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JOANNA BRISCOE L’OSSESSIONE DI TE Traduzione di ANNALISA CREA

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Joanna Briscoe

L’ossessione di te

Traduzione diAnnAlisA CreA

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titolo originale dell’opera: You copyright © 2011 Joanna Briscoe all rights reserved.

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

traduzione di Annalisa Crea per Studio Editoriale Littera

realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

i edizione 2012

© 2012 - ediZioni PieMMe spa, Milano www.edizpiemme.it

anno 2012-2013-2014 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

stampa: Mondadori Printing s.p.a. - stabilimento nsM - cles (trento)

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Febbraio

“ci sono i fantasmi” pensò.Quando emersero dai sentieri sul tratto più elevato

della brughiera, cecilia capì che la bambina era ancora lì: lì, tra le ombre delle nuvole cariche di pioggia, lì, nel felceto.

Un tempo pensava che vivesse solo nella sua mente, un’immagine proiettata su carrozzine spinte da scono-sciuti passanti, su un lembo di vestito intravisto e sva-nito. invece la sua bambina era rimasta lì da allora, lì, dove soffiava il vento e le criniere dei pony ondeg-giavano come tante bandiere flosce. non se ne era mai andata.

Percorsero in auto chilometri di campagna – madre, padre e tre figlie –, fino a raggiungere un villaggio nella vallata di un fiume, nel bel mezzo della brughiera. Le ragazze si affrettarono a scendere dall’auto per avvici-narsi a piedi alla loro nuova casa, le più grandi legger-mente indispettite mentre alzavano i cellulari verso il cielo in cerca di campo, la più piccola ansiosa di cattu-rare un pony dartmoor. nell’aria echeggiavano suoni più puri e penetranti di qualsiasi altro avessero mai udito a Londra: lo scroscio dei ruscelli che scorrevano

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lungo la strada, il canto pieno e selvaggio di uccelli so-litari.

cecilia seguì le figlie, avviandosi verso la casa della sua infanzia. era sempre la stessa, incredibilmente, di-versa solo nelle distorsioni della memoria che si dissol-sero di fronte alla realtà di pietra che si trovò davanti. eppure percorse il viottolo che attraversava il giardino con l’esitazione di un’intrusa.

«È strano tornare?» le chiese la figlia di mezzo, sopra il fragore del fiume che scorreva alle loro spalle.

«no» mentì cecilia, accarezzandole i capelli e resi-stendo all’impulso di voltarsi e fuggire.

Giunta sotto il portico, aprì la porta, su cui il ba-tacchio sbatté con inquietante familiarità. in un attimo, aveva di nuovo diciassette anni: snella, onnipotente e impotente al tempo stesso. Quando mise piede dentro, il vecchio odore del fumo di legna sul granito, dimenti-cato malgrado i vent’anni trascorsi a rimuginare, le ri-fluì di colpo nelle vene e lei capì che, se era tornata nella sua vecchia casa per liberarsi di un fantasma, questi si sarebbe rivoltato e l’avrebbe trovata per primo. L’in-gresso sembrava macchiato da ciò che aveva fatto.

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La casa

La sua infanzia avrebbe dovuto essere innocente.Quando era bambina, cecilia Bannan si riteneva fe-

lice. Fu solo in seguito che si domandò se l’estremo isolamento di quegli anni e le sue percezioni quasi in-teramente fondate sui libri non l’avessero resa pericolo-samente ingenua. in quel luogo e in quel tempo, poteva accadere qualsiasi cosa. il grande esperimento libe-rale degli anni sessanta e settanta, pur con tutte le sue buone intenzioni, non era stato senza conseguenze. i bambini venivano ammassati in vecchie auto come ani-mali, lasciati scorrazzare nella brughiera, allevati ad ac-qua di fonte e riso integrale in compagnia di capre e idealisti vagabondi e, di tanto in tanto, uccisi dalle pa-ludi o da un trattore. in quel selvaggio eden in cui gli impulsi romantici potevano fiorire e prosperare, ceci-lia non si rendeva conto dell’intensità dei suoi desideri.

