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Dai mestieri del Passato un’opportunità per il Futuro

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Mestieri

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Dai mestieri del Passatoun’opportunità per il Futuro

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Dai mestieri del PassatoUn’opportunità per il Futuro

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Ricerche a cura dei giovani assegnatari di borse studio:

Francesca Caputo

Leonardo Di Biase

Isabella Rosa Di Buono

Daniela Di pierro

Cornelia GranDe

Melania Manieri

Antonio serafini

Giovanni sinisGalli

Struttura tecnica di supportoTutor Vincenzo CiriGliano

Esperti Responsabile del gruppo: Anna Maria De fina

Rosa Castronuovo, Antonio D’anDria, Cinzia iaquinta, Mario sanChiriCo, Antonella siMone

Supporto operativo Margherita CaMillotto Segreteria Grazia De rosa

Progetto grafico e Francesco Carone copertina

Responsabile Domenico la veCChia

Coordinamento Vincenzo Antonio viola

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PREMESSA

INTRODUZIONE

DESCRIZIONE DEI MESTIERI Mestieri agricoli Mestieri artigianali Mestieri di manifattura tessile Mestieri itineranti Mestieri di pubblica funzione

IL “FAVELLAR” NEI RACCONTI DEI BORSISTI

APPENDICE“Laboratori della memoria”

NOTA STORICA

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA

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INDICE

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PREMESSAVincenzo Antonio Viola*1

L’Avviso pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), finalizzato alla selezione dei comuni da ammettere a finanziamento a valere sul progetto “Coinvolgimento dei giovani nella valorizzazione delle specificità territoriali” nell’ambito delle Politiche giovanili 2009, ha rappresentato l’occasione per far incontrare e ragionare insieme i sindaci di sette piccoli comuni della Lucania centrale, alla ricerca di temi ed argomenti intorno ai quali costruire una proposta progettuale condivisa, da candidare insieme.

All’inizio del 2010, nelle giornate del 20 e 25 gennaio, due volte i sindaci si sono riuniti per decidere su cosa indirizzare la proposta progettuale e, dopo discussioni lunghe e appassionate intraprese per capire se fosse più giusto puntare sugli aspetti storico-culturali o su quelli socio-economici, si è scelta una soluzione intermedia, che si sviluppava in due direzioni:

• Verso la ricostruzione di eventi, episodi storici, anche legati a leggende;

• Verso il recupero degli antichi mestieri.

In entrambi i casi, il progetto sarebbe stato incentrato sulla ricerca originale d’informazioni e dati che i giovani dell’area avrebbero dovuto effettuare grazie alla concessione di una borsa di studio a valere sul progetto “Coinvolgimento dei giovani nella valorizzazione delle specificità territoriali”.

Da qui la scelta del titolo: “Il Passato Futuro”, a testimonianza della volontà di guardare ai giovani ed alle loro prospettive future partendo dalle certezze del passato, spesso sfumate, quando non addirittura perse.

Fin dall’inizio, quindi, si è pensato alla centralità dei giovani, attivamente coinvolti in tutte le fasi del progetto e anche dopo, poiché il partenariato intende continuare la propria attività anche utilizzando le opportunità a vario titolo offerte dalla variegata gamma di programmi operanti nella nostra area: da quelli finanziati dalla Unione europea per il corrente periodo 2007-2013 (Programma Operativi FESER e FSE, Programma di Sviluppo Rurale) agli altri programmi e iniziative regionali, primi fra tutti il Programma Operativo Val d’Agri, e territoriali, come il Piano di Sviluppo Locale Leader attuato nell’ambito dell’Asse 4 del PSR Basilicata 2007-2013.

Va precisato che, nelle discussioni partenariali che hanno preceduto la candidatura del Progetto “Il Passato Futuro”, sono state valutate anche altre ipotesi progettuali, e si è posto l’accento sulla scarsa innovatività di idee progettuali finalizzate alle identità stoico culturali, già realizzate nella nostra regione. Durante tutto il dibattito avviato e condotto, però, è emerso con chiarezza che, per la prima volta, sette piccoli comuni, autonomamente, si sono messi insieme per pensare, elaborare, candidare e condurre un progetto comune, cui era collegata una strategia di sviluppo cementata da un accordo di partenariato finalizzato ai giovani dell’area, e in grado di generare una best practice riproponibile anche per altri ambiti progettuali ed in altri territori.

Durante la discussione intervenuta tra i sindaci è emersa anche la necessità di coinvolgere nel progetto altri partners, pubblici, privati, misti (pubblico-privati), sia in qualità di cofinanziatori

* Coordinatore del progetto “Il Passato Futuro”. Esperto nella progettazione e gestione di programmi e progetti complessi1

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che di partecipanti non cofinanziatori, comunque sempre funzionali allo sviluppo del progetto, ed a tale scopo il Sindaco di Missanello, individuato da subito come comune capofila del progetto, ha contatto vari enti ed organismi operanti sul territorio, invitandoli ad aderire al costituendo partenariato del progetto “Il Passato Futuro”.

Il Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese, il Parco Letterario Carlo Levi, Sviluppo Basilicata S. p. A, nonchè la Provincia di Potenza in qualità di patrocinante, hanno accettato di partecipare al progetto, raccogliendo una sfida che vede tutti proiettati nel futuro, senza mai rinnegare il passato.

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INTRODUZIONE

Sulle tracce degli antichi mestieriAnna Maria De Fina*2

“La cosa più importante in tutta la vita è la scelta del mestiere: il caso ne dispone”.Blaise Pascal, Pensieri, (527).

E’ molto illuminante iniziare a argomentare il nostro tema sui mestieri partendo dalla riflessione insita nell’incipit del filosofo seicentesco francese il quale si è, sempre, interrogato ed ha scritto a proposito della ricerca del “vero bene”, un assunto filosofico “pascaliano” che seguiamo volentieri in quanto si sofferma a considerare tutte le problematiche della condizione umana e lo segnaliamo al fine di capirne il senso della propria vita. Ne riportiamo l’attenzione per sollevare alcune riflessioni e sottolineare quanto sia stato basilare nella storia dell’uomo l’arte di possedere un mestiere. Di come, quest’ultimo, ha contribuito ai cambiamenti sociali operati da uomini e donne, attraverso l’appartenenza a una cultura etno-antropologica che ha dettato tradizioni, usi, attività sociali, culturali ed economiche e che ha fortificato le proprie radici in una quotidianità vissuta nell’ambito del gruppo familiare per cui ne abbiamo ritrovato, in molti casi, le testimonianze proprio camminando sulle orme di questo percorso che ha portato al recupero di una parte della memoria storica. Ed è, forse, soltanto attraverso la difesa, la valorizzazione e la tutela di questa tradizione popolare come caratteristica del nostro territorio e che s’impone, qui, come “antico itinerario” da ripercorrere, come “traccia” lungo la quale si potrebbero ritrovare le basi per uno sviluppo occupazionale allo scopo di migliorare le condizioni socio-economiche della nostra terra. E’ dunque nella nostra storia che trovano origine i mestieri praticati in “Passato”. Infatti, abbiamo notato come alcune attività lavorative dell’area oggetto del progetto sono state notevolmente influenzate dalla presenza storica dei monaci bizantini che comunemente conosciamo con la più nota definizione di “monaci basiliani”.

Una terminologia che ci offre lo spunto per capire la derivazione dalla citata definizione e ricordarne la figura di san Basilio il Grande (330ca-379), Padre della Chiesa Orientale, il quale prima della sua nomina ad arcivescovo di Cesarea in Cappadocia, visse un’ esperienza monastica culminante nella scrittura di alcune opere ascetiche riunite nella Regula Major e Regula Brevior.

Agli inizi del XIII secolo, la Chiesa di Roma, che con la conquista dell’Italia meridionale da parte dei Normanni aveva ripreso la giurisdizione ecclesiastica su quel territorio, cominciò a definire tutti i monaci bizantini come seguaci di san Basilio, chiamandoli “Monaci Basiliani”. Fu questo l’avvio di un processo che nel 1579, con la Costituzione Benedictus Dominus di Papa Gregorio XIII, portò alla fondazione della Congregazione dei Monaci Basiliani.* Esperto di storia e costumi della Lucania

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Delineando un quadro storico innanzitutto, bisogna ricordare che la civiltà ellenica in Basilicata non è stata solo quella della Magna Grecia, quando i coloni greci, partendo dalle colonie fondate lungo la costa ionica e percorrendo i collegamenti fluviali (il fiume Agri, secondo il geografo greco Strabone, all’epoca, era navigabile) raggiunsero le popolazioni indigene con cui svilupparono traffici e commerci, documentati da numerosi reperti archeologici rinvenuti nei vari centri della Val d’Agri.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (quinto secolo d. C), queste nostre contrade furono pervase da una nuova ventata d’ellenismo. Il veicolo di questo nuovo germe è rappresentato, appunto, dai “monaci basiliani”. A causa della persecuzione iconoclasta, avvenuta in seguito all’ emanazione dell’ editto, approvato il 17 gennaio 730 dall’imperatore Leone III Isaurico, con il quale si ordinava la distruzione di tutte le immagini di culto, essi furono costretti a lasciare le loro terre d’origine. Per sfuggire all’ira degli iconoclasti, essi si diressero non più verso la Sicilia e la Calabria meridionale che erano sotto il dominio bizantino, ma verso le zone dell’Italia longobarda, Calabria settentrionale, Lucania e Campania.

Intorno al VIII-IX secolo, altri monaci basiliani, provenienti dalla Sicilia occupata dagli Arabi, continuando la grande immigrazione dei loro predecessori, s’ irradiarono ed interessarono la nostra regione, lungo due direzioni: la prima, lungo il Mercurion, si stabilì in una vasta area geografica tra Scalea, Rotonda e Castelluccio, l’altra, il Latinianon, che dalla costa ionica penetrò nelle valli del Sinni e dell’Agri.

Per tutto il secolo IX i nostri territori furono tutti popolati da monaci di rito greco che ovunque fondarono monasteri. Tra i più celebri ricordiamo quello dei santi Elia e Anastasio presso Carbone, da cui dipendevano ben 36 monasteri. In questo stesso periodo nascono altri monasteri in parte celebri, tra questi quello di S. Angelo a San Chirico Raparo, fondato da San Vitale da Castronuovo, o quello di Armento, dove operò San Luca, di Sant’Elia a Missanello, e successivamente sui monti di Turri, località scomparsa situata nei pressi dell’attuale Guardia Perticara, di Gallicchio.

E’ così che queste nostre contrade, esterne a quelle controllate politicamente dai Bizantini e lontane dalle continue scorrerie saracene, divennero un territorio spiritualmente ricco e culturalmente fecondo. Tutti questi centri monastici erano collegati fra loro, dando luogo, attraverso l’utilizzo delle vecchie strade di epoca romana, ad una vasta rete di scambi e di comunicazione.

Questi monaci, dotati di uno straordinario spirito d’ iniziativa, non solo vivevano una vita dedita all’ascetismo, alla penitenza e alla preghiera, ma si dedicavano anche al lavoro manuale, sia agricolo che artigianale. I monaci entrarono in diretto contatto con le popolazioni locali e, così facendo, segnarono, anche, un importante passaggio degli stadi del monachesimo bizantino connotati da una vita monastica dal tipo eremitico e lauritico al cenobitismo, derivato propriamente da cenobio, che ne indicava una vita in comune determinata dalla condivisione dei luoghi, della preghiera e del lavoro manuale. In questo modo, essi divennero elementi attivi nella struttura sociale di quelle popolazioni che, grazie al loro aiuto e alla loro opera, trasformarono le campagne lucane, per lo più incolte, in campi destinati alla produzione di grano, olio e vino, generi alimentari indispensabili alla vita quotidiana. I “basiliani” diventavano sempre più

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punti di riferimento per le popolazioni indigene che si avvicinavano a loro con grande fiducia.

Intorno ai monasteri incominciarono a sorgere i primi agglomerati urbani, costituiti da contadini e pastori, cui i monaci insegnavano l’arte dell’agricoltura, dell’apicoltura e delle principali attività artigianali consistenti in tessitura, calzoleria, falegnameria, muratura. La presenza dei “monaci basiliani”, pertanto, è stata di grande importanza non solo da un punto di vista spirituale ma anche, e soprattutto, intorno all’aspetto socio-economico-culturale. Essi, infatti, contribuirono in modo profondo ad arricchire la civiltà indigena di nuovi fermenti culturali provenienti dal mondo greco-orientale.

Metodologia del lavoroIl lavoro di ricerca eseguito dai borsisti nella rilevazione di antichi mestieri è stato condotto con la finalità di rievocarne e preservarne la loro memoria e recuperarne l’attività, è stato svolto in un’area che comprende i comuni di Aliano, Armento, Gallicchio, Guardia Perticara, Missanello, San Chirico Raparo, San Martino d’Agri.

Primo fondamentale punto di partenza delle ricerche è stato indicare il metodo da seguire al fine di reperire più informazioni possibili per il recupero dei “vecchi mestieri”. Di conseguenza sono state indicate una bibliografia di riferimento e, successivamente, sono state utilizzate differenti fonti informative, dalla tradizione orale di persone anziane o che comunque avevano un ricordo ben preciso delle attività in questione, alle fonti scritte che comprendono, tra gli altri, registri comunali o parrocchiali, libri, nonché una libera consultazione tratta da siti specializzati in internet, da cui sono state tratte notizie necessarie alla stesura di schede dettagliate e approfondite su ciascun mestiere.

Una delle prime tappe ha visto la redazione di una scheda di rilevazione utilizzata dai Borsisti che ha permesso di ricostruirne un censimento dei “vecchi saperi” attraverso il titolo del mestiere, il periodo storico di riferimento, la descrizione del mestiere, le persone coinvolte, le fonti di riferimento.

Si è, poi, proceduti ad un approfondimento dei singoli mestieri intorno ai quali sono state implementate schede contenenti materiali ricercati direttamente dai giovani borsisti corredate ed arricchite da un corpus di immagini fotografiche. Inoltre i giovani hanno voluto offrirci anche le loro personali impressioni raccolti in discorsi che leggeremo nella parte intitolata e sottolineata dalla derivazione etimologica de il“favellar” appunto, il raccontare, il discorrere, la facoltà di parlare dei borsisti.

Infine, gli otto Borsisti hanno scelto alcuni mestieri da approfondire attraverso un ulteriore tappa svolta nell’ambito dei “laboratori della memoria”.

Questa fase di intervento, che troviamo in appendice è intervenuta nella parte finale del progetto ed ha riguardato tutti i comuni coinvolti nel progetto.

Obiettivo dei “laboratori della memoria” è stato quello di facilitare il trasferimento delle informazioni dagli anziani ai giovani e cioè creare un adeguato supporto psico-pedagogico per favorire un corretto travaso delle conoscenze.

Nello specifico si è utilizzato il lavoro di ricerca svolto dai borsisti sugli antichi mestieri

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esistenti come base per i laboratori, si è passati poi alla rielaborazione in forma scritta delle narrazioni orali degli anziani coinvolti, i quali hanno raccontato le loro esperienze lavorative circa i mestieri scelti per l’approfondimento.

L’intervento è stato realizzato mediante il supporto del consulente pedagogico, che ha utilizzato la metodologia dell’animazione con l’intento di creare una buona comunicazione interna ai gruppi, attingendo a tutte le tecniche necessarie per dinamizzare il processo e per catturare la sensibilità dei partecipanti, stimolandoli nella comunicazione e sollecitandoli nell’elaborazione delle proposte.

La scelta, poi, della pratica della narrazione orale quale strategia d’ intervento è stata dettata dalla convinzione che essa fosse la forma più immediata e adatta a scambiare esperienze.

In tutti i laboratori, gli anziani sono stati adeguatamente accolti e accompagnati a ripercorrere con la memoria il patrimonio di esperienze lavorative individuali e collettive, con l’intento di trasferire alle future generazioni la memoria degli antichi saperi e consapevoli che la rielaborazione in forma scritta restituisce dignità al corredo di memorie di cui gli anziani sono custodi e preziosi informatori.

L’intervento realizzato ha dimostrato quanto siano ancora vitali questi anziani e quanto hanno ancora da dare, non solo in termini d’ informazioni, ma come formatori. Pertanto, il presente lavoro può proporsi come occasione e come base di partenza per promuovere un’azione capace di valorizzare le potenzialità produttive e culturali locali attraverso le nuove generazioni capaci di apportare innovazione agli antichi saperi rivitalizzandoli.

Tale processo oltre a creare eventuali opportunità di lavoro e d’ impresa per i giovani, costituisce il trait d’union tra la vecchia e la nuova generazione, in modo da ricomporre il contesto sociale fortemente lacerato dalla disgregazione e dallo spopolamento.

Quest’ alleanza restituisce agli anziani la giusta identità, riabilitandoli ad un ruolo attivo nella società, come stanno a dimostrare l’entusiasmo e la motivazione con la quale hanno aderito al progetto, senza limitarsi al mero racconto, ma offrendo proposte e spunti per nuove iniziative.

Alla luce del lavoro svolto, considerato il poco tempo a disposizione, si può affermare che l’obiettivo principale di trasferimento delle memorie degli antichi mestieri è stato pienamente raggiunto mediante il passaggio dalla fase orale a quella scritta e formalizzata.

Per quanto attiene, invece, al trasferimento delle pratiche inteso come passaggio intergenerazionale non si può considerare il risultato raggiunto, poiché oltre al tempo sono mancati i giovani interessati ad apprendere i mestieri oggetto d’intervento.

Dall’attenta analisi e descrizione dei mestieri è emerso un dato comune, in quanto, si tratta di attività tradizionalmente nate per rispondere alle necessità del vivere quotidiano. E’ tra le mura domestiche che si svolgeva e si è evoluta l’esperienza di un lavoro fatto a mano, la cui padronanza tecnica veniva tramandata da padre e madre in figlio, o in rapporti parentali, allo scopo di una diffusione e di una sopravvivenza della cultura popolare, che oggi talvolta si è persa.

