l’emigrazione dal friuli venezia giulia: … · sostenuta dal governo italiano e dalle...
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L’EMIGRAZIONE DAL FRIULI VENEZIA GIULIA:
DESTINAZIONE SVIZZERA
Furio Bednarz
Premessa
L'emigrazione friulana ha radici antiche, che risalgono ai fenomeni di migrazione
temporanea e stagionale verso l’Austria, la Germania, l’Ungheria, persino la
Romania, oltre che verso le regioni italiane limitrofe del Nord, dal Veneto al
Piemonte, di cui si ha notizia a partire dal XVI secolo. Questi fenomeni sono stati
oggetto di studio sin dai primi anni del 900, ma soprattutto nell’ottica delle aree di
esodo, e spesso in un approccio che si collocava a metà tra ricostruzione nostalgica
del Friuli di un tempo e denuncia delle piaghe dovute ad un cronico sottosviluppo.
L’ importante volume L’emigrazione temporanea dal Friuli di Cosattini (1903)
analizzava le zone di partenza, i mestieri dei migranti, e le loro destinazioni e
analogamente Zanini (Friuli Migrante 1937) individuava le specializzazioni e
cercava anche di dare volti e nomi agli apprezzati costruttori, fornaciai, segantini,
boscaioli partiti dalla Carnia e dal Friuli collinare verso l’Europa centro-orientale.
Gino di Caporiacco varò negli anni ’60 la sua ambiziosa opera, Storia e statistica
dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia, impregnata di coscienza civile e spirito di
denuncia, quasi a chiudere un’epoca, mentre già i movimenti migratori dal Friuli
avevano assunto connotati affatto diversi, che verranno magistralmente colti una
quindicina di anni più tardi (1981) da Elena Saraceno nel suo Emigrazione e rientri.
Curiosamente, tuttavia, avrebbe grandi difficoltà a trovare materiali e lavori editi chi
volesse capire il ruolo chiave giocato dalla Svizzera come una delle mete privilegiate
dei migranti friulani, e addirittura come la destinazione principale dell’esodo nel
secondo dopoguerra. Non aiuta molto la lettura delle fonti e dei volumi citati, perché
la terra elvetica è raramente richiamata, e talvolta lo è di sfuggita, magari in un’ottica
comparativa, come nel caso di Di Caporiacco, che utilizza il paragone con la
situazione svizzera per affermare come l’emigrazione dal Friuli non fosse un destino
ineluttabile ma il prodotto di un ritardo di sviluppo e di scelte politiche. Egli parla
della Svizzera, allora recente mete di primi flussi di emigrazione anche dal Friuli, per
evidenziare il diverso destino che tra 800 e 900 hanno avuto le regioni alpine, terre di
emigrazione, come per l’appunto la Svizzera, rapidamente divenute terre di
accoglienza e immigrazione grazie al decollo infrastrutturale e industriale. Nemmeno
ci viene in soccorso la pubblicistica divulgativa, se pensiamo che la fortunata Storia
del Friuli opera negli anni settanta di Tito Maniacco appena ripubblicata, pur
dedicando un intero capitolo all’emigrazione, si sofferma molto poco in generale sul
ciclo migratorio del secondo dopoguerra e nemmeno cita il ruolo assolto dalla
Svizzera come paese di accoglienza dei friulani.
Una storia dei migranti friulani in Svizzera, insomma, è sostanzialmente da scrivere.
Mancano addirittura dati completi e affidabili sulle partenze e sui rientri, soprattutto
sui fenomeni migratori dei primi decenni del dopoguerra, le cui dimensioni possono
essere solo stimate considerando attraverso i dati delle anagrafi comunali e consolari
la numerosità delle comunità che risultano oggi insediate in Svizzera. Diverse le
ragioni di questa carenza di dati. Nel suo periodo di massima espansione, nel secondo
dopoguerra, le partenze per la Svizzera sono avvenute in molti casi il lavoro
stagionale, primo passaggio per acquisire uno statuto più stabile, e come tali hanno
generato assenze temporanee dai comuni di residenza poco e mal censite in sede
statistica. Anche l’emigrazione temporanea non è stata rilevata in modo sistematico,
perché raramente gli emigranti che partivano mantenendo saldi legami con la località
di origine provvedevano a cancellarsi dalle anagrafi. L’istituzione delle Anagrafi
degli italiani residenti all’estero presso i comuni di origine, e piu’ recentemente
l’aggiornamento delle anagrafi consolari resosi indispensabile per attuare la legge sul
voto degli italiani all’estero, sono intervenuti troppo tardi (quando i flussi si andavano
esaurendo) per generare informazioni retrospettive attendibili. E’ poi mancato, nel
caso della Svizzera, l’interesse storico per il fenomeno migratorio che ha portato a
realizzare gli studi di cui oggi disponiamo sull’emigrazione transoceanica o il
pendolarismo dei migranti artigiani e commercianti friulani verso il centro Europa. In
effetti i flussi verso la Svizzera hanno assunto dimensioni significative solo in epoche
recenti, anticipando solo di poco l’inversione dei flussi migratori che ha spento, dopo
la fine degli anni ’70, il dibattito sulle migrazioni dal Friuli e l’interesse della ricerca
per il fenomeno.
Ancora manca chi abbia saputo ricostruire e tramandare biografie, volti e memorie,
fatta eccezione per singole storie di vita rintracciabili in alcuni lavori condotti in
Svizzera, indagando ad esempio le biografie delle donne migranti (Alleman-Ghionda,
Meyer, 1992; Ambrosi, 2005) o la presenza degli immigrati nel sindacato (Steinauer,
Von Allmen, 2000). La presenza di vaste comunità friulane in Svizzera, resa visibile
ad esempio dalle liriche e dagli articoli di analisi e di denuncia di Leonardo Zanier a
partire dagli anni ’60, ha assunto una sua fisionomia solamente nella breve stagione
di studi sulle migrazioni della fine anni settanta - inizio anni ’80 del secolo scorso,
che non ha dato vita a significativi sviluppi in seguito al mutare del clima socio-
economico, e di conseguenza al venire meno dell’interesse per un aspetto della storia
locale sulla via del tramonto.
Il nostro contributo ambisce dunque piu’ a riaprire questioni e indicare piste di lavoro
utili a studiare la presenza friulana in Svizzera, valorizzando il materiale documentale
e biografico sistematizzato grazie al progetto AMMER, che a dare di essa una visione
esaustiva o sistematica, per la quale mancano ancora i presupposti.
Le prime ondate migratorie, all’origine del decollo industriale della Svizzera.
Tra fine ‘800 e prima guerra mondiale
L'emigrazione friulana, com’è ormai noto, ha radici antiche, risalenti al XVI secolo
con le figure dei “cramars”, artigiani specializzati e commercianti al tempo stesso,
che si spostavano dai luoghi di residenza alle aree limitrofe e verso il centro Europa. I
friulani migranti lavoravano nell’industria delle costruzioni, ma svolgevano anche
mestieri artigiani molto particolari. Altri spostamenti avevano luogo per iniziativa
delle varie magistrature competenti della Repubblica di Venezia che, specialmente
nei secoli XVI-XVII, cercava di ripopolare quella parte del suo territorio che era stata
messa a dura prova da guerre, carestie e pestilenze: così molti contadini friulani,
artigiani e boscaioli carnici furono trasferiti ad esempio in Istria e in Dalmazia. Più
tardi i friulani rappresentarono anche una componente importante dei flussi di
immigrazione destinati a popolare la città di Trieste dopo concessione del porto
franco nel 1719.
I primi fenomeni di emigrazione su larga scala dal Friuli risalgono tuttavia più o
meno alla metà dell'Ottocento e divengono di massa partire dal 1880, coinvolgendo
fino a quasi il 6% dell’intera popolazione. Il fenomeno migratorio era allora, come
ricorda Valussi (Il movimento migratorio, in Enciclopedia Monografica del Friuli
Venezia Giulia, 1974), era tipico di una fase di transizione economica: i migranti
stagionali, favoriti dallo sviluppo delle vie di comunicazione, lasciavano i paesi nella
bella stagione e arrotondavano i redditi ormai insufficienti prodotti dall’agricoltura
perpetuando la sopravvivenza di una società rurale la cui autosufficienza era messa a
dura prova dall’industrializzazione.
