflettere sulla loroidentità, missione e forma vitae di fronte allenuove sfide del XXI secolo. All’origine del docu-mento vi è perciò un previo atteggiamento diascolto, interesse e attenzione nei nostri riguar-di, le donne contemplative, che viene espresso erestituito dal testo in forma di discernimento econsiglio, cura materna e accompagnamento ec-clesiale.

di CAROLINA BLÁZQUEZ CASAD O

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Già a partire dal suggestivo titolo, Cercare il

volto di Dio, la vita contemplativa viene caratte-rizzata dall’attitudine alla ricerca mai conclusa,all’anelito, all’inquietudine del cuore, alla seteinsaziabile, all’attrattiva e al desiderio di Dio —espressioni usate frequentemente nel documentoper descrivere l’esperienza contemplativa. Unavita, dunque, ferita dall’apofatismo, ossia squa-dernata nella coscienza vitale dell’abisso inson-dabile che è Dio, nel costante superamento diogni tentazione idolatrica di conquista conosci-tiva o volontaristica, al di là di ogni volgarizza-zione o profanazione del Mistero, nella posizio-ne di un’attesa piena d’amore, di una vigilia, diun vespro, di una preparazione in vista dell’arri-vo dello Sposo, annunciato in mezzo alle realtàdi questo mondo e aperto a quel compimentodefinitivo di cui il cuore ha fame, «fino a ripo-sare in Te».

Quest’atteggiamento di attesa sgorga para-dossalmente dalla maggior vicinanza e intimitàcol Mistero di Dio. Usando un linguaggio e unmetodo teologico proprio della tradizione spiri-tuale monastica del Medioevo, la CostituzioneVultum Dei Quaerere fa della “ricerca mai conclu-sa di Dio” il segno e il criterio di autenticitàdella vita contemplativa. Via negativa di acco-stamento a Dio non per assenza o lontananza,ma, giustamente, per eccesso e sovrabbondanzadella sua presenza, perché il Dio cristiano ha“ro t t o ” per amore la sua trascendenza, renden-dosi vicino, e la sua gloria si manifesta nellapienezza della sua vicinanza: in Gesù, «il piùbello tra i figli dell’uomo».

Da questa posizione vitale, le donne contem-plative vivono in solidarietà con tutti gli uominie le donne che esprimono un anelito di felicità,una ricerca dell’assoluto, un’insoddisfazione esi-stenziale che, pur incoscientemente, pur neldramma e nella resistenza alla fede, muove ver-so Dio. Esse si trasformano così in madri diqueste anime straziate, in punti di riferimento esegni profetici dell’amore di Dio, conducendo eorientando i passi di tutti all’incontro con lui. Èla maternità spirituale, così propria dei monaste-ri che, separati dal mondo, sono — nel parados-so della distanza che permette l’incontro, unacategoria che attraversa il documento del Papacome un cantus firmus — mediante la spiritualitàdell’ospitalità e la continua intercessione, verifari, torce, sentinelle dell’aurora, città sopra ilmonte, lampade sul candelabro, scale con cuiDio scende e si avvicina agli uomini e attraversole quali essi salgono a lui. Tutte immagini pre-senti in Vultum Dei Quaerere in riferimento allavita monastica.

In definitiva, Papa Francesco sta invitandocon grande profondità e audacia la vita contem-plativa ad assumere, in comunione con tutta laChiesa, un’esistenza “in uscita” come gesto tipi-co, inerente ed essenziale della propria vocazio-ne. Nel porre l’accento sulla ricerca di Dio, lacontemplazione si estende alla ricerca dell’uo-mo, sul cui volto è nascosto, a volte sfigurato —come in un’icona danneggiata — il volto di Cri-sto. E così la compassione, la maternità, l’acco-glienza e l’accompagnamento, l’intercessione ela profezia formano intrinsecamente partedell’esperienza claustrale.

D ONNE CHIESA MOND O41