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CORR Per l’indice MASSARONI D. I FILM IN CONCORSO A VENEZIA PER LA CRITICA 75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia I FILM IN CONCORSO A VENEZIA di Desirée Massaroni Il film Roma di Alfonso Cuarón, vincitore del Leone d’Oro, si apre con una lunga scena in cui vediamo dell’acqua insaponata scorrere sui titoli di testa. Si reitera più volte nel film l’immagine metaforica del pavimento del cortiletto (rimando del Messico, del lasciar scorrere le cose spiacevoli) sporcato dagli escrementi del cane di famiglia e che Cleo (Yalitza Aparicio), la domestica tuttofare protagonista del film, costantemente deve ripulire. Il pavimento del cortile è anche il luogo dove vediamo entrare più volte l’automobile di famiglia; prima guidata dal capofamiglia (la macchina da presa è ribassata all’altezza del paraurti), e poi guidata dalla signora Sofia (Marina de Tavira) che in seguito all’abbandono del marito per un’altra donna, ne distruggerà volontariamente e più volte gli specchietti e la fiancata sbattendo contro il muretto.

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CORR

Per l’indice

MASSARONI D. I FILM IN CONCORSO A VENEZIA

PER LA CRITICA

75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

I FILM IN CONCORSO A VENEZIAdi Desirée Massaroni

Il film Roma di Alfonso Cuarón, vincitore del Leone d’Oro, si apre con una lunga scena in cui

vediamo dell’acqua insaponata scorrere sui titoli di testa. Si reitera più volte nel film l’immagine

metaforica del pavimento del cortiletto (rimando del Messico, del lasciar scorrere le cose

spiacevoli) sporcato dagli escrementi del cane di famiglia e che Cleo (Yalitza Aparicio), la

domestica tuttofare protagonista del film, costantemente deve ripulire. Il pavimento del cortile è

anche il luogo dove vediamo entrare più volte l’automobile di famiglia; prima guidata dal

capofamiglia (la macchina da presa è ribassata all’altezza del paraurti), e poi guidata dalla signora

Sofia (Marina de Tavira) che in seguito all’abbandono del marito per un’altra donna, ne distruggerà

volontariamente e più volte gli specchietti e la fiancata sbattendo contro il muretto.

Il regista delega in primo luogo al personaggio di Cleo la narrazione del passato (quello

autobiografico dell’autore, quello del Messico degli anni ’70, ma anche quello dell’essere umano)

attraverso l’uso di piani sequenza e carrellate a seguire. Ci mostra per tutto il film la donna secondo

delle linee orizzontali, con lunghi piani sequenza senza soluzione di continuità, e che talvolta

anticipano i suoi movimenti nel suo spostarsi sempre composto da un punto all’altro della casa. E

ancora Cleo è ripresa in lunghe carrellate a seguire quando il ‘passato’ si contrae al massimo con il

presente e con il futuro ovvero quando Cuarón ci mostra ad esempio la giovane entrare in mare per

salvare i figli della signora Sofia che stanno annegando.

La Cleo di Cuarón ricorda ‘la ragazza dal cuore semplice’ di Flaubert il cui corpo e i gesti sono

filmati sempre composti, equilibrati, fermi, in una sospensione quasi surreale e ritratta visivamente

dalla colonna sonora di Steven Price. La sospensione è simile a quella dell’astronauta (interpretata

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da Sandra Bullock) che il regista messicano aveva ritratto nel film di fantascienza filosofico-

esistenziale Gravity. In quel film però l’effetto di sospensione (quasi vertiginosa per lo spettatore)

era dato dal nulla di un corpo ‘gettato’ nel cosmo buio e infinito al quale la protagonista doveva

necessariamente opporsi per tornare sul pianeta Terra.

In Roma è il corpo di Cleo ad avere insita una dinamica di ‘sospensione materica’ laddove a causa

della Storia (intesa come classe sociale ed epoca d’appartenenza) la ragazza non si aspetta nulla

dalla vita e quindi la vive in maniera saggia. Ovvero l’accetta ‘filosoficamente’ stando dentro e

fuori la storia del Messico (per cui Cleo vede la rivolta civile ma non vi partecipa e forse viene

‘punita’ per questo perdendo le acque), della famiglia borghese (che la considera una persona di

famiglia ma anche la domestica-tata), della sua vita privata-sentimentale (la quale per forza di cose

rilancia la beffa e l’umiliazione destinata alle donne della sua classe sociale).

Cuarón sottolinea quest’ultimo aspetto ad esempio anche nel rapporto scopico che instaura tra lo

spettatore e il personaggio in una scena ambientata in una sala cinematografica. Qui vediamo seduti

di spalle Cleo e il suo fidanzato (anche lui appartenente al suo ceto) a cui confida di essere rimasta

incinta; il ragazzo esprimendo felicità per la bella notizia, con il pretesto di recarsi in toilette si

allontana dalla sala. Cleo è rivolta verso lo schermo in cui è proiettato un film comico, una sorta di

parodia sul nazismo; la ragazza si volta diverse volte e alla fine del film esce dal cinema e si guarda

intorno invano. Quindi si siede su un gradino mentre attorno a lei si sentono stridule musiche

provenienti da dei pupazzetti e voci dei venditori.

In questa sequenza lo spettatore apprende già cosa Cleo capisce dopo (e che forse intuisce soltanto)

vivendo appunto questo tempo di infinita attesa e quindi di tensione, di solitudine onirico-

cinematografica e di risveglio in cui tuttavia il volto di Cleo resta impassibile.

La svolta del personaggio vi è solo alla fine, quando il corpo si sposa con la parola; dal corpo chiuso

nella gabbia-casa (in cui Cleo è a sua volta la guardiana del cane e dei bambini), al corpo glorioso

che si getta in mare, al corpo che nel finale scompare. Nella sequenza in cui Cleo salva la vita ai

figli della signora Sofia vediamo la domestica ‘liberarsi’ quando il suo corpo sposa il pensiero,

ovvero quando afferma in lacrime di sentirsi la causa della morte della figlia perché non la

desiderava. La signora Sofia i bambini le dicono che ‘le vogliono bene’ e le due donne non possono

che abbracciarsi reciprocamente in un ‘lampo di vita’ che congiunge il pensiero con quello che

Resnais definisce sentimento o amore.

Dopo questo avvenimento Cleo dirà alla sua amica e collega di lavoro, “Ho tanto da raccontarti”,

per poi salire la scalinata che porta allo stenditoio e scomparire. Si vede quindi un aereo solcare il

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cielo. In questo finale Cuaron in qualche maniera esprime il senso ‘storico’ del personaggio di Cleo,

ma anche della vita e della storia del Messico, quello di riuscire a vivere nel mondo sposando

un’altezza intermedia fra la terra e il cielo. Cioè credere in questo mondo di cui gli idioti e le

ingiustizie ne fanno parte.

Riguardo alla narrazione del passato Cuaron dà forte rilevanza anche alla donna borghese, che forse

più di Cleo esprime attraverso il suo corpo il lavoro ‘del tempo’, della ‘storia’ anche politica di una

nazione; la signora Sofia passa dalla ricchezza all’impoverimento, dall’auto-centratura psicologica

datagli dal suo status di donna borghese ad una condizione in cui il suo corpo (all’opposto di quello

di Cleo) si fa teatro scompigliato di disperazione e nevrosi (proprio perché la borghesia ha

aspettative).

