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Il documento vuole essere la base di discussione del VII Congresso Regionale della Legambiente Basilicata e, contestualmente, il contributo che l'Associazione offre al dibattito regionale sulle tante questioni aperte in merito alle tematiche ambientali.

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CAPIRE IL FUTURO PER CAMBIARE IL PRESENTE

La forza dell’ambientalismo per vincere le sfide del mondo contemporaneo

L’impegno di Legambiente in Basilicata per un futuro sostenibile L’ambientalismo oggi Questo documento vuole essere la base di discussione del VII Congresso regionale della Legambiente Basilicata e, contestualmente, il contributo che l’associazione offre al dibattito regionale sulle tante questioni aperte nella nostra regione. La grande attenzione che esiste, anche in Basilicata, per le tematiche ambientali, per le problematiche connesse all’industrializzazione ed alla tutela del territorio, per la problematica mai risolta della gestione dei rifiuti, per le questioni delle produzioni energetiche, dell’inquinamento, della tutela del paesaggio, dimostra, da un lato un forte interesse dei cittadini e dall’altro uno stato di difficoltà della politica e delle amministrazioni locali, che spesso hanno, nell’offrire soluzione ai problemi, a proporre ed attuare politiche per la sostenibilità. Conferma la centralità delle questioni ambientali di fronte ai profondi cambiamenti in atto e l’incapacità di cercare prima e trovare poi soluzioni al passo con i tempi ed adeguate alle sfide che abbiamo di fronte. Anche in Basilicata molte cose stanno cambiando rapidamente e molte altre potranno cambiare. La strada che questa regione percorrerà nei prossimi anni dipenderà da molti fattori e, forse, anche dalla capacità dell’ambientalismo e degli ambientalisti di rispondere alle sfide, indicando la via concreta per migliorare il benessere delle persone, un percorso di crescita collettiva, che riporti al centro il sapere, il territorio e la comunità, in armonia con l’ambiente attraverso la condivisione delle scelte e delle strategie e che possa ridare speranza nel futuro. È necessario lavorare per conquistare maggiore autonomia e protagonismo politico e sociale del movimento ambientalista, autonomia e protagonismo che vivono innanzitutto di conflitto, cui però deve accompagnarsi la proposta del cambiamento. Il conflitto, anche quello locale, è da sempre una grande, insostituibile risorsa dell’ambientalismo, e resta tuttora uno strumento essenziale del nostro agire. Ma un conflitto liberato dall’idea che difendere l’ambiente significhi lasciare tutto com’è, toccare il meno possibile dell’esistente, teorizzando futuri sostenibili senza mai provare a praticare un presente sostenibile, cercando spesso di scaricare i problemi ad altri lontani da noi nel tempo o nello spazio. Il conflitto che non deve mai appiattirsi sull’egoismo localistico perché così ne perderebbe la nostra ambizione ad interpretare l’interesse generale. Per salvare l’umanità dalla catastrofe climatica, per attuare la riconversione ecologica dell’economia, non bisogna limitarsi a “conservare” gli equilibri climatici, ma è necessario intervenire con forza per ristabilirli. È necessario cambiare il sistema di produzione dell’energia, i nostri consumi energetici, la gestione dei rifiuti, il ricorso alla nuova edificazione che consuma irreversibilmente grandi quantità di territorio, ad

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esempio, ma per arrivare a questo è necessario agire e fare, puntando su nuovi impianti produttivi, per le energie rinnovabili sugli impianti di compostaggio, ecc. La risposta dell’ambientalismo non può essere dei no a tutto, perché dire no a tutto, agli impianti eolici come alle centrali a carbone, agli impianti per il compostaggio dei rifiuti come agli inceneritori, alle nuove ferrovie come alle nuove autostrade è dire no ai radicali cambiamenti senza i quali l’inquinamento, il degrado ambientale, la perdita di biodiversità continueranno sempre a crescere. Dire no anche a quello che fino a pochi anni fa era considerato indispensabile per uno sviluppo sostenibile del Paese non è serio e non riesce ad essere compreso anche da una grande parte dei nostri concittadini, portando le posizioni degli ambientalisti ad essere meno credibili. Per rafforzare queste scelte è necessaria una conoscenza dei problemi e delle soluzioni, una precisa proposta politica e scelte sui territori chiare e trasparenti. Oggi però in Basilicata tutto questo appare difficile, lo spazio per un sereno e costruttivo ragionamento sulle questioni ambientali è schiacciato da un’attualità fatta di allarmi e paure disseminate ai quattro venti spesso senza criterio ma, come nel caso fenice, corroborate da un atteggiamento della Pubblica Amministrazione a dir poco sconvolgente. È davvero sconcertante quello che è successo e sta succedendo in merito alla vicenda del monitoraggio del sito industriale dell’inceneritore Fenice. Dati tenuti nascosti in un cassetto per anni mentre si dichiarava che quei dati non esistessero. Bene ha fatto la nuova dirigenza ARPAB a togliere il velo ed a fornire finalmente questi dati che lasciano sconcertati: per quasi 10 anni nell’indifferenza delle istituzioni l’impianto ha rilasciato sostanze tossiche e nocive nel suolo senza nessun controllo, senza nessun allarme alle popolazioni e, sopratutto, senza nessun intervento per mitigare gli effetti, individuare le cause dei malfunzionamenti e trovare gli opportuni rimedi. Abbiamo sempre sostenuto che nel campo dei controlli ambientali la trasparenza dell’operato degli Enti preposti al monitoraggio ed alla vigilanza determina nei loro confronti, e quindi nel sistema in generale, la fiducia dei cittadini che, in questo caso, ha subito un colpo durissimo. È assurdo che alcune amministrazioni pubbliche considerino le politiche ambientali ed i vincoli imposti dalla legislazione come un problema, un limite allo sviluppo, e che si possano tollerare quelle imprese che cercano la scorciatoia facile e provano ad eludere controlli e disposizioni normative pur di fare profitto ai danni dell’ambiente e dei cittadini, nascondendosi spesso dietro il ricatto del bisogno di lavoro. L’inchiesta della magistratura squarcia il velo e lascia esterrefatti per molte delle sue diramazioni. Le responsabilità saranno accertate ma quello che sembrava un tentativo di occultamento delle verità sul danno ambientale prodotto dall’impianto industriale in questi anni oggi assume la fisionomia di un vero e proprio sistema omissivo. La salute dei cittadini, la salubrità dei territori, la tranquillità delle comunità sono valori non derogabili a qualsiasi necessità di sviluppo e ancor meno da sacrificare per far “reggere” un traballante sistema di gestione dei rifiuti. Su questo argomento abbiamo speso molto del nostro impegno cercando di sensibilizzare e rafforzare il convincimento dei nostri amministratori a occuparsi di questa materia con spirito moderno e sostenibile privilegiando le raccolte differenziate da un lato e prestando maggiore attenzione alla gestione dei rifiuti

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speciali dall’altro. E invece ancora oggi come racconteranno, i nostri prossimi dossier che presenteremo nelle prossime settimane (Comuni Ricicloni e Dossier sui Rifiuti speciali), la Basilicata è fra le ultime regioni per raccolte differenziate, e senza che nessuno se ne accorga, oggi ormai gestisce e smaltisce sul proprio territorio il doppio dei rifiuti speciali che produce, importandone quindi in gran quantità. Dossier pubblicati annualmente (e da molti utilizzati per dare “numeri” alle loro argomentazioni) che se letti con attenzione tracciano un profilo del “sistema di gestione dei rifiuti” in Basilicata veramente primitivo, tutto proteso alla ricerca del “fosso” dove nascondere i rifiuti o di un impianto tecnologico che, come per magia, sia in grado di farli sparire contemporaneamente alle colpe ed alle inefficienze della pubblica amministrazione. È il caso di Fenice ma anche dell’annosa questione dell’inceneritore di Potenza che compare e scompare dallo scenario in continuazione e che continua a bruciare solo risorse pubbliche, di impianti di CDR che periodicamente ricompaiono all’orizzonte, di fantasiose proposte di “strizzare” i rifiuti e tanto altro che faccendieri, consulenti ed “amici” vanno proponendo in giro per la Basilicata da tempo. Nell’ultimo Dossier sui Comuni Ricicloni lucani presentato un anno fa, il più ricco e completo che siamo mai riusciti a realizzare, si vede chiaramente come il sistema sia arretrato e costoso e come non vi siano in atto “politiche” tese a cambiare radicalmente lo scenario. Ne è la prova anche il fatto che tutto il lavoro fatto dal CONAI in Basilicata in questo ultimo anno e mezzo sia rimasto lettera morta e che le indicazioni contenute nei piani e nei programmi realizzati, non proposte fumose ma piani completi, sistemi quasi cantierabili, per l’implementazione di nuovi sistemi per la raccolta differenziata porta a porta in tutta la regione, siano rimaste sulla carta. Prova rafforzata dalla considerazione che nei Comuni che ospitano le discariche o gli impianti di trattamento del rifiuto tal quale in Basilicata le percentuali di raccolta differenziata sono ancora estremamente basse o che, per esempio, nel Comune di Vietri a distanza di 3 anni dalle grandi mobilitazioni contro la discarica di Serra Arenosa, che oggi ritorna di attualità, è al 15% e che nei 2 grandi Comuni lucani prossimi a Fenice, Lavello e Melfi, il dato della raccolta sia rispettivamente del 15 e del 10%. Li abbiamo chiamati Comuni del Buco Nero dove spariscono nel fosso la “monnezza” e le buone pratiche di gestione dei rifiuti e dove, a volte, l’indignazione serve a bloccare le discariche per ottenere un aumento dei costi di utilizzo, mentre invece dovrebbe essere più forte il bisogno, delle amministrazioni e dei cittadini, di dimostrare che ci si vuole liberare del pericolo ambientale rappresentato da una discarica di rifiuti urbani, portando innanzitutto il proprio Comune ad essere Riciclone. Del resto così è stato per Montalbano Jonico che ha definitivamente “archiviato” la sua discarica quando ha deciso di passare al porta a porta con percentuali di raccolta differenziata superori al 60%. È in questo difficile contesto che trovano spazio argomentazioni ascientifiche, spesso basate su informazioni infondate, diffuse non solo sui blog ma anche dalla stampa locale dove è possibile, quasi quotidianamente, leggere di grandi allarmi per “Ecocentri” che sarebbero la causa di malattie tumorali, di pannelli fotovoltaici definiti “notoriamente cancerogeni”, per non parlare dello stesso inceneritore Fenice per cui si attesta che “brucia” la metà dei rifiuti speciali prodotti in Italia vista la sua taglia che lo collocherebbe al top in Europa.