Tuttavia va rilevato, anche, che alcune pratiche manuali nascono si in contesti rurali, 6

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pensiamo alla bravura del contadino o del pastore nel saper intagliare, incidere e scolpire il legno a tal punto da creare oggetti utili per un immediato uso giornaliero, come un corredo di utensileria. E poi, quelle padronanze tecniche si sviluppano fino a diventare vere e proprie “arti”, in quanto entra in gioco la creatività e il gusto estetico degli oggetti realizzati nelle botteghe-laboratori dove è il “mastro”maestro che detiene tutta la “conoscenza” e la “sapienza” da tramandare, e quindi attraverso la formazione di giovani garzoni che compivano un percorso di apprendistato seguendo gli insegnamenti del maestro fino a diventare, talvolta, più abili dello stesso e al punto da aprire una propria attività.

Sostanzialmente, i mestieri censiti appartengono a due grossi ambiti di attività, l’Agricoltura e l’Artigianato, ai quali si aggiunge un ambito “orizzontale”, con funzione prevalentemente pubblica.

In esse possono rientrare i 54 mestieri rilevati, di fatto riconducibili ad un numero più basso (38), dal momento che alcuni mestieri venivano svolti nell’ambito della stessa bottega. Per esempio, nella bottega del fabbro spesso si ferravano anche i quadrupedi, pratica svolta dal maniscalco. Nelle pagine seguenti i mestieri censiti vengono proposti secondo gli ambiti sopra richiamati:

AgricolturA

Si tratta delle attività agricole più classiche, di seguito elencate:1. L’agricoltore, contadino, seminatore, massaro di campo

2. Il pastore

3. Il mulattiere, il vaticale

4. Il sanaporcelle

5. Il gualano

6. L’incantatore di lupi

7. Il frantoiano

ArtigiAnAtoSi tratta si attività praticate per lo più nelle botteghe, con diverse sfumature.Si va dalle attività artigianali funzionali all’agricoltura e all’edilizia residenziale, come quelle di seguito riepilogate:

8. Il falegname

9. Il bottaio

10. Impagliatore di sedie

11. Il cestaio

12. Il funaio

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Page 16: Libro Mestieri

13. Il fabbro e/o il maniscalco

14. L’ armiere

15. Il calzolaio

16. Il barbiere

17. Il muratore

18. L’intagliatore di tufo e/o scalpellino

19. Il mastro di cotto, fornaciaio, carcararo, pignataro

20. Il carbonaio

21. Il sellaio

22. Il commerciante di pelle

23. Il campanaro

24. Il mugnaio

25. Il pastaio,a quelle dedicate alla realizzazione di manufatti legati allo sviluppo dell’arte della tessitura, quali:

26. La magliaia

27. Il cardatore

28. La tessitrice di ginestra, la filatrice

29. Il sarto/la sarta,

per passare ai cosiddetti lavori ΄itineranti΄, quali:30. L’ombrellaio

31. Lo stagnino, ramaio, calderaio

32. L’arrotino

per finire ai lavori collegati alla società nella loro ΄funzione pubblica΄, quali:33. La levatrice

34. Il banditore

35. Il cantoniere

36. Il fontanaro

37. Il conciliatore

38. L’ufficiale esattoriale

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Descrizione dei Mestieri “In ogni attività la passione toglie gran parte della difficoltà”

Erasmo da Rotterdam

• Mestieri agricoli

L’AGRICOLTORE

IERI:L’agricoltura è l’attività economica che più risente dei condizionamenti ambientali, soprattutto climatici, e specie nelle nostre zone, a condizionarla fortemente è la conformazione del terreno che nella maggior parte dei casi non essendo pianeggiante, rende la coltivazione più complicata.L’agricoltura negli anni ha conosciuto un forte cambiamento passando dall’agricoltura di sussistenza, o tradizionale, che aveva come fine il sostentamento della famiglia contadina, a un’agricoltura di tipo commerciale, in cui il settore agricolo obbedisce alle regole del mercato.Dal punto di vista delle tecniche impiegate in agricoltura, nelle nostre zone si utilizzano sia i metodi agricoli tradizionali come il debbio, il disboscamento e l’avvicendamento colturale, e sia quelli più avanzati attraverso l’utilizzo di fertilizzanti chimici, le moderne tecniche d’ irrigazione e le sementi ibride.Anche nelle nostre zone l’agricoltura primitiva, basata sull’utilizzo del bastone da scavo o della zappa, ha lasciato il posto a un’agricoltura che ormai si avvale delle più avanzate tecnologie, che consentono di ottenere un aumento considerevole della produttività con un numero ridotto di addetti. Secondo il tipo di lavoro che si svolge sul terreno, vi sono svariate attrezzature, tipo il trattore agricolo, l’aratro, l’erpice, l’atomizzatore, la seminatrice ecc.Con il passare degli anni anche il mercato di riferimento ha conosciuto nuovi orizzonti, infatti, in passato, i prodotti, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, venivano venduti principalmente nei paesi limitrofi, mentre adesso il mercato anche nei nostri piccoli centri si è ampliato grazie anche all’avvento di Internet.

OGGI:Visto in chiave moderna, per avere un introito derivante dal settore agricolo, bisogna pensare concretamente al sistema “agroindustriale” che si basa su una stretta integrazione tra agricoltura e industria, rilanciando i cosiddetti “prodotti di nicchia” ovvero alimenti tipici. L’impresa operante nel settore agricolo, dovrebbe controllare un ciclo completo che va dalla produzione, alla raccolta o dove necessario alla trasformazione e infine alla commercializzazione del prodotto.

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Infine, le scelte colturali e produttive dell’azienda agricola dovrebbero essere subordinate alle richieste del mercato, lasciando la vecchia mentalità che ad Aliano imponeva la coltivazione del frumento in terre poco adatte.

PASTORE

IERI:Il pastore è chi custodisce un antico mestiere poiché difende una tradizione che da anni ha rappresentato la totale complicità tra l’uomo e l’animale. Infatti, egli è specializzato nell’allevamento di pecore e capre, attività svolta sia in totale autonomia, come proprietario ma anche alle dipendenze d’ imprese agricole. Le sue principali occupazioni consistono nel guidare,

sorvegliare gli animali al pascolo, tosarli, provvedere alla pulizia di recinti, ovili e spesso produce anche formaggi. La sua attività si svolge prevalentemente all’aperto, con grandi capacità di trascorrere lunghi periodi da solo nella contemplazione silenziosa della natura.

OGGI:Questo mestiere oggi è ancora praticato mantenendo in vigore le sue principali caratteristiche.

MULATTIEREIERI:Un mulattiere conduceva generalmente un gruppo di cinque muli e trasportava legna da ardere, carbone, traverse ferroviarie, fascine ed anche tini pieni d’uva nel periodo delle vendemmie. Qualche mulattiere ha lavorato anche per il trasporto di materiale per la costruzione di tralicci elettrici. La maggior parte delle attività erano comunque legate a esigenze di trasporto a carattere stagionale e i mulattieri si trasferivano spesso nelle zone dove era richiesto il loro lavoro.Un esempio di quanto detto era il lavoro di trasporto del legname. La legna era tagliata ed accatastata dal taglialegna poi con l’arrivo del mulattiere veniva caricata sul dorso degli animali e trasportata fino sul luogo di raccolta.

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Page 19: Libro Mestieri

OGGI:Ora questo mestiere è praticato solamente nell’ambito boschivo per il traino e il carico di legname nei luoghi più impervi del bosco fino a raggiungere i mezzi idonei al trasporto, quindi mezzi agricoli e camion.

SANAPORCELLEIERI:Del sanaporcelle troviamo una descrizione nel noto “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, il quale spiegò che questa era una persona che si occupava, di castrare le porcelle che non si tenevano a far razza, perché dovevano ingrassare meglio e avere carni più delicate. Erano pochissimi a praticare queste operazioni per cui era considerata un’arte rara che si tramandava di padre in figlio.I sanaporcelle andavano di paese in paese per svolgere questo mestiere.

OGGI: Questo mestiere è stato ormai sostituito del tutto dai veterinari quindi in chiave moderna non è riproponibile se non dalla figura professionale del veterinario.

GUALANOIERI: In passato, il mestiere del gualano era molto diffuso e si svolgeva a diretto contatto con l’agricoltura. Principalmente il gualano si occupava di guidare gli animali per eseguire lavori agricoli, ad esempio dall’aratura al raccolto. Un tempo gli animali erano l’unica forza lavoro come

ad esempio i buoi, gli asini, i cavalli, ecc. Quindi, il gualano dopo aver legato i buoi all’attrezzo da utilizzare, per esempio per arare legava i buoi all’aratro e poi li spronava nell’eseguire la lavorazione.

OGGI: Oggi grazie allo sviluppo tecnologico la figura del gualano è ormai scomparsa, poiché al posto dei buoi sono state utilizzate le macchine agricole. E non ultimo, con l’impiego di macchine agricole l’agricoltura ha raggiunto una notevole crescita sia dal punto di vista economica con un aumento delle rese produttive, sia dal punto di vista tecnologico con l’utilizzo di nuove ed efficaci tecniche di lavorazione.

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Page 20: Libro Mestieri

INCANTATORE DI LUPIIERI:Per descrivere questo mestiere scomparso è utile affidarsi alla citazione tratta dal libro intitolato “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi che scrive: “..il suo antico mestiere, prima che gli anni e le vicende l’avessero fissato qui a Gagliano, era l’incantatore di lupi. Egli poteva secondo che volesse, far scendere i lupi nei paesi o allontanarli: quelle belve non potevano resistergli, e dovevano seguire la sua volontà. Si racconta che quando egli era giovane girava per i paesi, di queste montagne seguito da mandrie di lupi feroci. Perciò egli era temuto e onorato e, negli inverni pieni di neve, i paesi lo chiamavano perché tenesse lontani gli abitanti dai boschi”. Una figura che affascinava non solo i lupi, ma tutte le altre bestie, gli elementi della natura e gli spiriti che erano nell’aria subiva il fascino degli incantatori e non potevano resistergli.

OGGI: Ormai scomparso

FRANTOIANOIERI:La principale attività del frantoiano era ed è seguire il processo di estrazione dell’olio d’oliva. Per millenni è avvenuta grazie all’utilizzo della pietra, secondo un procedimento che, a parte qualche variante ed evoluzione tecnica, è rimasto pressoché inalterato. Tra il mese di Novembre e Dicembre ogni coltivatore dopo aver svolto la raccolta delle olive mature le separava delle foglie manualmente, poi le ammassava in un locale e nel momento in cui il frantoio era libero per una nuova spremitura le trasportava al “trappeto”. La mola di pietra, azionata da un asino che girava intorno alla vasca, garantiva una prima frangitura dalla quale le olive erano frantumate grossolanamente. A ogni giro un lavorante gettava nella vasca con una pala le olive da ridurre in pasta, questa subiva poi la spremitura attraverso fiscoli in fibra vegetale i quali, messi sotto torchi di legno, subivano una pressione attraverso l’uso dell’argano (cilindro di legno o metallo portato in rotazione manualmente con una manovella o attraverso un motore in epoche più recenti). L’olio scorreva in un tino sottostante. Sui fiscoli si versava dell’acqua bollente per scaricare i residui di olio dalle fibre vegetali e ciò che affiorava dall’acqua di morchia, cioè dalla chiarificazione che subiva a seguito del lavaggio, si prelevava con un mestolo. Dallo svuotamento dei fiscoli si ricavava la sansa, cioè i noccioli di olivo ridotti in poltiglia, e veniva utilizzata come combustibile che serviva sia per il frantoio stesso, cioè per alimentare il fuoco per il riscaldamento dell’acqua, sia per ogni coltivatore per il proprio riscaldamento domestico.Accadeva che durante il periodo di attesa del prodotto finito, fosse motivo di festa poiché confluivano al frantoio amici e parenti, impazienti di assaggiare l’olio nuovo sul pane abbrustolito, si cenava, dunque, in allegria con la “ruscella” e un bicchiere di vino.

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OGGI:In tempi moderni i frantoi si muovono grazie all’energia elettrica. La separazione delle olive dalle foglie avviene direttamente in loco perché esistono delle macchine separatrici dalle quali, una volta allontanato il materiale di scarto, le olive vanno a disporsi in casse che sono pesate e poi ribaltate nella buca di raccolta. Da questa con nastri trasportatori le olive cadono nella macina con la mola di pietra in movimento. Quando è pronta la pasta di oliva dalla macina passa in un’altra vasca dalla quale si riempiono i fiscoli che sono poi infilati sull’apposito carrello da sottoporre a pressione. L’olio si raccoglie in vasche sottostanti alle presse giungendo al depuratore o separatoio dal quale si estrae l’olio pronto all’uso alimentare e la sansa, che si esporta in appositi centri produttori di olio di semi o altri derivati.

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• Mestieri Artigianali

FALEGNAME

IERI:Il falegname era un vero e proprio artista. Esso sceglieva con cura il legname più pregiato, dal legno di abete al castagno o noce, dopo di che era effettuato il taglio della legna. Quest’operazione veniva fatta a luna mancante, in quanto facilitava la stagionatura del legname che veniva posto in magazzini freschi, spesso a

fianco delle botteghe e andava dagli otto mesi a due anni e aspettando un periodo di conservazione il legno era pronto per essere lavorato e trasformato in oggetti di uso quotidiano e utensili da lavoro. In passato quasi tutto l’arredo era realizzato in falegnameria, si diceva fatto a mano, grazie al lavoro di scalpello il falegname costruiva armadi, comò, comodini, sedie, tavoli.

OGGI:A distanza di tempo, il processo produttivo non subisce modifiche particolari. La scelta del legname avviene in modo molto accurato e la stagionatura va sempre dagli otto mesi a un anno. Il legname era conservato in appositi grandi capannoni, per poi essere lavorato.

BOTTAIOIERI:Il bottaio delle volte si descrive come un artigiano completo e con proprie capacità decisionali poiché non doveva essere supportato né da falegname né dal fabbro. Il suo lavoro consisteva soprattutto nel costruire ma anche nel riparare botti oltre che tutti gli oggetti utili alla vendemmia e alle operazioni di cantina: mastelli, tini, tinelli, secchi di ogni tipo e misura. Il bottaio lavorava su ordinazione. Le prime decisioni da prendere erano l’acquisto del ferro che era utilizzato per realizzare i cerchi della botte con differente larghezza e spessore, poi veniva scelto il legname, di castagno o rovere e si stabiliva l’altezza delle doghe in base alla capacità della botte. Con l’ascia s’intagliava ogni singola doga e successivamente con un pialla si spianava la lavorazione tale da consentire la giusta angolazione che si voleva dare alla botte. Dopo aver battuto il primo cerchio, si aggiungono il cerchio centrale e almeno un altro

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cerchio. Quindi veniva acceso un fuoco all’interno della botte in costruzione con i trucioli e gli avanzi di lavorazione. Il calore serviva per far flettere le doghe e per evitare che anch’esse prendessero fuoco, si agiva continuamente con un panno bagnato. Era una fase delicata perchè se il fuoco si fosse spento sarebbe stato difficilissimo farlo riaccendere. Quando le doghe erano ben calde, l’intera composizione veniva capovolta. Con una fune robusta si legavano le doghe superiori e si stringevano fino a che potessero accogliere il cerchio. Se la temperatura non fosse stata quella giusta, le doghe avrebbero potuto rompersi. Dopo che i cerchi erano ben stretti, bisognava battere energicamente con il martello. Si lavorava quindi il bordo delle doghe livellandole e segandole con il taglio inclinato all’interno. Si lavoravano gli incavi nei quali, poi, avrebbero alloggiato i due fondi e dopo averne stabilita l’esatta misura si procedeva alla lavorazione dei fondi. Alcune tavole erano assemblate con dei chiodi a doppia punta utilizzando talvolta delle foglie di giunco acquatico come guarnizione. Col compasso si tracciava la circonferenza e si eseguiva il taglio ricavandone poi una prominenza che andava ad incastrarsi sulla botte. Le doghe assemblate avevano bisogno di un paio di giorni per tenere la curvatura e talvolta qualcuna si apriva più delle altre. Per introdurre il primo dei due fondi, compito spesso di un bambino, giacché piccolo ed era possibile farlo entrare dentro la botte e battere con attenzione. Per il rimanente era necessario allentare ancora una volta i cerchi, tirando con attenzione fino a farlo alloggiare nella sua sede. Si davano gli ultimi ritocchi al manufatto e le ragioni estetiche non erano estranee alle ultime rifiniture. Se in una delle doghe si scopriva una leggera imperfezione, quella sarebbe stata la sede del foro superiore di riempimento. Si forava sul fondo per mettere il tappo impedendo la fuoriuscita del vino. In fine, in un altro piccolo foro a metà facciata si sistemava un minuscolo rubinetto in ottone per l’assaggio del vino.

OGGI:Oggi, tutto quel lavoro artigianale, sopra descritto, è alla base della costruzione di una botte adesso è completamente o in parte sostituito da nuovi materiali le botti vengono costruite in vetro, cemento, plastica, acciaio, resine sintetiche ecc.. Inoltre, la segagione delle tavole viene fatta nei luoghi di produzione del legno tramite appositi macchinari, l’essiccazione artificiale, la refilatura delle doghe avviene tramite macchina, mentre la piegatura delle assi avviene tramite vapore in un lungo bollitore e i cerchi si battono a macchina e il montaggio finale si fa tramite macchinari.

IMPAGLIATORE DI SEDIE

IERI:Una delle prime operazioni eseguite da quest’ artigiano era la costruzione de telaio e per quest’ultimo ci si rivolgeva alla competenza di un abile falegname. La materia prima impiegata per l’impagliatura della seduta è la lesca, si tratta di un’erba che cresce spontaneamente lungo le fasce palustri, in terreni acquitrinosi o lungo i fossi in cui

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l’acqua ristagna. Giunto il mese di giugno si procedeva alla sua falciatura, alla quale segue un periodo di 15-30 giorni di essiccatura al sole fino ad ottenere una colorazione giallo paglierino. Sull’erba raccolta in fasci, veniva versata dell’acqua bollente, operazione questa indispensabile per ammorbidirla e evitare che i fili si spezzino durante la lavorazione. Inoltre si prestava attenzione anche a degli accorgimenti tecnici da un lato assorbire l’acqua in eccesso e, dall’altro, mantenere il giusto grado di umidificazione. L’abilità di un bravo artigiano consisteva anche nel saper scegliere in base al colore e allo spessore, tre o più fili d’erba per dare una graduale colorazione che si voleva dare all’impagliatura. Sostanzialmente erano due i tipi d’intreccio utilizzati per la realizzazione, quello a croce e quello a triangolo. Si partiva da un angolo con i fili attorcigliati e tesi fino a ricoprire tutta la seduta, a volte s’inserivano pezzi di legno molto sottili per garantire una struttura più resistente. Un allungamento dei tempi di lavorazione occorreva all’artigiano quando eseguiva un impagliatura anche nella parte alta della sedia, ossia la spalliera.