La fine di una guerra civile, il passaggio d’epoca, ‘lo vediamo’ con l’entrata nel cortiletto della

signora Sofia alla guida di una nuova auto, una Citroen. Ora la tavolozza dei bianchi e dei grigi è

più chiara (come quando Deleuze afferma che la funzione del cinema è passare ‘dal buio al giorno

abbacinante’) e la scena è visivamente ‘alleggerita’ anche da un corpo ‘nuovo’ e da un diverso

modo di porsi della donna. Roma è un film in cui i corpi dei personaggi di Cleo e della signora

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Sofia, si fabbricano da sé, gesto dopo gesto, all’interno di uno sviluppo possibile solo quando il

corpo incontra la storia, lo spirito. In questo senso l’alternanza bianco-nero-grigio può essere letta

come una sorta di alternative o scelte che ineriscono l’individuo; il filosofo Deleuze vede ad

esempio nel bianco il dovere o il potere, nel nero l’impotenza o la sete del male, nel grigio

l’incertezza, la ricerca o l’indifferenza pervenendo quindi tra i ‘modi dell’esistenza’ ad uno spazio

altro, metafisico-spirituale e dunque ricreato. Cuarón ha curato la regia, la sceneggiatura, la

fotografia (assieme a Galo Olivares), il montaggio (con Adam Gough) nonché la coproduzione di

questo film che non può essere letto solo come un film di donne, ma dei rapporti fra individui

appartenenti alle stesse e a diverse classi sociali e la loro relazione con il mondo. In questo senso

l’aspetto interessante di Roma riguarda anche il ritratto ‘non retorico’ del popolo; Férmin pur

essendo un proletario è un ragazzo che sa parlare solo di se stesso, che inganna, abbandona e

offende brutalmente Cleo fino a provocarle la perdita delle acque in veste di rivoltoso. Durante il

Capodanno un’amica-domestica di quest’ultima sottrae Cleo dalla festa dei padroni (quasi a volerle

ricordare ‘la famiglia da dove viene’) e in quest’occasione la donna subisce un cattivo presagio

legato alla sua gravidanza. Di contro la signora Sofia e il marito medico, con le loro colpe, si

prendono cura della gravidanza di Cleo finché i capovolgimenti delle loro esistenze annullano le

differenze di classe fra le due donne.

Nightingale di Jennifer Kent è un film che si presenta all’interno dell’annosa questione del cinema

delle donne sotto la luce di un ‘ricatto morale’ essendo l’unica opera in concorso scritta e diretta da

una donna (sebbene la 75a Mostra di Venezia abbia presentato nelle altre sezioni diverse pellicole

scritte e girate da donne anche esordienti). Il problema, pur esistente, andrebbe allora analizzato

semmai all’interno di altri regimi discorsivi in quanto, ad esempio come in parte già affermavano in

Italia le femministe marxiste negli anni ’70, il potere prima che attraverso il genere sessuale, passa

per il posizionamento dell’individuo (maschio o femmina) nella scala gerarchica della società e nel

suo collocarsi come regista di cinema d’autore, spesso indipendente, o mainstream. (E quindi non

parlare del cinema delle donne genericamente). In questo senso il premio Robert Bresson alla

carriera consegnato a Liliana Cavani e la proiezione del film-capolavoro restaurato, Il portiere di

notte, è un esempio emblematico del nostro discorso. La Cavani non rappresenta affatto ‘il cinema

delle donne’, ma un cinema di una donna con un suo sguardo autorale-intellettuale, diverso se non

eccentrico rispetto a quello di altre autrici molto meno dotate (che, non per questo, non hanno

goduto di riconoscimento). L’opera della Cavani probabilmente costituisce un anomalia nel

panorama femminile poiché ha saputo parlare dell’Altro da sé, del mondo, laddove la tendenza delle

donne artiste è quella di parlare solo di se stesse, anche se magari interpellate su un altro argomento.

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Si può aggiungere che, abbracciando la giusta causa di un rovesciamento della dominanza maschile

e maschilista nel mondo cinematografico, la strada del cambiamento dovrebbe declinarsi in un auto-

trasformazione di se stessi per continuare la lotta con altri mezzi, investendo soprattutto nel

rapporto con se stessi e con gli altri.

Nightingale è un film poco riuscito in cui il lavoro di sceneggiatura e di regia confezionano un

prodotto tecnicamente buono ma in cui manca uno sguardo autorale autentico. La storia ruota

intorno alla figura di Claire (Aisling Franciosi), una giovane galeotta irlandese, deportata dal

tenente Hawkins (Sam Claflin) nella Tasmania del 1825, che vuole vendicarsi dell’uomo e dei suoi

soldati in seguito al suo stupro, all’uccisione del marito e soprattutto della figlia neonata. La Kent

indugia molto sulla lunga sequenza dello stupro collettivo subito da Claire e poi sull’uccisione da

parte di quest’ultima dell’alfiere infanticida, quasi per errore, avendo ucciso accidentalmente la

figlioletta piangente per farla tacere.

Nella scena dello stupro, dopo un controcampo sul volto dello stupratore, la regista mantiene la mdp

sul viso di Claire mentre a livello sonoro sentiamo il pianto disperato della neonata. La Kent sembra

voler indulgere alla estetizzazione della violenza nel momento in cui lo spettatore è incoraggiato a

guardare una scena moralmente inaccettabile affinché non la emuli, indotto quasi ad una sorta di

purificazione. Nella scena in cui Claire uccide brutalmente l’alfiere (gli spara, lo accoltella, gli

frantuma il volto con il manico del fucile) attraverso una costruzione studiata di cc/cc fra la donna e

l’uomo, la regista sembra voler istigare nello spettatore quasi un sentimento di giustificazione verso

la violenza vendicatrice della donna in quanto reazione all’ingiustizia subita. Tale sentimento di

complicità fra il personaggio femminile e lo spettatore è aumentato dalla reazione di stordimento

che Claire prova dopo l’omicidio (come se la regista volesse attenuare o giustificare l’estraneità

della donna verso quel gesto orribile). Provando sollievo per il modo con cui la protagonista

vendica la morte della figlia, lo spettatore/spettatrice alla fine del film smette di rinnegare in toto la

violenza e l’accetta quando ci sono eventi che moralmente la giustificano.

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Su questa linea il film della Kent ha il pregio e il suo limite: da un lato solleva una domanda

ancestrale ovvero se è ‘giusta’ la vendetta occhio per occhio e dente per dente; dall’altra parte la

vera operazione femminista della Kent sarebbe stata (perché nel film lo è parzialmente) quella di

dire che la donna non è aprioristicamente diversa dall’uomo rispetto a certi comportamenti; in

determinate, estreme circostanze anche una donna può reagire in maniera violenta per ‘fare

giustizia’. Il limite di quest’operazione (rivoluzionaria!) è che la Kent non la porta fino in fondo

facendo sbandare Claire dopo ogni gesto. Il film della Kent fa venire in mente il notevole saggio di

Romano Màdera, Sconfitta e Utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis,

pp. 238, E. 20,00, 2018). Poiché un film, un’opera d’arte, è anche il riflesso della società in cui

agiamo, si può sostenere, senza discorsi retrogradi o ideologici, che il film della Kent celi dietro la

violenza senza limiti sul corpo (operazione opposta e meritoria la compie invece Alessio Cremonini

nel film Sulla mia pelle, ispirato alla vicenda di Stefano Cucchi), una spettacolarizzazione del corpo

stesso nella simmetria tra orrore e fascinazione della violenza e della morte dentro un’orgia

dissipativa improntata sulla perdita smisurata (di sé) che inerisce proprio il personaggio femminile.

Nell’intenzione, si immagina, della Kent di voler fare un film in cui la donna è vittima, ma anche

simbolo condivisibile di determinazione, giustizia, vendetta, per certi versi di superiorità morale

rispetto agli uomini, paradossalmente ne viene fuori il ritratto di una creatura acefala, tutta urla e

gesti, priva di un’identità propria al punto da emulare non solo gli abietti comportamenti maschili,

ma d’esser priva di una parola, di un canto, che abbia un’efficacia all’interno della storia proposta.