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Tutto questo contribuisce ad aumentare il solco e l’estraneità tra società civile e classe politica. C’è una classe politica particolarmente vecchia (culturalmente, e non solo anagraficamente) e delegittimata dai frequenti fenomeni di corruzione e malgoverno che, esaurita la funzione storica di mediazione e interpretazione operata dai partiti, vive sempre più la società civile come ostacolo alle proprie decisioni, invece che corpo sociale da rappresentare. D’altro canto i cittadini stessi non affidano più alla politica un ruolo di rappresentanza, né spesso considerano lo Stato come soggetto garante dei propri diritti. Fra gli effetti di questa frattura c’è la crescente sfiducia nella partecipazione e la diffusa presenza di sentimenti dell’antipolitica, anche se il risultato referendario racconta di un’Italia diversa, che su questioni concrete ha voglia di dire la sua. A ribadirlo c’è il fenomeno dei comitati locali, che, se a livello di quadro nazionale somigliano un po’ troppo ad un contraddittorio patchwork di no, con derive localistiche, rappresentano oggi uno dei pochi luoghi in cui si realizza la partecipazione ed il protagonismo dei cittadini sui grandi temi sociali dalla scuola alla questione femminile, dal lavoro all’ambiente. Non c’è, infatti, un rifiuto dei cittadini ad aggregarsi, ma semmai una richiesta a farlo al di fuori dei contesti tradizionali. Abbandonata una spinta di appartenenza anche ideologica che per tutta la seconda metà del novecento ha caratterizzato l’impegno di tanti cittadini, oggi la società ci lancia nuovi segnali che i corpi intermedi, e Legambiente tra questi, devono saper tradurre in forza sociale consapevole. Il problema oggi è come far valere positivamente questa voglia di partecipazione e di cambiamento che emerge con prepotenza dalla società, anche in Basilicata, svincolandosi dalla sterile querelle dell’antipolitica e dell’opposizione tout court, ma costruendo una prospettiva nuova, nei partiti, nelle associazioni, nella società civile, per sostenere o far emergere quei gruppi o quelle persone che aspirano al cambiamento. Noi che siamo una forza che vuole il cambiamento e che vuole costruire le condizioni per il cambiamento, promuovendo e vincendo conflitti, sappiamo che le trasformazioni per cui vogliamo batterci impongono scelte decise che discriminino tra interessi e che, quindi, ci devono vedere capaci di stringere le necessarie alleanze con tutte le diverse forze che compongono il movimento ambientalista, ma anche con altri movimenti ed interessi, guardando a quella parte del mondo industriale che scommette su innovazione e produzioni pulite, ai sindacati, alle associazioni di consumatori, alle organizzazioni del terzo settore, alle organizzazioni agricole e ai tanti soggetti che sempre più numerosi che, per scelta o per necessità, andranno nella direzione della sostenibilità economica, sociale ed ambientale. Ed è proprio da questa ambizione che nasce anche la nostra scelta, strategica e non negoziabile, di essere radicalmente autonomi da partiti e schieramenti, e al tempo stesso di fare politica in prima persona come movimento organizzato in forma associativa, di confrontarci a trecentosessanta gradi con le forze e le coalizioni politiche di sinistra come di destra. In particolare, rivendichiamo la nostra autonomia dal centrosinistra, la cui ispirazione culturale tanti di noi condividono, ma del quale anche in Basilicata non possiamo non rimarcare, a volte, l’inadeguatezza, culturale, programmatica, politica, rispetto alla gravità e all’urgenza odierne della questione ambientale e a riscontrare con quanta difficoltà cerchi di tradurlo in una vera priorità di azione e persino di comunicazione con l’opinione pubblica.

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Oggi come ieri siamo chiamati a lavorare affinché le questioni ambientali assumano sempre più un valore strategico, per realizzare uno scenario che guardi alla modernità con il metro della sostenibilità, in cui le opportunità dello sviluppo vengano interpretate nei limiti della scarsità delle risorse e vengano scandite con la pratica del buon governo del territorio. Quello che manca oggi è un progetto politico che, proprio partendo da quella parte del nostro Paese che, coniugando le opportunità rappresentate dalla sfida ambientale con l’innovazione tecnologica, la legalità e la responsabilità sociale d’impresa, con la creatività, è stato capace di disegnare per l’Italia una traiettoria di sviluppo che le consenta di giocare da protagonista nella nuova e complessa fase di globalizzazione. La sfida per noi tutti è convincere che una chiave ambientalista sia oggi quella più adatta e credibile per ricostruire un paese migliore, riuscire a far passare il concetto che non vi può essere sviluppo senza qualità ambientale e qualità sociale, ingredienti fondamentali per realizzare, anche in Basilicata, un progetto che trasformi in positivo il rapporto tra economia e ambiente. Per riuscirci dobbiamo declinare la prospettiva della green economy rispetto ai caratteri e alle risorse del territorio, far capire come essa possa rappresentare la risposta all’attuale crisi economica, l’opportunità per creare nuovo lavoro, soprattutto lavoro qualificato. La green economy può favorire la crescita di piccole e medie imprese che sono in grado rapidamente di introiettare la sfida ambientale come fattore competitivo e trasformare la riconversione ecologica dell’economia in grande opportunità per ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali. Proteggere le aree ricche di biodiversità o gli ecosistemi particolarmente fragili garantendone la conservazione, fare dell’ambiente naturale e del paesaggio culturale, dell’identità e della coesione sociale, in quanto tratti caratteristici del nostro territorio, uno dei principali elementi costitutivi del nostro sviluppo (dal turismo, all’agricoltura, all’enogastronomia), puntare, con un impegno forte, sul fronte dell’innovazione e della conoscenza che possono essere un valore aggiunto per garantire il successo ai nostri territori, queste sono le armi per vincere la sfida. E’ in questa prospettiva che oggi va riguadagnato terreno all’agricoltura, come attività moderna, capace di rispondere, con un proprio modello originale basato sulle migliori pratiche ai bisogni di qualità alimentare, alle tipicità territoriali, alla diversificazione produttiva, alla battaglia contro i cambiamenti climatici e per la difesa del suolo ed un più equilibrato utilizzo delle risorse idriche. Il territorio può essere dunque la leva per l’innovazione e lo sviluppo nel nostro Paese ma per far questo serve più coesione e comunità più colte. Dobbiamo cioè lavorare per la valorizzazione dei beni culturali e territoriali, per conservare la diversità dei paesaggi agricoli e naturali, ma anche per la riqualificazione ambientale, energetica e sociale delle città italiane e di quello straordinario patrimonio ereditato da millenni di stratificazioni oggi costretto in una morsa di traffico e inquinamento. Difendere e valorizzare la bellezza dei nostri territori e tutelarne i beni culturali materiali ed immateriali, significa allo stesso tempo mantenere uno dei beni irriproducibili che tengono in piedi la nostra economia e puntellare uno dei pilastri su cui le comunità locali costruiscono di generazione in generazione la propria identità culturale, i propri punti di riferimento, le caratteristiche insomma che le possono rendere più forti ed incisive nei complessi processi della globalizzazione. La bellezza non è solo mantenimento di