OGGI:Oggi, purtroppo come testimoniato da molti artigiani, questa e le altre attività manuali che si apprendono direttamente sul campo, saranno, per mancanza di apprendisti, destinate a scomparire insieme con gli ultimi depositari di quest’antica tradizione. Inoltre all’erba lesca, come materia prima, è utilizzato anche il nylon e la paglia carta, nell’ambito di una produzione industriale che riduce notevolmente i tempi di realizzazione. Basti pensare che dall’ora e un quarto occorrente per impagliare una sedia con erba lesca, si passa ai 10-30 minuti di lavorazione, necessari per il nylon e la paglia carta.

CESTAIOIERI:Il cestaio era una persona molto capace nel cum-plectere, ossia dal latino intrecciare insieme sfruttando materie prime locali come paglia, vimini o giunco. Il fine lavoro d’intreccio serviva per creare oggetti di prima necessità e, per lo più, destinati ad un mercato locale. Si potevano realizzare e poi acquistare crivelli per l’analisi granulometrica

di terre come ghiaie o sabbie, fuscelli per contenere la ricotta fresca ed il formaggio, panieri e ceste di varie dimensioni.

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OGGI:Oggi sono pochi coloro che costruiscono i cesti anche perché l’uso delle materie sintetiche ne ha messo in crisi la produzione. Oltre al fatto che è cambiato l’utilizzo di questi manufatti poiché sono diventati più oggetti da collezione che di necessità e fini elementi decorativi nell’arredamento.

FUNAIOIERI:Il funaio era un lavoro che si svolgeva all’esterno, di solito a conduzione familiare, perché c’era bisogno di molto spazio. La bottega, doveva essere necessariamente lunga poiché l’artigiano, procedendo a ritroso, doveva guidare l’intreccio della corda il più lungo possibile. L’attrezzo che si usava era una grossa ruota in ferro e legno con manovella, collegata mediante una puleggia all’aspo, composto da quattro filatoi muniti di ganci. Il tutto era fissato su una pesante base di legno. Si partiva dalla canapa grezza. Poi si realizzava la commettitura: la fibra utilizzata dopo numerose manipolazioni, si trasformava in fibre elementari che, ritorti tra loro e intrecciati formavano il trefolo. Secondo il numero di trefoli utilizzati, il funaio realizzava cordami semplici o composti a due o a più trefoli. Per intrecciare i cordami composti si serviva di un piccolo tronco di cono con scanalature, che prillava fra le sue mani avvolgendo il cordame, mentre un terzo artigiano tendeva i capi, legati a un gancio, in fondo alla bottega. In rapporto all’uso erano prodotti tanti tipi di corde che venivano venduti a peso con la stadera. Alcuni prodotti, erano acquistati dai sellai per completare i finimenti degli animali da tiro, e dai contadini che li usavano per ogni tipo di lavoro come le lunghissime funi per attingere l’acqua dai pozzi; e, quando si spezzavano, per riutilizzarle, si riunivano i capi con un intreccio. Le funi usate anche da tutte le casalinghe per legare i sacchi pieni di grano e di olive. Spesso sostituivano le cinghie per reggere i pantaloni dei contadini. Ai bambini servivano per giocare con gli archi, da cui facevano scoccare le frecce di ferro, e le bambine usavano la fune per saltellare.

OGGI:Già da parecchi anni il mestiere del funaio è scomparso.

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FABBRO, MANISCALCOIERI:I fabbri, lavoravano il ferro per costruire svariati utensili e attrezzi per diversi lavoratori: dall’aratro ai martelli, picconi, falci, scalpelli.Nei piccoli centri la stessa persona svolgeva anche la mansione di maniscalco quando ferrava quadrupedi da tiro e da soma come cavalli, asini e muli. Oltre i propri attrezzi forgiavano anche quelli per gli altri artigiani. Gli attrezzi indispensabili per eseguire la loro attività erano: l’incudine, i martelli, le tenaglie e, l’antica fucina a carbone alimentata dal mantice di pelle di capra che fu poi sostituito dalla forgia provvista di un cannello di ferro sottostante il focolaio per mandare l’aria necessaria a tenere acceso il fuoco mediante una manovella. La materia prima era un ferro dolce, non acciaiato come quello attuale. Appena arrivava un cliente con il suo cavallo, faceva accendere la brace della forgia. Intanto con la tenaglia toglieva dagli zoccoli i ferri vecchi estirpandone i chiodi con un coltellaccio. Poi, accertatosi del tipo di zoccoli, modellava i ferri su misura, in modo che si adattassero alla perfezione.

Era il sistema migliore perchè la ferratura durava più a lungo e il cavallo camminava meglio. Batteva con precisione millimetrica sul ferro, reso incandescente dal carbone, che, sprigionando carbonio, lo rendeva più resistente. Sotto i colpi, diventando malleabile, era piegato, appiattito, e con le scanalature, con i buchi per i chiodi, assumeva la tipica forma. Lo zoccolo, spianato con il pialletto, e la raspa, era pronto per ricevere il ferro (già temprato nell’acqua), che era fissato con appositi chiodi. Con il martello li faceva fuoriuscire dall’unghia con le punte verso l’alto, formando una raggiera da ripiegare verso il basso, in modo da non farla sporgere sulla superficie dello zoccolo che doveva rimanere liscio e livellato. Spesso, questa fase era molto delicata e l’artigiano era aiutato

dal contadino, in tutte le fasi della ferratura, poggiava ogni zampa del suo cavallo sul cavalletto per far procedere con la lima alle rifiniture e per far eliminare residui di unghia sulla muraglia dello zoccolo. Il ferro di cavallo aveva anche una funzione scaramantica. Non doveva mancare al superstizioso, che lo attaccava dietro l’uscio di casa, per proteggerla dal malocchio, secondo la diffusa credenza popolare. Delle volte, il maniscalco fungeva anche da veterinario: i contadini chiedevano pareri sulla salute dei loro animali e all’occorrenza li facevano operare.

OGGI:Oggi laddove ancora si pratica quest’ antico mestiere, tutte le fasi di lavoro sono rimaste invariate, e ne testimoniano la lunga tradizione della cultura popolare contadina.

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ARMIEREIERI:L’armiere aveva il compito di costruire serrature, maniglie, forbici, coltelli, oliere, pentolini chiavi, mestoli, secchi, graticole, inoltre puliva e riparava fucili e altre armi. Gli attrezzi da lui utilizzati erano la morsa, il martello, la tenaglia, l’incudine, i chiodi.

OGGI:Oggi l’antica figura dell’armiere è associata al soldato addetto alla manutenzione delle armi portatili o al proprietario o gestore di un negozio di armi.

CALZOLAIOIERI:La figura del calzolaio era indispensabile un tempo, perché non esistevano negozi dove poter acquistare le scarpe come prodotto finito. L’artigiano lavorava continuamente anche dieci ore al giorno in una piccola bottega semibuia; all’interno si potevano trovare tutti gli attrezzi: il martello, la pinza per occhielli, le tenaglie, il trincetto, il punzone, la lima, la forma, lo spago, le forbici, la cera che da lui erano

utilizzati e adagiati su un tavolo. Egli indossava un grembiule di pelle perché resistente ai tagli e svolgeva il suo lavoro sulle proprie ginocchia. Innanzitutto per la creazione di una scarpa egli iniziava misurando sial’altezza del collo che la misura della pianta del piede di un cliente. Per mezzo dei trincetti, tagliava la pelle, la fodera e le suole necessarie. Poi, faceva passare lo spago affusolato all’interno dei buchi delle suole e della pelle aiutandosi con le setole di cinghiale e dunque iniziava a cucire. Una volta unite la suola con la pelle fissate sulla forma della scarpa di legno procedeva alla fase del montaggio che consisteva nell’unire, con la colla e i chiodi, definitivamente le due parti. Infine si facevano i buchi da dove passavano i lacci. In questo modo, dopo varie rifiniture come la tintura, si otteneva il prodotto finito. Inoltre, per le scarpe dei contadini erano applicate delle borchie per renderle più resistenti nel tempo.

OGGI:Le fasi della lavorazione e realizzazione di un paio di scarpe oggi sono: si progetta un modello di scarpe che risultino originali ed eleganti, differenti di volta in volta. Si prosegue con il taglio della materia prima da utilizzare, ed eseguito, questo taglio, con estrema attenzione e quindi si esegue la cucitura della tomaia, segue il montaggio, ossia la fase in cui la scarpa assume la forma desiderata in modo da garantirne comfort ed eleganza. L’ultima fase della lavorazione è la lucidatura e segue l’inscatolamento.

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BARBIERE

IERI:L’antico mestiere del barbiere anticamente era considerato un lavoro di tutto rispetto. Il barbiere era addetto al taglio e alla rasatura della barba; il lavoro si svolgeva in piccole botteghe, che diventavano veri e propri luoghi d’incontro. Il lavoro del barbiere del passato era molto più semplice di quello attuale, gli arnesi con i quali lavoravano si riducevano a pochi pezzi: un paio di forbici, i rasoi e la tosatrice che serviva per eseguire tagli di capelli a mano. Chi faceva il barbiere svolgeva anche altre attività di tipo sanitario come cavare i denti, ma soprattutto si occupava di sartoria quando nella propria bottega ne ricavava un angolo destinato allo svolgimento del mestiere di sarto. La clientela del barbiere si distingueva tra artigiani, professionisti, possidenti, ma anche braccianti e contadini.

OGGI:Mestiere che tutt’oggi è ben affermato e si è evoluto nella società odierna che sempre più presta attenzione alla cura e igiene delle persone e dell’immagine.

MURATOREIERI:Il Muratore è un operaio specializzato, che si occupa di costruire muri sovrapponendo un mattone o una pietra dopo l’altra, legandoli con malta di cemento e curandone allineamento e verticalità; di tagliare su misura mattoni e pezzi preformati per costruire pareti, tramezzi, archi; di eseguire lavori di stuccatura; collocare fra le pareti materiale isolante contro umidità e calore. La sua attività si svolge presso cantieri edili, dove si può essere esposti a rumori, polvere e alle intemperie e lavorare in spazi difficilmente accessibili o ad altezze elevate da terra. Per lo svolgimento della sua attività utilizza attrezzi chiamati: cazzuola, carderella, spatola, martello, livella a bolla d’aria, filo a piombo, ed altri utensili manuali.

Per diventare muratori era necessario un lungo periodo di apprendistato. S’iniziava molto presto, anche alle soglie dell’adolescenza, perché i ragazzi abbandonavano la scuola per dedicarsi al lavoro. La professione del muratore riveste un’importanza fondamentale, infatti, è chiamato a svolgere diverse mansioni, quali: la realizzazione, la manutenzione ed il restauro di opere edili.

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Per lo svolgimento della sua attività utilizza: cazzuola, secchio, spatola, metro, martello, scalpello, pinze, tenaglie, carrucola, carriola, livella a bolla d’aria, filo a piombo e altri utensili manuali. Questo mestiere si è diffuso, gradualmente per tutta la prima parte del 1900. La richiesta aumentò solo dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale.Il mestiere del muratore negli anni ’40 e ’50 era molto più faticoso.

OGGI:Oggi, grazie all’influenza della tecnologia si è in grado di facilitare il lavoro e renderlo più “leggero”. Capita spesso di fermarsi a osservare un cantiere edile e la cosa che si nota sempre, è il continuo movimento della gru che trasporta materiali, come mattoni, sacchi di calce, blocchi ecc., dal livello del terreno al punto in cui si sta lavorando. Cosa che prima era impensabile dato che non esistevano le gru e il materiale andava trasportato a mano.

INTAGLIATORE DI TUFO, SCALPELLINO

IERI:In passato i maestri artigiani della pietra sceglieva il materiale in base alla sua lavorabilità, all’attitudine a lasciarsi foggiare in determinate forme sotto i colpi delle apposite mazze. Era compito dello spaccapietre ridurre il masso in breccia per massicciate o per fondali stradali, oppure in moli più piccole colpendo le pietre, per ore, con le mazzette. Dalla scelta del giusto blocco dipendeva il risultato del lavoro: lo si tastava, cioè se ne verificavano le caratteristiche; lo si estraeva e spaccava in masselli a seconda delle esigenze.I tagliapietre

specializzati, sul luogo del giacimento della materia prima, procuravano un primo taglio al masso di travertino, procedura detta “sgrossatura”, in modo tale da alleggerire il pezzo per renderlo maneggevole. Infine, tutti i pezzi messi insieme venivano “accannati” e in questo modo si vendevano ai muratori per le costruzioni. Per spaccare i blocchi si praticavano delle aperture in fila a distanza ravvicinata, fino a far cedere il blocco con una mazza. I blocchi “accannati” erano trasportati in paese fino al cantiere, là dove c’erano altri tagliatori che procedevano con un taglio più raffinato tanto da produrre un pezzo con base e facciata, pronto per la muratura. Durante questa fase gli scalpellini sceglievano i blocchi di pietra, li sbozzavano, dando loro una forma più regolare, altri procedevano con la rifinitura. Forme diverse e azioni diverse richiedevano lo stipite, la modanatura, gli archi; un’altra manualità richiedeva il processo di lucidatura, la quale lasciava grezze le superfici con i segni della bocciarda. Per levigare si usava anche sfregare la sabbia e i cocci di mattone contro la pietra. Era dunque lo scalpellino che eliminava le imperfezioni dalle murature dei palazzi nobiliari, dai portali ad arco, dai camini, per un lavoro raffinato ed elegante attraverso

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la punta e lo scalpello. Oltre a questi, erano utilissimi: la martellina, la bocciarda, lo scalpello a punta subbia, i cunei in ferro o punciotti. La differenza tra scalpellini e spaccapietre stava nella forza che imprimevano durante il loro processo lavorativo, il quale è, secondo me, già insita nelle loro definizioni, infatti, lo scalpellino ci porta ad intendere un lavoro più delicato e raffinato. In base alla durezza e alla resistenza della pietra gli scalpellini la adoperavano per un uso anche decorativo realizzando una colonna, un capitello o una scalinata.

OGGI:Nell’epoca Moderna non si fanno più le murature come in passato perché si utilizzano i blocchi in cemento e i mattoni forati, qualora venisse richiesto un lavoro in pietra si sa che la manodopera per tale procedura è molto costosa poiché si prolungherebbero i tempi di produzione, anche se verrebbero impiegati materiali recuperati da demolizioni di altri impianti o pietre già lavorate da macchine industriali, quindi massi di travertino e pietre già tagliate e pronte per la disposizione. Inoltre è sottointesa la maggiore precisione e specializzazione nel processo lavorativo. Oggi si esegue una ristrutturazione di antiche facciate, dalle abitazioni private ai palazzi nobiliari, per ritornare a una condizione originaria, riportando alla luce la pietra, così detta “a faccia vista”, rispettando rigorosamente un principio di restauro archeologico.

MASTRO DI COTTO, PIGNATARO, FORNACIAIO, CARCARAROIERI:Molte pratiche lavorative del mondo antico non sono né ricostruibili né determinabili con sicurezza, ad esempio, gli scavi archeologici possono riportare alla luce gli attrezzi e gli impianti strutturali dell’attività ma non possono definire come avvenisse la conduzione del fuoco, che resta la grande incognita della lavorazione della ceramica. L’artigiano dopo aver modellato manualmente la

creta in una data forma e dopo averla fatta asciugare al sole, sottoponeva l’oggetto a una prima cottura in forno. Nel mondo antico il manufatto ceramico era sottoposto a monocottura mentre nel Medioevo si affermò la tecnica delle due cotture, la prima detta “biscotto”, la seconda detta “a vetrato”, perché consentiva la vetrificazione del rivestimento e di regola avveniva a temperatura inferiore della prima. Dopo il raffreddamento, il vasaio procedeva con l’infusione nello smalto e la decorazione, infine l’oggetto subiva una seconda cottura. Secondo lo studio condotto da D. Colonnesi, anche sugli scavi di Sant’Angelo al Raparo, durante la Protomaiolica o Mezzamaiolica e sia nella maiolica cosiddetta arcaica, la decorazione avveniva in genere per infusione del pezzo che non era interamente ricoperto di smalto perché lo stagno era assai costoso e se ne faceva un uso parsimonioso. La prima decorazione avveniva per infusione e

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la vetrina s’incorporava nello smalto per dare lucentezza e impermeabilità all’oggetto, in altri casi anche la vetrina si applicava per infusione, dopo la smaltatura, su cui si conduceva successivamente la decorazione sopravetrina. Una tecnica di decorazione era l’ingobbio, cioè si ricopriva il biscotto con un velo di terra bianca o colorata, detto intonaco, poi l’oggetto si copriva con la vernice vitrea. Altra decorazione era la graffiatura, solitamente fatta dopo l’ingobbiatura, incidendo con punta metallica segni di forme geometriche a cerchi, linee curve, fascioni a spina di pesce, motivi a foglia.Più rare erano le figure zoomorfe. A questa tipologia di artigianato molto spesso era affiancata un’altra figura artigiana, il cosiddetto fornaciaio o carcararo. Egli lavorava soprattutto a contatto di una fornace che era una struttura in muratura fatta in pietra adibita alla cottura di calcari e argille. Aveva forma cilindrica incavata in una costa; un’apertura centrale larga circa 80cm dalla quale si caricava di mattoni ed embrici, l’apertura poi si murava e la cima della fornace, che normalmente era aperta, si otturava con 20-30cm di terra affinché si mantenesse tutto il calore all’interno del forno. Al disotto di tale apertura, detta “portella”, c’era una sorta di camera di circa 1,50-2m nella quale si entrava per la preparazione della catasta da ardere(vedi foto sopra) che si accendeva di sera a fuoco lento e la mattina seguente si alimentava tenendola viva per 3-4 giorni. Il lavoro non era svolto in solitaria in quanto bisognava alimentare il fuoco continuamente ma c’erano sempre almeno altre due persone perché durante la notte si vegliava a rotazione ma soprattutto perché il momento della cottura era un procedimento altamente pericoloso. Chi procurava la legna (sia per la fornace sia per la carcara) era un taglialegna a cui andava metà del guadagno. Si producevano embrici per coperture e mattoni per pavimentazioni. L’embrice è un tipo di laterizio usato nelle coperture a tetto costituito da una lastra di creta a forma trapezoidale con gli orli dei due lati obliqui rialzati. Era in uso incidere con un chiodo o uno stecchetto, il nome del produttore sui pezzi quando questi erano ancora molli ma dalle fonti private risulta anche un timbro di “fabbrica” La materia prima, la creta, procurata in un fossato, era caricata sugli asini e trasportata nel luogo della fornace. Si scaricava il materiale in una buca procurata nel terreno e si ammorbidivano le zolle, miste ad acqua, attraverso la pigiatura a piedi nudi. Una volta pronta la pasta da modellare si sistemava nelle forme in legno, si levigava nel migliore dei modi (procedura esclusivamente manuale) e dall’uso di uno spago si tagliava, ad esempio il mattone, si distaccava dalla forma e si lasciava cadere atterra. Più pezzi messi insieme si “ammetavano”, cioè si sistemavano in modo ordinato per l’asciugatura che avveniva all’aperto nel giro di 3-4 giorni, in condizioni atmosferiche ottimali. Il lavoro del fornaciaio richiedeva una meticolosa manualità sia nella disposizione dei pezzi da cuocere sia nella preparazione e nella costanza che bisognava far mantenere al fuoco.Solo per una fornace ci volevano dai dieci ai quindici giorni per ottenere 3000-4000 pezzi, dalle otto alle dieci canne di legna più duecento- trecento fascine per la fiamma (circa 2600 euro di legna da ardere).Alla stessa famiglia delle fornaci appartengono le carcare con la differenza che queste servivano alla cottura di pietre le quali, sottoposte ad alte temperature, dopo il raffreddamento erano fatte ribollire con acqua in una fossa (processo che richiedeva la massima attenzione) e si trasformavano in materiale fuso.