all’inizio degli anni settanta i suoi genitori, Patrick e dora Bannan, avevano acquistato quella casa fatiscente nel dartmoor con le sue appendici di fienili e capanni in fondo a un sentiero circondato da scarpate. L’edifi-cio, basso, con il tetto di paglia e i muri di pietra, le curve smussate dal vento e il portico tondeggiante, sembrava

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sonnecchiare e rigirarsi sulle fondamenta vecchie di ot-tocento anni. Patrick, penultimo figlio di una ricca fami-glia di industriali tessili dublinesi, e dora, nata dorothy, figlia di un preside del Kent, avevano deciso di trasfe-rirsi insieme alla famiglia sempre più numerosa nel cuore del devon, dove le comunità artistiche prosperavano e i bambini potevano crescere liberi da ogni convenzione.

dora, intenta a svuotare gli scatoloni, i recipienti fatti al tornio già pronti ad accogliere grappoli d’uva, i pen-nelli e i registratori sempre a portata di mano, il gatto tigrato con le sue zampe spalmate di burro diligente-mente acciambellato su una sedia a dondolo, sospirava davanti alla polvere e distribuiva baci ai figli discutendo del loro futuro in campagna. «Questo significa, amori miei, che potrete andare a nuotare tutti i giorni, anche d’inverno se volete. Potrete dipingere i muri, cavalcare i pony...»

indossava una gonna di velluto a coste con i bottoni su tutta la lunghezza e un maglione girocollo di lana grossa, i capelli chiari legati in una lunga treccia, e cuci-nava con un bambino in braccio. La luce delle candele ingigantiva le ombre delle tazze in quella cucina simile a una caverna, che si scaldava lentamente man mano che il vecchio fornello emetteva le prime ceneri della stagione; con i ganci per la carne che pendevano dal soffitto e la credenza che incombeva come una quer-cia sotto la quale i bambini scribacchiavano con i pen-narelli sull’angolo di un tavolo di inizio secolo talmente grande che non era mai stato spostato. cecilia, che al-lora era una bambina paffuta di appena tre anni, con il suo morbido vestitino di cotone e i robusti stivaletti, non osava avventurarsi oltre la cucina nel buio di stanze in cui avrebbe potuto perdersi e venire assalita dai fan-tasmi nascosti nell’ombra.

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La mattina presto lei e suo fratello maggiore apri-vano la finestra al rombo del fiume, ai lamenti di gufi lontani, ai pipistrelli e alle falene; una sorta di oscurità tridimensionale di cose viventi e collisioni fruscianti. sentiva che anche se avesse potuto correre per sempre sulle assi scricchiolanti del pavimento, sull’erba, nel fango, sull’ardesia, dentro gli armadi, lungo i corridoi, quel luogo non sarebbe mai finito, non ne avrebbe mai scoperto ogni anfratto, ogni segreto.

in seguito, guardandosi indietro, si domandò dove fossero allora coloro che avrebbe amato per tutta la vita. Uno era un uomo di ventidue anni, contro i suoi tre. L’altra non era ancora nata.

Poco dopo il trasloco dora e Patrick si resero conto che la semplice manutenzione della casa, acquistata con un mutuo rischioso e con la stessa precipitazione con cui si erano trovati l’un l’altra, avrebbe prosciugato tutte le loro risorse. così, quelle prime settimane si af-frettarono a riempire le stanze libere e i capanni di sco-nosciuti che vagavano per la brughiera in cerca di un al-loggio a buon mercato e spuntavano dal nulla quando giungeva loro voce di un fienile o uno studio o un lavo-retto o un bel panorama.