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ciò che arriva dal passato, ma è anche la capacità di progettare il nostro futuro, secondo i criteri della vivibilità, della qualità della convivenza e del benessere individuale. La bellezza riguarda anche la virtù civica ed i gesti di solidarietà che esprimono la coesione sociale di una comunità locale e nazionale. Bellezza è raccontare i fatti che rendono il “nostro paese degno di essere vissuto”. Bellezza sono le cose che produciamo, le città che costruiamo, la musica e le immagini che creiamo. Bellezza è cultura. Su questo snodo bellezza ed innovazione si incontrano ed oggi, grazie ai nuovi bisogni imposti dalla crisi climatica ed economico-energetica, possono trovare una nuova convergenza. Questa è una strada percorribile in Basilicata perché abbraccia tutti i settori, mette insieme in un’unica prospettiva diversi punti di forza, investe in “tessuti” (relazioni sociali, produttivo, territoriale), assume una visione globale dello sviluppo locale, si preoccupa di ridistribuire opportunità e vantaggi, si lega alla protezione e sicurezza del territorio e delle sue comunità. Scegliere con decisione queste direttrici vorrebbe dire affermare prospettive, suscitare aspettative, favorire partecipazione, creare protagonismo, promuovere differenze, rafforzare la legalità, elevando nell’insieme il profilo di una Basilicata capace di far competere i suoi sistemi territoriali. Sottolineiamo ancora di più questo passaggio, perché per Legambiente è fondamentale: programmare lo sviluppo sforzandosi di superare la distribuzione ineguale delle opportunità tra le diverse aree significa non solo consolidare le reti infrastrutturali, materiali e immateriali, e il tessuto di piccole-medie imprese con produzioni in equilibrio con il territorio, ma vuol dire anche individuare nella qualità dell’ambiente e delle relazioni sociali, nei saperi e nella partecipazione fattori decisivi per lo sviluppo sostenibile, anche nel quadro della riorganizzazione del sistema del welfare locale. Nella scelta di questo tipo di sviluppo, infatti, tali elementi sono fondamentali. Tutto ciò fa parte di un concreto progetto per il futuro e che affonda le sue radici nelle cose che già oggi stanno avvenendo e di cui la bellissima vittoria ai referendum rappresenta la punta dell’iceberg. Il cambiamento è possibile, anche se sarà duro e faticoso, e ci carica di grandi responsabilità, perché dovremo essere capaci di ampliare e consolidare uno spazio sociale che oggi c’è ma non ha rappresentanza. Nei prossimi anni, nei prossimi mesi non basterà più contrapporsi per impedire scempi e disastri. Questo lo sappiamo fare e continueremo a farlo. Oggi c’è la possibilità di fare proposte e costruire alleanze, a livello nazionale e nei territori, per dare rappresentanza a concreti interessi materiali, sociali, culturali ed etici, che costituiscono in potenza un grande spazio sociale, che rappresenta la risposta più adeguata al superamento della crisi che stiamo attraversando e che avrà il non semplice compito di imporre la propria agenda alla politica. Per riuscirci non bastano allarmi e preoccupazioni sullo stato dell’ambiente, che pure si sono stabilmente insediati nelle coscienze e nelle opinioni delle persone e in quelle collettive. Avere ragione non basta. L’ambientalismo deve mettersi fino in fondo in gioco, accettare il confronto e fare i conti con le sfide che impone la crisi e la globalizzazione. Dimostrando interesse e curiosità nei confronti di questi grandi cambiamenti globali, non chiudendosi mai dentro una difesa localistica contro ogni trasformazione. Il cambiamento dovrà necessariamente passare per una nuova etica dei comportamenti e dei consumi nei

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Paesi ricchi. Bisogna per questo proporre una visione che guardi lontano, all’interesse generale e alla centralità dei beni comuni, ma che abbia anche una dimensione concreta e comprensibile per i cittadini. C’è bisogno di un ambientalismo che sia radicale nelle idee, ma anche credibile attraverso competenze riconosciute e soluzioni percorribili. Che faccia anzi della praticabilità delle proprie proposte l’elemento di radicalità estrema: non c’è nulla di più radicale di una soluzione concreta, applicabile, replicabile, in grado di rappresentare un’alternativa reale a quelle dominanti, usuali, scontate. Fermare i cambiamenti climatici La crisi climatica oggi è il più grande problema che il mondo deve affrontare, la più importante sfida che deve impegnare l’ambientalismo. Gli scenari e le problematiche sono note, non sono minacce future, spettri che le solite cassandre ambientaliste vedono svolazzare sul nostro futuro, ma sono dinamiche in atto che possono essere fermate solo se la nostra visione saprà incarnarsi nei comportamenti individuali e collettivi e nelle politiche pubbliche. Il climate change sta drammaticamente accelerando ed è al centro di un confronto politico internazionale che ha spazzato via le tesi negazioniste. Le analisi e le proiezioni dei più importanti centri di ricerca internazionali evidenziano effetti e rischi nel caso non si realizzi quanto prima un’inversione nella curva delle emissioni di gas serra. È diventato oggi indispensabile affrontare un’emergenza già in corso, organizzando un sistema d’intervento coordinato a livello internazionale per aiutare le popolazioni colpite e per promuovere interventi di adattamento ai cambiamenti climatici nei territori più a rischio. Sono forse diverse le risposte ai cambiamenti climatici, ma noi siamo fermamente convinti che la via indicata dal mondo ambientalista fatta di più efficienza energetica, più energie rinnovabili, più dematerializzazione dell'economia è quella più convincente, più equa e più realistica, la sola che riesce a tenere insieme le preoccupazioni dell’occidente opulente, ricco e sprecone, consentendo da un lato di scongiurare il disastro climatico e dall’alto di vedere soddisfatta l’aspirazione sacrosanta al benessere di tanta parte del mondo che, legittimamente aspira a condizioni di vita migliori e ad una crescita economica che sia capace di dare dignità a miliardi di esseri umani oggi condannati alla miseria. Per riuscire in questa impresa le nostre tesi devono conquistare spazio nella società e nell’agenda della politica. E’ un obiettivo molto difficile, che per affermarsi ha bisogno che si passi dalla semplice percezione razionale della problematica e della necessità di apportare i necessari correttivi ad una condivisione piena, matura e consapevole, dei cittadini e delle classi dirigenti, che le politiche per lo sviluppo sostenibile non siano solo necessarie ma siano invece auspicabili perché le migliori dal punto di vista sociale. La green economy non è quindi una nicchia, la più innovativa e sostenibile, del sistema industriale italiano, ma una direzione di cambiamento che punterà a far prevalere gli investimenti in ricerca, qualità, innovazione e attenzione al territorio, e attraverso questi rilanciare un’occupazione qualificata e rendere l’intero sistema produttivo più moderno e competitivo.

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Nei prossimi decenni i nuovi scenari energetici, anche in Basilicata, dovranno essere caratterizzati da un modello di generazione distribuita, vicina alla comunità e ai cittadini, che diventano così protagonisti delle scelte energetiche, mutando così i paradigmi del consumo che cominceranno finalmente a guardare alla qualità, alla conservazione e al risparmio. Le fonti di un siffatto modello energetico sono proprio quelle rinnovabili, che per definizione sono risorse diffuse e non monopolizzabili. La politica energetica deve avere, quindi, come priorità l’impegno serio per promuovere il risparmio, incentivare lo sviluppo delle fonti rinnovabili, favorire la riconversione degli impianti più inquinanti. Legambiente dovrà lavorare a due obiettivi tra loro strettamente collegati: riduzione della dipendenza della produzione dalle fonti fossili, abbattimento dell’impatto ambientale degli usi energetici. In questa prospettiva, non si possono accettare le campagne che presentano l’energia eolica come un’alternativa dannosa per l’ambiente: certo gli impianti eolici vanno realizzati usando la massima attenzione per i problemi di impatto paesaggistico, ma un ambientalismo nemico dell’eolico sarebbe una ridicola caricatura. La rivoluzione energetica è iniziata e intorno alle fonti rinnovabili si sta mettendo in moto un cambiamento che va ben oltre i temi energetici, investendo ambiti come quello dell’aumento del tasso di democrazia legato ad un sistema di produzione di energia meno centralizzato. Le rinnovabili, il risparmio e l’efficienza energetica rappresentano una concreta alternativa alle fonti fossili e al nucleare, oggi ancora più urgente dopo il drammatico incidente nelle centrali di Fukushima. L’esito del referendum affida, per altro, all’Italia una responsabilità ed un vantaggio, rispetto agli altri paesi ancora invischiati nel nucleare, di cui dobbiamo essere orgogliosi. Dall’ultimo rapporto “Comuni Rinnovabili” emerge che il contributo energetico delle rinnovabili è aumentato significativamente negli ultimi anni e nel 2010 ha coperto il 22% dei consumi elettrici complessivi, grazie a 200 mila impianti distribuiti nel territorio, che già oggi rendono rinnovabili al 100% un numero sempre maggiore di Comuni. Le buone pratiche di politica energetica riguardano da vicino anche la Basilicata. Infatti, lo stesso rapporto premia la Provincia di Potenza come “miglior buona pratica del 2011”. Il territorio provinciale presenta dati importanti in termini di impianti installati. Vi sono installati per 21.816 kW di fotovoltaico, di cui circa 11 MW su coperture, 150 MW di eolico, 6 MW di idroelettrico e 691 kW di biogas. L’Amministrazione Provinciale ha promosso un progetto denominato "Scuole ecologiche in scuole sicure", il cui obiettivo è realizzare una rete di edifici scolastici con impianti certificati, fotovoltaici, eolici, di geotermia e di compostaggio, in linea con gli obiettivi europei di riduzione del 20 % di CO2, aumento del 20% dell'efficienza energetica e aumento del 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili. Gli interventi previsti dal progetto, per circa 20 milioni di euro (di cui circa 11 Meuro di fondi Pois), sono già in corso: oltre ai cinque istituti scolastici del territorio e al Museo provinciale su cui sono già installati e funzionanti impianti fotovoltaici, a Venosa la nuova struttura del Liceo Classico e' stata realizzata con la vasca per la raccolta e l'uso dell'acqua piovana, mentre per la città di Potenza è stato pubblicato un bando da 1.600.000 euro, per la realizzazione di centrali fotovoltaiche (da 19,8 Kw di picco) sugli istituti superiori e sugli edifici di proprietà dell'Ente(produzione di energia prevista di 319.950Kw/h e risparmio in emissione di Co2 pari a 994.733 Kg). Inoltre, per un investimento complessivo di 6,5 milioni di euro,