L'emigrazione dal Friuli si mantiene costante fino allo scoppio della Prima Guerra
mondiale, rappresentando il 10% sul totale delle partenze dal nascente stato italiano.
Nonostante l’apertura parallela di forti flussi transoceanici 1, i friulani hanno
continuato a preferire la destinazione verso i paesi europei, vissuti come meta
temporanea di un percorso destinato prima o poi a concludersi con il rientro in patria.
L’80% dei flussi si indirizza verso il bacino storico di emigrazione, verso la
Germania (oltre il 40% dei migranti, nel dato riferito alla Carnia tra fine 800 e inizio
900), l’Austria (34%) e l’Ungheria (7% scarso).
E’ in questa fase, a partire dal 1890, che la Svizzera è divenuta per la prima volta
meta significativa degli emigranti friulani (essa assorbe più o meno il 3% delle
1 L'emigrazione verso le Americhe (nell'ordine Argentina, Brasile, Stati Uniti, Canada) passa dal 7% del totale nell'800 al 20% nel primo decennio del XX secolo
destinazioni verso la fine del XIX secolo). Questo processo avviene in seguito alle
mutate condizioni del mercato del lavoro nel paese di immigrazione. La Svizzera in
quel periodo conosce un profondo processo di trasformazione sociale ed economica,
con la realizzazione di importanti opere infrastrutturali viarie e ferroviarie, come la
costruzione dei due assi fondamentali di comunicazione nord – sud, attraverso le
Alpi, con i trafori del Gottardo e del Sempione. Queste opere, finanziate da gruppi
internazionali grazie all’interesse dell’imprenditoria tedesca e italiana a disporre di
rapide vie di comunicazione, attraggono rilevanti quote di manodopera dall’estero. I
tunnel sono costruiti da grandi imprese centro-europee e svizzere, tecnici tedeschi e
locali, forza lavoro quasi tutta proveniente dalle regioni limitrofe del nord Italia.
Arrivano probabilmente così anche i primi friulani, ma un flusso più significativo si
verifica quando la Svizzera dell’altipiano, saldamente connessa all’asse ferroviario
nord-sud, inizia un veloce processo di sviluppo industriale e urbano, che attrae
manodopera sia nell’industria delle costruzioni che nelle manifatture.
L’emigrazione di massa dal Friuli che si realizza tra 1881 e 1914, interrompendosi
drammaticamente in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, è in parte
sostenuta dal Governo italiano e dalle organizzazioni cattoliche, almeno a livello di
accompagnamento sociale minimo. Nel 1896 si insediano in Svizzera le prime
Missioni Cattoliche. Nel 1901 lo Stato italiano istituisce il Commissariato per
l’emigrazione (Valussi, 1974). Si sviluppano soprattutto, anche in Friuli, forme di
sostegno da parte di istituzioni laiche e religiose, che si preoccupano di aiutare i
migranti, sottrarli all’arbitrio dei reclutatori di manodopera, curarne la morale.
Emerge indirettamente la testimonianza di un’emigrazione friulana in Svizzera che è
già articolata a livello di professione e di genere. Nascono infatti alla fine dell’800
servizi a favore dell’emigrazione che si occupano delle giovani migranti, e
dell’infanzia. Una embrionale comunità friulana si va creando in Svizzera, alimentata
da arrivi regolari e clandestini, di uomini che si inseriscono nei mestieri tradizionali
degli emigrati friulani nei paesi centro-europei, e di donne che lavorano
prevalentemente nell’industria tessile. In Svizzera il Segretariato femminile
permanente per la tutela delle donne e dei fanciulli migranti, di ispirazione cattolica,
fonda le Heime, ricoveri per lavoratrici, finanziati dagli stessi industriali locali e
affidati alle suore di Menzingen. Valussi ricorda d’altro canto come dal 1890 la
Svizzera rappresenti la destinazione emergente dei migranti temporanei friulani, che
lavorano stagionalmente, nel ciclo edile, arrivando di solito in primavera e ripartendo
prima dei rigori invernali. Ma non fornisce grandi particolari.
Una seconda fonte indiretta per comprendere la rilevanza crescente della presenza
friulana in Svizzera a cavallo tra 800 e 900 è data dalle vicende del nascente
movimento operaio nei paesi del centro-Europa. Il ruolo dei migranti friulani è stato
molto dibattuto nella ricerca storica, che si è occupata di mettere in dubbio lo
stereotipo del migrante “crumiro”, secondo una rappresentazione dei friulani come
forza lavoro docile (saldi, onesti, lavoratori), utilizzabile in funzione di crumiraggio
dalle imprese locali per sedare le rivendicazioni del sindacalismo socialista. Accanto
a episodi di questo tipo, infatti, emergono storie di segno opposto, che segnalano la
presenza di numerosi migranti nelle file delle prime organizzazioni operaie. Si ha
evidenza di questi percorsi nei documenti che analizzano lo sviluppo del movimento
sindacale in Friuli, che deve un contributo oggi rivalutato all’emigrazione, che ha
permesso a molti lavoratori di venire in contatto con le idee e le pratiche del
socialismo in Germania o Austria, e di importarle nei rientri in patria. In questo
contesto Marco Puppini (L’emigrazione dal Friuli, in Friuli Venezia Giulia. Storia
del 900, 1995) ricorda come emigranti friulani fossero tra gli animatori
dell’Associazione muratori e manovali di San Gallo, e come il sindacato svizzero del
legno abbia avuto in Luigi Vuattolo, migrante friulano formatosi in Germania, uno
dei suoi principali dirigenti a inizio 900.
Questa stagione migratoria, segnata dalla stagionalità di arrivi e partenze, e da una
presenza che si stava ampliando dall’originaria prevalenza di uomini qualificati attivi
nel ciclo edilizio e nei lavori della terra, coinvolgendo anche manodopera generica in
cerca di fortuna (proveniente dalle aree centrali e collinari del Friuli e non solo dalla
montagna) e donne attive nelle manifatture, venne bruscamente interrotta dallo
scoppio della Guerra mondiale del 1914 – 1918. I migranti friulani rientrarono
precipitosamente nel periodo della “neutralità italiana”. Si chiusero quindi i confini, e
l’esercito rappresentò per alcuni anni il destino della manodopera eccedente nei
contesti locali di origine dei migranti.
Tra avvento del fascismo e seconda guerra mondiale
Dopo la fine del primo conflitto mondiale vi fu in Friuli, sino al 1924 / 1925, una
buona ripresa dei flussi migratori, che, venendo meno i bacini tradizionali smembrati
dalla guerra, si indirizzarono verso altre mete, in particolare verso la Francia, che
richiedeva manodopera da impegnare nella fase ricostruttiva e nelle regioni
minerarie. I flussi in questa fase furono più organizzati, basati su accordi bilaterali,
sostegno governativo e anche forme organizzate di contrattazione, come nel caso
degli accordi tra movimento operaio associato degli edili friulani e impresari francesi.
Negli anni venti si giunge ad un picco di oltre 30.000 partenze annue, che interessano
luoghi di origine e mestieri non molto diversi dal periodo anteguerra, ma che
prendono strade diverse, tra le quali anche quella della Svizzera. Nel 1920, anno per
il quale si dispone di dati sugli espatri per destinazione (Valussi, 1974), la Svizzera
ricopre la quarta posizione nelle destinazioni di arrivo dalla provincia di Udine, con
1.100 migranti, più o meno lo stesso numero di quelli che ancora si recano in Austria
e poco meno dei migranti definitivi che scelgono Canada o Stati Uniti. La ragione
della ripresa dei flussi migratori verso la Svizzera risiede tanto nelle condizioni
difficili del mercato del lavoro in Friuli, che favoriscono la riattivazione delle catene
migratorie, sia nella favorevole situazione del mercato del lavoro elvetico,
considerato che il paese ha imboccato una decisa strada di sviluppo industriale
favorito dalla neutralità mantenuta nella fase bellica Tuttavia non si hanno nel
complesso notizie precise della quantità e qualità dei flussi, che rimangono comunque
decisamente inferiori a quelli registratisi in direzione transalpina (la Francia accoglie
circa la metà degli oltre 300.000 migranti friulani partiti tra le due guerre).