«chi è tutta questa gente?» chiedeva cecilia.«Vicini di casa» rispondeva evasivamente sua madre.«e perché vivono in casa nostra?»«solo un paio vivono con noi.»«Ma perché?»«Perché sì. Ma solo per un po’.»e invece gli uomini con le barbe fulve e le donne fili-

formi con i vestiti simili a grembiuli, gli hippy e gli arti-giani inzaccherati che si presentavano a Wind tor House restavano a lungo, impregnando l’aria di tabacco, goua-

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che e miso e pagando l’affitto in natura, con la maldestra costruzione di muri a secco, con il lavoro nei campi o con pentoloni di vin brûlé per una delle tante feste che nascevano spontaneamente. Per i figli dei Bannan, loro e le famiglie di contadini sparse sulle colline rappresen-tavano la civiltà.

cecilia, la secondogenita, era una bambina robu-sta con i capelli rossi e la bocca a cuore, un nasino a patata e una naturale dolcezza che conquistava i geni-tori e i loro amici. a quattro anni fu spedita in auto-bus alla scuola elementare del luogo, distante cinque chilometri, dove il fratello maggiore Benedict stava già felicemente evitando di imparare a leggere in mezzo a bambini analfabeti di dieci anni. annoiata dalle solite favole, cecilia scriveva storie di orfanelli mentre i suoi coetanei, ignorati dagli insegnanti, chiacchieravano e disegnavano, uscendo prima per andare a lavorare nei campi. il pomeriggio, a casa, Benedict, cecilia e tom, il fratello più piccolo, litigavano, dipingevano, cantic-chiavano, cucivano, tessevano e fabbricavano oggetti di legno, incoraggiati dalla sorridente dora, che non of-friva loro altre possibilità se non quella di dedicarsi alla creazione artistica. all’epoca, prima del grave errore, cecilia amava entrambi i genitori allo stesso modo.

«sei la mia matrioska» le diceva Patrick, il padre.«che vuol dire?»«che sei una bambolina. Guarda che occhioni e che

testolina tonda che hai.»La chiamava arrietty e darrell rivers, dai nomi delle

protagoniste dei libri che cecilia leggeva. amava la sua indole affettuosa e l’immaginazione sfrenata: la sua vi-sione distorta del mondo lo faceva ridere, mentre era fonte di lieve preoccupazione per dora. Patrick teneva

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in una delle camere da letto un vecchio flipper che do-veva essere preso a calci e pugni, un jukebox inaffida-bile all’ingresso e un’auto da corsa degli anni trenta ad ammuffire nel fienile. Fabbricava ceramiche che ven-deva ad amici e visitatori e riparava alla bell’e meglio gli alloggi degli inquilini; trasformava le conversazioni in poesie, ammaliando e irritando dora, che stava co-minciando a scacciare la consapevolezza strisciante che quel membro sin troppo affascinante di una ricca dina-stia irlandese fosse in realtà un buono a nulla. in un im-peto di iperattività, dora convertì il fienile più grande in un rifugio per artisti che prestavano la loro manodo-pera, e faceva pagare un affitto più elevato agli scrittori e agli scultori londinesi, avvalendosi dell’aiuto delle ra-gazze del paese per cambiare le lenzuola marrone scuro. Patrick, dal canto suo, sognava di aprire una scuola di ceramica estiva.

a otto anni cecilia sedeva nella sua stanza monacale affacciata sul giardino di Wind tor House in balia del raffreddore da fieno e immersa nella lettura di Sotto il pavimento, I bambini della ferrovia e La piccola princi-pessa. aveva ancora la carnagione lattea e le lentiggini tipiche delle rosse. era ferocemente determinata a ec-cellere: scoprendo un tesoro; diventando una specie di enfant prodige; incontrando il suo Heathcliff nella bru-ghiera desolata.