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si sono avviati i lavori per la realizzazione della Bibliomediateca provinciale, un esempio di edificio pubblico ad alta efficienza energetica (risparmio annuo di Co2 previsto pari a 19.000 Kg). Vale la pena rimarcare come queste iniziative, unite all’attività della Provincia nel settore della gestione dei rifiuti, confermano la giusta direzione intrapresa dalla Provincia di Potenza, il cui lavoro, passo dopo passo, sta portando ad ottenere risultati concreti, rafforzando la convinzione condivisa dalla Legambiente Basilicata che la sfida delle fonti rinnovabili rappresenta un’occasione di crescita culturale, sociale e nondimeno economica per il nostro territorio. Del resto anche in Basilicata si comincia a vedere l’effetto di queste nuove politiche esaminando l’ultimo rapporto di Terna sulle produzioni e consumi di energia elettrica in Italia nel 2010. In Basilicata sono stati prodotti 2.238 Gwh di energia elettrica a fronte di una richiesta totale di energia pari a 3.107 Gwh (2.686 per consumi e 420 per perdite di rete), che porta la Regione ad un deficit di 936 Gwh. Il dato interessante è che la produzione è per il 54% di termoelettrico e per il restante 46% di fonte rinnovabile (23% idroelettrico, 21% eolico e 2% fotovoltaico). Il Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale (Piear) approvato lo scorso anno prevede che il gap produttivo dovrà essere colmato ricorrendo a produzioni da fonte rinnovabile, il che apre uno scenario davvero interessante. Nello stesso Piear, per quanto riguarda l'efficienza energetica, la Regione intende conseguire, dati gli obiettivi fissati dall'Ue e dal Governo italiano, una riduzione del 20% della domanda di energia per usi finali della Basilicata entro il 2020 prevalentemente attraverso l'efficientamento del patrimonio edilizio pubblico e privato e alcuni interventi nel settore dei trasporti. Per garantire la sicurezza dell'approvvigionamento elettrico, in Basilicata sarà necessario anche effettuare interventi di potenziamento, efficientamento e razionalizzazione della rete elettrica primaria e secondaria, in particolare, per quanto riguarda le reti di distribuzione a media e bassa tensione, necessarie al collegamento in rete dei piccoli impianti minieolici e fotovoltaici. È anche sulla base di questi numeri e queste considerazioni che abbiamo incentrato la vittoriosa campagna referendaria sul nucleare della primavera scorsa che, a differenza di quella del 1987, si è potuta incentrare non su un’alternativa possibile ma futuribile al nucleare, ma su una realtà già conclamata, a portata di mano, su uno scenario possibile e già pianificato in molti paesi europei. Si è potuto dimostrare che le rinnovabili possono essere oggi una risposta concreta per i fabbisogni delle famiglie e delle imprese, ma questo sviluppo va accompagnato, in particolare nelle aree urbane con investimenti per soddisfare i fabbisogni termici attraverso reti di teleriscaldamento (come si sta già progressivamente realizzando in molte città), impianti solari termici integrati con pompe di calore, centrali di micro cogenerazione, caldaie a condensazione. Per i fabbisogni elettrici si potrà puntare invece sul solare fotovoltaico, la geotermia e, laddove possibile, su impianti eolici, mini idroelettrici, da biomasse e biogas a filiera corta, integrati con le tecnologie più efficienti di produzione e gestione energetica. Anche l’agricoltura potrà svolgere un importante ruolo nella lotta ai cambiamenti climatici, con la promozione del biologico e delle buone pratiche agricole innanzitutto, ma anche nella produzione di energia.

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Non esiste un altro scenario energetico che possa risultare altrettanto vantaggioso per i cittadini italiani. Del resto questi anni hanno dimostrato come gli unici che hanno visto una riduzione dei costi in bolletta sono coloro che hanno installato un pannello solare sul tetto, che sono intervenuti per migliorare l’isolamento di pareti, finestre o tetto, che hanno cambiato gli elettrodomestici. L’altro grande campo di intervento riguarda i trasporti, dove gli obiettivi energetici si sposano ancora meglio a quelli di vivibilità e modernizzazione del Paese. Anche qui la priorità sono le aree urbane, dove si concentra la domanda di mobilità delle persone, nelle quali occorrono investimenti per rilanciare il trasporto pubblico, offrendo un’alternativa all’automobile. Su questo terreno la Basilicata è ancora all’anno zero. Non vi è traccia di innovazione, efficienza e modernità nel sistema dei trasporti neanche nei due capoluoghi dove si può contare su un numero di utenti sufficienti a garantire anche un risultato economico alla implementazione di efficaci ed efficienti sistemi di trasporto pubblico. In Basilicata, in tema di energia, un’altra grande questione è quella dell’attività estrattiva petrolifera che si ricollega alla folle corsa all’oro nero made in Italy che in questi ultimi anni ha trovato nuovo impulso. Ad oggi in Italia sono stati rilasciati 95 permessi di ricerca di idrocarburi, di cui 24 a mare, interessando un’area di circa 11 mila chilometri quadrati (kmq), e 71 a terra, per oltre 25 mila kmq. A queste si devono aggiungere le 65 istanze presentate solo negli ultimi due anni, di cui ben 41 a mare per una superficie di 23 mila kmq. Rilanciata in nome di una presunta indipendenza energetica, la corsa all’oro nero italiano, stando alla localizzazione delle riserve disponibili, riguarda in particolare il mare e non risparmia neanche le Aree Marine Protette. Sono interessati il mar Adriatico centro-meridionale, lo Ionio e il Canale di Sicilia. Nei nostri mari oggi operano 9 piattaforme per un totale di 76 pozzi, da cui si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte la costa marchigiana (Civitanova Marche - MC), tre di fronte quella abruzzese (Vasto - CH) e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte il tratto di costa tra Gela e Ragusa. Passando dal mare alla terra, le aree del Paese interessate dall’estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi e dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d’Agri (Eni e Shell), l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia. Complessivamente lo scorso anno in Italia sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio. Ma la quantità rischia di aumentare, perché stanno aumentando sempre di più le istanze e i permessi di ricerca di greggio nel mare e sul territorio italiano. Una ricerca forsennata per individuare ed estrarre le 129 milioni di tonnellate che, secondo le stime del Ministero dello sviluppo economico, sono ancora recuperabili da mare e terra italiani. Ma il gioco non vale la candela. Infatti, visto che il Paese consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio l`anno, le riserve di oro nero made in Italy agli attuali ritmi di consumo consentirebbero all’Italia di tagliare le importazioni per soli 20 mesi. Estrarre il greggio nostrano fino all’ultimo barile sarebbe un’ipoteca sul nostro futuro. Corsa che non si è fermata neanche l’anno scorso, dopo il clamoroso e disastroso incidente del Golfo del Messico con una “lottizzazione” senza scrupoli del mare italiano, che ha prodotto solo qualche

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insignificante modifica alla legislazione che già con la legge Sviluppo del luglio 2009 aveva visto una semplificazione delle procedure di Via rendendo la corsa all'oro nero più semplice. La normativa lascia che le istanze e i permessi di ricerca vengono poi valutati secondo un procedimento unico che coinvolge i diversi soggetti interessati. Se l’area in questione è su terra, oltre lo Stato vengono coinvolti anche gli Enti locali (Regioni, Province e Comuni), mentre se il permesso è per eseguire ricerche sul sottofondo marino è previsto solo il parere da parte dello Stato e gli Enti locali sono esclusi dalle procedure, anche quando si tratta di aree a ridosso della costa, in cui un’attività di questo tipo modificherebbe non poco le attività economiche, turistiche e di altro tipo svolte dalle comunità che vivono sul mare. Proprio la facilità delle procedure e il mancato coinvolgimento delle comunità locali sono, insieme ad un costo del barile che è tornato a livelli importanti (stabilmente oltre gli 80 dollari per barile), tra le cause principali della proliferazione delle istanze per i permessi di ricerca in mare, che rischiano di essere ceduti in nome del petrolio e di una fantomatica indipendenza energetica, che di certo non si ottiene attraverso un rilancio dell’estrazione petrolifera in Italia, a maggior ragione se a farla sono le imprese straniere. Il gioco non vale la candela neanche dal punto di vista occupazionale. Le ultime stime di Assomineraria quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo in Italia come segue: un risparmio di 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall’estero nei prossimi 25 anni e la creazione di 34mila posti di lavoro. Numeri che non reggono se confrontati con un investimento nel settore della green economy e delle rinnovabili. Anziché investire nella folle corsa all’oro nero e all’atomo si dovrebbe puntare con decisione sullo sviluppo di efficienza energetica e fonti pulite, un settore capace di creare solo in Italia dai 150 ai 200 mila posti di lavoro entro il 2020 e capace di traghettare il paese verso un’economia a basso tenore di carbonio, una trasformazione necessaria, visti gli obiettivi vincolanti degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici, a partire da quello Europeo fissato per il 2020 (20% risparmio energetico, 20% produzione da fonti rinnovabili, 20% riduzione emissioni di CO2). Per la Basilicata è necessario una forte azione in sinergia fra Regione ed Enti locali per bloccare ogni ipotesi di ulteriore attività estrattiva sul territorio regionale, in particolare in quelle aree a forte vocazione naturale o caratterizzate da attività economiche, come quelle agricole, turistiche, ecc., che sono difficilmente compatibili con la presenza dell’industria estrattiva. La Basilicata deve recuperare il tempo perduto sul fronte dei controlli e della sicurezza, per i cittadini e per l’ambiente, con la costruzione di un moderno sistema di monitoraggio e controllo cui deve però necessariamente accompagnarsi un sistema di regole e procedure certe che devono essere messe in atto ogni qualvolta sia richiesto dalle situazioni. Un sistema gestito e controllato dalla mano pubblica che sia in grado di “dettare” la linea, anche a scapito dei forti interessi economici in gioco. Un sistema che sia in grado di dare certezze e sicurezze ai cittadini che oggi invece vedono la presenza dell’industria petrolifera in Basilicata solo come una minaccia per la salute e per l’ambiente. La chimera petrolifera continua a rappresentare una seria minaccia anche per la Basilicata; aree sempre più vaste del territorio lucano sono a rischio per la richiesta di numerose compagnie petrolifere di