Un post critico pubblicato sulla pagina FB della rivista accademica Fata Morgana web afferma che

‘il film della Kent è privo di vera emozione e dramma’; è un’affermazione da condividere appieno e

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che apparentemente sembra incompatibile con il pathos costante del film. Ma forse è proprio

l’affabulazione di questo film a generare un’anestesia collettiva della facoltà di ‘sentire’ provocata

dall’essere spettatori partecipi e passivi di una liturgia dello spettacolo. Ne deriva che il plauso (con

il premio speciale della Giuria e il Premio Marcello Mastroianni all’ un attore Baykali Ganambarr

che interpreta del servo Billy) al film della Kent finisca per confermare come tutte le rivoluzioni

gestite dal potere finiscano sempre per impossessarsi e disinnescare l’arma della critica

convertendola in propellente controrivoluzionario: ad esempio, citando la stessa Kent che presenta

il suo film come un’opera sull’amore e la comprensione. (Ma l’amore non ha a che fare con la

reiterazione del mondo, semmai con la volontà di trasformazione politica delle condotte umane).

Il film Suspiria di Luca Guadagnino prende le mosse dall’omonimo capolavoro di Dario Argento

per rielaborare in un film autorale (oltre il remake quindi) l’elemento orrorifico correlato al ‘corpo

di ballo’ e alle figure di streghe-madri (o madri-streghe). Durante il primo omicidio vediamo la

danzatrice Olga che si è ribellata alle streghe essere posseduta da un’energia maligna che la porta a

schiantarsi più volte (contro la sua volontà) addosso alle pareti della sala prove fino a rompersi

progressivamente tutte le ossa del corpo e riducendosi ad una raccapricciante poltiglia disarticolata

e tremante di carne, ossa e sangue. La scelta di mostrare una lunga sequenza di violenza e di morte

così esplicita e realistica grazie ai perfetti (e perversi) effetti speciali, assente nel film di Dario

Argento (che è un cinema più di evocazioni e di atmosfere), inserisce la nuova Suspiria all’interno

di una dimensione accentuatamente horror più che psicologicamente perturbante. Suspiria di

Guadagnino si impone come un film d’autore di forte espressività e raffinata cura registica in cui la

potenza dell’horror si ravvisa nell’intreccio fra ‘il corpo’ portato all’estremo performativo tecnico-

artistico ed estetico nella danza (il regista si è avvalso della collaborazione di un importante

coreografo contemporaneo, Damien Jallet) e lo ‘smontaggio’ scheletrico del medesimo corpo. Per di

più Guadagnino accentua e moltiplica il corpo della figura della madre associandola non solo alla

colpa, alla vergogna e alla punizione, ma anche alla sua relatività. Nell’abitazione della madre

mormona di Sarah (interpretata da Dakota Fannings) la mdp inquadra un piccolo quadro in cui

leggiamo scritto che tutto si può sostituire eccetto la propria madre. La madre di Sarah riconosce in

fin di vita come sua unica colpa quella di aver ‘lordato il mondo’ partorendo la figlia. Al contempo

nelle visioni oniriche della protagonista (indotte da Madame Blanc e attraverso le quali Guadagnino

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propone un lavoro di montaggio immaginifico piuttosto suggestivo) Sarah ricorda le severe

punizioni inflittele dalla madre. Se nella famiglia d’origine Sarah è il peccato, la colpa, la vergogna,

per la madre-strega Madame Blanc (Tilda Swinton) Sarah è la figlia giusta, la prescelta tra tutte le

figlie presenti e passate, colei che è pronta a donarsi fisicamente alla menzognera e rivoltante

Madre Markos, e che infine è posseduta da Madre Suspiriorum, una specie di viscido mostro,

divenendo a sua volta madre e uccidendo per compassione le sofferenti figlie danzatrici. E’

interessante notare come in questa rielaborazione di Guadagnino, diversamente dal film di Argento,

lo spettatore non teme mai per la vita di Sarah; questo perché sul piano narrativo e registico

Guadagnino non pone mai la protagonista in vero pericolo, né la ritrae come vittima possibile

(laddove invece la tensione maggiore è legata alla sorte ‘preannunciata’ di Olga e dell’amica di

Sarah, Susie). Si potrebbe dire che all’identificazione con il personaggio femminile Guadagnino

sostituisce una comprensione dei processi e dei comportamenti che regolano il mondo e che

stabiliscono la vita o la morte degli individui. All’interno della storia Olga viene uccisa, in una

scena tra fisico e metafisico, dal corpo danzante di Sarah, a causa della sua ribellione alle streghe in

seguito alla scomparsa di Patricia. L’amica di Sarah, che inizia ad indagare sulle streghe, sarà

ridotta a uno stato ‘zombistico’ (che la priva dell’intestino) e uccisa dalla stessa protagonista

divenuta ‘sua madre’. I personaggi femminili portatori di ribellione e di giustizia (a cui si aggiunge,

nel caso di Susie, una volontà di sapere) vengono uccisi come soggetti deboli perché, tanto ingenui

quanto non competitivi, sono incapaci di adattarsi alla realtà (ingannevole) di ciò che vivono. (Non

è un caso che il corpo frammentato di Olga e Susie venga ridotto a feticcio e dunque a simbolo

portatore della colpa).

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Di contro le strategie di rovesciamento dei rapporti di potere fra le streghe, e soprattutto fra Sarah e

quest’ultime, servono a istruire uno spettatore critico che si abitui ad accettare la relatività della

realtà, dell’individuo, smontando il mito cristiano della madre, ma soprattutto capace di intendere

come l’ambizione al potere (di cui essere la prima ballerina ne è simulacro) sia l’unica maniera per

sopravvivere a se stessi e nel mondo.

The Favourite (La Favorita) di Yorgos Lanthimos è un film molto distante dalle opere precedenti

e che probabilmente sancisce definitivamente il passaggio dal ‘periodo greco’ a quello

‘hollywoodiano’ già anticipato da Lobster e da Il sacrificio del cervo sacro che comunque

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mantenevano un certo sguardo autorale, metaforico-straniante, grottesco quanto coraggioso in un

cinismo duro che smantellava certe realtà sociali, con cui il regista greco si è imposto.

Ne La Favorita Lanthimos affronta per la prima volta un film in costume rilanciando la realtà

storica inerente Anna Stuart (a cui si ispira senza una fedeltà documentaristica) mescolandola a un

linguaggio pop di gusto contemporaneo che convive con una grammatica cinematografica oggi

poco usata (Fish Eye, profondità di campo, riprese dal basso per identificare il Potere, le

dissolvenze incrociate) e che Lanthimos pare adoperare non con l’intento di ‘significare’ qualcosa

(cioè quella sua visione originale, mostruosa per la sua verità come nel film Dogteeth), ma per gusto

esibitorio nel suo uso didascalico, se non forse come omaggio a un cinema americano che ha

segnato la storia del cinema mondiale. Ne viene fuori un’opera confusa e per questo galvanizzante

in cui i ‘duelli’ fra le favorite, i loro ‘numeri’, e gli sbalzi umorali della regina Anna (Olivia

Colman, premiata come Miglior Attrice), si presentano come momenti in cui la conoscenza delle

dinamiche di potere, pur raccontate con lucidità e puntualità, è travolta da una volontà di far vivere

allo spettatore un momento di piacere, di riso, più che di sapere proprio per l’aspetto artificioso e

performativo del film.