“devo trovare un lavoro” pensava, preoccupata per le sorti economiche della sua famiglia. Fece una pro-messa e le parve di vederla librarsi nell’aria e atterrare in cima a corndon tor. si domandò se avrebbe potuto guadagnare un salario decente durante la stagione de-gli spettacoli estivi come facevano le tre orfanelle Posy, Petrova e Pauline Fossil in Scarpe da ballo; ma un im-

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pegno professionale avrebbe richiesto una formazione presso un’accademia o la partecipazione a seminari, te-nuti preferibilmente da un russo, e lei non sapeva dove trovarne uno. a Widecombe c’erano corsi di danza classica? avrebbe dovuto informarsi il più presto possi-bile presso la Wells di Londra.

Lezioni di danza classica: un’ora durante la settimana, tre il sabato e la domenica scrisse sulla lavagnetta sopra il letto. suo padre non sembrava avere un lavoro normale come tutti gli altri. Sii buona appuntò nella sua calligra-fia segreta su un angolo della lavagna, perché se Beth March riusciva a essere così buona, ma così buona, lei poteva almeno provare a tenere a bada la sua natura imperfetta. Fa’ sempre meglio! – Emily Brontë. Aiuta la mamma aggiunse poi. sara crewe aveva lavorato come una schiava trascinando secchi pieni di carbone per Miss Minchin nella Piccola principessa, sempre a te-sta alta, quindi lei poteva aiutare la sua povera mamma, oberata di lavoro, a spazzare le ceneri della stufa e dedi-care un’ora al giorno dopo i compiti e la danza a pulire, occuparsi del fratellino e trasportare i ciocchi di legna.

Scuola circense scrisse dubbiosa, pensando che ma-gari avrebbe potuto guadagnare un po’ di soldi lavo-rando in un circo. non aveva idea di dove si potesse imparare la loro arte, né dove trovare un circo con cui scappare via, ma la maggior parte dei loro inquilini sa-peva fare numeri di giocoleria e poi lei avrebbe potuto esercitarsi con i salti mortali.

Pattinaggio su ghiaccio. Le passò davanti agli occhi una ragazza con un manicotto bianco che aveva visto sulla rivista di fumetti Bunty, la gamba sollevata verso il cielo stellato. se avesse lavorato sodo e mostrato del talento, come la Gretel di Pattini d’argento, avrebbe potuto imparare le figure principali prima della fine

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dell’anno. «Basta poltrire» mormorò. chissà perché si diceva così, poi...

Pianoforte: un’ora; quattro nei weekend scrisse, e quello avrebbe potuto farlo, perché nella chiesa di Wi-decombe c’era una vecchia signora che insegnava le scale a chiunque desiderasse imparare, e cecilia lo de-siderava. sua madre avrebbe potuto integrare quelle lezioni, visto che aveva già cominciato a insegnarle a suonare il violoncello. suo padre modellava e cuoceva ceramiche nel fienile, ma dove le vendeva?

Ceramiche annotò, non sapendo come esprimere il suo imperativo commerciale. avrebbe potuto fabbri-care ciotole, preparare toffee e sciroppo d’acero e ven-dere limonata dalla finestra ai ciclisti di passaggio.

i lupi ululavano nelle lande incolte, con i loro oc-chi gialli. L’acqua defluiva dai campi, gorgogliava sotto il sentiero e si incanalava nel fosso davanti al giardino. La nebbia che arrivava dalla brughiera poteva soffocare agnelli e bambini. spiriti e demoni risalivano il fiume dart e i contrabbandieri si mandavano segnali in mezzo alle ginestre. sarebbe stato meglio se avesse trovato un tesoro sepolto. altrimenti come avrebbero potuto sfug-gire alla povertà? e se fossero stati costretti a fare il lu-cido da scarpe con la fuliggine e i vestiti con le tende? rabbrividì di piacere al pensiero della sua tragica sorte. immaginò di essere in classe, in piedi, rigida come uno stoccafisso e impossibilitata a sedersi per via dell’abito di broccato, con gli altri bambini che ridevano, la spin-tonavano e le tiravano i capelli, e la preside che la con-vocava nel suo ufficio per informarla che i suoi genitori erano morti.