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realizzazione dell’attività di estrazione di idrocarburi, suscitando allarme nelle popolazioni locali ed anche nelle amministratori locali che, diversamente da ciò che è avvenuto in passato, oggi fanno propria la bandiera della difesa del territorio dall’attacco delle compagnie petrolifere e considerano la tutela dell’ambiente e del territorio come elemento assolutamente imprescindibile. Sono in discussione il futuro di intere aree territoriali della Basilicata e lo stesso concetto di sviluppo che non può continuare ad essere imperniato sullo sfruttamento delle risorse petrolifere e del territorio. Tutto ciò in considerazione del fatto che le attività petrolifere insistono in aree che verrebbero a perdere progressivamente anche quella potenziale forza competitiva sui mercati (agricolo e turistico in particolare), a causa di una evidente sottrazione di “qualità ambientale”. Quella “qualità ambientale” che, molto più del petrolio, e per un tempo molto più lungo, può rappresentare il vero valore aggiunto in una regione coma la Basilicata che punta proprio sulla qualità del territorio per costruire il suo futuro economico, durevole e sostenibile. In Basilicata, dove si sono viste affermare in questi anni in maniera così marcata le “ragioni” delle compagnie petrolifere e l’interesse nazionale allo sfruttamento delle risorse energetiche, è necessario ripartire innanzitutto con una seria rivalutazione delle ricadute economiche delle attività estrattive già in essere: non si possono regalare risorse così ingenti a società italiane e straniere, senza che vi sia un ritorno “importante” per i territori, senza una modifica della normativa che individui percentuali economiche sull’estratto paragonabili a quelli che le compagnie versano in tutti gli altri paesi del mondo in cui operano. La Basilicata dei rifiuti La Basilicata può realmente aspirare ad un sistema integrato di gestione dei rifiuti moderno che pone al centro, attraverso la raccolta differenziata, il recupero dei materiali e la significativa riduzione della quota di smaltimento. I cittadini in Basilicata sono ormai pronti a fare la loro parte e le tante esperienze che si realizzano anche nei Comuni lucani con il sistema della separazione domestica dei rifiuti lo dimostrano. Nel corso del 2011 in tanti Comuni lucani si è attivato il “porta a porta”, con risultati non brillanti per due motivi: la carenza della necessaria impiantistica a supporto, come gli impianti di compostaggio, e l’autarchia delle soluzioni che, per evidenti problemi legati alle economie di scala, non consente ai tanti nostri piccoli Comuni di conferire l’umido fuori regione. C’è però un’esperienza degli ultimi mesi, realizzata su base comprensoriale, nel territorio dell’alto Bradano che, superando questi limiti ed organizzando il servizio su scala territoriale, ha consentito di gestire anche la frazione organica (conferita in impianti di compostaggio pugliesi) ed ottenere subito percentuali di raccolta differenziata superiori al 50% già dal primo mese. Ci induce all’ottimismo anche il buon operato della Provincia di Potenza che, dopo un travaglio di più di un anno fra pareri ed uffici regionali, è riuscita a mettere in cantiere il rpimo impianto di compostaggio per la frazione organica che si realizzerà a Venosa e la notizia che la Regione Basilicata, nei giorni caldi di Fenice, ha dato il via libera alla realizzazione di altri due impianti di trattamento dell’umido a

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Santarcangelo e Colobraro. Speriamo che questi due impianti abbiamo un iter burocratico-amministrativo più semplice e veloce di quello di Venosa e possano realmente entrare in esercizio in tempi brevi. La vicina Campania, la regione simbolo dell’emergenza rifiuti, sta recuperando sul fronte della gestione dei rifiuti, a cominciare dalla provincia di Salerno, tanto da diventare, per molti casi, un esempio. Sono anni che invitiamo in Basilicata Sindaci ed amministratori locali che hanno risolto il problema rifiuti nei loro Comuni e che si stupiscono di come in Basilicata, la Regione d’Italia con la più bassa quantità di rifiuti prodotta, non si riesca a risolvere il problema. È lo stesso quesito che poniamo da anni alle nostre amministrazioni: è mai possibile che la politica riesce a dare risposte, quando vi riesce, solo in situazioni di emergenza? E come mai molti Comuni si sono avviati ad organizzare il “porta a porta” nei loro territori ma non hanno in regione l’impiantistica necessaria a dare un senso a questo loro sforzo nato dal desiderio di offrire alle loro comunità un sistema di gestione dei rifiuti rispettoso dell’ambiente, efficace ed efficiente? Eppure le tantissime esperienze che Legambiente premia in Italia ogni anno in occasione dei “Comuni Ricicloni” ci dimostrano come, anche dal punto di vista dei costi, la raccolta differenziata conviene, le gestioni integrate permettono infatti una ottimizzazione dei costi e delle rese dei circuiti di raccolta differenziata e di quelli della frazione non differenziata. Nonostante il sistema in Basilicata non sia, in termini di organizzazione e di risultati, in grado di dare le risposte che ci aspettiamo (più del 90% dei rifiuti da noi continua a finire in discarica) e molto distante ancora dal primo obiettivo fissato dal Ronchi (quello del 15%) e lontanissimo dal 60% che prevedono per i prossimi anni le nuove indicazioni, ci sono delle realtà che iniziano ad operare con la convinzione di chi ha compreso che alla logica del “tutto in discarica” o alle tendenze più recenti del “tutto ad incenerimento”, o meglio, “a termovalorizzazione”, è più utile e civile contrapporre un sistema di gestione in grado di recuperare materia da ciò che non è un combustibile. Lo fanno con trasparenza e, quasi sempre, con l’aiuto di una collettività che ne condivide gli intenti e che, messa nelle condizioni di “operare” risponde sempre con impegno. Continuiamo a chiediamo al sistema nel suo complesso di fare “uno scatto” in avanti, anche per risolvere la carenza del settore impiantistico deputato al trattamento del rifiuto, anziché al suo smaltimento finale, che frena lo sviluppo delle raccolte differenziate, ma soprattutto rischia di diventare un volano per chi vorrebbe risolvere il problema della gestione dei rifiuti traslocandoli dalle discariche agli impianti di incenerimento, mantenendo quindi invariato l’approccio dello smaltimento finale sic et simpliciter. È improcrastinabile realizzare gli impianti di compostaggio previsti ed avviare le raccolte differenziate, senza continuare a richiedere deroghe per le discariche esistenti o a chiederne di nuove con la convinzione che l’avvio di questo sistema integrato di gestione, unito ai materiali recuperati attraverso la raccolta differenziata possono rendere possibile, altrove così è stato, l’avvio di un sistema industriale capace di creare lavoro e mercato. Stupisce vedere la Provincia di Matera proporre un piano provinciale dei rifiuti incentrato sulla realizzazione di impianti per la produzione di Combustibile Solido Secondario (CSS), con timide previsioni sulle raccolte differenziate mentre giace in qualche cassetto, dimenticato, il piano del Conai realizzato per tutti i Comuni della Provincia.

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Altrettanto incomprensibile appare ormai anche la situazione nella Città di Potenza dove è sempre più frequente assistere a situazioni alla “napoletana”, con cumuli di immondizia per le strade. Il rifiuto tal quale non viene raccolto per giorni, per la nota indisponibilità di siti di smaltimento in regione, a disposizione del capoluogo, ma anche i rifiuti raccolti separatamente dai cittadini con il conferimento nei cassoni del multi materiale subiscono la stessa sorte. Un sistema al collasso che non è capace di applicare soluzioni diverse da quelle praticate fino ad oggi, sempre alla spasmodica ricerca di siti di smaltimento, che “porta in canzone” il Conai, e noi, dal Maggio 2010 (quando fu sottoscritto l’accordo di collaborazione con il Conai per il potenziamento in città del sistema di raccolta differenziata dei rifiuti), nonostante il Conai abbia già consegnato il suo piano da tempo e nonostante siano disponibili le risorse economiche per il finanziamento dello start up. Un sistema quello progettato dal Conai per la città di Potenza che porterebbe il porta a porta in tutta l’area urbana ed un sistema di isole ecologiche con cassoni stradali bloccati (accessibili solo ai residenti) nelle contrade che raggiungerebbe due risultati contemporaneamente: il raggiungimento minimo del 60-65% di raccolta differenziata dei rifiuti ed un risparmio a regime per l’amministrazione comunale di oltre 1 milione di euro l’anno. Investire sulla Basilicata Disagio insediativo, servizi territoriali diffusi e rete ecologica regionale Il problema dello spopolamento dei piccoli comuni in Basilicata sta assumendo dimensioni enormi. I dati demografici ci dicono di un inesorabile declino prima di tutto socio-demografico e poi anche economico di tanti, troppi territori della nostra Regione. Questo fenomeno mette a serio rischio la sopravvivenza sociale ed ambientale di aree (quelle interne e montane) sulle quali si dovrebbe puntare per il rilancio di uno sviluppo locale durevole e nelle quali, paradossalmente, i programmi di sviluppo economico rischiano di risultare vani per la mancanza di risorse umane in grado di metterli in pratica. Occorre prendere realmente atto che questa è una emergenza, la più grande emergenza regionale, dalla risoluzione della quale dipende probabilmente ogni ipotesi di sviluppo futura per gran parte di questa regione. La Basilicata è una delle regioni italiane con il più basso tasso di natalità le cui cause sono da ricondurre al contesto economico-sociale di riferimento (mancanza di lavoro, deficienze di un sistema di welfare efficiente, ecc.). Tuttavia è un dato di fatto che i fenomeni demografici in questa regione vengano sottovalutati anche se i fenomeni in atto dovrebbero destare grande preoccupazione. La regione dal 2000 ad oggi ha perso oltre 12 mila abitanti, perdita dovuta sia a saldo naturale negativo che a fenomeni migratori: Le conseguenze più evidenti sono: • Invecchiamento della popolazione: vanno via giovani, rientrano anziani pensionati con la