L’emigrazione verso la Svizzera è proseguita costante, con alti e bassi, negli anni
venti, per ridimensionarsi bruscamente nel secondo decennio del periodo fascista. Il
ciclo economico, con l’effetto devastante della crisi degli anni ’30, valse tuttavia più
delle leggi tendenti a frenare i flussi di emigrazione varate nel 1927 dal governo
italiano, nel determinare il riorientamento dei flussi in uscita. Infatti si ha notizia di
flussi ancora significativi in uscita (superiori alle 20.000 partenze annue) alla fine
degli anni venti, mentre la contrazione drastica avviene solo a partire dal 1932,
quando sono i paesi di arrivo, inclusi Francia e Svizzera, a varare proprie leggi di
regolamentazione e contingentamento dei flussi e a chiudere le porte agli immigrati.
Verso la Svizzera si segnalano allora arrivi di “clandestini”, traghettati probabilmente
dalle prime catene di richiamo favorite dall’insediamento delle comunità all’estero.
Durante il Ventennio fascista, a partire dagli ani trenta, si assiste nel complesso a una
forte riduzione del flusso migratorio diretto dal Friuli verso l’estero, che si contrae a
circa 3000 unità l'anno, mentre sono le migrazioni interne e verso le colonie e che
prendono parzialmente il posto degli spostamenti verso l’estero
La catena migratoria nel secondo dopoguerra: la Svizzera meta privilegiata
L’ondata di emigrazione dal Friuli nella quale la destinazione verso la Svizzera ha
giocato un ruolo determinante è stata senza dubbio quella del secondo dopoguerra,
inaugurata dalle prime partenze clandestine, spinte dalla disperazione e dalla
disoccupazione di massa, che iniziano - a confini ancora chiusi - nel 1945. Dal 1946
al 1970 sono state poco meno di 364.000 le persone che hanno lasciato il Friuli-
Venezia Giulia (Valussi, 1974). La destinazione svizzera avrebbe assorbito, secondo
stime che considerano l’insieme dei flussi in uscita (di cui non si ha peraltro evidenza
precisa), poco meno della metà delle partenze. Difficile tuttavia dedurre da tale
numero – circa 180.000 uscite - l’entità esatta della popolazione migrante direttasi in
Svizzera, in conseguenza della particolarità del fenomeno in questa prima fase,
quando si partiva e si rientrava con una certa frequenza, e spesso di arrivava in
Svizzera dopo prime esperienze migratorie in paesi come Francia, Belgio o
Germania.
L’emigrazione verso la Svizzera è stata quasi integralmente (oltre il 95% dei casi)
un’emigrazione friulana, proveniente dalla provincia di Udine, dall’area montana
carnica, dalla fascia collinare e centrale e almeno in una prima fase dai territori della
destra Tagliamento che dal 1968 risultano inclusi nella neo-costituita provincia di
Pordenone.
In un primo momento, nonostante gli sforzi del governo elvetico di rendere precaria e
temporanea la presenza degli immigrati (condizionandola alle esigenze del mercato
del lavoro), il fenomeno ha assunto connotati di emigrazione per così dire “propria”,
perdendo la fisionomia prevalente di scelta temporanea e stagionale destinata a
favorire l’integrazione del reddito insufficiente prodotto dai nuclei famigliari in
Patria.
Il numero delle partenze per l’estero non raggiunge più nel dopoguerra i picchi della
prima fase del fenomeno, e nemmeno quello delle partenze avvenute in alcuni anni
del periodo fascista. Cambiando però la natura dell’emigrazione, con una maggiore
presenza di flussi transoceanici, si acuisce lo spopolamento radicale delle tradizionali
aree di esodo, in primo luogo del territorio montano. Le partenze si diffondono in
tutto il Friuli, con una tendenza a differenziare gli esiti del processo: quando
rientrano, infatti, sia che siano partiti dalla fascia collinare, che dal territorio montano
i migranti tendono a stabilirsi in prossimità della pianura friulana, e dei centri che
iniziano a conoscere un certo sviluppo industriale. Questo fenomeno di
“scivolamento” verso valle della residenza è stato analizzato nella ricerca sui rientri
promossa dalla Regione Friuli Venezia Giulia all’inizio degli anni ’80, realizzata dal
Centro Ricerche Economiche e Sociali di Udine (di cui non sono tuttavia stati
pubblicati i risultati completi) e risulta ancor oggi evidente nei dati dell’AIRE: nel
2006, ad esempio, sono iscritti all’AIRE nella provincia di Udine l’11% dei cittadini,
ma questo valore sale al 20% se consideriamo i comuni dell’area montana.
Negli anni ’40 l’emigrazione verso la Svizzera riprende molto presto, prima della
conclusione del conflitto. All’inizio giocano un loro ruolo alcuni fenomeni
particolari, che hanno radici nel periodo bellico. La Svizzera accoglie limitatamente
rifugiati in fuga dalle persecuzioni razziali e politiche, ma apre le porte dopo il 1943
ai militari italiani che disertano. Valussi, citando Lorenzon, ricorda ad esempio
l’arrivo in Svizzera sin dal 1943 di soldati italiani sorpresi in Francia dall’armistizio
seguito alla caduta del regime fascista, che ripararono in Svizzera per evitare la
deportazione in Germania. Questi rifugiati vennero ingaggiati dalle imprese locali, e
dopo un breve rientro in patria a conclusione della guerra, trovarono la strada per
farsi riassumere a vantaggiose condizioni dalle imprese elvetiche.
Nel dopoguerra la Svizzera è pronta ad accogliere manodopera. L’apparato
produttivo è indenne, e capace di lavorare a pieno regime contando su mercati
interessanti per le industrie pesanti e manifatturiere in genere, nel contesto della
ricostruzione europea. La Svizzera si prepara anche ad investire massicciamente nelle
infrastrutture energetiche, con la costruzione delle dighe e delle grandi centrali
idroelettriche. “Cosi’ sin dall’agosto 1946 i primi nuclei di muratori della Carnia e
del medio Friuli – ricorda Valussi – poterono emigrare nella Confederazione
Elvetica” (Valussi, 1974, pag. 888). Poi il 22 giugno 1948 governo italiano e svizzero
sottoscrivono un accordo che agevola l’assunzione di lavoratori nelle imprese
elvetiche, pur introducendo vincoli di tempo più lunghi per l’acquisizione del
permesso di dimora e domicilio.. La strada è spianata.
La ripresa dell’emigrazione dal Friuli nel secondo dopoguerra è in qualche modo
regolata e incentivata anche dall’attivazione delle istituzioni locali. Sul finire del
1948, si riuniscono l’Amministrazione Provinciale di Udine, il Comitato provinciale
per i problemi della disoccupazione (con le rappresentanze dei Comuni, degli Enti
economici, sindacali e dei vari uffici interessati alla materia) allo scopo di trattare il
tema dell’emigrazione, permanente e temporanea, “in un’ottica che favorisca la
collaborazione tra lo Stato e gli Enti locali“. La Deputazione Provinciale costituisce
un ufficio di coordinamento per affrontare i problemi della disoccupazione, la cui
finalità principale è quella di riqualificare e specializzare la manodopera disoccupata,
anche ai fini migratori, stabilendo rapporti di stretta collaborazione con le
organizzazioni sindacali e l’Ufficio del Lavoro.
Inizia in questo contesto a manifestarsi anche un ruolo importante delle
organizzazioni che si sforzano di raccordare i friulani emigranti con la madre patria, e
si ripropone uno schema di supporto all’emigrazione organizzata già collaudato a fine
‘800.