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Le pietre erano rinvenute nel torrente da esso trasportate alla carcara dove il prodotto ottenuto era dunque una calce di colore bianco, impiegata come collante nell’edilizia, per imbiancare le pareti domestiche e per disinfettare stalle.

OGGI:I manuali tecnici odierni spesso omettono le pratiche lavorative tradizionali considerandole superate o obsolete. Ci vorrebbe una Storia della Ceramica per comprendere una cronologia tecnica della lavorazione dell’argilla. Nel processo antico l’esperienza era l’unica maestra per un’attività di questo tipo ma il passaggio del sapere empirico da un vasaio all’altro e da una generazione all’altra si è arricchito di nuove soluzioni che col tempo sono entrate a far parte della tradizione che ancora oggi, sebbene sempre più rara, sia sopravvissuta senza essere stravolta dalla meccanizzazione moderna, anche se risulta difficile dimostrare una continuità tecnica con il passato. La conoscenza tecnica di questo mestiere, quindi, può servire a un duplice scopo: comprendere come il vasaio sia arrivato a produrre un manufatto ceramico e valutare un reperto facendo il cammino a ritroso, cioè partendo dai segni rimasti su quell’oggetto per risalire alle tecniche messe in atto per produrlo. A costo zero l’argilla ha spesso sostituito il surrogato economico dei metalli imitandone forma e decori e ha permesso di modellare tanto le pentole da cucina e l’orcio per la dispensa, quanto i vasi che hanno impreziosito il corredo funerario dei morti. L’argilla può essere modellata nelle forme più varie secondo le esigenze, ad esempio, se un cliente chiede due brocche, una per il vino e l’altra per l’acqua, il vasaio modella la prima con argilla comune, ne leviga accuratamente la superficie ottenendo una brocca impermeabile, mentre per la seconda sceglie un’argilla fortemente calcarea ottenendo una brocca dalle pareti molto porose (spugnose), adatta a far traspirare il liquido e mantenerlo fresco.All’argilla da lavorare si aggiunge l’acqua d’impasto per conferirle plasticità. Dopo i trattamenti di preparazione dell’impasto il vasaio lo mantiene umido bagnandosi le mani a più riprese durante la modellazione. Durante l’essiccamento l’acqua evapora e prende il nome di acqua di ritiro e di porosità perché provoca la contrazione del volume dell’oggetto modellato e la sua porosità. Per ciò che riguarda la cottura, in epoca moderna, sono possibili molte variazioni in prima e in seconda cottura in conformità ai vari processi e utilizzi, ad esempio le piastrelle smaltate sono oggi prodotte sia in monocottura sia a due cotture. La terraglia forte è un prodotto intermedio tra ceramica porosa e ceramica compatta, la porcellana può essere sottoposta a una terza cottura detta “a piccolo fuoco”, onde consentire l’uso di colori che non sopporterebbero alte temperature. L’argilla modellata dopo aver subito la cottura si trasforma in corpo ceramico. In epoca antica il corpo ceramico era molto poroso e colorato, in epoca moderna, invece, può essere colorato (gres), oppure bianco e scarsamente poroso (terraglia), oppure bianco e compatto (porcellana).

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CARBONAIOIERI: Il carbonaio svolgeva un’attività di trasformazione della legna in carbone. Esso restava in montagna per mesi interi, portandosi dietro solo il mulo. I carbonai provvedevano al taglio degli alberi e facevano la pulizia dei rametti. Il suo era un lavoro stagionale che iniziava in autunno con i tagli del bosco e terminava alla fine della primavera, il carbonaio si costruiva una capanna come dimora, con gli arredi

necessari per la sopravvivenza nel bosco per lunghi periodi. Ogni carbonaro lavorava la sua macchia, la tagliava in pezzi e la accatastava. Poi, veniva trasportata con i muli nello spiazzo, un punto in cui venivano scavate le buche nelle quali sistemare la legna e appiccare il fuoco. Gli strumenti che utilizzava il carbonaio erano pochi e, spesso, se li produceva con il legno che trovava nel bosco, ad eccezione della zappa e della pala. La cotta della legna, scavata nel terreno, aveva forma conica. Una volta appiccato il fuoco, era coperta con del terriccio e ogni tanto vi si praticavano dei buchi per far uscire il fumo ed evitare che la legna incenerisse completamente. Anche di notte, a turno, i carbonari, sorvegliavano la cava per evitare ogni pericolo. Terminato il lavoro, erano smontate le “baracche” ed i carbonai si trasferivano in altri posti per ricominciare daccapo il lavoro. Il carbone prodotto era utile sia per il riscaldamento delle case e sia come combustibile per i mezzi di locomozione.

OGGI: ormai scomparso

SELLAIOIERI:Quello del sellaio è un antico mestiere relativo alla produzione di finimenti per cavalli. Il sellaio preparava in modo artigianale e professionale finimento per cavalli curando anche la consegna diretta ai contadini. I materiali usati erano il cuoio, la paglia e il legno. Il pagamento avveniva di frequente in natura con uova, pollame e frutta. Quest’attività era svolta da modesti artigiani che lavoravano soprattutto nei paesini dove più immediato era il contatto con le popolazioni rurali. Il lavoro principale consisteva nel fare le cosiddette “collane” per il cavallo. Era fatto una specie di vestito cucendo il cuoio con il sacco e riempiendolo di paglia. Era poi data la forma e venivano attaccati dei legni della misura

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del collo del cavallo. La parte con la tela costituiva l’interno della sella, a contatto con il collo per assorbire il sudore dell’animale. Il cuoio invece era all’esterno sia per motivi estetici, ma soprattutto perché era un elemento duraturo a contatto con le intemperie.

OGGI:Quello del sellaio è un mestiere che sopravvive solo grazie alla produzione di finimenti per cavalli da corsa.

COMMERCIANTE DI PELLIIERI:Il commerciante di pelli era colui che comprava presso allevatori e macellai, pelli conciate per poi rivenderle.

OGGI: Ormai scomparso, si può avvicinare al venditore di pelli conciate dal processo industriale.

CAMPANAROIERI:Il campanaro era colui incaricato di suonare le campane in occasione di qualsiasi ricorrenza o evento religioso cristiano. Questa era anche definita secondo la più popolaresca denominazione di sacrista o sacrestano.Di solito, il campanaro era, ed è tutt’oggi in molti casi, anche l’addetto alla cura e alla carica manuale degli antichi orologi che ne scandiscono il tempo dalle torri campanarie delle chiese.

OGGI:Quest’antico mestiere è stato, oggi, sostituito dalla moderna tecnologia, in quanto le campane vengono azionate attraverso

dispositivi elettronici.

MUGNAIO IERI:Anticamente per la macinazione del grano venivano usati i mortai di pietra entro i quali si frantumavano i chicchi dei cereali attraverso pestelli, anch’essi di pietra o legno duro, oppure si macinava attraverso rulli che a mano si facevano rotolare su una base di pietra. Spesso i chicchi erano tostati e frantumati tra le mani. Col passare del tempo si

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cominciarono a costruire stabilimenti con la sola forza dell’uomo e degli animali che azionavano le macine, ovvero pietre discoidali affacciate, cioè messe una sopra l’altra di cui una fissa e l’altra rotante intorno al suo asse centrale. Solo più tardi s’imparò a sfruttare l’energia dei corsi d’acqua, ma anche del vapore e del vento. Il funzionamento di un mulino ad acqua non sembra complesso, pare, infatti, che la forza dell’acqua che scorreva o che cadeva dall’alto, imprimesse un movimento rotatorio a una grande ruota di legno munita di ampie pale, questa moveva appositi ingranaggi che trasmettevano un moto circolare ad una macina di pietra la quale, ruotando sulla pietra fissa, triturava i cereali. In ogni caso, gli impianti esistenti eseguivano solo la bassa macinazione, l’abburattatura delle farine avveniva con setacci a mano, poiché era impossibile avere energia sufficiente ad azionare insieme alle mole uno o più buratti.

OGGILa macinazione del grano è rimasta pressoché invariata nel tempo pur avendo sostituito le energie naturali con l’elettricità e con un impianto tecnologico, si sono impiegate macchine molitorie decisamente più moderne.

PASTAIOIERI: Quando parliamo del mestiere di pastaio risulta evidente la derivazione dal termine specifico di “pasta” che deriva dal greco e vuol dire: passo, spargo, verso sopra e indica non l’impasto, ma il condimento che viene unito a questo per renderlo più saporito. All’inizio era una pratica diffusa in tutte le case poiché si produceva una pasta alimentare che nacque probabilmente con l’esigenza di conservare un alimento ad alto potere

nutritivo per un tempo quasi indeterminato e questa aguzzò l’ingegno delle massaie. Erano queste che facevano la pasta fresca a casa su di una spianatoia della madia che era sistemata su due sedie impagliate, per comodità di lavorazione. La pasta era realizzata con grano duro.Si producevano i “ferricelli” che si ottenevano arrotolando pezzi di sfoglia intorno ad un ferro a base quadrata, i “cavatelli” che si ottenevano incavando pezzetti di pasta con le dita, marcatamente con il medio e le “orecchiette” che si ottenevano incavando pezzetti di pasta con il pollice.

OGGI:Con l’avvento della tecnologia, la produzione della pasta ha subito notevoli trasformazioni.

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Innanzitutto è cambiato il modo di produrla, si è passati dal lavoro manuale a quello dei macchinari con i quali si possono produrre quantità notevoli in poco tempo, processi di essicazione molto più rapidi e efficaci procedure di confezionamento che permettono di conservare la pasta per periodi medio-lunghi. Altro cambiamento, per la produzione industriale, è l’approvvigionamento delle materie prime che avviene direttamente dai fornitori. Non dimentichiamo che nonostante tutti questi cambiamenti ancora oggi, capita spesso che le donne a casa, producano la pasta fresca da consumare, magari nei pranzi più importanti, con le stesse modalità di una volta.

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• Mestieri di manifattura tessile

“Noi siamo stati discepoli delle bestie nelle arti più importanti:dal ragno nel tessere e nel rammendare…”

Democrito,V secolo a.c.

MAGLIAIA IERI:Il processo di estrazione della lana inizia con la tosatura delle pecore che avviene all’inizio di maggio. Quest’operazione si pratica a mano e richiede destrezza per evitare di ferire l’animale. Appena tosata, la lana sudicia è divisa in bianca e nera viene messa nei sacchetti e successivamente dev’essere bollita in grandi caldaie di rame. Si portava poi al fiume, dove veniva sciacquata abbondantemente con

acqua corrente in caldaie di rame poi veniva stesa ad asciugare al sole. L’operazione successiva è la cardatura che consisteva nel ridurre la lana in batuffoli soffici pronta per essere filata. L’attrezzo con il quale si cardava la lana era il “cardaturo” costituito da un ripiano di legno chiodato con i manici. La filatura avveniva per mezzo dei fusi, “u fus”, si tratta di attrezzi a forma di doppio cono generalmente di legno di ulivo, di noce o di ciliegio. Per dipanare le matasse di lana si usava la corleta (un filatoio a ruota con pedale e alette). Per riunire i fili in matasse si utilizzava l’aspo, un torcitoio di legno. Infine le matasse di lana erano bollite imbianchite usando le scibi di potassa e a volte tinte. Per tingere la lana di colore nero si facevano bollire le cortecce di ontano. Di colore giallo si faceva bollire l’erba guada( pianta tintoria). Per ottenere giallo paglia si facevano bollire le cortecce di melograno. Per il colore marrone si usavano le cortecce di castagne. Il colore lilla si otteneva facendo bollire gli acini di uva. Quest’operazione richiedeva tempo e pazienza è per questo motivo che i capi colorati si vendevano a un costo più elevato.

OGGI:Il processo produttivo della lana è per lo più meccanizzato. Il vello della pecora è tagliato con appositi attrezzi e portato al mulino dove viene lavato per rimuovere sporco grasso e impurità. Per il lavaggio si utilizza una soluzione di sapone e carbonato di sodio. Segue la fase della pettinatura, indispensabile per la produzione di un filato pettinato. Con il processo della filatura è prodotto il filo coeso di fibre vale a dire il filato.

CARDATORE IERI:Il cardatore lavorava la lana che era distinta in prima e seconda qualità in relazione alle

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tosature di Maggio e di Agosto. La prima operazione era il lavaggio del vello delle pecore che avveniva lungo i corsi dei fiumi e una volta tagliato il tosone si piegava mettendo nell’interno la lana della testa, del ventre e della cosce, il tutto poi veniva conservato in luoghi asciutti o si vendeva subito ai commercianti. Dopo la tosatura, la massa di lana subiva un secondo lavaggio in liscivia, che serviva per eliminare il grasso e poi si risciacquava. Dopo la battitura e l’oliatura, la lana si sottoponeva a cardatura, che consisteva nel pettinare la lana prima con le mani poi con appositi pettini, in modo da eliminare tutte le impurità. La lavorazione della lana denotava una maggiore cura tanto nel lavaggio quanto nella colorazione delle tele, generalmente sottoposte a follatura che nell’ambito della produzione domestica era praticata dalle donne per mezzo di grossi magli. La follatura era un’operazione con la quale si faceva restringere e rassodare i panni di lana sottoponendoli a pressione, a sfregamento e ad azioni chimiche in bagni alcalini o acidi. La follatura dei pannilana costituiva nell’800 l’unico caso di applicazione di energia meccanica al settore tessile, tutto il resto avveniva manualmente.L’azione meccanica compattava le fibre infeltrendo il tessuto fino a renderne invisibile la trama, mentre l’azione sgrassante del detergente smacchiava il tessuto eliminando l’olio che impregnava la lana. Un tempo nella produzione a uso familiare la follatura veniva eseguita in casa dalle donne con la sola forza dei piedi o per mezzo di magliuoli, ossia bastoni, e si procedeva bagnando e rivoltando ripetutamente i tessuti.

OGGI:Il processo di cardatura è lo stesso ma è eseguito per mezzo di attrezzature industriali.

TESSITRICE DI GINESTRE E FILATRICE

IERI:Il mestiere della tessitrice di ginestra, era una delle attività più affascinanti nell’ambito di questa ricerca sulla ricostruzione della memoria storica. Un lavoro che vanta sicure radici italo-greche e fu una delle principali occupazioni in molte comunità di cultura “arbereshe”, italo-albanesi e ancora praticate negli anni del dopoguerra. La tessitrice prima di eseguire la sua opera al telaio doveva procurarsi la materia prima attraverso un lungo processo di lavorazione che andava dalla raccolta della ginestra, alla macerazione, alla filatura e finalmente alla tessitura. La ginestra, una pianta arbustiva sempre verde che cresce spontanea, era fatta bollire con l’aggiunta di cenere e soda

caustica per ammorbidire gli steli, e messa al macero per ammorbidire completamente la fibra. Poi sugli steli macerati si cospargevano con la sabbia per separare la fibra dal canupolo, strappando con decisione; per raffinarla e privarla delle parti legnose era

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poi battuta con mazze di legno. Per sbiancare la fibra, la battitura veniva intervallata con frequenti sciacqui. Dopo essere state lavate e asciugate le fibre venivano pulite e selezionate per la filatura; quest’ultima era la fase più difficile e consisteva nel trasformare la fibra in filato. Importante era anche la figura della filatrice che, per ottenere un buon filato, eliminava dalla materia ogni impurità, successivamente tirava e dosava una quantità di materia adeguata alla grossezza del filo, che doveva essere sempre uniforme. Fra gli attrezzi essa utilizzava il fuso con rotello formato da un’asticella di legno, che aveva un gancio di metallo in alto dove si fissava il filo e in basso un rotello di legno duro tornito. La bravura della filatrice si distingueva dal fatto di saper tenere il fuso in continua rotazione, in modo da torcere il filo più efficacemente. Quando il filo con il fuso si allungava fino al pavimento, s’interrompeva per un attimo la filatura per avvolgerlo e fissarlo di nuovo all’estremità superiore del fuso. Si ricominciava così nuovamente a filare, facendo prillare il fuso su se stesso. La rocca o conocchia reggeva le fibre grezze, preventivamente inumidite, che servivano durante la filatura. Poteva essere una semplice forca di legno, una canna o un’asta di legno lavorata. C’era la rocca a mano, lunga trenta centimetri e quella a braccio, lunga circa un metro.