conseguenza che aumentano i costi assistenziali. • La consistenza della popolazione in molti centri non consente di organizzare dimensioni minime per

molti servizi • Scomparsa di artigiani che nel passato assicuravano prestazioni essenziali

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• Abbandono dei territori rurali e aumento dei fenomeni di degrado ambientale • Impianti pubblici poco utilizzati (scuole, impianti sportivi, uffici postali) per mancanza di utenza e

quindi difficoltà di gestione degli stessi • Impoverimento della vita culturale e in genere della vitalità dei luoghi. Questa situazione comporta effetti dirompenti sull’economia, sulla qualità della vita, impoverimento relazionale, modifiche profonde nella percezione dei bisogni, dei costumi, del modo di consumare, dei comportamenti. Questa deriva demografica mette in discussione il futuro della Basilicata poiché in molte realtà regionali si rischia seriamente la mancanza del minimo necessario di capitale umano. Una proposta concreta per salvare i piccoli comuni dall’estinzione deve partire necessariamente dall’analisi dei meccanismi che determinano le condizioni della crisi. Una lettura attenta delle indagine sui piccoli comuni fatte da Cresme e Legambiente mette in evidenza che nella marginalità di un territorio conta più la storia del suo sviluppo che non i fattori geografici quali la distanza, l’altitudine o il sistema connettivo: questo vuol dire che laddove il territorio ha saputo creare uno sviluppo “dal basso” internalizzando e moltiplicando i fattori di sviluppo esterni ed instaurando meccanismi di rete con gli altri territori, si sono creati processi virtuosi di crescita economica, produttiva e culturale; laddove invece, come in Basilicata, il territorio ha preferito spingere sulla leva della concentrazione territoriale, accentrando i processi di crescita e favorendo la dipendenza rispetto a centri maggiori, si sono create condizioni di non-sviluppo. Il processo regressivo è noto: il calo demografico con emigrazione giovanile verso i centri urbani di altre regioni, determina inevitabilmente la progressiva desertificazione dei servizi territoriali poiché risulta sempre più dispendioso sul piano economico-finanziario mantenere in vita tali presidi a fronte di una popolazione, soprattutto giovanile, in continuo calo; peraltro, emigrazione giovanile e invecchiamento della popolazione rendono particolarmente difficili le possibilità di sviluppo del settore agricolo al quale in questo momento manca letteralmente il capitale umano con gravi conseguenze anche dal punto di vista ambientale, oltre che sociale e culturale. Per invertire questa tendenza, quindi, il nodo su cui agire in primo luogo è quello dell’aumento demografico che si può ottenere favorendo al massimo le possibilità di insediamento grazie ad affitti agevolati e rilanciando con un programma a breve termine l’occupazione agricola e forestale Ma in questo quadro e con queste finalità va incentivato fortemente a nostro parere anche l’insediamento stabile di immigrati extracomunitari. Solo l’aumento della popolazione nei piccoli comuni potrà giustificare investimenti, necessariamente costosi, per mantenere/potenziare/ricostruire quella rete di servizi territoriali necessari per liberare energie imprenditoriali e produttive che, generando ricchezza, sosterranno gli investimenti fatti mantenendo vitale la rete dei servizi. Il processo virtuoso appena delineato avrà, però, possibilità di successo solo se le condizioni dello sviluppo verranno strettamente legate alla capacità del territorio di “offrire” se stesso nel solco delle proprie tradizioni e vocazioni e nel rispetto del proprio patrimonio ambientale.

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Siamo ancora in tempo per scegliere questa opzione di sviluppo poiché è innegabile che i nostri piccoli centri siano ancora custodi di un patrimonio straordinario fatto di beni culturali ed ambientali, tradizioni, abilità manifatturiere, saperi e sapori. I piccoli comuni in Basilicata debbono poter riacquistare un ruolo strategico nello scenario regionale, in quanto costituiscono una, se non la principale, chiave di successo per lo sviluppo della Basilicata. Siamo dinanzi ad una sfida decisiva, non solo per chi abita nei piccoli centri con molti disagi e poche prospettive. Per questo pensiamo che la Basilicata debba puntare decisamente sul “progetto locale” come modalità di intervento per far ripartire lo sviluppo dal basso, recuperando così l’enorme potenziale rappresentato dalle specificità del territorio, vera forza economica. Il valore della montagna, delle aree interne, delle tantissime vitalità locali, vanno assolutamente riconosciute e difese. E’ necessario un impegno forte finalizzato a promuoverne le potenzialità che altre aree non possiedono, con politiche rafforzative del sistema di relazioni tra questi, i comuni più grandi e le città, per nuovi assetti territoriali ed economici. Allargando ai piccoli comuni la partecipazione, la programmazione negoziata, il coinvolgimento nella realizzazione e gestione di servizi e infrastrutture per la produzione, la protezione e l’integrazione sociale, l’istruzione e la formazione, promuovendo insieme il marketing territoriale, anche delocalizzando alcune attività e posti di lavoro nelle aree montane. Un grande programma regionale di coesione economica e sociale, dunque, che orienti, finalizzi e vincoli ancora meglio e di più le risorse finanziarie europee verso obiettivi e su priorità chiaramente circoscritte ai territori periferici, per dare efficacia alla riqualificazione e valorizzazione dei piccoli comuni. Che abbia nella collaborazione e cooperazione tra i diversi livelli istituzionali, nella condivisione con i soggetti economici, sociali, professionali, associativi delle piccole realtà comunali la migliore condizione per conciliare competitività economica e diffuso sviluppo sostenibile, efficace distribuzione e corretta allocazione sul territorio delle risorse finanziarie. In questo contesto importanza decisiva riveste secondo Legambiente il rilancio a livello regionale di una politica di valorizzazione delle aree protette in un’ottica di sistema. La creazione e la promozione di un effettivo sistema di aree protette in Basilicata, in grado di relazionarsi con il sistema nazionale ed europeo, può rappresentare un’immagine ed un offerta della nostra regione in grado di imporsi a livello italiano ed internazionale, in quanto nelle aree protette e’ contenuto molto di quel grande “valore aggiunto” che anche in Basilicata e’ rappresentato dall’indissolubile intreccio tra natura e cultura. In Basilicata, come del resto in quasi tutta Italia, il territorio e’ da sempre segnato dalla presenza dell’uomo che nei secoli ne ha custodito tradizioni culturali e abilità locali spesso ancora vitali. Questo patrimonio culturale non e’ sicuramente meno importante di quello naturale che, tra l’altro, e’ quasi sempre il risultato di attività produttive, legate all’agricoltura e all’allevamento, oltre che di modalità d’uso del territorio e dell’ambiente che si sono sviluppate ed affinate nei secoli. In particolare il territorio della Basilicata e’ piu’ di altri segnato profondamente da questi caratteri di ruralità che sono stati storicamente considerati come fattori di arretratezza delle aree interne e generatori di un’economia debole e marginale. Ancora oggi, questa dimensione culturale dello sviluppo locale fondata sulla sfiducia nei confronti di ipotesi di valorizzazione indirizzata sulle risorse naturali tradizionali, e’ ancora molto radicata sebbene si avvertano significative inversioni di tendenza.