Lanthimos ci propone un tema sempre attuale se non eterno ovvero quello del Potere nella realtà

della corte del ‘700, istituzione più o meno mutata nel tempo e con le trasformazioni della società

ma in cui ci troviamo ad agire tutti. (A riguardo Emma Stone durante la conferenza stampa

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paragona la corte regale ad Hollywood). La Favorita è un film a cui bisogna riconoscere una

sceneggiatura e una regia tecnicamente notevole e quindi il talento di Lanthimos come autore. Ma

proprio partendo dal concetto di ‘autore’ il problema che ci pone questo film, ed ogni opera che

affronti un tabù, è di capire come un certo tema vuole essere veicolato. Lo spettacolo e la

performance diventano la modalità egemone della messinscena per cui lo spettatore non sa che deve

accettare ‘un patto ‘inedito’ con un film di genere che non è del tutto di ‘genere’ e che la

rappresentazione del potere è irreale. Nel film i costumi e le tattiche esibizioniste delle favorite sono

molto enfatizzate; le donne sono connotate nelle loro fragilità e nelle loro debolezze e tuttavia anche

nella loro forza, impeto, ingegno, abilità di sopravvivere. Così l’appeal del potere sembra dipendere

da questa duplicità: (Anna è il Potere monarca, ma anche una donna isterica, fragile ingenua;

Abigail è una manipolatrice affettata, ma anche una ragazza che non ha altra scelta per sopravvivere

nella società dell’epoca; Sarah è seconda al potere, ma ha anche un rapporto di onestà intellettuale

verso la regina) che fa del potere qualcosa di femminile ma anche di maschile, di entità mobile, con

cui ci si può identificare. Non è un caso che il sesso lesbico reiterato più volte nel film implichi da

parte della spettatrice più o meno consapevole, l’identificazione con il ‘potere’ la cui ambivalenza

richiama alla fase pre-edipica cioè a un estetica masochista dove si attiva quindi il piacere di essere

dominato passivamente.

Peterloo scritto e diretto da Mike Leigh rientra tra i vari film in costume presentati alla Mostra.

Leigh racconta il massacro di Peterloo del 1819 avvenuto Manchester in cui morirono 60.000

persone che si erano radunate per chiedere riforme politiche e inerenti la qualità della vita a causa

dei crescenti livelli di povertà e di disoccupazione. Il film si apre e si chiude su ‘l’immagine’ del

giovane soldato Joseph che sopravvissuto alla battaglia di Waterloo torna alla sua famiglia di operai.

Il ragazzo che per il trauma della guerra indossa solo la divisa militare verrà poi infilzato da un

soldato di cavalleria durante la manifestazione, che gli grida con sarcasmo ‘giovane soldato’. Il film

si conclude quindi con la sepoltura di Joseph.

All’interno di questa cornice Leigh ci mostra diverse coppie di personaggi portatrici di un discorso:

il gruppo delle donne militanti riformiste che riunisce anche le popolane e che per ‘allearsi’ devono

superare le loro distanze di classe sociale, il fronte del potere politico-militare ed ecclesiastico,

quello dei riformatori che contempla anche i giornalisti e giovani intellettuali dell’epoca (John

Bagguley, Samuel Drummond che discutono della Carta dei Diritti del 1689, l’oratore Henry Hunt)

e la famiglia di Joseph fra spinte ad aderire alla manifestazione e scetticismo circa l’irreversibilità

della loro condizione. In questo senso il film di Leigh all’interno della mirabile ricostruzione storica

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e dei costumi dà grande rilevanza alla sceneggiatura, ai dialoghi molto lunghi e fitti che assumono i

connotati di una lunga riflessione collettiva, di una presa di coscienza forse a tratti enfatico-retorica

ma preparatoria per capire il lavoro necessario affinché il popolo compia un salto qualitativo.

Così la scena della carneficina, con riprese perlopiù dal basso, non interessa solo il popolo ma anche

i riformatori, coloro che non consapevoli fino in fondo della spietatezza del governo vengono uccisi

brutalmente. Leigh in questo senso sottolinea registicamente più che l’aspetto quantitativo la

modalità in cui il popolo viene massacrato tra derisioni e godimento da parte dell’esercito nell’atto

dell’uccisione e mostrandoci la massa come soggetto rivoluzionario represso anche perché

impossibilitata a scappare a causa del blocco delle vie di fuga da parte delle truppe.

Leigh rilancia un tema, quello del popolo, all’interno di un cinema occidentale politico

contemporaneo in cui il popolo non viene rappresentato perché forse celato da meccanismi di

potere, da nuove colonizzazioni di cui si ha scarsa coscienza. L’avvenimento storico di Peterloo

allora è rielaborato per certi versi da Leigh che mostra il lavoro degli intellettuali al pari dei

fermenti collettivi che ‘inventano’ un popolo attraverso nuove condizioni di lotta.

C’è da dire che la prevalenza di film in costume e di genere nella 75a edizione della Mostra sia

sintomo di una necessità di recuperare certe strutture fisse per raccontare un presente indubbiamente

molto diverso. Nel film della Kent ad esempio, la cavalla Becky con la quale Claire inizia il suo

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viaggio di vendetta è l’unica cosa che gli resta del marito, ma anche una proiezione di se stessa. In

The Sister Brother di Jacques Audiard il cavallo definisce la personalità e il ruolo all’interno della

storia del fratello maggiore Eli (John C. Reilly) ovvero il riflesso di una sensibilità interiore

consustanziale al senso di colpa.

Il film che ha ricevuto il premio per la Migliore Regia, si apre con un’immagine di un cavallo

avvolto dalle fiamme e prosegue con la morte del cavallo di Eli che diviene ‘argomento’ di

conversazione e motivo di compartecipazione emotiva fra lui e il nemico Herman Warm (Riz

Ahmed), chimico in possesso di una prodigiosa formula per rendere visibili le pepite d’oro.

L’animale è anche immagine predittiva del doloroso destino del fratello Charlie (Joaquin Phoenix) e

della morte dei nemici. Ci sembra come il culto dell’animalità (anche quella fra gli esseri umani) sia

in qualche maniera specchio soprattutto in questo film di un moto di espiazione che la nostra società

sta esprimendo su vari piani e che in qualche mondo il cinema odierno ripropone.

The Sister Brother va letto come un western atipico in cui Audiard riprende l’ambientazione del

Far West per rimodularla come un ambiente ‘altro’ sia nell’interpretazione più immediata per cui

l’interiorità dei personaggi sarebbe il ‘vero’ paesaggio, sia nell’accezione in cui l’eroe non essendo

rappresentante della collettività (come nel western classico) viene inglobato e ‘punito’ dall’ambiente

medesimo. La ricerca dell’oro attraverso la sostanza chimica che i personaggi riversano nel fiume di

notte è in primo luogo un ‘colore’ che si espande con la stessa velocità con cui svanisce; così l’atto

di hybris di Charlie che rovescia in acqua tutto il liquido per evitare che ‘l’immagine si spenga’

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causa la corrosione dei corpi e la morte degli altri soci che Audiard mette in parallelo con

l’inquadratura della moria di pesci. Il ‘selvaggio West’ è dunque il luogo del sogno americano, delle

bramosie che Audiard (in questo simile ad un certo cinema di John Ford) mantiene come forti

illusioni o tensioni che hanno comunque permesso la continuità della nazione, e così il ritorno a

casa dei due fratelli consente di ristabilire un equilibrio con l’ambiente accidentalmente

compromesso.

Napszàlita (Sunset) è un film di László Nemes, regista del Il figlio di Saul e che possiamo

intendere come un film che racconta il ’900 attraverso lo sguardo di Írisz (Juli Jakab), una giovane

donna che nel 1913 arriva a Budapest con l’intento di diventare una sarta. Nel negozio di cappelli

appartenuto ai defunti genitori, la donna apprende da Oszkar, un vecchio collaboratore di famiglia,

di avere un fratello che non ha mai conosciuto e che è scomparso. Attraverso lunghe semi-

soggettive della protagonista vediamo una nazione ‘al tramonto’, travolta dal caos dell’imminente

prima guerra mondiale. Incrociando primissimi piani e riprese da dietro della donna, Nemes ci

mostra anche i vari cambi di cappello (e d’abito della donna) alternando i colori chiari a quelli

violacei, sepolcrali, espressione della storia come una sorta di confine luminoso che scandisce un

tempo levante e calante, nonché una temporalità che è anche una forma di interiorità, di

sdoppiamento e quindi di perdita di Irisz la cui espressività nei primi piani finisce per significare

proprio questo sentimento.