a Wind tor House il caos regnava sovrano: camere libere, stanze per gli attrezzi, laboratori di ceramica,

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cottage e fienili erano pieni zeppi di inquilini che pa-gavano un affitto, scroccavano, barattavano. all’ora del tè sbucavano puntualmente nove bambini del vi-cinato, i cui genitori non sapevano dove si trovassero; durante l’estate si facevano strada nel fango carovane di studenti in cerca di lavoro nei fienili degli artisti, se-guendo la scia di patchouli e vestiti umidi. Lo stereo di Patrick suonava a tutto volume senza che nessuno si la-mentasse; i cottage sonnecchiavano sulla riva del fiume; gli uccelli cinguettavano; i Beatles riecheggiavano nella vallata. c’erano delle feste: quella di natale, con gli ospiti che arrivavano a cavallo o a bordo di vecchie Land rover che slittavano nel fango, e quella estiva, che finiva sempre al fiume, con gli adulti che facevano il bagno nudi per poi stendersi sull’erba. Patrick pren-deva la chitarra e i bambini, ubriachi, rincorrevano i pony a notte fonda. era tutto esagerato, troppo selvag-gio, troppo libero, pensava a volte cecilia, spaventata.

«devo darvi una notizia» annunciò dora una sera d’estate, con un’allegria che dissimulava la stanchezza.

«ah sì?» esclamò Patrick alzando la testa, la bocca contratta in una smorfia preoccupata che cancellò con visibile sforzo.

«Ho trovato un lavoro. insegnante di musica alla Haye House... stipendio fisso» aggiunse poi, visto che Patrick non dava segni di reazione.

Lui rimase in silenzio. Poi fece un sospiro e disse: «Proprio una bella notizia».

Patrick, che allora aveva circa trentacinque anni e già emanava chiari segnali di delusione, era stato aper-tamente declassato. La fiducia radicata nell’agiatezza della sua famiglia d’origine e nel fascino personale coz-zava quotidianamente con la realtà, per poi risorgere la

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sera con la musica e la compagnia o in mezzo ai bam-bini, suoi fedeli alleati. nel tentativo maldestro di sfug-gire a un impiego nella fabbrica che aveva sostentato tre generazioni della sua famiglia, aveva studiato da contabile a dublino, ma non aveva mai praticato. a dif-ferenza dei suoi fratelli, più imponenti e rossi di capelli, che partecipavano senza riserve all’attività di famiglia, lui, il ribelle fisicamente più minuto ma mentalmente più agile, stava cominciando a vacillare, in un imba-razzo tangibile come un velo di sudore nervoso sotto la sua antica spensieratezza, la sua sostanziale filantro-pia. i capelli castani iniziavano a ingrigirsi. sapeva che mancava di forza di volontà e che avrebbe dovuto per-severare nella sua precedente carriera, ma gli sembrava già troppo tardi. sua moglie era infinitamente più prag-matica.

«riduzione della retta per i figli degli insegnanti» continuò dora cercando di controllarsi e lanciando un’occhiata ai volti attenti dei tre bambini seduti in-torno al tavolo. «riduzione considerevole.»

«Haye House?» chiese cecilia in tono diffidente.«Haye House» rispose dora, senza più nascondere il

suo compiacimento.

La Haye House, la scuola progressista a una quin-dicina di chilometri a sud di Wind tor House, dove il fiume dart si allargava dando vita a una marcita e a una sorta di giardino riparato, era l’istituto a cui ambivano di più i Bannan e i loro amici bohémien sparsi nella brughiera. era il loro ideale sociale e scolastico. i geni-tori di Patrick avevano colto al volo l’opportunità di of-frire ai nipoti un’istruzione privata e si erano già offerti di pagare la retta ridotta.