Alla fine degli anni ‘40 si apre una fase di partenze per l’estero, che avvengono a
ondate successive, in cui si susseguono picchi: oltre 24.000 espatri nel 1948 (punta
massima) e poi 22.000 circa nel 1951, 21.000 nel 1955. La rilevanza di tali picchi,
come si nota, è decrescente, e tale andamento verrà confermato dal periodo
successivo.
Questa fase migratoria si innesta su un percorso di sviluppo della regione nel
dopoguerra condizionato dal dualismo tra aree urbane industrializzate e territori rurali
(Saraceno, 1982). L’industrializzazione non riesce ancora a dare risposta all’offerta di
lavoro cronicamente eccedente nei territori montani e collinari del Friuli, per cui da
un lato si assiste a un fenomeno migratorio che porta allo spopolamento degli
insediamenti montani e di talune valli, dall’altro emerge a manifestarsi una
propensione di taluni migranti ad adattare alla nuova situazione la vecchia filosofia
dell’emigrazione temporanea, per cui si sceglie il lavoro all’estero come soluzione
temporanea di “investimento”, rifiutando la prospettiva del trasferimento della
residenza nelle aree urbane sviluppate della Regione, ipotesi gradita a molte famiglie
che nelle aree di origine dispongono di campi e abitazioni.
L’emigrazione dal Friuli, come in generale dal resto d’Italia, tende ad assumere
caratteristiche nuove. I flussi sono assai più articolati come destinazione e come
composizione: partono uomini e donne, operai qualificati e braccianti o manovali, in
generale in un contesto regolamentato da accordi tra governo italiano e paesi di
accoglienza, che estendono diritti sociali e previdenziali. Le ragioni di scambio sono
più favorevoli di un tempo, perché i paesi di arrivo hanno elevato fabbisogno di
manodopera e i processi di industrializzazione rendono possibile una certa mobilità
sociale e professionale dei migranti. Coloro che sono in possesso di una qualifica –
nell’edilizia o anche nella meccanica – riescono a progettare una carriera, coloro che
vengono dai campi possono inserirsi in edilizia formandosi in cantiere e in taluni casi
passare anche alla manifattura.
In un simile contesto l’emigrazione friulana in Svizzera rimane in primo luogo
un’emigrazione di muratori e specialisti delle professioni edili. Un ritratto vivido di
queste identità migranti ci è lasciato da Leo Zanier nelle sue raccolte di poesie
(notissima nel 1964 Libers… di scugni’ là, Liberi… di dover partire). Egli interviene
anche attraverso articoli e affianca la sua opera di poeta con una lunga militanza
politica e sindacale, oltre che nel campo associativo e formativo. La figura tipica del
migrante friulano descritto da Zanier è quella del muratore stagionale, che vive in
Svizzera per 11 mesi all’anno, da solo e ben accetto alle autorità federali preoccupate
di contrastare l’inforestieramento del paese (un dibattito che si accende alla fine degli
anni ’60, in parallelo con la gestazione dei fenomeni xenofobi che daranno origine
alle iniziative antistranieri di Schwarzenbach). Una vita in baracca, fatta di risparmio
(in qualche modo forzato), con scarsi contatti sociali, al di fuori della cerchia dei
colleghi.
Ma lo stesso Zanier ricorda l’esistenza di altre condizioni migratorie, dei friulani che
nel frattempo sono riusciti ad acquisire uno permesso di soggiorno, prima annuale e
poi da “Niedergelassene”, domiciliato stabilmente. Sono i friulani che diventano
quadri nelle aziende, quelli che iniziano a lavorare nelle fabbriche o che avviano un
lavoro in proprio come artigiani.
La Svizzera rappresenta per i friulani una meta attraente, vicina e per certi versi
culturalmente affine. Alla base vi è una domanda di lavoro vivace, non solo
nell’edilizia, abbandonata dall’offerta locale, ma anche in altri settori di impiego dove
le risorse umane indigene sono insufficienti. Le imprese svizzere organizzano vere e
proprie reti di reclutamento di operai e maestranze qualificate nelle regioni di esodo,
proponendo agli aspiranti migranti contratti appetibili; il tutto avviene in un regime di
regole che facilita la turnazione dei contingenti e asseconda quella che Reyneri ha
definito la “catena migratoria”. Arrivano giovani in qualche modo già formati e
pronti ad un rapido perfezionamento sul lavoro gestito dalle stesse imprese, entrano
nella lunga trafila che prepara l’inserimento stabile (si inizia quasi sempre come
stagionali) e sostituiscono la manodopera di età piu’ avanzata (che rientra in patria
usufruendo degli accordi previdenziali stipulati tra i due paesi). Quando non vi è
possibilità di trovare spazio immediatamente in un settore industriale che offre
prospettive di carriera, si scelgono lavoro a minor contenuto professionale, si
accettano impieghi di manovalanza in agricoltura o edilizia, per tentare un primo
inserimento, magari apprendere un po’ la lingua e imparare a muoversi, farsi
conoscere. Molti friulani iniziano così negli anni ’50 carriere professionali e
migratorie che li portano a divenire operai qualificati nell’industria meccanica, negli
stabilimenti della Svizzera tedesca (le grandi imprese della regione di Zurigo, di
Winterthur e Sciaffusa, come Sulzer, Brown Boveri, Escher Wyss) o nella Svizzera
romanda, tra Losanna e Ginevra.
Nel primo decennio seguito alla seconda guerra mondiale l’emigrazione friulana
riprende il suo corso, pur senza raggiungere i ritmi dei periodi precedenti. Tra 1946 e
1958 espatriano oltre 230.000 persone e ne rientrano appena 65.000, meno del 30%.
Va però tenuto presente che nel periodo precedente, nonostante le caratteristiche di
temporaneità delle migrazioni, il saldo negativo dei trasferimenti all’estero era stato
ancor più imponente, con rientri inferiori al 15% delle partenze.
In Svizzera la presenza friulana si sedimenta e al tempo stesso si segmenta, in molti
casi senza che alla base vi siano scelte pianificate, da parte dei migranti, in direzione
di stabilirsi definitivamente nel paese ospite o progettare il rientro. In generale si
cerca sempre di sfuggire alla gravosa condizione di stagionale, per ottenere un
permesso di dimora e poi di domicilio Taluni migranti continuano comunque a vivere
la loro esperienza come meramente temporanea anche una volta stabilizzata la
residenza, e reinvestono le loro risorse nella terra di origine, un po’ trasferendovi le
rimesse a favore dei familiari un po’ risparmiando allo scopo di edificare una nuova
casa, nella prospettiva di rientrare ancora attivi, avendo costruito un futuro migliore
per i figli (che in molti casi vengono spediti a studiare in Friuli e affidati alle cure di
nonni e parenti, in attesa del rientro). Una parte dei migranti si vedono costretti a
rinviare sine die, in sostanza al momento della pensione, il progetto di rientro perché i
risparmi non bastano. Altri mettono su famiglia e realizzano nel tempo una loro
integrazione, un po’ perché alla fine “si trovano bene” (topos di molte biografie
migratorie raccolte in questi anni), un po’ perché i figli frequentano le scuole li, di
tornare non ne vogliono sapere e si preferisce vivere loro vicini anche una volta
createsi le condizioni per il rientro. La vicinanza relativa alla “piccola patria”
favorisce del resto un abbandono meno doloroso della terra di origine, che diviene
meta di frequenti ritorni, e di brevi vacanze (magari trascorse nelle proprietà abitative
nel frattempo risistemate).