La strutturazione di ripetizione-variazione per cui gran parte del film mostra la ricerca della donna

nelle strade di Budapest rinvia a un tentativo di ‘liberare il tempo’ che si sfrange come crisi del

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tempo, viaggio nella memoria parziale e che dà a film che procede stilisticamente per sottrazione,

un andamento incompiuto, indubbiamente diverso dagli altri in concorso per una sua consistenza

quasi metafisica.

At Eternity's Gate di Julian Schnabel presentato nella sezione in concorso, è un film ispirato alla

figura di Vincent Van-Gogh interpretato mirabilmente da Willem Defoe premiato come Miglior

Attore. Dopo un primo biopic sull’artista Andy Wharol, Schnabel prosegue questa trasposizione

cinematografica della vita dei grandi pittori dei secoli passati procedendo tuttavia in una maniera

piuttosto diversa. Schnabel attraverso una soggettivizzazione dell’immagine ci mostra il mondo

come lo pensa e quindi lo vede il pittore, il mondo dell’artista-creatore; attraverso ad esempio l’uso

della soggettiva in cui la realtà appare sfocata, appannata, (che rimanda alla preistoria della

coscienza) a volte raddoppiata.

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E ancora mediante l’uso delle dissolvenze incrociate visive ed uditive in cui ‘vediamo’ ad esempio

il volto di Van Gogh sovrapporsi a quelli del fratello Theo e di Paul Gauguin come a farci ‘vedere’ il

grado di prossimità-coincidenza morbosa ricercata dal pittore. Schnabel procede per lunghe

carrellate a precedere e a seguire, movimenti di macchina a mano, passaggi repentini da piani

lunghi a primissimi piani, riprese oblique e traballanti dal basso, circuiti veloci e malleabili per

significare quasi il bisogno del pittore di spezzare delle connessioni troppo ‘logiche’ del mondo.

Attraverso questo film abbastanza riuscito, Schnabel ritrae un artista apprezzato in tutto il mondo in

quanto egli ‘crede’ ai colori del mondo; tratta ciò che dipinge (la donna, l’uomo, le radici, le scarpe)

attraverso i colori che ‘servono’ per dare un corpo a figure che non sono ancora azione.

Opera senza autore (Werk ohne Autor) di Florian Henckel von Donnersmarck è un film che

pone il critico, più che lo spettatore, in una difficile posizione di giudizio in cui lo spessore umano e

culturale della storia prodotta non trova sempre il suo equivalente nel linguaggio cinematografico.

Donnersmarck che si era imposto con il notevole Le vite degli altri scivola in questo film ambizioso

verso un linguaggio e un ritmo televisivo che ne depotenziano il pur interessante discorso sull’arte.

La storia è ambientata in Germania in un lasso di tempo che va dagli anni ’40 (in piena dittatura

hitleriana) fino agli anni ’60 attraverso lo sguardo di Kurt (Tom Schilling) che da bambino vediamo

poi affermarsi come importante pittore tedesco. Il talento artistico di Kurt è legato alla figura

emblematica della zia che apre il film, dotata di talento musicale e che a causa di questa sua

diversità ed eccentricità subisce la castrazione chimica. Attraverso una serie di eventi la vita del

giovane si intreccia con il responsabile della morte della zia che è anche suo suocero (Sebastian

Kock) e con il suo passaggio emblematico da pittore dalla Germania dell’Est (luogo della pittura del

realismo socialista) alla Germania dell’Ovest (luogo dell’arte della neoavanguardia).

Indubbiamente l’aspetto più stimolante del film inerisce appunto questo passaggio che il regista

sottolinea con movimenti di macchina molto rapidi e carrelli a precedere, immettendo anche

musicalmente la storia in un’altra dimensione. Il regista attraverso la figura di Kurt solleva almeno

due interrogativi: Che cos’è arte? Chi è l’Artista? La risposta giunge da un brillante professore

Antonius van Verten (Oliver Masucci) che fa opere ‘concettuali’ di grasso e feltro ovvero materiali

con i quali gli viene salvata la vita durante il secondo conflitto mondiale da una popolazione che in

veste di pilota aveva in parte bombardato. Partendo dall’assunto che tutto ciò che è vero (soprattutto

nella sua tragicità) è bello, è fondamentale partire da un’idea ma anche da un Io nell’accezione che

nell’opera qualcosa deve esistere. Kurt constata peraltro che gli individui preferiscono il ritratto alla

fotografia perché è come se nel primo fossero più veri.

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Il giovane recupera quindi delle foto ritraenti lui e la zia e poi le foto di coloro che in seguito scopre

essere stati i mandanti della sua uccisione assieme a migliaia di altre donne tedesche. Kurt riproduce

con la pittura la fotografia usando gli stessi toni: il grigio, il bianco e il nero. I ritratti che vediamo

costituiscono il segno forse più significativo quanto fortemente autoriflessivo del regista rispetto

all’arte cinematografica; se la pittura e la fotografia ‘congelano’ il tempo alludendo perciò, come

rileva Jacques Aumont, alla morte della persona ritratta e fotografata, il cinema reinserisce i soggetti

ritratti nel flusso del tempo, nella durata. Emblematico a tal riguardo è il gesto finale che il regista

fa compiere a Kurt sulle sue tele come rimodulazione estetico-filosofica della fotografia e del

ritratto.

The Mountain di Rick Alverson si incentra sulle figura del giovane Andy (Tye Sheridan ) del

dottor Fiennes (Jeff Goldblum) le cui vite si intrecciano quando il ragazzo scopre che la madre

ermafrodita era stata internata in un manicomio e probabilmente sottoposta ad elettroshock e

lobotomia. L’opera di Alverson si divide in due parti, quella in cui Andy ricorda o subisce le visioni

della madre come ‘unico corpo’, e quella in cui viene ‘assunto’ dal dottor Fiennes per fotografare i

pazienti prima dell’operazione chirurgica.

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The Mountain è un film che ha un costante andamento atonale, a tratti paratattico e una fotografia

satura dai colori grigio-verde e marrone (i colori della montagna nonché degli abiti di Andy) in cui

emerge di contro la pesante materialità dei corpi e degli oggetti. Più che solo un film sul controllo

biopolitico dell’America anni ’50 e forse di un imperituro e perverso sogno americano, Alverson

sembra avere uno sguardo ‘critico’ più sulla figura del ragazzo che su quella del medico. L’incontro

con l’artista francese Jack (Denis Lavant), dal corpo sinuoso quanto sghembo e perennemente

ubriaco, costituisce l’incontro con una voce intellettuale-critica mirante a ‘risvegliare’ la coscienza

del ragazzo. In una scena Andy è invitato bruscamente dall’artista a non scambiare il dipinto (della

montagna) per la realtà. Il pesante incedere del corpi di Andy e degli oggetti intorno a lui si

contrappone alla montagna come immagine-simbolo di ascesi, di eccentricità (mentre il fermo-

immagine della pattinatrice roteante sancisce il blocco) sebbene Alverson procede senza un punto di

vista forte sulla questione.

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Acusada di Gonzalo Tobal che pone al centro della vicenda una giovane studentessa ingiustamente

accusata dell’omicidio di una sua amica e che quindi deve affrontare, pur con il sostegno dei

genitori, l’isolamento affettivo, il disprezzo della madre della vittima, l’accanimento dei media.

Tobal mantiene la macchina da presa soprattutto sui primi e primissimi piani della fascinosa

protagonista tentando di raccontare le reazioni psico-fisiche che si possono innescare in un

individuo innocente e i comportamenti dei familiari. Il grave limite di Acusada è che Tobal

confeziona un film squisitamente televisivo nella sceneggiatura, nella modalità registica, privo di

qualsiasi slancio autorale o elemento che possa stimolare ad ulteriori riflessioni puntando a

mantenere un ritmo che intrattenga lo spettatore. Di certo è un film che non regge il confronto fra le

altre opere in concorso.