La scuola era famosa, o forse famigerata: i figli natu-

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rali di rockstar sul viale del tramonto si mischiavano al-legramente ai fratellastri legittimi dai nomi stravaganti; i rampolli di dinastie europee in declino e di famiglie di ex coloni andavano a braccetto con i figli di agiate famiglie locali dotate di una visione artistica o origi-nale dell’istruzione, o di coloro che erano più sempli-cemente impregnati della tolleranza dell’epoca. Hippy squattrinati con le conoscenze e le credenziali giuste – un tono di voce, una familiarità con il plettro, un istinto invisibile ma spiccato per il nepotismo – riusci-vano ad assicurarsi cospicue sovvenzioni per la loro su-dicia prole, con sommo disappunto dei genitori più industriosi. nel corso degli anni, incidenti, precoci contratti musicali, tossicodipendenze e il frequente ri-corso a psicologi infantili avevano scosso ulteriormente la già turbolenta vita scolastica.

cecilia notò le occhiaie della madre mentre dava la notizia alla famiglia. «sei stanca» osservò, e dora si af-flosciò un istante prima di raddrizzarsi e baciare la te-stolina della figlia che si era sempre presa la responsabi-lità della fragile armonia familiare come se fosse la più grande, mentre il primogenito la schivava allegramente.

«sei un tesoro» disse dora in un soffio. «che ne pensi? secondo me ti piacerà da morire.»

cecilia abbassò gli occhi. trascorreva le serate a pre-disporre il suo piano di fare domanda per una borsa di studio in una scuola come quella delle Torri di Malory, con divise, studenti anziani, medaglie e bandiere a fe-sta. Ma non aveva ancora osato comunicare ai genitori le sue aspirazioni. «devo andare alla Haye House?» chiese con voce talmente sommessa che nessuno la udì.

«dunque, io...» cominciò cecilia durante la loro prima visita alla Haye House, desiderando spiegare ai

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genitori che aveva accarezzato altre speranze. Ma non riuscì a trovare le parole. sarebbe stato come preferire il catechismo al corso di teatro, o una torta sacher ai biscotti fatti in casa. Perché la Haye House era quello che voleva, ovviamente. era il sogno di ogni ragazzino: fumo e macchie di marmellata, kayak e arrampicata. ed eccoli, ammassati in macchina, a sfrecciare lungo sen-tieri costeggiati da alte siepi, spesso bloccati dalla neve e da ingorghi di pony selvaggi, e ad attraversare tun-nel di verde che conducevano al dart. cecilia guardava fuori dal finestrino: una rossa dalla pelle chiara che an-dava incontro a un muro di foglie con tutte le opportu-nità del mondo ad aspettarla.

«ehi, ragazzi, fate pure un giro, guardatevi intorno, avete tutto il tempo che volete» disse un insegnante chiamato idris, ma il cui vero nome era ian, ai nuovi al-lievi appena arrivati. «divertitevi» aggiunse.

James dahl non insegnava ancora lì, ma cecilia si domandò in seguito se, per caso, lo avesse intravisto quel giorno: poteva essere andato a trovare gli amici di sua moglie al dipartimento di arte. Frugò spesso nella memoria in cerca di una traccia di lui tra gli alberi e i maglioni a strisce, come se rincorresse la figura sfug-gente di un sogno.

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Febbraio

La sera in cui tornò a Wind tor House, cecilia abbrac-ciò a lungo ari, il padre delle sue figlie. Lei aveva i ca-pelli più scuri, ora, e la carnagione da rossa, con la sua tendenza a coprirsi di lentiggini, era soggetta a occhiaie, mentre la pelle aderiva in modo meno elastico alle ossa, per cui i lineamenti del suo viso somigliavano solo lon-tanamente a quelli dell’infanzia. appoggiò la testa sulla spalla di ari, incapace di esprimere a lui o a chiunque altro l’aspetto claustrofobico e in qualche modo umi-liante del fare un passo indietro e tornare a casa. Pro-vava un indefinibile senso di fallimento. istintivamente, desiderava evitare i coetanei che vivevano lì, come se avesse ancora qualcosa da dimostrare.