In questi anni il consolidarsi di una comunità friulana che tende in qualche modo a
stabilirsi definitivamente in Svizzera, dando un senso diverso da quello della
temporaneità alla sua emigrazione, vengono dalla costruzione di una vasta rete
associativa, che prende le mosse all’inizio degli anni ’50, e si consolida con
l’istituzione nel 1953 dell’Ente Friuli nel Mondo. Il numero dei Fogolars esistenti
tuttora in Svizzera è il secondo in Europa, inferiore solo a quello della Francia. In
entrambi i casi è il sintomo di una comunità che almeno in parte ha scelto si
stabilizzarsi e di mantenere attraverso questa forma associativa un radicamento ai
valori culturali e linguistici della regione di origine. La presenza dei Fogolars è da
questo punto di vista testimonianza di una dimensione migratoria, quella dei friulani
in Svizzera, affatto diversa da quella che si è storicamente realizzata in Germania
(ove queste strutture praticamente non esistono), Austria e nei bacini storici della
prima ondata migratoria.
Nonostante le caratteristiche di temporaneità dei flussi migratori che si indirizzano
verso la Svizzera, si vengono dunque a costituire in quel paese comunità stabili di
corregionali, interessate a mantenere una loro identità visibile nel contesto di
accoglienza, la cui consistenza è prossima a quella della Francia o del Belgio, per
rimanere in Europa, e mostra affinità a quanto si realizza nell’emigrazione
transoceanica definitiva. D’altro canto la ramificazione dei Fogolars - affiancati più
tardi dai circoli ALEF - su tutto il territorio della Confederazione dà conto di una
seconda peculiarità della presenza friulana, se comparata a quella delle altre comunità
dell’emigrazione italiana in Svizzera: la sua vasta articolazione territoriale, che
rimanda ad una minore influenza delle catene di richiamo proprie delle micro-
comunità e risulta lo specchio di una composizione socio-professionale dei migranti
divenuta nel tempo sempre più ampia ed eterogenea. Questa comunità si associa e
inizia a darsi i suoi riti e appuntamenti, come l’annuale incontro autunnale che
riunisce a Einsiedeln, presso la storica abbazia cattolica, gli associati dei circoli
friulani presenti in Svizzera.
La storia di questa articolazione, come della segmentazione dei migranti friulani a
seconda delle tensioni integrative o della propensione al rientro, è ancora largamente
da scrivere, sia sul piano dei dati statistici, che dal punto di vista della qualità dei
fenomeni. Lo si dovrebbe fare raccogliendo testimonianze e dati, tra coloro che sono
rientrati tra la fine degli anni sessanta e gli anni ‘80, in età di pensionamento ma
spesso anche attivi, per dare un volto e una fisionomia ai progetti migratori
temporanei. Ma parallelamente andrebbero raccolte le storie di emigrazione
definitiva, maturate per scelta consapevole, tramonto del progetto di rientro,
evenienze della vita.
Andrebbero colti i percorsi che hanno condotto i migranti di quel periodo, quasi
sempre partiti da soli, a mettere su famiglia e consolidare in questo modo la loro
esperienza migratoria o la decisione del rientro, partendo dalle storie dei matrimoni
che nascono in Svizzera tra i muratori, gli artigiani e le operaie che arrivano in
Svizzera reclutate nelle industrie tessili. Storie di matrimoni fortunati ma anche di
rottura familiari, storie di emigrazione definitiva o temporanea. Ogni tanto ne emerge
qualcuna, più o meno casualmente, come quella di Aldo Fasano, morto il 18 agosto
2007 all’età di 85 anni, migrante poeta, musicista e artigiano. Nato a Pozzuolo,
Fasano era emigrato in Svizzera negli anni Quaranta. «Era un talento nascosto, un
artista» racconta il figlio Claudio ripercorrendo la vita del padre. In Svizzera Fasano
si dedicò alla musica, suonando clarinetto e saxofono in diverse orchestre. E,
impegnato come piccolo artigiano, amava mostrare il Friuli lavorando il ferro e il
rame fino a creare stufe, alari, telai o altri oggetti che rappresentassero i mestieri
friulani. In Svizzera conobbe poi Erta Del Medico, originaria di Tarcento, che sposò e
dalla quale ebbe tre figli, Claudio, Gianni e Sandra. Con la moglie rientrò in Friuli
alla fine degli anni Cinquanta e costruì la sua casa a Paderno, dove ha vissuto con la
moglie sino alla morte.
Andrebbero ricostruite le storie dei matrimoni “misti” tra friulani e migranti
provenienti da altre regioni, come quelle delle unioni tra friulani e autoctoni. Si
dovrebbe andare, in questo modo, oltre lo stereotipo dei friulani che in Svizzera si
sono da sempre meglio integrati, per affinità “culturale”, rispetto a quanto è avvenuto
tra anni ’60 e ’70 per gli immigrati italiani reclutati nel meridione dalle industrie
tayloriste. Si dovrebbe andare oltre lo stereotipo di un’emigrazione che ha sempre e
solo guardato al rientro, e se ha “deciso” di restare lo ha fatto solo per maledizione e
destino avverso.
L’emigrazione a tempo e scopo definiti
A partire dalla fine degli anni ’50 i flussi in uscita dal Friuli rallentano, nonostante i
picchi del 1960 (17.500 partenze) e del 1996. Paradossalmente questo fenomeno
avviene in corrispondenza all’apertura di un dibattito politico vivace
sull’emigrazione, che accompagna la nascita della Regione Autonoma Friuli Venezia
Giulia (1963) cui si guarda come soggetto istituzionale che dovrebbe farsi carico di
sostenere finalmente un modello di sviluppo locale capace di guarire la piaga
migratoria (Zanier, 1974). In realtà, come avrebbe dimostrato la Saraceno nel suo
volume dedicato a emigrazione e rientri, siamo nel pieno di una fase evolutiva in cui
cambia il connotato dell’emigrazione e si prepara un decollo industriale del Friuli in
cui l’emigrazione di rientro avrebbe giocato un ruolo importante, in un sistema
competitivo fondato sul ruolo delle piccole imprese e delle filiere produttive
decentrate sul territorio. In sostanza vengono a maturare le condizioni che
ripristinano, ma in forma attualizzata, il ruolo dell’emigrazione temporanea, che
aveva caratterizzato le partenze alla fine dell’800, conferendogli il valore di
strumento per lo sviluppo e non più per la mera sopravvivenza degli insediamenti
rurali di partenza..
Il fenomeno è evidente nel caso dell’emigrazione verso la Svizzera. Il 10 agosto 1964
viene ratificato un nuovo accordo tra governo italiano e svizzero. Le normative
introdotte ostacolano in modo sempre più severo la stabilizzazione nel paese ospite;
viene introdotta una gerarchia di permessi e statuti, che rallenta e dosa nel tempo le
possibilità di integrazione e ricongiungimento familiare, e vengono istituiti i
contingenti di manodopera, per dare una risposta ai movimenti xenofobi che nel
frattempo si stanno moltiplicando nel paese, alimentati anche dalle organizzazioni
locali del movimento operaio. Questi vincoli non determinano l’esaurirsi dei flussi
migratori, ma portano i migranti a spostare sempre più verso la regione di origine i
loro obiettivi di mobilità sociale e professionale. D’altro canto le partenze tendono a
farsi più selettive, e sono ispirate a scelte maggiormente consapevoli, tra l’alternativa
costituita dal lavoro nelle grandi fabbriche che sorgono a ridosso dei centri urbani
(caso emblematico la Zanussi - Rex a Pordenone) e un’emigrazione a tempo e scopo
definiti che promette di far realizzare progressi e risparmi più elevati e in minor
tempo. Spinte di questo tipo si manifestano a onor del vero soprattutto in alcune aree
rurali del Friuli, nella fascia pedemontana, nel Friuli centrale o nella bassa
pordenonese, e rappresentano segnali importanti del modello di sviluppo decentrato
che si sarebbe dispiegato nel corso degli anni ’70 (Bednarz, 1984).