In 22 July Paul Greengrass racconta la strage di Utoya avvenuta il 22 luglio 2011 per mano

dell’estremista di destra Anders Breivik. Il regista britannico si muove su un piano politico-culturale

e privato; la figura del nazista, stragista non pentito Breivik, sintomo anche dell’onda reazionaria-

populista che sta montando in Europa, è ripreso perlopiù in primissimi piani che ne denunciano la

profonda indifferenza ai fatti commessi, nonché il fermo tentativo a non accettare di essere malato

di mente. Attraverso il volto ‘impassibile’ e le parole di Breivik, Greengrass affronta i fantasmi

oscuri della società occidentale connessi col problema dell’immigrazione. Peraltro la vicenda

‘continua’ ad essere raccontata da Viljar (Jonas Strand Gravli), un adolescente sopravvissuto alla

strage.

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Greengrass usa uno stile realista, asciutto, soprattutto nella scena di violenza che in parte lo

spettatore vive in soggettiva e che il regista riesce ad esprimere in maniera autorale veicolando il

giusto grado di tensione e di terrore che dei ragazzi debbono aver provato in quella circostanza. Si

delinea pure il percorso riabilitativo del ragazzo che è anche psichico: la sua vita appare

compromessa per sempre. L’abilità di Greengrass è di scrivere e girare un film con l’idea di indurre

lo spettatore non a sentire ma a pensare. Come la società occidentale, l’Europa, oggi riesce ad

affrontare il ‘bene’ e il ‘male’ ? Quali sono i confini fra la democrazia e i nazionalismi? Cosa fa

diventare un ragazzo un terrorista? E cosa lo esime dal diventarlo?

What You Gonna Do When The World's On Fire? (Che fare quando il mondo è in fiamme?) di

Roberto Minervini è una sorta di docu-film incentrato sulla situazione dei neri negli USA.

Quest’opera conferma un talento registico di Minervini che con una fotografia molto satura di

bianchi nitidi e neri ci presenta tre situazioni: Judy cerca di mantenere la propria famiglia mentre

gestisce un bar minacciato dalla gentrificazione. Ronaldo e Titus sono due giovanissimi fratelli che

vivono in un quartiere afflitto dalla violenza, tra le raccomandazioni della madre e la detenzione del

padre. Kevin, Big Chief della tradizione indiana del Mardi Gras, ovvero il capo del carnevale nero

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di New Orleans, cerca di portare avanti il patrimonio culturale della comunità nera attraverso i

rituali del canto e del cucito. Infine, il gruppo rivoluzionario delle Black Panthers indaga

sull’omicidio di due ragazzi nel Mississippi, mentre organizza una manifestazione contro i crimini

della polizia.

Il problema di questo film (molto più interessante era Louisiana anche nella sceneggiatura) è che la

pur commendevole intenzione di riflettere sul razzismo in America si dipana nel complesso in un

racconto a livello registico e di scrittura poco efficace; la questione cruciale della lotta della

comunità nera per la sopravvivenza e per i propri diritti paradossalmente resta in superficie. Si

direbbe che se il punto di vista e anche il personaggio trainante (Judy) vengono messi a fuoco,

Minervini non riesce ad esprimere compiutamente con un sguardo originale una materia così

incandescente, urgente (anche per un esame di autocoscienza dei bianchi). Indubbiamente la

sequenza più riuscita è quella del dialogo fra Judy e una ‘sorella’ nera in difficoltà in cui Minervini

incrocia poeticamente il lavoro sulla parola e quello sull’immagine, portando avanti un discorso di

dualità e di scavo sociale ed emotivo. Come filmare il mondo in fiamme? È la domanda che un po’

ci lascia questo film imperfetto, che comunque resta un’opera di apprezzabile impegno civile.

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Capri-Revolution di Mario Martone è un film che possiamo in parte accostare, pur nelle sue

peculiarità, all’opera di Assayas. Entrambi gli autori, peraltro fra di loro amici, affrontano la

questione dell’intellettuale intesa come dialogo con l’altro ma anche e soprattutto come formazione

autonoma di un proprio pensiero mediante la figura della capraia analfabeta Lucia.

Nel concepimento di questo film Martone si è ispirato dichiaratamente alla figura di Joseph Beuys,

un’artista che ha operato a lungo in Italia attraverso una prospettiva di sperimentazione artistica che

metteva in sinergia anche conflittuale tecnica e Natura.

La realtà è quella dell’Isola di Capri tra metà ’800 e inizio ’900 in cui Lucia (Marianna Fontana)

entra in relazione prima con un giovane medico esponente della fede positivista e poi con un

gruppo di giovani intellettuali che sembrano nell’aspetto fisico e nei comportamenti degli hippies

degli anni ’60 nonché un ensemble di performer teatrali del nostro tempo.

Lucia viene attratta dalla diversità di questi giovani che amano prendere il sole, danzare nudi e il cui

leader è esponente di un approccio filosofico-spirituale all’esistenza. Al di là del concetto dell’isola

come ‘mondo’, che Martone esprime con una regia autorale-metaforica molto suggestiva, in questo

film emergono almeno due temi fondamentali: il rapporto con l’altro da sé e fra uomo e Natura.

Riguardo al primo aspetto Martone non sembra declinare l’incontro con l’altro in termini di

individualità diverse e/o di individuo in relazione alla collettività (gli intellettuali), quanto di

incontro fra personalità. Lucia, il medico, e l’intellettuale sono personaggi animati da una forte

auto-centratura e da un pensiero individuale (forse nel film troppo manicheo) che gli consente per

questo di ricercare un dialogo con l’altro. Soprattutto gli incontri di Lucia che dapprima imita gli

altri suoi coetanei denudandosi e poi vi entra in relazione verbale (imparando prima a leggere, poi a

parlare la lingua inglese e in seguito ad elaborare un suo pensiero critico) sanciscono in lei la

costruzione di un nuovo soggetto antropico-politico. In questo senso la salvezza di Lucia attraverso

gli altri definisce nel film il suo sviluppo armonico, quello che Lukács chiama personalità. (Vieppiù

che in maniera meta-cinematografica è come se il regista ci dicesse che ‘il passato’ può risorgere

solo sotto forma di personalità).

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E dunque in questo senso l’isola sta nel suo splendore con la montagna, le scogliere a strapiombo, il

mare nella sua vastità, le rocce, il tramonto, il bosco come spinta lineare che sottende i momenti

della presa di coscienza; l’isola di Capri è il luogo e il tempo della rivoluzione come ri-costruzione

del mondo (interiore e mondano). Attraverso un lavoro di montaggio, di taglio di inquadrature,

Martone fa vedere in una prospettiva sempre smisurata la dimensione ‘alta’ e quella più ‘profonda’

della natura attraverso la quale Lucia (ma anche l’intellettuale e il medico) partecipano al

movimento della propria rivoluzione. In questo senso la valenza dell’isola va intesa in primis come

natura correlata anche con la scelta da parte degli intellettuali e poi di Lucia di non mangiare la

carne sposando il pensiero animalista e il rispetto della sacralità degli animali. E ancora in un

confronto fra il medico e l’intellettuale viene mostrata la capacità dei limoni di produrre energia

elettrica e il potere curativo delle piante. Come dire, parafrasando Ejzenštejn, che Lucia scopre che

la natura è ‘non-indifferente’ pedissequamente ad un sentire della società in cui la ricerca di un’

adesione al mondo naturale è forse sintomo di un rinnovato bisogno di ricollocarsi nella realtà.