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Eppure oggi appare indispensabile mantenere vivo tale straordinario patrimonio di diversità naturale e culturale, di produzioni tipiche, di mestieri tradizionali e le aree protette rappresentano in questo contesto una straordinaria occasione per il riconoscimento a livello nazionale ed internazionale di tali territori ed identità locali. Peraltro, un progetto di conservazione della natura della nostra Regione, soprattutto se condotto nell’ottica del sistema e della rete, non ha nulla a che fare con la creazione di un museo ambientale, ma va inteso in primo luogo come un progetto di tutela, valorizzazione e promozione di un tessuto di relazioni. Le aree protette, infatti, sono per la Basilicata una grande occasione per una politica di sviluppo sostenibile soprattutto delle aree interne, attraverso la quale realizzare in forme inedite ed avanzate l’obiettivo storico del riequilibrio socioeconomico e territoriale. I parchi e le aree protette sono oggi uno dei piu’ importanti laboratori dello sviluppo sostenibile proprio perché nelle aree interessate sono presenti le precondizioni necessarie per renderlo nel breve periodo praticabile, visibile e misurabile. Qui gli investimenti pubblici e privati possono creare piu’ lavoro che altrove in servizi, opere e attività in grado di valorizzare e promuovere risorse naturali, culturali ed ambientali. Pertanto oggi esistono tutte le condizioni perché le aree protette si configurino realmente come realtà ove sperimentare una pianificazione non calata dall’alto ma figlia delle specifiche esigenze del territorio: questo e’, d’altronde, il senso del concetto di “territorializzazione” delle politiche di protezione, in base al quale non ha senso cercare le compatibilità tra una generica attività di tutela ed un generico processo di sviluppo, ma e’ indispensabile che si stabilisca un rapporto tra azioni e tutela che concretamente si possono realizzare in un dato territorio e lo sviluppo locale che in quello specifico territorio si può perseguire. Il tema delle aree protette può oggi uscire definitivamente da un discorso di margini, di resti di territorio o di “isole” da proteggere, per entrare in pieno a far parte di una visione di sistema e di rete in cui il sistema delle aree protette diventa sistema aperto all’interno di un significativo insieme di altri sistemi e la politica delle aree protette deve, di conseguenza, essere necessariamente collocata all’interno di politiche di “rete”. D’altronde le strategie internazionali di conservazione della natura indicano come le aree protette debbano essere individuate e gestite in accordo con gli obiettivi di conservazione e sviluppo a livello di grandi sistemi ambientali e territoriali. Dentro questi sistemi le aree protette formano quella rete che le mette in relazione fra di loro e con i contesti territoriali nei quali sono inserite. In questo modo il sistema delle aree protette risulta essere un sistema infrastrutturale ambientale ad altissima densità di diversità naturale e culturale, di tipicità manifatturiera ed agroalimentare, di identità locali, di presidi territoriali e di specifiche modalità insediative, in grado di competere, misurarsi e condizionare i sistemi infrastrutturali tradizionali. Le aree protette negli ultimi anni sono state in grado di avviare, anche in Basilicata, proficue azioni con altri soggetti istituzionali; sempre di più, in futuro, esse dovranno avere la capacità di individuare collaborazioni nell’ambito di iniziative di sviluppo locale. In questo quadro emergono però le criticità che è necessario affrontare. La principale preoccupazione riguarda l’assenza di una chiara visione di sistema delle aree protette in Basilicata. Alla mancanza di una

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prospettiva strategica si aggiungono le difficoltà finanziarie degli enti di gestione e la carenza di organici adeguati all’assolvimento dei numerosi ed importanti compiti statutari nonostante essi abbiano rappresentato in questi anni una reale novità istituzionale per la regione e veri punti di riferimento per l’attuazione delle politiche di sviluppo sostenibile incentrate sulla salvaguardia degli ecosistemi e delle identità e sulla valorizzazione dei territori. Risulta quindi necessario allo stato attuale ripensare globalmente il sistema regionale delle aree protette che andrebbero maggiormente sostenute, sia con maggiori investimenti finanziari, sia dotandole delle strutture tecniche, scientifiche e gestionali necessarie al loro funzionamento ed a garantire la messa in pratica di adeguate politiche di tutela e valorizzazione. Infine sarebbe necessario ripartire con l’iter istitutivo del Parco Regionale del Vulture, ormai, inspiegabilmente, fermo da anni e ritornare prepotentemente a lavorare per l’istituzione dell’Area Marina Protetta di Maratea il cui iter istitutivo si è arenato presso il Ministero dell’Ambiente e che invece trova nella cittadina costiera oggi maggiori consensi rispetto al passato, ed un nuovo dinamismo dell’Amministrazione Municipale convinta che l’istituzione dell’area protetta possa rappresentare un’opportunità di crescita per Maratea e non un vincolo. Anche per ciò che riguarda il Parco Nazionale del Pollino è utile evidenziare come, dopo quasi 20 anni dalla sua istituzione, la Comunità del Parco abbia approvato il Piano del Parco che ora è all’esame delle due Regioni per il completamento del suo complesso iter approvativo. Un importante passo avanti per coniugare tutela e conservazione con nuove prospettive di sviluppo economico nell’area protetta fra le più grandi d’Europa. La difesa del Territorio Sono passati più di due mesi dalla notizia che i dati sul monitoraggio dell’impianto industriale Fenice erano stati nascosti per anni, eppure assistiamo ad un’inerzia intollerabile da parte delle istituzioni preposte. Parole di competente chiarezza stentano a venir fuori nel mentre la paura e lo sconcerto crescono tra i cittadini. Chi ci può dire oggi se l’impianto è in grado di funzionare, se il danno prodotto è quantificabile e se i suoi effetti sono sanabili? Per affrontare le problematicità connesse alle attività industriali, alla gestione moderna dei rifiuti, alla definizione di strategie per la difesa del territorio sono necessarie competenza, professionalità, impegno, fermezza e strategie chiare che non sembra siano state espresse appieno in questi anni in Basilicata. L’attività di queste ultime settimane della Magistratura, le omissioni dell’Arpab, evidenziano lacune e falle del sistema regionale nel campo dei controlli ambientali. La trasparenza dell’operato degli Enti preposti al monitoraggio ed alla vigilanza determina nei loro confronti, e quindi nei confronti del sistema in generale, la fiducia dei cittadini che, in questo caso, ha subito un colpo durissimo. È necessario inaugurare una stagione che proponga strategie nuove e che riposizioni l’Arpab su posizioni più avanzate, coinvolgendo, come la nuova dirigenza giustamente sta cercando di fare, l’Istituto Superiore di Sanità e l’Ispra, soggetti che i lucani considerano terzi in tutte queste vicende e dai quali ci aspettiamo risposte tecniche e scientifiche chiare ed inoppugnabili per fare chiarezza sulle questioni più spinose che riguardano la tutela del territorio e della salute dei cittadini.

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Pensiamo principalmente alla Val d’Agri ed alla difficile convivenza dell’attività estrattiva con un territorio vulnerabile e fortemente antropizzato. È qui che si dovrà dare un segnale nuovo a tutti i lucani mettendo in campo strategie ed attività che rispondano realmente alla preoccupazione, ripetuta in questo ultimo anno e comune a tutti i rappresentanti istituzionali, ai commentatori, agli attori sociali: il petrolio non è barattabile con la sicurezza dei territori. Sarebbe assurdo, soprattutto oggi dopo i fatti di Fenice, anche solo dare l’impressione, che in Basilicata le “ragioni” delle compagnie petrolifere e l’interesse nazionale allo sfruttamento delle risorse energetiche riescano sempre a trovare soddisfazione mentre le “ragioni” della tutela del territorio, della conservazione e della tutela della biodiversità siano destinate a non vincere. In Val d’Agri, per il Centro oli, è sempre più urgente arrivare alla realizzazione di un adeguato sistema di controllo dell’impianto per rispondere alle richieste di sicurezza del territorio, considerato l’alto livello di pericolosità insito nell’impianto stesso, gli incidenti susseguitesi in questi anni, e l’impossibilità di fare una valutazione sul suo impatto a causa dei pochi e disorganici dati sul monitoraggio delle emissioni oggi disponibili. In particolare vanno rapidamente superate alcune fortissime criticità: il monitoraggio dell’idrogeno solforato è discontinuo e quindi inadeguato soprattutto in relazione alla rilevanza ambientale di tale inquinante; il numero delle centraline è esiguo e ciò influisce fortemente sulla qualità dei dati a causa delle limitazioni dovute alla loro ubicazione ed alla quantità di dati disponibili; è necessario poter disporre in tempi rapidi dei dati che emergeranno dal monitoraggio sanitario avviato in val d’agri a cura dei medici di famiglia; la divulgazione dei dati è precaria e difficilmente accessibile (siti web non accessibili, mancanza di archivi dei dati, informazioni discontinue,ecc). È imprescindibile puntare a minimizzare gli impatti e a ridurre il rischio e l’esposizione per le popolazioni, richiedendo ad ENI l’applicazione in Val d’Agri di quelle “migliori tecnologie disponibili” che dovevano essere alla base dell’impegno industriale in Basilicata. Grande attenzione va posta in generale sul sistema industriale che in Italia ha visto crescere il livello di inquinamento atmosferico prodotto. In questi ultimi anni, infatti, sono saliti a +15% gli Ipa (idrocarburi policiclici aromatici), a +6% le diossine e i furani, a +5% cadmio e +3% cromo. E’ con questi dati che l’industria italiana si conferma come la principale fonte di microinquinanti scaricati in atmosfera, producendo il 60% del cadmio totale, il 70% delle diossine, il 74% del mercurio, l’83% del piombo, l’86% dei Policlorobifenili (PCB), l’89% del cromo, fino al 98% dell’arsenico. Tutti inquinanti che sembrano finiti nell’oblio ma che, invece, contribuiscono in modo molto pesante a rendere insalubre l’aria respirata nei luoghi di lavoro e nei centri urbani limitrofi alle aree industriali. L’industria contribuisce in modo molto sensibile alla Mal’Aria del Paese: con il 26% di PM10 emesso a livello nazionale, un livello di emissioni superiore a quello prodotto dal trasporto stradale (che incide sul totale solo per il 22%, ma che diventa la prima fonte di emissione nei centri urbani). Oltre alle polveri sottili, la fonte industriale scarica, poi, in atmosfera il 79% degli ossidi di zolfo (SOx), ormai insignificanti nel settore dei trasporti grazie alle specifiche sempre più stringenti sulle concentrazioni di