L’emigrazione acquisisce presto le caratteristiche di fenomeno temporaneo, catena
fatta di un susseguirsi di partenze e rientri. Tra 1959 e 1968 espatriano dal Friuli poco
più di 120.000 persone, ma ne rientrano oltre 102.000; il tasso di rientri è ora
dell’84,2% (Saraceno, 1982). Il modello della catena migratoria temporanea è fatto di
soggiorni all’estero che sono spesso brevi e ripetuti, con destinazioni diverse. In
Svizzera i friulani arrivano così per brevi esperienze stagionali, che li portano poi
anche nei paesi in via di sviluppo o in Germania. L’edilizia come settore di sbocco
viene affiancata dall’industria manifatturiera. La nuova emigrazione verso la Svizzera
è alimentata ora da giovani che hanno ottenuto una prima formazione professionale di
base in Friuli e lì hanno sviluppato la loro socializzazione lavorativa, nei cantieri o in
fabbrica. Si inseriscono mantenendo un contatto costante con la terra di origine, dove
rientrano spesso, inframmezzando esperienze migratorie (eventualmente in paesi
diversi, europei ed extra-europei) e periodi di lavoro in patria. Mettendo su famiglia,
quasi sempre con ragazze conosciute nei rientri, raramente mutano il loro progetto;
semplicemente l’accumulazione viene perseguita come nucleo familiare. Si cerca di
portare la moglie all’estero, ottenendo anche per lei un permesso di lavoro, e di
accelerare il risparmio, sino a coronare il progetto con il rientro, e il reinserimento in
un Friuli che inizia ad offrire opportunità interessanti (“lasciando finalmente la
moglie a casa, non più costretta a lavorare”). Il punto di svolta in queste storie di
nuova emigrazione temporanea è sempre rappresentato dalla nascita e crescita dei
figli: la moglie rientra alla nascita del primo figlio, mentre lui pendola ancora, o
quanto meno rientra quando arriva l’età scolare. Lui inizia a progettare a quel punto il
rientro, che avviene nel comune di origine di lei o di lui., e tendenzialmente ove vi
sono migliori opportunità economiche (ragione per la quale, come ha argomentato la
Saraceno, l’emigrazione temporanea ha alla fine assecondato il riassetto territoriale
della popolazione friulana e lo spopolamento della montagna).
L’importantissimo contributo della Saraceno affiancava una capillare rilevazione
promossa dalla Regione per comprendere cosa era avvenuto negli anni settanta nella
fase di rientro dei migranti, condotta con centinaia di interviste a nuclei familiari, i
cui risultati sono rimasti peraltro poco conosciuti, e non sono oggi reperibili su
materiali editi. Da quel momento il tema non è stato riaffrontato dalla ricerca in modo
puntuale. La storia di questa fase dell’emigrazione friulana, in cui la Svizzera ebbe un
ruolo importante, rimane per molti aspetti tutta da riscoprire.
.
In Svizzera questo processo porta sicuramente ad un’ulteriore segmentazione della
comunità friulana, che nel frattempo si era venuta consolidando attorno alla presenza
di significative quote di emigrati definitivi, che avevano avviato, con le loro famiglie,
una buona integrazione nel paese ospite senza rinunciare a conservare i valori
presenti nella cultura di origine.
Accanto alla storia di chi progetta e realizza il rientro, si manifesta, nel medesimo
periodo, la storia di coloro che per scelta o progressivo tramonto del progetto di
rientro si stabiliscono comunque in Svizzera. Sono i friulani che figliano la seconda e
terza generazione e che si avviano in molti casi ad assumere ruoli importanti
nell’associazionismo migratorio e non solo, i cui figli magari diverranno “svizzeri”
dopo l’entrata in vigore della normativa sulla naturalizzazione e la doppia
cittadinanza degli anni ‘80, ma che nel tempo manterranno una loro forte identità,
spesso rifiutando loro stessi di chiedere la cittadinanza. Emblematica, da questo punto
di vista, la storia del friulano Bruno Cannellotto, animatore del reclutamento con i
corregionali Bulfon e Borsetta e poi funzionario del sindacato, che rivendica la sua
scelta di non naturalizzarsi, nonostante la lunga militanza nel sindacato svizzero e la
decisione di rimanere nel paese all’età della pensione.
Nel dopoguerra la storia della presenza friulana in Svizzera è anche la storia delle
forme associative che nel frattempo la comunità sviluppa. Inizialmente si tratta di
forme di organizzazione vicine al mondo cattolico, che sviluppano servizi di
prossimità non molto dissimili a quelli citati già nell’800 da talune fonti. Negli anni
’50, come abbiamo detto, nasce l’Ente Friuli nel Mondo, e in Svizzera si moltiplicano
i Fogolars, dando vita ad una rete piuttosto fitta, che si dedica essenzialmente a
consolidare una certa visibilità “culturale” della comunità e a perpetuarne i legami
con la “piccola patria”. Negli stessi anni si sviluppa, parallelamente, un
associazionismo laico e vicino ai partiti della sinistra, maggiormente interessato a
promuovere la dignità dei migranti nel contesto locale e contemporaneamente a
incidere sulle politiche migratorie della neonata Regione Autonoma Friuli Venezia
Giulia. Questo associazionismo dà vita a strutture di patronato e di servizio, e
sviluppa anche attività formative a favore della comunità italiana in Svizzera
(affiancato peraltro su questo piano dalle organizzazioni cattoliche). La realtà
associativa è in Svizzera assai articolata e complessa, e accanto ai Fogolars
comprende una vasta rete di circoli che dalla fine degli anni ’60 risultano associati
all’ALEF (Associazione Lavoratori Emigrati del Friuli Venezia Giulia), Ente
costituito nel 1968, che sviluppa una stretta collaborazione con i sindacati, con la
Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera e con i partiti della sinistra
storica.
In quegli anni si sviluppa l’intero tessuto delle Associazioni storiche rappresentative
delle diverse componenti della comunità migrante, la Pal Friùl, vicina
all’autonomismo e ad una certa sinistra radicale. Si costituisce dopo la nascita della
provincia di Pordenone, anche un’associazione di emigranti pordenonesi, che puntano
a distinguere la loro presenza nel mondo dell’associazionismo di ispirazione cattolica
rappresentato dall’Ente Friuli nel Mondo. Marca infine una sua presenza anche
l’associazionismo degli emigrati sloveni e di quelli giuliani (Giuliani nel Mondo), in
un contesto ove la presenza di corregionali provenienti dalle zone di confine a Est
rimane comunque sporadica e legata alle biografie individuali.
L’associazionismo riesce progressivamente a far sentire la sua voce e a divenire
interlocutore della Regione Autonoma, che nel frattempo si appresta a preparare la
prima Conferenza regionale dell’emigrazione e a varare la legislazione di sostegno al
settore che accompagnerà la successiva fase dei grandi rientri.
L’associazionismo entra a sua volta in dialogo con il sindacato. Inizialmente si tratta
di cellule promosse dai sindacati italiani, cui i sindacati locali guardano con forte
ostilità, frutto di un viscerale anticomunismo e della chiusura nei confronti di un
fenomeno – l’immigrazione – che veniva vissuto come foriero di disoccupazione e
dannoso per le condizioni di lavoro e di salario della manodopera locale. Solo con il
tempo la presenza di immigrati nelle file dei sindacati si emanciperà dal mero ruolo
di militanza di base, vista magari con diffidenza. Avvengono negli anni sessanta le
prime assunzioni di funzionari (tra i friulani i Cannellotto a Zurigo o il Bertolo a
Sciaffusa), e tra la fine del decennio e la prima metà degli anni settanta si stabiliscono
le prime relazioni e si stipulano i primi accordi che coinvolgono organizzazioni
italiane e centrali sindacali svizzere, di ispirazione laica e cristiana.
Non mancano, come all’inizio del secolo, i casi di migranti friulani che divengono
animatori dell’associazionismo e poi dirigenti dei sindacati svizzeri, in particolare di
quelli attivi nell’edilizia e nel mondo industriale (Steinauer, Von Allmen, 2000).