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Double-vies (Non-Fiction)

Prologo

Double-vies il film in concorso di Olivier Assayas solleva diverse questioni che ci permettono di

riflettere anche sulla civiltà della scrittura. Assayas è ascrivibile alla figura dell’autore-intellettuale

(regista con un passato da critico cinematografico) laddove in Francia, luogo di nascita di questa

figura, lo scrittore come intellettuale è un’istituzione, un’entità rispettata e riconosciuta (anche dalla

classe politica, basti pensare al ruolo rilevante del filosofo Bernard Henri-Lévy presso il presidente

francese Macron). All’inverso della Francia, in Italia non si può non partire dalla constatazione che

quella dello scrittore-intellettuale è una figura ormai ‘storica’ e storicizzabile, di fatto estinta. I

cosiddetti ‘grandi intellettuali’, i maîtres-à-penser, capaci di costituirsi come guide morali, come

produttori di pensiero in grado di influenzare e di orientare l’opinione pubblica, o interi gruppi

sociali, non sono sopravvissuti all’eclissi dei grand récits delle ideologie otto-novecentesche. (Gli

ultimi sono stati Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia). Mentre la realtà socio-politica e culturale

del tardo capitalismo si è sfarinata e si è trasformata in una nuova koiné tecno-informatico-

finanziaria globalizzata, la società letteraria tradizionale si è perlopiù estinta. La funzione dello

scrittore intellettuale in Italia è radicalmente decaduta, anche perché in qualche maniera rigettata

dal sistema come qualcosa di anacronistico ovvero fastidioso (si veda ad esempio la recente vicenda

di Edoardo Albinati che nel suo slancio di polemico scrittore intellettuale è stato attaccato dagli

‘haters’, simboli quest’ultimi per l’appunto della nuova realtà tecnologica in cui viviamo). Sulla

cruciale questione del critico e dell’intellettuale si segnala il recente e notevole intervento di

Federico Bertoni, docente di letteratura italiana dell’Università di Bologna, pubblicato su Alias (22

aprile, 2018), all’interno del dossier pubblicato a puntate e intitolato “Critica dove sei?”. Bertoni in

maniera lucida quanto corrosiva sottolinea un avvitamento del pensiero critico in riferimento alla

caduta in disgrazia della teoria letteraria e allo svilimento di ogni pensiero teorico, propendendo

verso l’idea di seppellire l’umanesimo. L’intellettuale riluttante (Eleuthera, p.176, E. 15.00, 2018) è

invece l’ultimo saggio di Pier Aldo Rovatti in cui il filosofo sottolinea appunto l’attuale mancanza

di un intellettuale critico e autocritico che dovrebbe ‘riluttare’ all’interno delle istituzioni, della

storia, ciò che ognuno per la sua parte dovrebbe impegnarsi a fare. Assayas fa dire all’interno del

film la celebre battuta “se non ti occupi della politica, la politica comunque si occupa di te’

lanciando un campanello d’allarme che dovremmo ascoltare per non trovarci senza via di scampo.

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Il film

Se si è storicamente esaurito il pensiero intellettuale che ha connotato le vicende del ’900,

nondimeno tuttavia permane sottotraccia un bisogno di figure portatrici di uno sguardo diverso

soprattutto in quanto agenti all’interno di un nuovo scenario post-umanista. Ebbene Olivier Assayas,

che ha forse presentato un film meno riuscito rispetto ai precedenti, ha il merito comunque di essere

ritornato su questo nostro tempo che ci sta passando velocemente sopra la testa senza che noi si

abbia gli strumenti critici per capirlo appieno. Il film si apre quasi in media res con una brillante

conversazione fra l’editore Alain (Guillame Canet) e lo scrittore Léonard (Vincent Macaigne) e che

intreccia e solleva le numerose problematiche ed idiosincrasie inerenti la figura e il ruolo dello

scrittore oggi, ciò che è letteratura e ciò che oggi passa per letteratura, ciò che è la critica e ciò che

oggi è diventata la critica, in riferimento alla nuova realtà tecnologica-informatica in cui ci

muoviamo.

All’interno di una struttura narrativa che intreccia l’oralità del teatro con il cinema, Olivier in

qualche maniera assegna ad ogni personaggio un ruolo e una dimensione da non intendere come

gabbia, ma sempre come doppio se non molteplice, come peraltro si evince dal titolo.

Alain identifica l’intellettuale, ovvero la figura di un editore colto che porta avanti una casa editrice

di qualità letteraria e il quale sta valutando ‘criticamente’ il passaggio all’editoria digitale; Léonard

è invece uno stimato scrittore editato da anni da Alain, che tuttavia rifiuta il suo ultimo manoscritto

perché visto come replica degli altri romanzi. I due personaggi sollevano come primo problema

proprio la fine del ’900 e l’apertura di un’epoca tecnocratica e in cui la figura del critico è stata

sostituita dal blogger; Alain consapevole di tale cambiamento vede negli estremisti di una certa

sinistra un modo errato di reagire alla realtà dei fatti, mentre Léonard mantiene il suo ‘non voler

sapere’ di fronte ad una sorta di ‘mediaevo’ .

Il film prosegue, poi, in questo senso attraverso almeno due scene corali: la prima inerisce una

serata conviviale tra amici e ambientata nella casa di Alain e della moglie Selene che è un’attrice

(Juliette Binoche) i quali si trovano a discutere fra di loro sulla letteratura di oggi e sulla

digitalizzazione; la seconda scena ha come fulcro la moglie di Léonard, una sorta di social media

manager di un noto politico, e attiene invece ai problemi dell’informazione e della politica odierni

attraverso una vivace, corrosiva, polemica dialettica fra i personaggi che illuminano le dinamiche

profonde e le contraddizioni di un mondo in una fase irreversibile di trasformazione. Così, en

passant, gli argomenti di discussione vanno dall’oscurantismo da ridondanza comunicativa a tal

punto che le persone non sono più politicamente indignate, alla consapevolezza di essere in un

tempo stolto in cui si cambia opinione da un momento all’altro, si è incapaci ad ascoltare, di

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elaborare valutazioni stabili, avendo perso la ragione, il controllo delle emozioni (di cui i social

media ne sono fucina e riflesso con ripercussioni anche nella vita reale). E ancora la sostituzione del

‘tweet’ alla critica letteraria e che coinvolge soprattutto Léonard, ignaro della pioggia di commenti

liquidatorî nei suoi confronti apparsi sui vari blog e social.

A ciò si aggiunge il personaggio di Laure (Christa Théret) la giovane ingaggiata da Alain per

captare e promuovere tendenze dell’editoria digitale e che ‘incarna’ anche nel suo aspetto fisico

quasi evanescente e dinamico il nostro tempo; Laure ritiene da sciocchi opporsi ai cambiamenti in

atto, alla comodità della rivoluzione digitale, all’allargamento della concezione di opera letteraria

(incluse le e-mail alle quali Alain non è contrario in sé a patto che ci sia una qualità di scrittura),

all’appagamento di un algoritmo che ci aiuterà a soddisfare i nostri bisogni.

L’altra faccia dello specchio del discorso di Assayas, doubles vies appunto, si riflette sulla sfera

personale in diverse maniere; Léonard rappresenta lo scrittore di autofiction che vampirizza le sue

passate relazioni sentimentali per farne dei romanzi. Assayas presenta, con tratti piuttosto ironici, la

figura di un tipo di scrittore oggi diffuso, anche nella nostra letteratura contemporanea, e che è

probabilmente anche il riflesso della ‘rivoluzione digitale’ in cui viene meno il discrimine fra il

privato e il virtuale. Di contro Léonard è ‘doppio’ in quanto il suo limite narrativo conserva sempre

una qualità letteraria che fatica ad incontrare i gusti del pubblico. (Se Pirandello aveva detto che la

vita o si vive o si scrive, il problema attuale che desumiamo dal film è: come fare letteratura con il

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nuovo interlocutore dello scrittore – cioè l’uomo immerso nello spirito attuale del capitalismo

‘connessionistico’ che si basa sulle relazioni, sulle reti sociali più che sulla capacità di sapere e che

non è più socialmente selezionato in élite culturale distinta dalle masse tecnologizzate?).

Alain e la moglie imbastiscono poi rispettivamente una relazione extraconiugale con Laure e con

Léonard. Le dinamiche sentimentali raddoppiate dal regista si prestano a due direzioni: da un lato,

afferma Assayas, esse sono il frutto anche di un cambiamento delle nostre relazioni con l’altro

causato dal web, da una società duplice e da legami affettivi ‘smaterializzati’ quanto accelerati nella

loro parabola di vita.