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zolfo nei carburanti, e il 23% degli ossidi di azoto (NOx), precursore della produzione del PM10 secondario e dell’ozono, inquinante tipicamente estivo. Per ridurre l’impatto ambientale delle attività produttive, uno strumento fondamentale è costituito dall’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), prevista dal decreto legislativo 59/2005 di recepimento della direttiva europea IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control) sulla prevenzione e il controllo integrato dell’inquinamento industriale. Ma il rilascio dei pareri da parte della Commissione AIA nazionale e l’emanazione dei decreti di autorizzazione da parte del ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare procede con enorme lentezza. Non è servita a molto, neanche, la procedura d’infrazione scattata nel maggio 2008 per non aver rispettato la scadenza del 30 ottobre 2007 prevista dalla direttiva europea per rilasciare le nuove autorizzazioni a tutti gli impianti industriali e adeguare gli impianti alla normativa europea. Nel 2010 su 191 impianti industriali solo per 41 è stata rilasciata l’AIA (21%), mentre per 143 il procedimento non si è concluso e per 7 è in corso sia la VIA che l’AIA. Insomma un bilancio tutt’altro che rassicurante, sia nei numeri che nel dettaglio degli impianti, senza considerare che alle Autorizzazioni nazionali rilasciate dal Ministero si aggiungono quelle regionali e provinciali concesse dagli enti locali alle migliaia di impianti più piccoli. I passi in avanti degli ultimi decenni per ridurre l’inquinamento industriale non sono stati sufficienti a salvaguardare la salute dei cittadini che vivono nei pressi di stabilimenti industriali. È per questo che Legambiente, anche dalla Basilicata, torna a chiedere al governo italiano di garantire adeguati finanziamenti per l’attivazione di studi epidemiologici per approfondire gli impatti sanitari derivanti dall’esposizione agli inquinanti emessi dalle lavorazioni industriali. La Basilicata e tutte le Regioni italiane devono investire risorse economiche adeguate per quelle Agenzie regionali per la protezione ambientale che in due terzi del Paese non sono in grado di assolvere i compiti sui controlli che gli sono stati assegnati per legge. L’industria, infine, deve investire in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica, perché solo così potrà ridurre gli impatti ambientali delle sue lavorazioni e garantirsi quel valore aggiunto necessario per competere in un mercato globalizzato. I prossimi anni dovranno anche vedere uno sforzo straordinario per la tutela dei fiumi e della costa lucana minacciata dai fenomeni dell’erosione, dalla eccessiva cementificazione e dagli apporti di inquinanti che i fiumi riversano sui 62 chilometri di coste della Basilicata. I controlli estivi della Goletta Verde, i sempre più frequenti casi di fenomeni gravi di inquinamento, figli a volte di comportamenti criminali di imprese spregiudicate e mal controllate, ma anche dalle carenze nel sistema depurativo, e la vicenda dell'inquinamento del lago del Pertusillo sono la prova più evidente di quanto siano urgenti e necessari interventi seri per evitare l'inquinamento delle acque dei nostri fiumi, dei nostri laghi e del nostro mare ed i disastri ambientali cui stiamo assistendo. Le criticità del quadro depurativo della Basilicata sono in parte legate all'afflusso turistico nei periodi di punta, in parte a reti fognarie e sistemi di depurazioni insufficienti a supportare la depurazione dei reflui urbani. Tanto più che il 28% degli impianti non sono operativi. Se la media regionale per il servizio di depurazione è di quasi l’80%, a livello dei singoli capoluoghi di provincia si registrano livelli superiori di diffusione del servizio.

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Bisogna tenere sotto controllo il carico di inquinanti sversati in mare dai nostri fiumi. Basento ed Agri innanzitutto, ma non solo. Chiediamo, inoltre, ad Acquedotto Lucano ed ai Comuni, tanto quelli costieri che quelli dell’entroterra, di mettere in atto politiche efficaci per garantire un efficiente funzionamento degli impianti di depurazione e alla Regione di implementare quanto prima il servizio fognario, in modo tale che si arrivi alla copertura di tutto il nostro territorio e per sdoppiare la rete fra acque chiare ed acque scure ed evitare inutili stress aggiuntivi ai nostri depuratori, per non trasformare i corsi d’acqua in ricettacoli di reflui inquinanti. Il nostro agire locale La nostra associazione e la sua grande articolazione in gruppi locali, più di altre realtà, rappresentano una piattaforma nazionale che apre di continuo vertenze sul territorio, coerenti con quella piattaforma, e promuove esperienze e progetti capaci di rendere visibile e comprensibile l’idea di Paese, di ambiente, di sviluppo che abbiamo, anticipando spesso processi sociali e culturali che sono in genere ostacolati dai vecchi e nuovi problemi che il nostro paese incontra. C’è una radicalità profonda e irriducibile nel pensiero e nella nostra azione, che sta nella nostra capacità di interloquire con il mondo del lavoro e delle imprese, con i cittadini che si organizzano, con le istituzioni, con la conoscenza scientifica. Ci collochiamo nel punto di intersezione tra questi interessi e questi processi, in nome del popolo inquinato, per liberare il paese dagli errori del passato, per evitare che se ne facciano altri nuovi. E’ questa nostra radicalità che ci permette di parlare di rivoluzione energetica e di green new deal non come modello ideologico futuribile, ma come obiettivo concreto, di breve e di lungo periodo, nel quale “il futuro è già adesso”, senza semplificazioni né demagogie. Capire il futuro per cambiare il presente. Su questa strada dobbiamo proseguire, se vogliamo essere protagonisti del cambiamento rispetto alle nuove sfide e alle nuove opportunità che si stanno disegnando. La green economy già c’è. Non dobbiamo aver paura di crederci. Piuttosto dobbiamo essere in grado di raccontarla a tutti, soprattutto alla gente comune. Senza stancarci di tessere la faticosa rete delle alleanze, del dialogo con le altre organizzazioni, con le altre culture, perché, così facendo, sappiamo che si aprono spazi e possibilità inedite per il cambiamento che vogliamo realizzare. Continuando sulla strada intrapresa con il nostro Ecosportello Rifiuti Energia, con la nuova esperienza del Gruppo di Acquisto Solare, con i nostri Centri di Educazione Ambientale che ormai costituiscono una rete di esperienze e professionalità utile a parlare ai bambini, agli insegnati ai cittadini, con la straordinaria esperienza del Gruppo di Acquisto Ecologico di Potenza, con la giovinezza e l’impegno del Gruppo Giovani, tutti esempi della nostra faticosa ma gratificante pratica quotidiana dell’ambientalismo nella quale la nostra associazione è maestra. Non basterà indicare la strada, dovremo fare da apripista, utilizzare i tanti strumenti che ci permettono di incontrare e parlare direttamente ai cittadini, per battere un’idea di conservazione che fa solo il gioco di chi avversa il cambiamento e ha interessi a mantenere lo status quo.

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Agire localmente e pensare globalmente é ciò che ancora ci consente di essere un’organizzazione nazionale con un forte radicamento territoriale con la continua ricerca di un equilibrio tra localismo e interesse generale, resa possibile dal nostro modello organizzativo, e che ci ha permesso di navigare agili in un mare burrascoso, nonostante una fragilità strutturale che caratterizza quasi tutte le esperienze del terzo settore, in particolare in Basilicata. Noi dobbiamo tenere insieme le pluralità che convivono nella nostra associazione, che sono un grande valore culturale, con il rigore del comportamento e della pratica politica. Dobbiamo guardare agli altri con responsabilità e quindi avere uno stile di lavoro associativo che non escluda e che si basi sulla fiducia reciproca. Di fronte alle vertenze territoriali l’ambientalismo scientifico deve sempre orientare le nostre scelte di campo e le nostre posizioni, senza sottovalutare le pressioni sociali e le pulsioni che spingono le comunità locali a respingere progetti e opporsi ad iniziative imprenditoriali o politiche, ma anche senza rinunciare alla responsabilità di farsi guida nelle scelte consapevoli da perseguire sui territori. È necessario, insomma, che la Legambiente anche in Basilicata sappia ricercare l’equilibrio tra l’ambientalismo scientifico, che ha fatto grande la nostra associazione e ne rappresenta tuttora la cifra identitaria, e l’ambientalismo popolare e sociale, che resta attento alle voci delle comunità locali, che si mette al servizio dei cittadini, che facilita il dialogo sociale tra le parti in campo, che diffonde informazioni scientifiche facendosi interprete di istanze e timori che originano da scelte spesso poco condivise con la popolazione, senza però cedere alle facili scorciatoie del populismo e della demagogia. Noi dobbiamo continuare ad essere l’associazione che, ad esempio, disegna scenari energetici globali e contemporaneamente difende i territori. Nell’intreccio fra i no e i sì è in gioco la credibilità di ogni organizzazione, anche della nostra, una credibilità che ci arriva da trent’anni di storia, ma che non è un patrimonio inesauribile. Stare insieme, esprimere il proprio punto di vista, decidere, richiedono una scommessa comune, questa è la nostra associazione. Dobbiamo avere consapevolezza che la nostra compagnia e amicizia sono il fattore che ci permette di avere un’opportunità, di sostenere delle idee e di farle diventare realtà prima di tutto nella nostra vita. Per essere una risorsa della società, disponibile in modo generoso e gratuito per costruire cambiamenti nei luoghi con uno stile che è l’essenza stessa del nostro impegno nell’arte della politica e nelle pratiche di convivenza.