OGGI:Sebbene il metodo di macerazione chimica con la soda sia sempre stato il più diffuso per il trattamento delle vermene di ginestra, a oggi il processo migliore per la produzione di filato a scopo tessile sembra essere la macerazione microbiologica attuata mediante macerazione in vasca. Durante la prima fase del processo, i composti solubili presenti negli steli (zuccheri, sostanze azotate ecc.) passano in soluzione, permettendo lo sviluppo di una comunità batterica. La penetrazione dell’acqua all’interno degli steli causa il distacco della corteccia, consentendo l’ingresso dei batteri macerativi che demoliscono le sostanze pectiche cementanti le fibre. La macerazione microbica con aggiunta all’acqua del macero di batteri selezionati e in generale il controllo delle condizioni del processo macerativo producono una fibra più uniforme e di migliore qualità che è quella che oggi l’industria tessile richiede. Le operazioni successive alla macerazione sono la sfibratura manuale dei tessuti corticali dal legno sottostante, la battitura in acqua corrente dei fascetti di corteccia per favorire il distacco della cuticola e dell’epidermide fino a quando la fibra non acquisiva un colore perfettamente bianco, il lavaggio ed essiccazione al sole, la spatolatura manuale per allontanare le parti più grossolane da quelle più fini e infine la cardatura con pettini rudimentali per ottenere una fibra idonea a tessuti di una certa finezza.

SARTO

IERI:Quello del sarto era uno dei mestieri più antichi. Il sarto era un artigiano in grado di realizzare un abito, in tutti i suoi passaggi: dal modello al taglio della stoffa, dalle misurazioni, alle correzioni, alla cucitura, dalla rifinitura alla stiratura. La sua bravura consisteva nell’eseguire vari tipi di orli, tasche, colli, maniche e asole; ed essere capace di

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assemblare e confezionare le diverse parti dell’abito. Nelle diverse fasi era necessario utilizzare attrezzi come: il gesso, le forbici, lo squadro, la mezzaluna, il busto, il ferro da stiro a carbone, sostituito poi dal ferro da stiro elettrico e il cavalletto stirare. L’attività di lavoro si svolgeva nella bottega presso la quale si compiva anche una fase di apprendistato.

OGGI:Il mestiere del sarto non è mai stato abbandonato,

tutt’oggi praticato e con un adeguato aggiornamento si va identificando con la figura dello stilista.

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• Mestieri itineranti

OMBRELLAIO

IERI:Quello dell’ombrellaio era un mestiere che risale ai tempi più antichi. Dall’autunno egli annunciava la sua presenza girovagando tra le strade del paese in cerca di clienti per eseguire il loro lavoro dinanzi alle case dei richiedenti. Il compito di questo artigiano era di riparare e rattoppare gli ombrelli sostituendone bacchette rotte e manici

spezzati. Da ciò, ben si capisce che la maggior parte della clientela era la popolazione impossibilitata a comprare un nuovo ombrello.

OGGI: oggi del tutto scomparso.

STAGNINO, RAMAIO, CALDERAIO

IERI:Lo stagnino era dedito alla lavorazione del rame ottenendo utensili da cucina come pentole, paioli, secchi fino alle grondaie. Era uno specialista nel riparare e stagnare tutti i contenitori in rame, ferro e alluminio. Inoltre, stagnava caldaie, grandi pentoloni che servivano per scaldare il latte per ottenere formaggi, e secchi. Per fondere lo stagno, utilizzava un recipiente con beccuccio e lungo manico, il martello, la tenaglia, il mantice, ossia un soffietto per alimentare il fuoco. Inoltre, usava chiodi di rame che realizzava da solo. Era considerato un lavoro stagionale perché spesso lavorava lontano dalla propria casa per periodi che andavano dai pochi giorni ad alcuni mesi. Si raggruppavano talora in squadre dividendosi le zone di lavoro per evitare di farsi concorrenza, sempre seguiti da qualche apprendista, in genere un figlio cui era tramandato il mestiere coi suoi segreti.

OGGI: Mestieri scomparsi, laddove sopravvivono è grazie ad un sapere tramandato di generazione e praticato fra le mura domestiche.

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ARROTINO

IERI:L’arrotino svolgeva il proprio mestiere spostandosi con una sorta di biciclo-carretto dotato di una grossa ruota di legno, rivestita da un cerchione di ferro; il carretto, una volta giunto sul luogo di lavoro, veniva ribaltato su sé stesso e si trasformava nello strumento di lavoro. Alla ruota veniva agganciato un pedale con vari snodi, veniva fissata la cinghia di trasmissione del movimento alla mola e su una parte sporgente del carretto, l’arrotino fissava, poi, un secchiello con dell’acqua che sgocciolava sulla mola mediante

un piccolo rubinetto dosatore, con funzioni di lubrificante. Per arrotare un utensile, l’arrotino imprimeva alla ruota un movimento ben ritmato e continuo e con abili gesti delle mani lo passava sulla mola fino a che la lama non diventava tagliente. In questo modo l’artigiano era capace di affilare oltre ai classici coltelli, praticamente ogni tipo di lama come forbici di grandi o piccole dimensioni o prodotti d’acciaio come le forbici da seta fino ai coltelli da prosciutto, connotati da una lama particolarmente sottile.

OGGI:L’arrotino esiste ancora in alcuni centri anche se si è dotato di mezzi più moderni ma nell’insieme la struttura del congegno è identica a quella del passato, tutta via il tipico carretto si è trasformato in una bicicletta sul davanti della quale era applicata una ruota in pietra, collegata ai pedali con una cinghia, mentre ultimamente l’arrotino gira la città con un’automobile nel cui vano portabagagli vi sono una o più mole collegato all’albero di trasmissione e altre cose che possono servire per il proprio lavoro.

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• Mestieri di pubblica funzione

LEVATRICEIERI:La levatrice era colei che aiutava la donna a partorire poiché fino a non molto tempo fa si partoriva in casa e si era assistiti da questa figura che era anche comunemente detta “mammana”. La levatrice non era un medico, ma la portatrice di un sapere trasmesso di donna in donna.

OGGI:Oggi quest’antica professione la si può riscontrare con più alta competenza nella figura professionale dell’ostetrica.

BANDITOREIERI:Il banditore girava per le vie del paese con un carretto legato agli asini. Aveva la funzione di avvisare la gente sull’arrivo di ambulanti ed eventuali fatti accaduti. Annunciava l’arrivo in paese dei pannacciari, dei fruttivendoli, del pescivendolo. Inoltre aveva il compito di comunicare disposizioni dell’amministrazione comunale o avvisi della Chiesa, ma anche di privati cittadini. Oltre a questi principali impegni il banditore svolgeva anche altre mansioni, come consegnare la posta, tenere pulite le vie del paese, seppellire i morti e allontanare i cani randagi. La sua figura era chiaramente riconoscibile poiché indossava un berretto contraddistinto dalle iniziali “BP”, vale a dire banditore pubblico. Le comunicazioni erano annunciate a suon di trombetta e, ovviamente, in gergo dialettale, poi il passaparola faceva il resto.

OGGI:Nella società moderna in cui viviamo, il sistema di comunicazione è notevolmente cambiato, per cui, la figura del banditore è stata sostituita dalla pubblicità, dai manifesti, dai volantini, dagli sms, dalle email e dai mass media.

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CANTONIEREIERI:Il Cantoniere è colui che si occupava della manutenzione e controllo di un tratto di strada o di ferrovia. In passato il lavoro del cantoniere, come la maggior parte dei lavori manuali erano svolti a mano, quindi le strade come anche le ferrovie erano costruite a mano, con l’ausilio di attrezzi come la zappa, la vanga, ecc. Per il trasporto del terreno o delle pietre erano usati gli asini.

OGGI:Oggi a figura del cantoniere si può identificare nel personale A.N.A.S.

FONTANAROIERI:Con la fine della guerra e l’arrivo del cosiddetto “Boom Economico”, arrivarono anche alcuni benefici, tra questi troviamo l’arrivo dell’acquedotto pugliese. Nacque così una nuova figura professionale: il “fontanaro”. L’introduzione di questo nuovo mestiere consente alla maggior parte delle famiglie di poter usufruire dell’acqua potabile nella propria casa, cosa che fino a pochi anni prima era impensabile, dato che l’acqua veniva presa alle fontane sorgive con secchi e barili di legno.Gli strumenti utilizzati dal fontanaro erano: martelli, pinze, tenaglie, tubi.

OGGIQuesta figura è stata sostituita in pieno dal personale dell’azienda Acquedotto Lucano.

UFFICIALE ESATTORIALEIERI:L’Ufficiale Esattoriale era colui che aveva il compito di riscuotere le tasse.Chi svolgeva questo impiego pubblico doveva “portare i conforti della Legge” nelle case di molti paesi della zona. In genere erano i contadini a non voler pagare le tasse, e l’Ufficiale Esattoriale era costretto a pignorare qualcosa, ma poiché nelle case dei contadini si trovava soltanto il letto, non potevano far nulla perché il letto non si poteva prendere.Dovevano accontentarsi di una capra, di qualche piccione, di qualche bottiglia d’olio e di un po’ di farina. Questo impiego aveva un impatto socio-economico molto negativo.

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OGGI:Questo impiego è ormai scomparso, poiché adesso lo stato non designa più una persona che vada casa per casa a far pagare le tasse.Il pagamento delle tasse che spetta a ciascuno di noi è rilevato nei diversi uffici di

competenza e il pagamento delle stesse avviene con differenti modalità.

CONCILIATORE*

IERI:Il conciliatore fa capo alla figura del Giudice Conciliatore istituita con Regio Decreto 14 dicembre 1865, art. 179 n.2626 dell’Ordinamento Giudiziario del Regno d’Italia che prevedeva l’istituzione di un conciliatore di nomina regia(infatti nei registri viene ricordato Umberto Primo, per grazia di Dio e per volontà della Nazione) in ogni comune.Il Conciliatore, assistito da un segretario comunale, aveva il compito di compilare un registro dove venivano annotate le cause, di controversie minori (dipese da liti), che erano state richieste dai cittadini presentati in qualità di “attori” e “convenuti”.Da una prima lettura dei registri i cittadini sono presentati con il nome e cognome e il mestiere che svolgeva, per cui, da una ricerca più approfondita si potrebbero trovare informazioni più specifiche.

OGGI:Il conciliatore, oggi, è identificato nella figura del Mediatore Civile.

* Si rimanda alla nota storica a pag. 59

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Il “favellar” nei racconti dei borsisti

Caputo FrancescaSan Chirico Raparo

«Riscoprire in questa modernità lasciva e scoordinata la vita attiva degli uomini del passato è stata per me un’impresa pregna di orgoglio e affezione nei confronti delle informazioni emerse durante il periodo di ricerca assegnatoci. Il privilegio di poter svolgere un lavoro di ricostruzione storica di una generazione sepolta sotto la cappa dell’indifferenza e del raffreddamento sociale, nell’ambito di un progetto che ha riunito comuni in via di isolamento e invecchiamento, mi ha obbligato alla conoscenza di profili collettivi del tutto ignorati dai programmi culturali educativi, i quali, perseguitati dai concetti generali, tendono ad emarginare il particolare degli eventi. Basterebbe ricordarsi che anche la storia della nostra umanità emarginata dalle banali concezioni meridionaliste esiste ed è stata fatta e continuerà a essere forgiata dagli uomini stessi, dalle loro idee genuine ma anche corrotte; dalle loro invenzioni evolutive ma anche distruttive; dalle loro azioni concrete ma anche immorali, poiché la storia senza le fonti materiali dalle quali essa si sprigiona non sarebbe altro che un racconto monco, erroneamente affidato alla memoria oralmente tramandata. Detto ciò mi preme affermare che la partecipazione a questo lavoro mi ha permesso di conoscere le qualità dei protagonisti del progetto e di coloro che ne hanno curato ogni singola parte, poiché ciò che si produce dalla fusione di diverse realtà sconosciute, seppur vicine territorialmente, è sempre un arricchimento personale. Non posso inoltre non citare la condivisione delle emozioni ripercorse da chi ha vissuto in prima persona le esperienze lavorative e sociali di un passato non molto lontano, in altre parole di chi ha partecipato al “Laboratorio della Memoria”.Volendo, dunque, imprimere un giudizio personale a conclusione del progetto, intitolato “Il Passato Futuro”, e a termine delle ricerche sull’ambito socio-culturale affidatomi, cioè della riscoperta di antichi mestieri, altro non posso che sottolineare l’evidenza di ciò che è stato allontanato da noi dalla seconda metà del XX secolo: per disprezzo o vergogna? Per la brama di ricchezza o semplificazione della vita? Per l’acquisizione di mode e strumenti transitori? Per la scelta di tutto ciò che si svolge senza sforzo e talento?Per tutte le condizioni passate, che oggi le amministrazioni a forza vogliono riesumare e che probabilmente esse stesse hanno ostacolato, troppi quesiti irrisolti mi restano, per i quali nove mesi di studio non bastano a confermare una risposta concreta. Non si può quindi chiudere gli occhi di fronte al fatto che non vi è alcuna manifestazione della vita odierna che non rechi l’impronta del passato e che di tutti i beni di cui godiamo e dei progressi che vantiamo bisogna riconoscerne la loro origine di fondo».

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Di Biase Leonardo Aliano

«Con questo progetto si è voluto portare a conoscenza delle giovani e future generazioni quelle che furono le condizioni e le abitudini lavorative dei nostri antenati. Questo allo scopo di testimoniare e di valorizzare la memoria storica, riproponendo in chiave moderna qualche antico mestiere finito ormai nell’oblio, ma pur sempre in grado di creare occupazione, rilanciando l’economia dei nostri piccoli centri. Il problema della disoccupazione giovanile, specie nelle nostre zone, rappresenta una piaga di non trascurabile entità. L’impegno costante che mi sono prefisso grazie a questo progetto, consiste proprio nel favorire le condizioni ottimali per incoraggiare in noi giovani un atteggiamento mentale attivo, ossia imprenditoriale, attraverso la riscoperta e il rilancio di un mestiere che ha fatto la storia del mio Paese, quello dell’agricoltore.L’indotto economico prodotto dal rilancio del mestiere dell’agricoltore, in chiave moderna, si trasformerà inevitabilmente in occupazione, solo se ciascuno di noi saprà organizzarsi con spirito d’impresa e con flessibilità, ossia prefiggendosi obiettivi innovativi e lungimiranti, capaci cioè di inventarsi il lavoro leggendo il proprio territorio».

Di Buono IsabellaArmento

«Restare a bocca aperta nel sentire le spiegazioni degli anziani che spiegano come svolgevano alcuni mestieri tra tanta fatica e passione, vedere i loro occhi pieni di gioia nel raccontare e nel sentirsi protagonisti di un progetto, affannarsi a effettuare numerose ricerche sempre più approfondite….entusiasmo, partecipazione, meraviglia, nuove conoscenze, questo è stato tutto quello che quest’esperienza mi ha dato e attraverso questo libro spero di riuscire a trasmettervi, anche solo per un attimo, tutto ciò che per noi è stato “il nostro progetto”….Buona lettura!».

Di Pierro DanielaMissanello

«Questo viaggio nei luoghi della memoria attraverso i racconti popolari e attività di ricerca sulla storia della nostra gente è stato uno stimolo a ricucire la rottura con le tradizioni oggi purtroppo offuscate, soprattutto nei più giovani, dal progresso tecnologico. Sono stati mesi in cui il conseguente incontro generazionale, spesso condito da meraviglia e stupore, è stato sicuramente motivo di arricchimento personale. Il punto di arrivo è la doverosa riflessione su come il recupero culturale rinforzi l’identità di un luogo e il sentimento collettivo di appartenenza a esso».

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Grande CorneliaGuardia Perticara

«Durante il progetto “Il Passato Futuro” ho avuto modo di conoscere in linea di massima i mestieri che si svolgevano nel mio paese una volta.Ho scelto di approfondire e sviluppare i due mestieri che mi hanno affascinato maggiormente che sono: magliaia e calzolaio.È durante la fase del laboratorio della memoria che ho avuto modo di intervistare personalmente le persone anziane che praticavano questi mestieri una volta. Mi hanno raccontato di quanto fosse sacrificante il loro lavoro, data la mancanza di attrezzi adatti. La maggior parte del lavoro era svolto manualmente e questo richiedeva molto tempo. Iniziavano a lavorare alle prime luci dell’alba e finivano la sera tardi ma spesso il tempo non bastava dato il loro impegno anche in campagna, perché loro dovevano oltre ad imparare e svolgere un mestiere per portare qualche soldo a casa, anche andare ad aiutare i loro genitori.Mi raccontava zia Maddalena: che non avevano il tempo per andare a passeggio…ed io sorrido e capisco che avrebbe voluto dirmi che sono fortunata, siamo fortunati noi ragazzi di oggi…Non dobbiamo sacrificarci per sopravvivere, non siamo obbligati a svegliarci alle prime luci dell’alba…e soprattutto a noi non tocca quel duro lavoro…Durante questo corso ho imparato tanto, ho capito com’era la vita sociale ed economica una volta ed ho capito soprattutto perché molti dei valori sono andati persi.La cosa bella è che queste persone così umili, con tanta voglia di fare vogliono che il loro mestiere vada avanti, avrebbero voglia di insegnarlo a noi affinché non sia dimenticato.Io sarei propensa di impararlo e di portarlo avanti. È bello poter pensare di realizzare una maglia o una scarpa oggi, con le proprie mani, i propri gusti e la propria fantasia».

Manieri MelaniaSan Martino d’Agri

«Questa gratificante esperienza mi ha fatto scoprire antiche attività artigianali di cui ignoravo l’esistenza che in parte ancora sopravvivono, nelle aree interne della Basilicata e soprattutto grazie all’ostinazione di alcuni operatori che hanno continuato la tradizione dei loro padri, portando avanti l’attività senza compromessi».