Romeo Burino arriverà alla segreteria nazionale del FLEL, sindacato dei lavoratori
dell’edilizia e del legno, poi GBI/SEI. Severino Maurutto – friulano che aveva
seguito la famiglia in Belgio e si era formato a Charleroi – diviene leader dei grandi
scioperi che rompono negli anni sessanta la pace del lavoro nella Svizzera francese, a
Ginevra, dove giunge a ricoprire importanti incarichi nella FOMO e a livello politico
nel Partito del Lavoro (di ispirazione comunista). Marjian Gruden, uno dei pochi
corregionali che arriva in Svizzera da sloveno di Trieste, trova nella militanza
sindacale addirittura una strada per valorizzare competenze che altrimenti avrebbe
difficilmente potuto sfruttare. La sua carriera professionale si sviluppa grazie alle
conoscenze linguistiche e alla sua capacità di instaurare un proficuo dialogo
interculturale, che lo rende funzionario di riferimento per gli immigrati italiani e per
quelli jugoslavi, in forte aumento.
Tra la fine degli anni 50 e la conclusione dei sessanta si realizzano, in sintesi, due
processi importanti. Da un lato si afferma il modello dell’emigrazione friulana
temporanea, fatta di partenze e rientri a cadenza sempre più veloce, con uno sguardo
sempre maggiormente volto al rientro e al coronamento di un progetto di mobilità
sociale e professionale in cui l’emigrazione svolge la funzione di acceleratore dei
tempi di risparmio e di accumulatore di competenze spendibili nella regione di
origine. Dall’altro lato si consolida la presenza in Svizzera di numerose comunità
friulane, che si dotano di loro strumenti associativi, conservano identità e
appartenenze marcate ma riescono tuttavia a realizzare in quel contesto un processo
di integrazione che le porta a svolgere un ruolo di leadership nelle organizzazioni
dell’emigrazione italiana e anche nel tessuto sindacale locale. I tratti di queste due
storie migratorie appaiono nel complesso definiti dalle testimonianze e dalle evidenze
che si possono raccogliere sul campo, ma rimangono nondimeno difficili da
analizzare sul piano delle “quantità” coinvolte e delle traiettorie personali dei
protagonisti (quanti sono i friulani che in quegli anni decidono di rimanere, quanti
coloro che rientrano definitivamente dalla Svizzera o che semplicemente decidono di
“pendolare” al momento del pensionamento tra regione d’origine e Svizzera, che
dimensioni hanno le seconde e terze generazioni, e i processi di naturalizzazione?).
Tra emigrazione di ritorno e consolidamento della comunità
Il 1967 rappresenta un anno determinante per la storia migratoria del Friuli, il primo
nel dopoguerra in cui si registra un’eccedenza di rimpatri sugli espatri. E’ l’anno cui
si fa risalire l’inversione definitiva dei flussi migratori, che è stata oggetto di studio
nel già citato lavoro di Elena Saraceno. Questo processo trova accompagnamento
nelle politiche varate dalla Regione Friuli Venezia Giulia sin dai primi anni Settanta.
La regione assume iniziative legislative ed un impegno nei confronti dei propri
emigrati che trova tuttora riferimento nella legislazione regionale. Nel 1969 si tiene la
prima Conferenza regionale dell'emigrazione, seguita dall'adozione di due leggi
regionali nel 1970 e nel 1976. Dopo il terremoto del 1976, che non provoca la temuta
ripresa dell'emigrazione dalle aree colpite ma favorisce il consolidamento dei flussi di
rientro avviatisi da alcuni anni, è convocata nel 1979 la seconda Conferenza
regionale dell'emigrazione, e nel 1980 viene realizzata la già citata ricerca sui
rimpatriati, basata sui dati delle 11.000 famiglie (circa 27.000 persone) alle quali era
stata erogata l'indennità di prima sistemazione prevista dalla legge regionale del 1970
(1.500 le interviste effettuate su un campione di rimpatriati distribuito in tutta la
regione), che permette di comprendere a posteriori come era cambiata la natura dei
fenomeni migratori, nella logica dell’investimento temporaneo all’estero, finalizzato
al rientro in età attiva. Si afferma allora il concetto dell’emigrazione di ritorno come
potenziale risorsa per le aree d’esodo, che trova riscontro nel taglio dato alla
"Riforma degli interventi regionali in materia di emigrazione", attuata con la legge
regionale n. 51: superata l’impostazione assistenziale, la legge si impegna da una
parte a sostenere il reinserimento di coloro che rientrano in patria anche mediante
incentivi all’avvio di attività imprenditoriali, dall'altra a curare il mantenimento dei
legami culturali tra Friuli e comunità emigrate all'estero.
L’emigrazione di ritorno caratterizza sostanzialmente gli anni settanta. E’ un
fenomeno che accompagna l’esaurimento progressivo, su livelli fisiologici, dei
movimenti di corregionali dà e per l’estero; gli espatri passano dai 6.500 circa del
1969 ai poco più di 2.500 della fine degli anni ’70, mentre i rimpatri passano da 8.300
a circa 3.700. Complessivamente si verificano oltre 60.000 rientri, con un saldo
positivo di poco inferiore alle 20.000 unità rispetto alle partenze. I temporaneamente
assenti all’estero si dimezzano rispetto al periodo precedente, e si assiste al
consolidamento definitivo di due esiti del percorso migratorio: da un lato i friulani
che decidono di rientrare, reiscrivendosi all’anagrafe nel comune di origine o spesso
anche in un comune del Friuli diverso e più favorevole dal punto di vista delle
opportunità di vita e di lavoro (il rientro si accompagna non all’urbanizzazione ma
allo scivolamento verso la fascia collinare e pedemontana della residenza, con lo
spopolamento delle aree montane) e dall’altro friulani che optano per un definitivo
inserimento nel paese ospite.
Ricorrendo ai dati odierni delle anagrafi consolari, aggiornate alla fine degli anni ’90,
e incrociandoli con quelli delle iscrizioni all’AIRE presso i comuni di origine
possiamo tracciare un sommario bilancio delle conseguenze finali dell’emigrazione
verso la Svizzera nel secondo dopoguerra.
Cittadini italiani residenti in Svizzera al 31.12.2001 per regione di origine
AIRE Anagrafi consolari * 31.1.2001 31.1.2001
Piemonte 16.860 21.263 Valle d'Aosta 1.405 1.772 Lombardia 62.466 78.779 Trentino 10.599 13.367 Veneto 34.809 43.899 Friuli Venezia Giulia 14.545 18.343 Liguria 4.945 6.236 Emilia R. 14.077 17.753 Toscana 9.537 12.028 Umbria 3.383 4.266 Marche 7.934 10.005 Lazio 14.385 18.142 Abruzzo 6.221 7.846 Molise 6.397 8.068 Campania 54.407 68.615 Puglia 51.507 64.958 Basilicata 11.887 14.991 Calabria 28.155 35.508 Sicilia 50.313 63.452 Sardegna 6.148 7.754 Non ripartiti 6.611 8.338 Totale 416.591 525.383 Nord ovest 85.676 108.050 Nord est 74.030 93.363 Centro 35.239 44.441 Sud 158.574 199.985 Isole 56.461 71.206
L'origine regionale degli italiani iscritti alle Anagrafi consolari è stata stimata in base alla suddivisione degli iscritti all'AIRE
FONTE: elaborazioni su dati AIRE e delle Anagrafi consolari
I due universi censiti dai Consolati e dall’AIRE appaiono, come si nota, molto
diversi. E ancora divergono in modo significativo dalle statistiche pubblicate dal
Registro Centrale degli Stranieri tenuto dalla Confederazione (dal quale vengono
evidentemente cancellate le persone che si naturalizzano). Nel 2001 (anno di cui
disponiamo dell’insieme dei risultati) a fronte di poco più di 300.000 connazionali
censiti dalla Confederazione, gli Italiani residenti in Svizzera secondo i dati AIRE
erano circa 100.000 in più (un valore che rimanda realisticamente ad un tasso di
naturalizzazioni vicino al 25% dei contingenti di persone domiciliate), e oltre 200.000
in più quelli risultanti alle anagrafi consolari. Tale discrepanza, proiettata
considerando le persone di origine friulana, evidenzierebbe una presenza di
corregionali in Svizzera oscillante tra le 14.500 e le 18.000 unità, includendo le
persone naturalizzate.