era stata una sua scelta, si disse. certo, le circostanze avevano contribuito alla decisione, ma l’ultima parola era stata la sua. eppure la campagna le sembrava estra-nea, e ciò la rendeva insolitamente timorosa di fronte a quell’isolamento, al silenzio assordante e alla vici-nanza della madre, che viveva in un cottage dietro la casa, al di là dell’orto. ora che si trovava lì, si sentì in-vadere dal terrore al pensiero di ciò che le avrebbe chiesto, e quando. era stato facile immaginare di avvi-cinarla quando era ancora a Londra, ma la semplice vi-

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sta di dora in giardino le suscitava un rimorso e un’av-versione che la facevano irrigidire all’istante.

cecilia fece strada ad ari nei corridoi fiocamente il-luminati, aprendo le porte e canzonandolo quando chi-nava la testa e inciampava sul pavimento irregolare o su qualche scalino, mentre le ragazze correvano rumoro-samente al piano di sotto.

«Questa era la stanza dei miei genitori; questa era la mia... e questa era quella del bebè» disse entrando in una piccola camera da letto in fondo alla casa.

«come?» chiese bruscamente ari, voltandosi verso di lei nella penombra.

cecilia lo guardò confusa.«non cominciare» sibilò lui, il volto contratto.Lei esitò. «ari... intendevo la stanza del mio fratello

minore. Quando era piccolo.»Lui tacque un istante. «okay, okay» disse poi, al-

zando le mani. «Perdonami. continuiamo.»«dio mio, ari» mormorò cecilia.«scusa.»ripresero il giro in un silenzio teso.«certo che è strano, ragazza di campagna» esclamò

ari in tono più leggero chinando il capo sotto l’archi-trave di un ballatoio dove l’aria era densa di fumo di pino e i vetri delle finestrelle vibravano per il vento. «dove sono le sirene? e i ragazzini vestiti da rapper? dov’è il camion della raccolta differenziata? il rumore del vetro infranto e le parolacce?»

cecilia tacque.«Be’?»«non so se ce la faccio» sbottò lei fermandosi, pren-

dendogli il braccio e accarezzandolo distrattamente. «È davvero strano. abbiamo fatto un errore?» chiese,

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lanciando un’occhiata al cottage di dora, seminasco-sto da una siepe al di là dell’orto. deglutì. «sono una pazza a essere voluta tornare? Portandomi dietro tutti voi, poi!»

«ormai è troppo tardi... ma va tutto bene» la rassi-curò ari stringendole la nuca.

«devo occuparmi di lei» disse cecilia, guardando di nuovo il cottage. «non so se si riprenderà davvero, no-nostante quello che dice...»

«Ma certo.»«non puoi saperlo.»«devi essere coraggiosa.»«Ma lo sono!» esclamò lei.«Questo è poco ma sicuro» annuì lui. «coraggiosa e

irascibile.»«non è vero.» appoggiò la testa sul petto di ari e le ricadde sul viso

una ciocca dei capelli ramati e ondulati lunghi fino alle spalle. era vestita di nero e rosa antico, e in quel luogo di fienili fatiscenti e intonaco umido aveva un’aria de-cisamente urbana; era più definita e asciutta della bam-bina vivace e vaga che era un tempo.

«devo andare» disse ari con riluttanza, mentre si fa-ceva buio.

«Lo so.»cecilia sentì l’impulso di trattenerlo, o anche solo di

chiedergli di restare, ma durante la settimana lui do-veva tornare a Londra per lavoro, almeno fino a giugno, quando avrebbe finalmente iniziato l’agognato incarico presso l’università di exeter. Lei, invece, sarebbe rima-sta lì con le figlie a scrivere il suo ultimo libro per bam-bini. Guardò da una finestra del soggiorno i fari della macchina di ari allontanarsi e non si mosse anche dopo che la luce fu inghiottita dagli alberi, finché non riuscì

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a vedere altro che i rami ricoperti di licheni che si sta-gliavano nel buio. i termosifoni facevano un rumore metallico ma rimanevano tiepidi e i mobili sembravano rannicchiarsi negli angoli delle stanze all’improvviso troppo grandi.