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Serafini AntonioArmento

«Questo progetto è stato molto interessante per capire e ritrovare tracce di alcuni mestieri ormai poco praticati o scomparsi del tutto. Mi sono concentrato in particolare su due mestieri: il fabbro e il carbonaro. Il primo ancora oggi presente e praticato, il secondo invece scomparso completamente. Per prima cosa ho cominciato a fare ricerche su internet, ma le notizie trovate erano tutte molto simili. Poi ho iniziato a frequentare l’archivio comunale del mio paese. E’ stato bello “immergersi” in mezzo a decine di libri impolverati, trovare notizie più dettagliate, nomi, cognomi di persone vissute che hanno praticato quel mestiere e che non sapevo nemmeno l’esistenza. In seguito, con alcuni anziani del paese abbiamo dato vita ad un “laboratori della memoria”, dove essi ci hanno raccontato e spiegato i mestieri che praticavano da giovani. E’ stato bello ascoltarli e ripercorrere con gli anziani gli anni della loro giovinezza e vedere sui loro volti la felicità di ripercorrere quegli anni. Anche questa è stata un’esperienza molto bella e positiva. Quando ho deciso di partecipare a questo progetto ero un po’ scettico, perché non sapevo bene su cosa era incentrato, poi man mano mi sono ricreduto, il progetto mi è piaciuto e mi ha dato l’opportunità di conoscere cose che prima ignoravo del tutto o davo per scontato. Scoprire come alcuni mestieri, ancora oggi esistenti e praticati, hanno subito una trasformazione tecnologica nel corso degli anni. Secondo me questo progetto è stato molto utile per far sì che nulla vada perso, ed è importante che il ricordo rimanga sempre vivo».

Sinisgalli GiovanniGallicchio

«Oggi come oggi con i tempi che corrono credo che questa esperienza è stata di notevole aiuto anche per coloro i quali non intentano proseguire il percorso. In questi mesi di lavoro abbiamo imparato cose nuove, abbiamo conosciuto persone nuove è molto professionali come nel caso degli organizzatori, abbiamo fatto nuove amicizie… una bella esperienza. Ricordo un particolare che si è verificato durante il laboratorio della memoria; un nostro intervistato parlando del mestiere che egli ha svolto, ossia, il sarto disse: solo una volta mi è capitato di cucire un vestito in pochissimo tempo, non sapevo se le misure fossero giuste, ma sicuramente il cliente non aveva di che lamentarsi…era morto!».

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APPENDICE

“Laboratori della memoria”

Aliano

Si racconta dell’agricoltore……ai Tempi della Signora Maria, quando non c’erano le moderne attrezzature che consentivano di accelerare i processi produttivi, tutte le fasi del lavoro agricolo erano svolte a mano, e tutto ciò comportava una notevole fatica da parte dei contadini e un elevato dispendio di tempo.Le attività agricole svolte dalla Signora Maria s’incentravano essenzialmente sulla semina del grano e sulla raccolta delle olive.La mattina, la Signora Maria, come gli altri contadini del posto, partiva dal paese al buio, perché dovevano fare chi due, chi tre, chi quattro ore di strada per raggiungere il loro campo, verso i greti malsani dell’Agri e del Sauro, o sulle pendici dei monti lontani. In questa migrazione quotidiana, non potevano mancare l’asino e la capra, presenze costanti nella vita di un contadino. Erano tante le fasi che la Signora Maria, insieme al marito, dovevano svolgere prima di arrivare al tanto atteso raccolto del grano.Inizialmente rivoltavano il terreno con un aratro di legno trainata da un asino, e questa fase richiedeva alcuni mesi, specie se il campo era di grandi dimensioni, poi si passava alla semina del grano, fatta rigorosamente a mano. Una volta finita la semina, le speranze della Signora Maria e degli altri contadini, s’incentrava sulle preghiere alla Madonna che era la protettrice dei raccolti e la invocavano affinché piovesse. Quando il grano cominciava a crescere, si puliva con una piccola zappa, estirpando l’erbaccia per farlo crescere meglio.Alla fine c’era la mietitura che era fatta con una falce, si facevano dei covoni chiamati “usell” e si mettevano in fila per asciugare . Una volta asciutti, quando non c’era la “trebbia”, si portavano questi covoni con l’asino in un punto ben ventilato, e si passava alla “psatur ”, cioè si metteva una persona al centro dei covoni per tenere l’asino bendato che girando, li calpestava con gli zoccoli per far uscire il grano dalla spiga.Era importante il posto in cui erano portati i covoni per fare la “psatur”, poiché una volta uscito il grano dalla spiga veniva “vnduat”, ovvero con delle pale veniva smosso affinché il vento lo facesse rimanere pulito. Una volta pulito, la Signora Maria metteva il grano all’interno dei sacchi e lo portava in Paese con l’asino, e alla fine del raccolto, nonostante la stanchezza non si rinunciava a festeggiare.Un’altra attività svolta dalla Signora Maria era la raccolta delle olive che aveva inizio a Novembre era fatta con dei bastoni di legno chiamati “vrghacchii” adoperati dagli uomini per far cadere le olive dalla pianta, mentre le donne avevano il compito di raccoglierle per terra.Alla fine di ogni giornata, le olive erano portate all’interno di sacchi in Paese e venivano messe all’interno di un magazzino come punto di raccolta, per poi portarle al frantoio.Come la Signora Maria, anche gli altri contadini del Paese erano quasi tutti piccoli proprietari con il proprio pezzo di terra, dalla quale traevano sostentamento per andar

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avanti con la famiglia, e nessuno rinunciava a fare l’orto che quasi sempre era per uso familiare.Secondo la Signora Maria, questo mestiere tanto antico quanto nobile, in un territorio particolarmente predisposto all’agricoltura come quello di Aliano, non può essere abbandonato e perciò bisogna che i giovani non tralascino quest’ opportunità pensando solo ad emigrare˝.

Armento

Si racconta del fabbro……il signor Pietro Grande ci racconta il suo mestiere, ossia il fabbro. Lui racconta come prima questo mestiere era molto in voga ed erano diverse le persone che esercitavano questo mestiere nel Comune di Armento.Prima i maggiori clienti di questo mestiere erano i contadini, si costruivano attrezzi per l’agricoltura come aratri, zappe, vanghe, vomeri ecc. Il fabbro rappresentava anche un’altra figura, ossia quella del maniscalco. Chi possedeva animali (cavalli, asini e muli) destinati all’uso agricolo portava gli stessi dal fabbro per la ferratura degli zoccoli, che consisteva nel mettere un pezzo di ferro a forma di ”U” sotto lo zoccolo dell’animale stesso per migliorarne le capacità di trazione e non far usurare gli zoccoli.Il fabbro eseguiva anche lavori come il costruire serrature, ringhiere e inferriate per finestre. Il signor Pietro ci sottolinea che prima il lavoro veniva eseguito tutto a mano, solo grazie all’aiuto di pochi strumenti come le pinze, tenaglie, incudine e martello, mentre ora ci sono forme già pre-stampate e macchinari che semplificano il lavoro all’uomo.

Si racconta del carbonaio……non essendoci più carbonai vivi i signori presenti ci aiutano a ricostruire quello che era quest’ antico mestiere.S’iniziava tutto con il recarsi nel bosco, si sceglieva la macchia da tagliare, si puliva la zona e si creava una piazzuola dove si cominciava a costruire un cerchio con la legna, che poteva essere di tutti i tipi.Creato il cerchio si procedeva con l’innalzare una “cupola” e si ricopriva di foglie e terriccio, si lasciava un buco in cima per far uscire il fumo e far entrare l’aria per alimentare il fuoco. Dopo 8-10 giorni di cottura si apriva la “cupola” e si accatastava il carbone. L’uso era prevalentemente per i treni a vapore, ma era usato anche dai fabbri per alimentare la fucina e per uso domestico.

Si racconta del falegname…… Il sig. Filippo Dibuono e il sig. Filippo Manieri hanno riportato che per saper svolgere in modo corretto il mestiere del falegname ci volevano 5 anni di insegnamento. Nel passato nel nostro paese erano presenti molti artigiani, in grado di svolgere il proprio mestiere in maniera molto accurata portando a casa un buon guadagno. Essi inoltre hanno riportato informazioni riguardo alla stagionatura.Come primo passo il taglio della legna era effettuato a ‘‘luna mancante’’, perché facilitava

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la sua stagionatura, il legno era più resistente, non tarlava e veniva effettuato il taglio di alberi di castagno, perché la sua qualità è migliore. Una volta che gli alberi erano abbattuti venivano lasciati a terra nei boschi per facilitare la loro asciugatura, al sole. Dopo essi venivano trasportati dai muli, in magazzini freschi e venivano stagionati per almeno due anni. Questi magazzini erano situati accanto alle loro botteghe. Il lavoro veniva solto con diversi attrezzi:lo scalpello, che poteva essere di vari tipi; il martello; la pialla; la sega circolare e la sega a mano; lo sguzzin; la gubbia; la colla di pesce.

Si racconta del campanaro…… Per quanto riguarda il mestiere del campanaro, esso può essere definito un fabbro. Il suo lavoro era svolto su pezzi di lamiere nere. Attraverso questi pezzi faceva delle mezze lune,che venivano inchiodate e successivamente messe in delle vasche che contenevano il bronzo fuso. Era effettuata quest’operazione per dare alla campana ‘‘u n’tuon”, cioè questo permetteva alla campana di rintonare. Il materiale era preso dai fabbri. Dopo al suo interno era introdotto un piccolo aggeggio che faceva suonare la campana. Il campanaro costruiva essenzialmente campane per gli animali, mentre le campane della chiesa, le campanelle piccoline erano prese dai paesi.

Gallicchio

Si racconta del sarto…… i signori Ierardi Francesco e Robilotta Giuseppe, parlando del sarto, iniziano con il riferire quali erano i prodotti relativi al loro mestiere, quindi pantaloni, gilet, giacche, camicie, cappotti e a volte vestiti da sposa. Oltre a clienti del paese, erano riforniti anche clienti dei paesi limitrofi. Alcune volte capitava di confezionare vestiti per amici-clienti che risiedevano in Australia (le misure erano già in possesso del sarto) che ordinavano tramite corrispondenza. Per la spedizione si approfittava di alcune persone del posto che partivano alla volta dell’Australia. L’apprendistato durava in media 4-5 anni, e i nostri intervistati riferiscono di averlo iniziato all’età di 10-11 anni presso un maestro di Anzi sposato e trasferitosi in Gallicchio. L’apprendistato aveva un costo: 2000 lire che il maestro non spendeva, ma conservava, all’insaputa dell’apprendista, e restituiva alla fine del periodo di apprendimento. La prima fase di “avviamento” prevedeva il far abituare il dito medio (legandolo) a stare piegato perché avrebbe, in futuro, dovuto indossare il ditale per spingere l’ago. Si passava, poi, all’apprendimento del “supramman” una tecnica che prevedeva il passaggio del filo con conduzione a zig-zag sul pantalone. In seguito s’imparava il taglio dell’asola che avveniva tagliando un pezzo di stoffa e applicando “a’ vergolina” per una maggiore precisione. Dopo aver assimilato la tecnica del punto lento, si passava all’acquisizione della Piega, ma questo momento avveniva gradualmente, ovvero il “garzone” iniziava dalla piega dei pantaloni, poi passava ai gilet, in seguito alla giacca e come ultimo passo imparava il taglio. Un’altra fase di rilievo che veniva effettuata era l’imbottitura: veniva utilizzata una

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lana particolare ben pettinata a mano in modo che si sparpagliasse per bene per poi essere posta in mezzo a due stoffe. il tutto si adagiava per terra in modo che iniziasse l’imbastitura che cominciava dall’esterno per finire al centro con dei particolari disegni di abbellimento. La stoffa (a carico del cliente) veniva acquistata da commercianti di Moliterno o direttamente dai campionari. Dopo la scelta, la stoffa si metteva in un lenzuolo bagnato in modo che non si ritirasse dopo il confezionamento del vestito. Successivamente il sarto prendeva le misure del cliente e con delle proporzioni matematiche procedeva al taglio della stoffa. Per un vestito di velluto occorrevano circa 6,5 metri di tessuto. Iniziavano, dunque, le prove sul cliente e dopo l’imbastitura si faceva la prova finale, tranne che per i pantaloni che non venivano mai misurati. Durante la fase di taglio e imbastitura si doveva fare attenzione se dovevano essere lavorate stoffe con trame a quadri in quanto i quadri dovevano combaciare alla perfezione. I tempi di lavorazione erano di circa 4 giorni per un vestito Giacca-Gilet-pantalone lavorati a mano.

Se la lavorazione, invece, fosse stata effettuata a macchina il tempo si sarebbe ridotto a 24 ore. Quando vi era un aiutante, si riusciva a confezionare un vestito in, addirittura, un’ora. Il costo (nel 1948 circa) di un vestito erano di 2500 - 3000 lire a seconda del pregio. A Gallicchio questo mestiere non esiste più nonostante la richiesta di vestiti prodotti a mano di alcuni clienti.I nostri intervistati riferiscono che questo mestiere sarebbe riproponibile solo in un grosso centro e sono ben lieti di offrirsi come “Maestri” per nuovi “apprendisti”.

Guardia Perticara

Si racconta del calzolaio…… noi, a differenza delle donne, eravamo costretti a imparare un mestiere per sostenere economicamente la famiglia; e, si sa, ai miei tempi la figura maschile era considerata più rilevante di quella femminile, toccava a noi portare i soldi a casa affinché tutta la famiglia riuscisse ad arrivare alla fine del mese. S’imparava un dato mestiere da un maestro, il mio si chiamava Giuseppe Laudisio e svolgeva la professione di calzolaio. Dovetti iniziare il mio apprendistato all’età di quattordici anni e durò quattro anni. All’inizio il mio lavoro era limitato al taglio delle suole o del cuoio e, anche se pensavo fosse un compito semplice, mi accorsi che c’erano bisogno pazienza e precisione anche per fare semplicemente questo. Prima riuscivo ad apprendere una cosa e prima potevo passare a svolgerne un’altra, quindi ci mettevo impegno e passione. Furono lunghi anni di apprendimento ma ciò non toglie che furono molto soddisfacenti e mi diedero la possibilità di essere in grado di realizzare autonomamente delle scarpe. Ovviamente le richieste erano differenti a seconda che si trattasse di persone che vivevano in campagna o Signori che abitavano nel paese. La maggior parte dei miei clienti erano contadini. Dovevo creare loro delle scarpe forti, resistenti e allo stesso tempo comode e adatte al faticoso e giornaliero lavoro campagnolo. Di solito, compravo il cuoio a Corleto Perticara

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ma, a volte, anche ai mercati o alle fiere che si svolgevano a Guardia Perticara.

Per fare una scarpa avevo bisogno di un centimetro per misurare la pianta del piede e il collo del piede, se si trattava di scarpe un po’ più alte; come gli scarponi o gli stivali. Una volta tagliata con il coltello la suola e la tomaia, si adagiava quest’ultima “sulla forma” della scarpa per passare alla cucitura che era fatta con lo spago e l’aiuto delle setole di maiale. Seguiva poi la fase del montaggio durante la quale era unita la pelle con la suola. In linea di massima questo era il procedimento che serviva a realizzare un paio di scarpe. Nel 1954 un paio di scarpe costava cinquemila lire e ci si impiegava due giorni per realizzarli. Si potrebbe suggerire questo mestiere oggi ed io sarei disposto ad insegnarlo ai giovani ma essi devono tener conto del fatto che un paio di scarpe fatto manualmente costerebbe di più di quello comprato in un negozio e bisognerebbe sottoporsi ad un periodo lungo di apprendimento, che richiede impegno e sotto alcuni aspetti, fatica.

Si racconta della magliaia…… quando eravamo piccole, era abitudine stare molto tempo a casa per dedicarci alle attività domestiche o aiutare la mamma a cucinare, ma nei ritagli di tempo mi è sempre piaciuto lavorare ai ferri. Questa passione è cresciuta sempre più tanto da portarmi a svolgere la professione di magliaia. Avevo solo tredici anni quando l’idea di impegnarmi seriamente in questo, si è trasformata in qualcosa di concreto; ma come tutte le ragazze di quell’età, non immaginavo i sacrifici che potesse portare questo mestiere. Il lavoro si apprendeva da altre signore anziane ed esperte, le quali volevano trasmettere la loro stessa passione a ragazzine che, non potendo andare a scuola, avrebbero potuto continuare una “tradizione” importante e soddisfacente. Inizialmente i miei attrezzi erano soltanto i ferri. Provavo a “realizzare” maglie nonostante l’inesperienza. E questa mi portava a dover fare e disfare il lavoro più volte prima che ottenessi il risultato desiderato. Se in principio potevo accontentarmi di realizzare una semplice maglia, diventando esperta e sicura di ciò che avevo appreso con il tempo, riuscivo ad ottenere anche indumenti più complessi: gonne, guanti, sciarpe, completi per neonati, scialli. In seguito, iniziai a utilizzare l’apposita macchina che semplificava il lavoro e mi permetteva di recuperare tempo. A questo punto, divenne per me un vero e proprio lavoro. Infatti, erano sempre più le persone che si recavano da me affinché io accontentassi le loro più vaghe richieste e così iniziai ad avere dei clienti abituali. In un giorno mi era possibile realizzare due maglie che mi erano retribuite con cinquecento lire ognuna. Anche se paragonato ai sacrifici che il mio lavoro richiedeva continuamente, il guadagno non era eccellente, riuscivo in ogni modo a soddisfare le mie necessità, e nel 1964 riuscii a comprare una macchina per cucire più moderna che mi agevolò su più punti di vista: ora ero capace di soddisfare anche le richieste più minuziose ad esempio creavo delle immagini geometriche o dei motivi floreali che rendevano particolare o addirittura unico l’indumento. Vorrei che quest’ affascinante mestiere non si dimenticasse e sarei propensa ad impegnarmi per insegnarlo ai giovani di oggi sperando che ci mettano tutta la passione che avevo io.