L’incrocio tra le cifre ci consente di indurre alcune informazioni: in primo luogo la
comunità friulana risulta ancora proporzionalmente importante se consideriamo che
la quota dei friulani sul totale degli italiani presenti in Svizzera rimane quasi doppia
rispetto al “peso” demografico della regione sul totale della popolazione italiana.
In secondo luogo i dati evidenziano la rilevanza della comunità di friulani insediatasi
stabilmente in Svizzera, nonostante le caratteristiche del fenomeno migratorio
temporaneo abbiano portato tra anni ’60 e ’70 a sviluppare un forte flusso di rientri;
la comunità friulana oggi residente in Svizzera è specchio dei flussi verificatisi nel
dopoguerra, ed è composta quasi integralmente da emigrati delle province di Udine
(oltre 10.000 iscritti all’AIRE, su 16.000 e Pordenone (quasi 5.000 iscritti).
In terzo luogo – considerando la differenza tra dati del registro degli stranieri (che
non riportano peraltro la regione di origine), rilevazioni consolari e AIRE – si ha
indiretta possibile traccia della presenza di una componente significativa di friulani –
probabilmente di seconda o terza generazione, quasi sempre naturalizzati – che pur
riconoscendo le proprie radici nazionali e regionali non hanno più mantenuto rapporti
significativi con i comuni di origine delle famiglie, tanto da non risultare più iscritti
all’AIRE.
Va tuttavia detto (e lo può si evidenziare considerando le forti oscillazioni
riscontrabili annualmente nei dati AIRE nel corso degli anni 2000 – 2008) che le
rilevazioni della anagrafi comunali risultano oggi abbastanza imprecise e influenzate
da fattori di variazione non facilmente interpretabili.
Il rientro degli emigrati rimane comunque l’aspetto caratterizzante di quest’ultima
fase migratoria. Esso gioca un ruolo importante nel decollo economico della regione
tra anni ’70 e 2000. Molti friulani rientrano proprio dalla Svizzera e trasferiscono
competenze e risorse dal paese di emigrazione alla regione, coronando il loro
processo di mobilità sociale e professionale grazie al decollo industriale della fascia
centrale e collinare del Friuli, che si avvia all’inizio degli anni settanta. Almeno nel
caso dei friulani – dunque – non si verificano in misura significativa quei fenomeni di
espulsione di migranti dalla Confederazione, legati alla crisi economica del 1973, alla
base del rientro forzato di migliaia di italiani provenienti dalle regioni meridionali. Il
flusso di rientro inizia prima e si dipana progressivamente nel tempo. Una parte dei
rientri generano anche piccola iniziativa imprenditoriale (Bednarz, 1989),
evidenziando una propensione ad investire soprattutto nella prospettiva del rientro
(l’iniziativa autonoma appare per converso meno praticata dai friulani in Svizzera –
fatta eccezione per taluni imprenditori che realizzano imprese di una certa
dimensione - di quanto non lo sia da parte dei meridionali, che avviano in gran
numero ristoranti o piccole aziende artigiane).
I rientri non impediscono il parallelo consolidamento delle comunità locali che
abbiamo già ricordato. Esso prosegue su diversi piani. Ancora una volta evidenze
interessanti ci vengono dall’impegno associativo e politico. Si sviluppa ad esempio in
questi anni, nella collaborazione tra associazionismo e movimento sindacale, una
ricca rete di servizi, di patronato, assistenza e formazione professionale, all’interno
della quale gli emigrati friulani esercitano una funzione importante di animazione e di
leadership. Leonardo Zanier, sindacalista e poeta, organizza negli anni sessanta la
fclis, e nei settanta le attività di formazione professionale da cui nascerà la presenza
della Fondazione ECAP, oggi per dimensioni il terzo ente di formazione continua
attivo in Svizzera e il principale ad occuparsi di integrazione dei migranti nel contesto
locale. Accanto a Zanier militano sul fronte dell’educazione e della formazione Bruna
Miggiano, che promuove la presenza dell’ECAP-CGIL a Basilea, e che presiederà la
Fondazione a livello nazionale tra anni ’80 e ’90, e Isella Fucentese, impegnata nella
formazione linguistica, che dirigerà l’ECAP a Zurigo negli anni ‘80. Nei corsi di
formazione insegnano molti operai qualificati friulani che svolgono attività volontaria
a favore degli immigrati italiani meno qualificati provenienti dalle regioni
meridionali. E’ ad esempio il caso di Giacomo Colautti, che all’ECAP organizza per
un ventennio il settore della formazione professionale, e di Moricchi, operaio della
Brown Boveri, che si impegna nella vita associativa (nelle Colonie Libere) e al
rientro in Friuli va a dirigere l’ALEF. Sul versante cattolico i friulani Di Bernardo e
Dassi arrivano successivamente alla segreteria nazionale delle ACLI per la Svizzera,
e il primo in particolare continua ad esercitare funzioni importanti di dirigente nel
movimento sindacale cristiano, come animatore di iniziative di cooperazione in
Africa. Entrambi al rientro in Friuli entrano nel Direttivo dell’Ente Friuli nel Mondo.
Dessi direttore nuova emigrazione
La “dicotomizzazione” dei destini, tra definitivo inserimento e ritorno, si verifica con
tutta evidenza nel caso della Svizzera, anche in relazione alle caratteristiche
particolari della legislazione che regola i permessi di soggiorno in loco. La vicinanza
geografica agevolerebbe in molti casi una scelta di consolidamento di una sorta di
“doppia residenza” nella regione di origine e nell’area di emigrazione, magari per
poter godere dell’investimento immobiliare realizzato in Friuli e mantenere al tempo
stesso i rapporti con i figli e i nipoti cresciuti in Svizzera. Ma il rischio di perdere il
permesso di soggiorno in conseguenza dello spostamento del centro degli interessi
nella regione di origine, in anni ancora caratterizzati da forti difficoltà alla
naturalizzazione, spinge molte famiglie friulane a radicarsi definitivamente, dando
vita a comunità di migranti di prima generazione che trovano nel tessuto associativo
il loro peculiare cordone ombelicale con la “piccola patria”. Le due comunità
friulane, quella rimasta in Svizzera, e quella dei migranti di ritorno che
contribuiscono allo sviluppo locale, trovano nel 1976, nella grande catena di
solidarietà che segue al terremoto devastante del Friuli, un momento di incontro che
ancora adesso trova occasioni di celebrazione nel tessuto associativo e nella
pubblicistica locale.
Parallelamente, esaurendosi i flussi, mutano le prospettive politiche
dell’associazionismo migratorio, quanto meno a livello di indicazioni
programmatiche. L’Ente Friuli nel Mondo – ad esempio – cerca di rappresentarsi al
tempo stesso come tutore dei “valori di friulanità culturale e solidarietà sociale” e
promotore “dell’importanza che i legami dei migranti con la terra di origine e la
costituzione delle reti etniche (sic) vengono ad assumere nell’economia mondiale,
soprattutto alla luce dell’evoluzione più recente delle teorie dello sviluppo
economico”.
Difficile dire, tuttavia, in quale misura la vasta e ramificata presenza di friulani in
Svizzera sia divenuta in questi anni parte del progetto di internazionalizzazione del
Friuli, attraverso la valorizzazione delle potenzialità sociali, culturali, scientifiche,
politiche ed economiche delle comunità friulane. Scorrendo l’agenda degli eventi che
i Fogolars o i circoli ALEF annualmente organizzano in terra elvetica si ricava
piuttosto l’impressione di un mondo che si sforza di mantenere una sua identità, in un
contesto caratterizzato dalla crescente integrazione delle seconde terze generazioni
nel tessuto locale. La loro rete potrebbe comunque rappresentare una risorsa
importante per raccogliere la testimonianza storica di un movimento migratorio che a
dispetto della sua rilevanza quantitativa ha sinora lasciato tracce relativamente deboli
di sé.