«torna» mormorò.

andò a dormire molto dopo le figlie, rabbrividendo e cercando a tastoni gli interruttori della luce. imma-ginò ari in macchina, lungo l’autostrada. Faceva un freddo tremendo.

Un cigolio in fondo alla stanza sembrò fare eco alle sue parole. aveva già la sensazione di dover ricacciare indietro animali e fantasmi.

aveva dimenticato che il buio della campagna era as-soluto. La casa, con il suo intonaco cadente e le travi scricchiolanti, l’umidità e la pietra, sembrava viva. da bambina teneva la testa sotto le coperte, terrorizzata: quel posto era troppo pieno di ombre e delle tracce di vite passate per contenere solo aria.

si sentiva il fragore del fiume e i tetti di paglia dei cot-tage gocciolavano in fondo alla valle; Wind tor House era circondata da ruscelli, le cui acque defluivano dai campi, riversandosi sotto il sentiero. con l’eccezione di sua madre e di una vecchia coppia vicino al ponte, ce-cilia non conosceva più nessuno dei suoi vicini in quel remoto villaggio.

si stese sul letto e cercò di dormire. era mezzanotte passata. Pensò alla grossa serratura a scatto della porta d’ingresso e all’abitudine della gente di campagna di non chiudere a chiave. il quadrante luminoso dell’oro-logio segnava l’ora: cinquanta minuti passarono tra un brivido e l’altro. Frammenti dell’infanzia si ripresen-tarono alla sua mente in immagini distorte, e si disse

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per l’ennesima volta che tornare in quella casa era stata una follia, indipendentemente dal lavoro di ari, dalle condizioni di salute di dora e dall’urgenza di liberarsi dei suoi spettri. non avrebbe mai trovato pace, aveva pensato a volte nel corso degli anni, finché non fosse tornata.

Malgrado la maternità e l’esperienza dell’età adulta, si rese conto di essere rimasta imprigionata in quel tempo lontano, con le sue emozioni ferme agli anni dell’adolescenza, e i valori e le fonti di eccitazione di quel periodo che continuavano a influenzarla.

alzò gli occhi a cercare il soffitto nell’oscurità. Un velo grigio cominciò a scendere sulla sua coscienza. a un tratto udì dei passi sul sentiero, che era poco più di un viottolo accidentato tra il giardino e il fiume, e av-volse il suono nel dormiveglia: stava troppo bene sotto le coperte.

Poi li udì di nuovo. si tirò su a sedere e rimase immo-bile, in attesa. Passarono i minuti.

si alzò rabbrividendo e si impose di avanzare a ten-toni verso la finestra. scostò le lenzuola che lei e ari avevano attaccato ai bastoni per le tende e si sedette sul davanzale, avvicinando il viso al vetro e scorgendo lembi di nuvole in movimento nel blu della notte. Poi udì di nuovo il rumore. era un cane? Un pony? i passi leggeri spostavano le pietruzze del sentiero. spalancò gli occhi finché non le fecero male. Potevano vederla dietro il vetro, con il suo pigiama bianco? tremò al solo pensiero. Le parve di scorgere un lieve bagliore tra i pali della staccionata. c’era silenzio fuori e udiva il san-gue pulsarle nelle orecchie.

si costrinse a tornare a letto, il cuore che le batteva all’impazzata. Udì qualcosa muoversi e grattare e ri-cordò che in soffitta c’erano topi e piccioni.

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desiderò ardentemente di sentire il calore e il con-forto di ari a letto con lei. Quel posto era troppo grande, le bambine troppo lontane, il fiume troppo ru-moroso.

e una domanda continuava a vorticarle nella mente, per quanto cercasse di scacciarla man mano che si ab-bandonava al sonno.

Un pensiero: verrà a cercarmi?

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