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Missanello

Si racconta della tessitura della ginestra……l’ultima fase dei lavori volto al recupero della memoria storica ha visto porsi in essere Il “laboratorio della memoria”, tenutosi il giorno 22 luglio c.a. presso il comune di Missanello, a cui hanno partecipato i signori : Di Leo Paolo, Ciminelli Giovanni, Anna Parco e Carmela Izzo. Grazie alla loro testimonianza è stato possibile e chiarire alcuni punti sulle ricerche effettuate nelle fasi precedenti. Per quanto concerne la tessitura della ginestra è emerso che nel territorio di Missanello vi erano solo poche famiglie che utilizzavano tale pianta per ricavarne filato; è stato inoltre chiarito che a Missanello si procedeva solo alla raccolta e alla prima lavorazione della ginestra (veniva fatta macerare lasciandola , fermata dalle pietre, a bagno per sette giorni nelle acque del fiume , in tal modo veniva anche pulita, poi veniva battuta e si otteneva un filo bianco come il cotone) però il prodotto ottenuto dalla macerazione veniva portato a Sant’Arcangelo per essere tessuto, mentre il confezionamento per soddisfare i propri bisogni avveniva ad opera di chi aveva in precedenza raccolto e lavorato le piante. Dalla discussione si è evinto che una pratica di Missanello era la coltivazione, la filatura (con il fuso) e la tessitura del cotone e della lana (per quest’ultima si usava un telaio diverso e più grande). La maggior parte delle donne filavano il cotone nelle proprie case per i propri bisogni. In questa situazione è emersa la figura del cardatore di lana , “cardalano”, il quale avvalendosi del cardo , uno strumento con annessi dei chiodi, rendeva più soffice la lana ammassata e la puliva dagli acari e dalla polvere. Quella di Missanello era una popolazione contadina e una manodopera che un po’ tutti si apprestava a realizzare era costituita dalla costruzione di panieri di vimini da utilizzare per il trasporto, la conservazione e l’essiccazione dei prodotti della campagna. Chi si dedicava alla creazione di panieri in vimini (rametti flessibili, in dialetto detti “vinghie”,che si trovavano nei territori vicino al fiume ),era detto “panarar”. Il vimini veniva anche utilizzato per le coperture delle damigiane di vetro e per realizzare le sporte per gli animali da soma. Per quanto concerne la figura del barbiere questa era una figura professionale presente a Missanello, in uno stesso periodo il paese ne contava anche tre; si è ricordato che in passato chi faceva il barbiere era anche calzolaio o sarto. Gli arnesi che utilizzavano erano pochi e semplici:forbici, rasoio, pennello (per affilare la lama del rasoio questa si passava su una striscia di cuoio detta “strappa”) .

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San Chirico Raparo

Si racconta del mastro di cotto…Al laboratorio della memoria vi ha partecipato Alberto figlio di Antonio Durante, per gli amici “Antonj u furnaciar”. Nacque nel 1913 e svolse il suo mestiere fino al 1961-’63. È morto nel 1978.Alberto racconta che la fornace era una struttura in muratura fatta in pietra usata per la cottura delle argille a uso edilizio. La sua struttura aveva forma cilindrica ed era incavata in una costa. Presentava frontalmente un’apertura centrale larga circa 80cm dalla quale si caricavano dei prodotti in creta. Una volta riempita la fornace, l’apertura veniva murata con le pietre mentre dal varco della cima, che normalmente era aperto, si versavano 20- 30cm di terra affinché si otturasse il forno per mantenervi all’interno tutto il calore. Al disotto dell’apertura centrale, detta “portella”, c’era una sorta di camera di circa 1,50-2m nella quale si scendeva con la scaletta di legno per la preparazione della catasta di legna e fascine, la quale si accendeva di sera a fuoco lento e la mattina seguente si alimentava tenendola viva per 3-4 giorni. Antonio svolgeva il suo lavoro da solo ma quando bisognava alimentare il fuoco c’erano sempre almeno altre due persone perché durante la notte si vegliavano a rotazione ma soprattutto perché il momento della cottura era un procedimento altamente pericoloso. Le fornaci erano in contrada Galdo, in contrada Valle lupa e al Galese. Alberto ricorda come suo padre modellava embrici per coperture, mattoni e “mattunazz” per pavimentazioni e mattoni pieni per murature. L’embrice appariva come una lastra di creta a forma trapezoidale con gli orli dei due lati obliqui rialzati, mentre il mattone e i “mattunazz”, cioè quei mattoni più massicci, si facevano a forma quadrato o rettangolare. Le forme erano di legno, quelle per i mattoni pieni erano a due comparti mentre quelle per mattunazz e mattoni erano a comparto unico. Era in uso vergare con un chiodo o uno stecco di legno il nome del produttore sui pezzi tagliati, quando questi erano ancora molli, ma Antonio possedeva anche un timbro di fabbrica recante la scritta: Antonio Durante Fornaciaio (Potenza S. Chirico Raparo). Il padre di Alberto svolgeva anche il ruolo di carcararo, infatti, la carcara apparteneva alla stessa famiglia delle fornaci con la differenza che questa serviva alla cottura di pietre calcaree le quali, sottoposte ad alte temperature, dopo il raffreddamento erano fatte ribollire con acqua in una fossa e, trasformandosi in materiale fuso, davano come prodotto finito la calce. Le carcare si trovavano in fosso Ronciciello, in contrada Valle, in contrada Galdo, al fosso “li grutte”, a Cortignano, alla Spartosa, a SS Quaranta e a Garretto. Il giorno in cui si decideva di fare una carcara si pronunciava l’espressione tipica “jam a fucà!”. Antonio andava a prendere le pietre con Alberto nel torrente Racanello e da esso le trasportavano alla carcara sui muli con le tavolelle che facevano da sponda sopra ciò che si definiva “u mast”.Per ogni carcara si doveva nuovamente ricostruire la cupola di pietre. La calce, di colore bianco, era impiegata come collante nell’edilizia, per la pittura delle pareti domestiche o per disinfettare stalle e altri ambienti. Alberto ricorda che suo padre andava a preparare le carcare anche in altri paesi, ad esempio a Carboni, perché in zona non ce n’erano di esperti come lui. Nel corso della sua professione Antonio Durante non ha avuto discepoli

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cui insegnare il mestiere, in primo luogo perché dagli anni ‘60 si andavano affermando i prodotti industriali e quindi anche il cemento, in secondo luogo perché era un lavoro troppo pesante e pericoloso. Chi si occupava della legna sia per la fornace che per la carcara era Pasquale Rizzo, di professione boscaiolo, il collaboratore di Antonio a cui andava metà del guadagno dei prodotti venduti. L’argilla, Antonio e suo figlio, andava a raccoglierla in un fossato in Contrada Galdo. Riempivano i fusti, li caricavano sugli asini e li trasportavano alla fornace. Il materiale era poi scaricato in una buca procurata nel terreno e se ne ammorbidivano le zolle, miste ad acqua, attraverso la pigiatura a piedi nudi. Una volta pronta la pasta da modellare Antonio la sistemava nelle forme di legno, levigava e puliva le superfici dei pezzi da cuocere da sassolini o resti di foglie e pagliuzze, poi con l’uso di uno spago tagliava i pezzi, li distaccava dalla forma e li lasciava cadere a terra. Più pezzi messi insieme si “ammetavano”, cioè si sistemavano in modo ordinato per l’asciugatura che avveniva all’aperto nel giro di 3-4 giorni, in condizioni atmosferiche ottimali.Il lavoro del fornaciaio richiedeva una meticolosa manualità sia nella disposizione dei pezzi da cuocere sia nella preparazione della catasta da ardere e sia nella costanza sia bisognava far mantenere al fuoco. Solo per una fornace ci volevano dai dieci ai quindici giorni per ottenere 3000-4000 pezzi, dalle otto alle dieci canne di legna e in più 200-300 fascine per la fiamma, quindi circa 2600 euro di legna da ardere (Alberto ci fa notare che una canna di legna oggi varia tra 230,00-240,00 euro). Il mestiere del fornaciaio era un lavoro estivo perché già verso giugno cominciava la produzione, raramente in inverno gli commissionavano qualcosa. A proposito di questo Alberto ricorda un episodio legato alla sua adolescenza, episodio che gli fece capire che non avrebbe mai fatto più quel mestiere. Aveva sedici o forse diciotto anni quando in inverno andò a cercarli un signore a cui servivano 100 mattoni. Ogni mattone costava 500 Lire. Tutti e tre con la lambretta si recarono a lavoro, Alberto dovette viaggiare nel cassone, all’aperto, sia all’andata sia al ritorno. Faceva freddo e si congelò dalla testa ai piedi, stette molto male tanto da perdere la temporanea funzionalità delle mani. Fu così che si ripromise di non fare quel mestiere per nessuna cosa al mondo, ma ha fatto il muratore.La calce, invece, si vendeva a 800-900 Lire a quintale e solo una carcara, cioè solo un cumulo di pietre, produceva 30 quintali di calce. Ovviamente il guadagno bisognava dividerlo con il fornitore della legna. Ciò che viene da dire ad Alberto ai ragazzi oggi è che il mestiere di suo padre, concepito tale e quale a come si svolgeva all’epoca, risulterebbe prima di tutto inutile perché oggi le industrie edilizie producono moderni accessori e prodotti atti al soddisfacimento di nuovi bisogni, offrendo avanzati sistemi indispensabili per affrontare problematiche legate a situazioni ambientali drastiche come terremoti e altre avversità atmosferiche. In secondo luogo l’arte del fornaciaro e del carcararo, oltre ad essere difficoltosa e pericolosa, risulterebbe sicuramente costosa da tutti i punti di vista: dall’approvvigionamento della materia prima alla fornitura della legna; dalla lavorazione manuale alla manodopera, perché ai tempi d’oggi nessuno sceglierebbe di fare un mestiere così particolare da solo. Alberto personalmente non penserebbe mai di insegnare a un ragazzo come costruire un mattone perché, oltre al fatto che oggi i prodotti si trovano già tutti pronti nei negozi specifici, rispetto ad allora

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è cambiata anche la concezione del tempo. Prima non c’era tutta la frenesia che si vede oggi, non esistevano i veloci mezzi di comunicazione e le cose si facevano con il tempo che ci voleva, s’impegnavano giorni e giorni solo per una cosa, ora invece in un solo giorno devi fare più cose. Anche la dimostrazione è da escludere perché Alberto sa che ormai le fornaci sono andate distrutte e perse tra i pantani.

Si racconta dell’intagliatore di tufo…Battista è nato nel 1940, ha settantuno anni e ha svolto il mestiere del muratore per 53 anni, ma da ragazzino per sei anni ha fatto l’apprendistato presso suo zio Giuseppe che era maestro scalpellino.Battista ci racconta che ai suoi tempi vi era la necessità di dover trovare, arrivati a una certa età, un maestro presso il quale conseguire l’apprendistato del mestiere che si sceglieva di intraprendere. Giuseppe Rinaldi, con cui ha imparato il mestiere, aveva l’Impresa Edile, faceva lo scalpellino per passione ma già suo padre possedeva l’Impresa. Facevano tutto quanto apparteneva al campo delle costruzioni. All’epoca i Rinaldi avevano l’appalto della strada Provinciale -da ponte Battaglia, sotto Roccanova, fino a Moliterno-. Tutti quei ponti li facevano loro i quali erano specializzati nell’edilizia stradale ma suo zio Giuseppe lavorava bene la pietra sia per le murature che per i portali e i caminetti. Maggiormente erano apprendisti muratori, gli altri: falegnami, calzolai, fabbri, erano in minor numero. Non potevi fare da subito il muratore o un altro mestiere perché dovevi imparare i vari settori, gradualmente poi la manovalanza era gratuita, non ti davano niente, ti facevano lavorare solo per imparare il mestiere -così, dice Battista, se avevamo le tasche bucate non perdevamo nemmeno i soldi!. Pian piano cominciavi a mettere qualche “cazzuolata” sulle pareti, ma anche di nascosto. Loro, i maestri, erano gelosi se esibivi una certa bravura così ti ostacolavano per farti crescere lentamente e sfruttarti ancora di più. In quegli anni (anni ’50) le costruzioni erano interamente fatte di pietra, non esistevano blocchi e piastrelle, e la pietra doveva prima imparare a lavorarla e poi a metterla su con i leganti, cioè le malte provenienti dalle carcare locali. C’era chi diventava bravo già in tre-quattro anni e poteva prendersi gioco dei maestri andando all’estero, dove si trovavano subito il da farsi dietro retribuzione. Poi c’è stata un’emigrazione tremenda: chi in America, chi in Francia, chi in Belgio, chi in Germania, chi in Svizzera. I Sanchirichesi hanno fornito una ricca manovalanza al nord dell’Italia, solo qui di apprendisti tra il ’54 e il ‘56 ve ne erano una sessantina. Oggi, invece, non c’è più apprendistato per niente e Battista ci tiene a sottolineare che tra un pò si arriva al punto che per cambiare una tegola bisogna chiamare l’extracomunitario! Dunque, prima di mettere mano ad una muratura dovevano passare alcuni anni e nel frattempo imparavi a preparare i blocchi di travertino, quel materiale che comunemente si definisce tufo. Nel corso della sua attività Battista ha lavorato la pietra anche per costruire abbeveratoi di animali e qualche mortaio in pietra nera. Si usava anche la pietra bianca ma proveniva da Teggiano (Sa) e s’impiegava nell’edilizia, come quella con cui è stata costruita la facciata del cimitero, avente la caratteristica di essere molto dura e forte.

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Per produrre un mortaio attraverso dei tagli decisi con mazzotta e punta, si preparava il cubo da scolpire, su un cartone, intanto, era pronto il disegno dell’oggetto da porre su una faccia del cubo di pietra, se ne tracciavano i contorni con un pezzo di gesso e si cominciava a scolpire intorno al disegno con lo scalpello. Solo per un mortaio ci volevano due giorni.Per la costruzione di un blocco da muratura il tufo si recuperava nella piana di San Vito, nella Ricella e in contrada Magoronte. Il Monumento dei caduti in guerra, ad esempio, è costituito dalla pietra marmorata di S. Angelo al Raparo. Dalla Ricella i tufi erano portati in strada sugli asini, poi venivano caricati sul traino, cioè quel carro a due ruote trainato da asini o dai muli che erano più forti fisicamente per sopportare grossi carichi, da li i trainieri andavano a scaricare nei cantieri edili. Gli attrezzi usati per la lavorazione del tufo erano la martella pesante, costituita da una faccia liscia e l’altra a punta; la martellina a denti, con una faccia a taglio e l’altra dentellata (tipo pettine). C’erano della taglia pietra specializzati che sul luogo del giacimento della materia prima procuravano un primo taglio al masso di tufo, procedura detta “sgrossatura”, in modo tale da alleggerire il pezzo per renderlo maneggevole, poi tutti i pezzi messi insieme vanivano “accannati” e in questo modo si vendevano ai muratori per le costruzioni. Sui cantieri c’erano altri tagliatori che procedevano a una lavorazione più raffinata tanto da produrre un pezzo con base e facciata pronto per la muratura. Ancora più precisi e specializzati erano gli scalpellini, cioè chi rifiniva i grandi mattoni di tufo impiegati nelle murature dei palazzi nobiliari; nei portali ad arco; nei camini, per un lavoro raffinato ed elegante, eliminavano dunque le imperfezioni attraverso la punta e lo scalpello. Altro arnese per il raffinamento era il “mazzotto a buggiardo” con una faccia liscia e l’altra costituita da piccoli denti, simile a un batticarne, utilizzato con movimenti repentini e delicati nello stesso momento.Battista ha cominciato l’apprendistato a quattordici anni, per sei anni. Ricorda che si fabbricava solo casa lavoro, lavoro casa, o facevi quello oppure si era costretti ad andare in campagna e chi si dedicava alla coltivazione non poteva nemmeno definirsi proprietario terriero perché proprietario era solo chi possedeva grandi appezzamenti. Il rapporto tra i discepoli era bellissimo, alla sera senza farsi notare, dopo il lavoro, alcune volte i ragazzi giocavano.La giornata tipica non esisteva perché ogni giorno bisognava adoperarsi per fare cose nuove secondo gli ordini del maestro, non era come una catena di montaggio delle fabbriche per la quale si fa sempre la stessa cosa per ore ed ore, ma un giorno si armavano le strutture, un altro si muravano le finestre, e così via, la giornata tipica era un miscuglio di cose. Battista dice che ha cominciato a guadagnare solo dopo i sei anni di apprendistato, cioè quando si mise a lavorare da solo, ma poi è emigrato in Svizzera e lì ha vissuto per tredici anni. Percepiva il salario di contratto nazionale. All’epoca guadagnava 3 franchi e 35 all’ora, pari a circa 500-600 Lire. Un maestro qui a S. Chirico con famiglia a carico prendeva 1100-1200 Lire, là invece si guadagnava molto di più, infatti, c’erano i contratti di serie A,B,C in base al proprio livello di formazione. In Svizzera lavoravano dieci ore al giorno, escluso sabato e domenica, qui invece non c’era mai orario, e si godeva solo di un giorno libero a settimana senza poter nemmeno reclamare. A Ottobre-Novembre

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si lavorava anche al chiaro di luna, senza nessuna regola. Era un’organizzazione a delinquere!- dice sorridendo Battista.È tornato nel 1976 e ha fatto l’operaio alle dipendenze di altri per circa nove anni, poi ha voluto mettermi in proprio. Era già tutto molto cambiato, anche qui si cominciava a stare proprio bene. Si guadagnava attorno alle 8000 Lire al giorno. Non ha mai avuto discepoli perché nessuno ha voluto avvicinarsi a questo mestiere, perché i giovani andavano a scuola. Ormai negli anni ‘80 non era più come ai tempi suoi quando si frequentava al massimo fino alla quinta elementare. Così in ogni settore si perse la moda dell’apprendistato, e poi per fare il muratore bisognava esporsi alle intemperie, non era come per il sarto che tranquillamente lavorava al fresco o al caldo della sua botteghina. Era un lavoro stancante, ad esempio, qua a San Chirico, tra calanchi e dirupi i mezzi non potevano andare in tutti i posti, anche perché non ce n’erano, per questo motivo si scavava a mano per la costruzione delle fondamenta di un fabbricato e i materiali pian piano li portavano gli asini che comunque dovevano essere caricati e scaricati a mano. Le impalcature dei tempi dell’apprendistato erano di legno. S’infilavano dei grossi pali, detti “murali”, in buchi ricavati nella muratura, poi in senso trasversale si poggiavano le assi per salirci sopra. Questo tipo d’impalcatura è diventato illegale e quando Battista ha cominciato a fare il muratore per conto suo usava tavoloni di 4m di varie larghezze, utilizzava un cerchione di bicicletta per creare la carrucola, e tirare su i materiali. Anche le donne rappresentavano una buona parte di manovalanza, ad esempio per il trasporto dei materiali, dell’acqua, ecc. Ormai ci sono le molazze elettriche, le betoniere, i montacarichi che hanno sostituito ampiamente le braccia umane.Le case di prima erano solitamente fatte con le pietre di fiume, o tufo calcareo. Nel rione Torretta le case per la maggior parte furono costruite col materiale dell’antico castello andato in rovina. Se una famiglia possedeva due stanze, andava di lusso. La pavimentazione era fatta in mattoni di creta, 20cm x 20cm o 22-11 utilizzati anche per la muratura, quelli prodotti dai fornaciai. Poi sono uscite le mattonelle granigliate, i macinati di marmo che erano più igieniche, ma anche le pavimentazioni più antiche erano fatte di sassi di fiume.Battista ciò che consiglia ai giovani e che innanzitutto oggi devono studiare, perché la scuola è importante per muoversi in qualunque settore lavorativo e se non si ha un titolo, non si viene proprio considerati, in secondo luogo è favorevole all’idea che dovrebbe tornare di moda un pò di apprendistato perché oggi non c’è più un muratore, un sarto, un calzolaio, ma nemmeno più falegnami. Afferma che l’artigianato è importante e dovrebbe essere valorizzato come non lo è stato mai, anzi è sempre stato visto con inferiorità rispetto al mestiere del medico o dell’avvocato ma anche rispetto a un semplice impiegato comunale.In passato, quando stava bene, volentieri avrebbe insegnato il suo mestiere se glielo avesse chiesto qualche genitore per il proprio figlio o se qualche giovane si fosse presentato volontariamente, ma oggi non è proprio cosa perché gli anni e la salute non glielo permettono, poi afferma a malincuore che: i ragazzi delle nuove generazioni prima di imparare un mestiere dovrebbero trovare la volontà di lavorare, perché vedo che non c’è passione e nemmeno interesse a fare.

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San Martino d’Agri

Si racconta dell’impagliatore di sedie…

… La signora Maria Mobilio ci ha raccontato dell’esperienza diretta cha ha avuto poiché il padre morto circa 25 anni fa praticava questo mestiere con molta passione e spesso lei lo accompagnava a cercare la paglia alla “fiumara” una campagna di S. Martino D’Agri dove c’erano molti acquitrini ed era facile trovare la paglia adatta all’impagliatura della sedia chiamata “curaz” e impiegavano quasi tre ore di strada per raggiungere questo luogo. Il signor Pasquale Manieri ricorda però che quasi tutti un tempo si dilettavano a costruire oltre che sedie anche cesti di paglia e altri utensili necessari alle attività giornaliere. La signora Maria continua raccontandoci che la paglia che cresceva nei territori acquitrinosi era verde e affinché diventava gialle bisognava prima metterla a seccare al sole facendo attenzione che non si bruciasse poi veniva bagnata con dell’acqua e fatta asciugare, si raccoglieva a piccoli fasci e nel momento in cui la si utilizzava veniva bagnata nuovamente per renderla malleabile. Prima di iniziare l’impagliatura era indispensabile fare il telaio tramite quattro pezzi di legno che formavano un quadrato. Poi si prendevano tre fili di paglia e si attorcigliavano per creare un unico filo più resistente. La paglia era legata al telaio tramite un nodo, poi si creavano delle file principali prima in un senso e poi nell’altro successivamente si creavano vari tipi di disegni. L’impagliatore si occupava anche della riparazione di sedie rotte, per fare l’impagliatura della sedia Maria ricorda che il padre impiegava circa tre ore di lavoro e veniva pagato circa sei mila lire a sedia.

Si racconta del bottaio…

… Il signor Giovanni D’aquaro è stato l’ultimo maniscalco presente sul territorio di S. Martino D’Agri, pur non avendo mai fatto il mestiere del bottaio, ricorda bene come si costruivano le botti perché proprio di fronte la sua bottega c’era quella di Antonio Cicala il bottaio a cui spesso forniva il ferro necessario alla costruzione delle botti.Giovanni ricorda che il legno di castagno stagionato o di abete si procurava o andando direttamente nei boschi o lo acquistavano dai boscaioli. Si sceglievano i pezzi migliori e iniziava la segatura delle doghe ,poi tramite un coltello a due manici chiamato “chianozzo” si spianavano le doghe che venivano messe in appositi stampi e intorno sei cerchi di ferro fissati alle doghe tramite chiodi per creare la rotondità. In seguito si creavano i cosiddetti “tumbagn” vale a dire la base superiore e inferiore della botte, lungo la circonferenza delle basi era praticato un intaglio per inserire le doghe detto “scanatura”, le doghe venivano poi inserite nelle basi, affinché si modellassero veniva acceso un piccolo fuoco nella botte per rendere ancor più malleabile il legno. Successivamente tramite una fune si stringevano il più possibile le doghe in modo tale

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che la parte superiore e quella inferiore risultavano più strette. Nella parte superiore o inferiore era praticato un piccolo sportellino per poter pulire la botte dalle vinacce. Infine la botte era immersa nell’acqua per far ingrossare il legno per chiudere qualunque feritura. Giovanni ricorda anche che ancor prima di usare i cerchi di ferro per la preparazione delle botti si usava il legno ma la botte era meno resistente.

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Nota Storica*3

La figura del Giudice Conciliatore, Guglielmo De Pierro nell’Amministrazione della giustizia nel periodo risorgimentale.

L’unificazione italiana ha assunto grande valore sociale e politico in tutto il paese.L’intento dei legislatori fu quello di unificare non soltanto il territorio ma anche il popolo che vi viveva assicurandone, in una certa misura, la difesa degli abitanti. Da questo punto di vista furono decisivi i provvedimenti che hanno riguardato una riforma giudiziaria che andasse così a riempire dei vuoti legislativi in alcuni casi e a rafforzarne altri.E’ in questo senso che vogliamo accennare alla figura del Giudice Conciliatore, istituita nell’ordinamento giudiziario del Regno d’Italia e varato con il regio decreto del 6 dicem-bre 1865 n. 2626. Nel 1865, in ogni comune del Regno fu istituito l’Ufficio di conciliazione, la cui compe-tenza riguardava decisioni intorno a controversie minori.Questo giudice conciliatore era nominato dal re sulla base di una lista presentata dal Consiglio comunale, e restava in carica per tre anni.La legge, inoltre, stabiliva che il giudice poteva occuparsi di controversie di un valore non superiore a cento lire.Il regolamento prescriveva la funzione di cancelliere del conciliatore al segretario comu-nale. Quest’ultimo aveva la funzione di conservare i registri numerati e quindi vidimati dal pretore.Nel 1869 nel Comune di San Martino d’Agri l’Ufficio del Giudice Conciliatore fu ubicato nei locali del soppresso monastero dei frati Minori Osservanti.Il conciliatore che amministrò la giustizia nel comune di San Martino d’Agri nella secon-da metà dell’ottocento fu Guglielmo De Pierro, ricco possidente locale.La sua funzione era quella di trovare l’accordo tra le parti in causa. Contrasti che altri-menti avrebbero avuto conseguenze penali erano, invece, risolti con il pagamento da parte del trasgressore della somma indicata dall’autorità che amministrava la giustizia. Solitamente le questioni trattate riguardavano liti tra cittadini per motivi di ordine quo-tidiano.L’udienza si teneva alla presenza dell’attore(colui che veniva citato in giudizio).Raramente era presente un avvocato.Tuttavia è stata ritrovata negli atti del suddetto conciliatore una “comparsa conclusionale”(arringa finale dell’avvocato Giulio Gargia).

* Archivi Beni Culturali-siusa.archivi.beniculturali.it (scheda a cura della borsista Manieri Antonella)

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Scheda biografica di Guglielmo De Pierro *

Atto di nascita Dal Registro degli Atti di nascita- A norma del libro I Titolo II del Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte Prima-Leggi Civili- Dal primo gennaio a tutto il dì trentuno Di-cembre milleottocentotrentacinque, conservato presso l’Archivio Comunale apprendia-mo che Guglielmo De Pierro nacque il 22 agosto 1835, atto di nascita n. d’ordine 35.“ L’anno milleottocentotrentacinque il di ventidue del mese di agosto alle ore quattordici avanti di Noi Francesco Di Pierro Sindaco, ed Ufficiale dello Stato Civile del comune di San Martino distretto di Lagonegro provincia di Basilicata è comparsa Sofia Melfi figlia fu Andrea di anni ses-santadue di professione levatrice, domiciliata in San martino, la quale ci ha presentato un maschio secondocchè abbiamo ocularmente riconosciuto, ed ha dichiarato che lo stesso è nato da donna Teresa Mazziotta di anni trenta domiciliata col marito e da don Francesco Di Pierro suo marito legittimo di anni quaranta di professione medico domiciliato in San Martino nel giorno venti-due del mese di agosto anno corrente alle ore dieci nella casa di abitazione della Perpuera strada Partedestra(attuale via Garibaldi). La stessa ha inoltre dichiarato di dare al neonato il nome di Gerardo Alfonso Rocco Biase Guglielmo Maria. La presentazione e dichiarazione anzidetta si è fatta alla presenza di Domenico Di Frino di anni quarantotto, di professione bracciale regnicolo e di Pasquale Russo di anni quaranta di professione massaro regnicolo, domiciliato ivi, testimoni intervenuti al presente atto e da essa signora Sofia Melfi”. Nello stesso giorno di nascita fu amministrato il sacramento del Battesimo.(Registro degli atti di nascita-anno 1835, n. d’ordine 35, Archivio Comunale in San Mar-tino d’Agri).

Atto di Morte“A ore undici e minuti trenta del di sette(sette settembre 1911) nella casa posta in via Garibaldi al numero undici è morto Di Pierro Gerardo Alfonso Rocco Biase Guglielmo Maria chiamato Guglielmo di anni settantasei, Proprietario residente in questo comune , marito di Petruccelli Agnese”.

* Archivio Comunale San Martino d’Agri, Atti Ufficio di conciliazione 1893, Registro degli atti di nascita e morte anno 1911.

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CONCLUSIONI a cura del Partenariato

Gennaio 2010. Così lontano, così vicino. Noi Sindaci,per la precisione sette, sette so-gnatori di piccoli Comuni, tutti inferiori a duemila abitanti, molto più vicini a mille, unitamente ad un rappresentante del Parco Nazionale della Val d’Agri-Lagonegrese, del Parco letterario C. Levi e di Sviluppo Basilicata S. p. A., decidiamo di partecipare all’avviso pubblico della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della Gio-ventù e dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI). Con grande senso di responsabilità e animati da grande entusiasmo, nella ex Chiesa Madonna delle Grazie-S.Francesco in Missanello, con la benedizione della Madonna, padrona di casa, intorno ad un tavolo, mezzi infreddoliti, era gennaio, elaboriamo, insieme al nostro consulente, poi diventato coordinatore del progetto, la proposta da candidare, dal titolo: “il Passato Futuro.”Le esperienze del passato, quasi sempre negative, creavano in noi momenti di perplessi-tà. La viva intelligenza dei colleghi Sindaci e degli altri rappresentanti, convinti dell’op-portunità che si presentava, ma nello stesso momento di raccogliere la sfida per la rea-lizzazione di un progetto comune, tale da mettere in relazione i giovani dell’area (se ne contano 20, tra assegnatari di borse di studio e tecnici a vario titolo impegnati), è stata l’arma vincente e l’incipit di questa esaltante avventura. Ci abbiamo creduto ed abbiamo vinto. L’aspetto più seducente è che non ci sono vinti, ma solo vincitori. Abbiamo dato buona prova, tutti (borsisti, tutor, esperti, collaboratori) che è possibile elaborare e cantierizzare con successo progetti innovativi e di qualità. I prodotti finali sono veri contenitori di fatti e notizie, sviluppati con gusto grafico e cul-turalmente soddisfacente. Il risultato viene racchiuso in due pubblicazioni dal titolo: “lavorìo lento latente” e “dai mestieri del passato una opportunità per il futuro” . Due volumi che, appena se ne viene a contatto, emanano un fascino irripetibile ed una serie di emozioni uniche. La mano sul-la copertina dei mestieri, sicuramente di un giovane, forse un artigiano, rivela la forza fisica: brutale ed elegante; il soffio dell’anima sembra uscire dal corpo per librarsi verso l’infinito, trascinandosi dietro i sogni che solo la gioventù può regalare. Lo scalpello pronto a intagliare il legno, senza ferirlo, simile ad un uomo che posa la mano sul grem-bo materno. Un ossimoro: durezza e morbidezza, insieme, ad affermare la grandezza del pensiero umano. Di contro, sulla copertina del volume storico, le mani di una perso-na anziana: sofferente, ma non vinta. Dove al posto dell’entusiasmo e dell’impulsività prevale la saggezza e l’esperienza. La riflessione prende il posto dell’irruenza. E quello sguardo spento, seppure non visibile, dove i sogni sono, forse, solo un timido ricordo. Le rughe scavate nel viso simile alle ferite impresse dall’aratro nella nuda terra. La testa canuta incute timore e rispetto reverenziale per una vita vissuta all’ombra di sacrifici e di stenti. Vite consumate per costruire un futuro migliore per i propri figli: noi!Il contenuto di questi due volumetti rappresenta la storia di questi paesi. Scritta e inter-pretata dai nostri giovani, veri talenti nascosti, a cui questo progetto ha cercato di dare un minimo di credito e di visibiltà. Non so se ci siamo riusciti. Loro senz’altro sì.

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Una cosa è certa: gli avvenimenti narrati sono il frutto di attente ricerche condotte negli archivi comunali, parrocchiali e in altre agenzie dove sono custoditi i documenti origi-nali. Gli eventi narrati e le storie descritte non sono inquinate da stupidi ideologismi che portano il lettore a conclusioni errate; ma vengono esposti con la chiarezza che solo una mente pulita e sgombra da pregiudizi può evidenziare. L’esposizione è sobria ed avvol-gente. Il lettore ne resta subito affascinato ed incuriosito. Grazie a tutti i giovani per l’impegno profuso e per la fedeltà degli avvenimenti illustrati.I mestieri, un tempo molto diffusi nei nostri paesi, sono ormai un timido ricordo del passato. I giovani non sanno proprio della loro esistenza. Qualcuno ne ha sentito parlare dalle persone più avanti negli anni, ma senza la traccia del rigore artistico-scientifico. Con questo studio si fa chiarezza e viene marcata una traccia rigorosa, con ricchezza di dettagli, di come si lavoravano e si creavano vere opere d’arte con i materiali a dispo-sizione. Senza volere essere demagogici, il volume è da leggere e conservare nelle bi-blioteche scolastiche, comunali, provinciali e in ogni casa, poiché rappresenta una parte importante della storia dell’uomo. Provate a passeggiare in un qualsiasi centro storico dei nostri paesi. Si respira quella magica atmosfera inzuppata di sapori, suoni, colori, rumori, profumi e, con uno sforzo di immaginazione, si vedono i maestri del legno o del ferro all’opera, circondati da un numero imprecisato di ragazzini vogliosi di rubare i segreti del “mestiere”. Tra qualche lustro questa ricerca sarà materiale di consultazione per gli storici.Un vivo ringraziamento va anche alla struttura di segreteria del Comune di Missanello, che ha saputo mantenere in comunicazione costante i vari protagonisti relazionandosi con gusto nell’accoglienza e con professionalità durante il percorso di questa esaltante avventura.

Grazie a tutti.Senatro VIVOLI, Sindaco di Missanello - Comune capofila Franco Curto , Sindaco di ArmentoLuigi Di Lorenzo, Sindaco di AlianoPasquale Sinisgalli, Sindaco di GallicchioMassimo Caporeale, Sindaco di Guardia PerticaraClaudio Borneo, Sindaco di S.Chirico RaparoMichele Lammoglia , Sindaco di S.Martino d’AgriDomenico Totaro, Commissario Parco Nazionale Appennino lucano Val d’Agri Lago-negrese,Raffaele Ricciuti, Amministratore Unico di Sviluppo Basilicata S. p. A.

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Quando i piccoli comuni si spopolano sempre di più, due condizioni emergono sulle altre: l’invecchiamento della popolazione e la scarsa presenza di giovani.Allorché si verificano queste condizioni, il rischio di “chiusura” di tanti piccoli, ma indispensabili, presidi sui territori, diventa altissimo e, con esso, viene pregiudicata la prosecuzione stessa della vita, intesa soprattutto nella sua più ampia accezione sociale, economica, storica e culturale.E’ fondamentale, pertanto, investire nei pochi giovani rimasti, uniche risorse in grado di assicurare un futuro alle piccole comunità, senza mai dimenticare le radici storiche, culturali, sociali ed economiche che hanno contraddistinto secoli di vita.Consapevoli del ruolo da protagonista che va riconosciuto alle nuove e poco rappresentative generazioni, stimolati dalla sfida, i sindaci di sette piccoli comuni lucani (Aliano, Armento, Gallicchio, Guardia Perticara, Missanello, San Chirico Raparo e San Martino d’Agri), hanno ritenuto opportuno riunirsi e discutere per scegliere un tema di progetto coerente con le specificità di tutti i comuni. Da qui è nata l’iniziativa “Il Passato Futuro”, realizzato nell'ambito del progetto “Giovani Energie in Comune”, promosso dal Dipartimento della Gioventù - Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall'ANCI - Associazione Nazionale Comuni Italiani, che ha avuto come scopo il recupero della memoria, con il duplice intento di riportare alla luce gli episodi storici più significativi e gli antichi mestieri che hanno caratterizzato l’economia di un tempo. Il tutto per consegnare alle giovani generazioni dell’area la piena consapevolezza del patrimonio storico-culturale e socio-economico, nella migliore delle ipotesi non sufficientemente noto, ma suscettibile di interessanti sviluppi, anche nella prospettiva di offrire concrete opportunità di crescita ai giovani, sia in termini culturali che socio-economici.Attorno a questo progetto sono stati coinvolti altri quattro partner, uno dei quali (il Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese), al pari dei sette comuni, anche in qualità di cofinanziatore, due solo in qualità di partner di progetto (Sviluppo Basilicata S.p.A. ed il Parco Letterario Carlo Levi), l’ultimo (la Provincia di Potenza), in qualità di patrocinante.La presente pubblicazione restituisce la parte del progetto dedicata agli antichi mestieri, ed è frutto del lavoro di otto giovani residenti nei sopra elencati comuni, beneficiari di altrettante borse di studio, costantemente ed adeguatamente supportati dalla struttura di progetto appositamente costituita.

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Valentina Porfidio Editore