Dall’altro, potremmo aggiungere come soprattutto la relazione fra Alain e Laure (l’uno simbolo

della Letteratura, l’altra della Comunicazione e della società virtuale) sia proprio il concreto luogo

disvelante le rispettive individualità o meglio le opposte visioni del mondo e prese di posizione

rispetto alla realtà. Ne deriva una «complicata dialettica» fra sincerità e apertura, da un lato, e

inganno e autoinganno dall’altro, che ha il fondamento sulla ‘parola’ piuttosto che sul corpo

(sebbene proprio Laure cerchi invano nel letto il corpo di Alain. Di contro la relazione fra Léonard e

Selene è mostrata attraverso un giocoso e sensuale attaccamento fisico fra i due, quasi alla reciproca

ricerca, soprattutto da parte dello scrittore, di una materia all’interno dell’esistenza).

Alain e Laure rinviano quindi rispettivamente anche ai concetti di ‘fede’ e di ‘ateismo’; dopo un

rapporto sessuale (che non vediamo) Alain prende anche fisicamente le distanze da Laure

affermando di sentirsi come l’uomo di fede di Luci d’Inverno di Bergman, ovvero colui che non

vuole rinunciare al suo operato anche se la chiesa è vuota. E non manca di aggiungere, poi, di avere

‘fede’ come ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, dove si dice che tutto deve cambiare

affinché tutto resti com’è. Se il rapporto fra uomo (letteratura) e mondo si è rotto (ulteriormente con

l’avvento della società digitale) la figura di Alain continua comunque ad aver fiducia in questo

mondo e che si possa ricreare un legame con esso.

All’interno di questo film Assayas presenta i personaggi evidenziandone a tratti, anche con toni

ironici, i lori limiti intellettuali ed esistenziali; ma al contempo l’autoironia è anche una via per

delineare, all’interno di una società virtuale (ma anche per certi versi reale) in cui i sentimenti sono

amplificati e governati dagli istinti più bassi, una condotta di vita che ci renda meno infelici. Come

se il raggiungimento di un controllo sulle emozioni (che Assayas assegna ad esempio alla oglie di

Léonard) vincendo in qualche maniera il proprio Io, disciplinando se stessi, permetta di stabilire un

rapporto armonico con gli altri.

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FUORI CONCORSO

In questa sezione è stato presentato El-Pepe, una vida suprema (El Pepe, a Supreme Life) di Emir

Kusturica – un docu-film su El Pepe, l’ex presidente dell’Uruguay. Il film si struttura attraverso una

serie di campi e controcampi fra il regista serbo che intervista El Pepe nella sua abitazione in

campagna. Il registro registico procede perlopiù secondo primi di piani del regista e di El Pepe,

alternati a filmati storici della militanza quanto della detenzione e a video più recenti inerenti la sua

presidenza e il fine del suo mandato. Più che un docufilm di immagini, Kusturica lavora a una

struttura filmica in cui è l’oralità (la musica, ma anche la parola) a scandire il passaggio delle

inquadrature quanto a risignificare di senso le immagini che vediamo. Il tango è la musica della

nostalgia, della vita trascorsa e di quella esigua che resta e che accompagna le parole di El-Pepe

soprattutto ripreso immerso nella sua campagna e intento a commentare i piccoli esseri animali e

naturali intesi non solo come modalità per capire la vita, ma anche per sopravvivere ad essa. I fiori

che El-Pepe insegna a un gruppo di adolescenti a coltivare hanno bisogno di cure costanti, ma

costituiscono anche un lavoro per i poveri che possono venderli ai ricchi. (Finché ci saranno i ricchi

si avrà bisogno di fiori, dice El-Pepe). Kusturica ci mostra un El-Pepe privato, quotidiano, che in

qualche maniera ‘spiega’ la sua vita con la frase: “A volte ciò che è male è un bene / a volte ciò che

è un bene è un male” e un El-Pepe pubblico che in maniera simile parla al popolo in festa, mentre

sentiamo i tamburi e la rumba e una mdp che segue il movimento della folla entusiasta con El-Pepe

in mezzo alla gente.

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Kusturica presenta un docu-film in cui riesce a far emergere con tenerezza, come se i movimenti

della mdp fossero delle carezze, la caratura umana dell’uomo facendone quasi una storia del singolo

spettatore; ognuno si sente o vorrebbe essere come El-Pepe, e al contempo ognuno non può che

provare commozione per quest’anomala figura politica dell’Uruguay. Indubbiamente la forza del

lavoro di Kusturica e per certi versi di El-Pepe, attuale mito della sinistra mondiale per onestà e

coerenza, è quella di coniugare la bellezza delle immagini, nitide, luminose e che sono il piacere di

vivere per la vita o per cambiare il mondo, con una parola vigile e critica sul mondo in cui viviamo

e dove, afferma El-Pepe: “Il capitalismo non è fare soldi con il lavoro altrui, ma con il denaro

altrui”.

American Dharma di Errol Morris, proiettato fuori concorso, è un film-documentario in cui viene

intervistato Steve Bannon, creatore della campagna elettorale di Donald Trump.

La struttura prismatica del film, il montaggio alternato e serrato fra il primo piano in camera fissa di

Bannon, i filmati giornalistici nonché le schermate di ‘tweet’, post e materiali pubblicati sui social

media come racconto in diretta della vicenda politica di Donald Trump, video, corrispondono a una

relatività della verità e all’impossibilità di giudizio, che si mescola ai riferimenti di film del cinema

classico hollywoodiano amati da Bannon e in cui egli si identifica. Cieli di fuoco di Henry King in

cui il generale di brigata Frank Savage, interpretato da Gregory Peck, dice ai suoi soldati che la loro

missione (cioè il dharma come sintesi di destino e dovere) può corrispondere a morire, Sfida

infernale di John Ford dove la chiesa rinvia a Breitbart, Sentieri Selvaggi n cui Bannon si identifica

con John Wayne per ribattere alle accuse di razzismo o xenofobia, Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick

in cui il suo ideale alter-ego è il colonnello Dax (Kirk Douglas) nella lunga sequenza in cui percorre

la trincea e che rimanda alla sua fase politica finale ma non meno combattiva..

Nell’epoca in cui la politica è diventata spettacolo intrecciandosi fittamente con la comunicazione,

Steve Bannon, fondatore del sito populista Breitbart, è il motore grazie a cui Trump costruisce una

comunicazione virtuale e mediatica capillare e vincente, associata al ‘cambiamento’ (facendo leva

anche sul malessere diffuso a seguito del crollo finanziario del 2008) laddove il populismo si

presenta come una forza positiva atta a smantellare la burocrazia che impedisce alla buon politica di

funzionare. Vieppiù che Trump ha saputo intercettare l’impatto socio-economico della

globalizzazione e la sensazione collettiva di una progressiva perdita di identità e dignità all’interno

del deterioramento della democrazia.

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E dunque l’esito delle elezioni alla presidenza degli USA è ricondotto da Bannon anche alla cecità

di Hillary Clinton che “non aveva capito su cosa si sarebbero giocate le presidenziali’, nonché alla

forte empatia comunicativa di Donald Trump di contro alla naturale disempatia della candidata del

Partito Democratico, associata dal popolo americano all’élite economica e politica cittadina.

Morris nel susseguirsi della conversazione con Bannon ci fornisce un ritratto dell’advisor ambiguo

ovvero in cui la sua critica al potere finanziario e al capitalismo oligarchico è consustanziale al

voler istigare nelle masse una visione nazionalista e populista vòlta a progettare nuovi e

preoccupanti assetti.

Il documentario di Morris non aggiunge molto a ciò che già sappiamo su Trump e Bannon, ma resta

comunque un film lucido in cui il primo piano sempre imperturbabile di Bannon è inserito in un

raffinato lavoro di montaggio che genera immagini e significati altri in relazione alla sua figura e in

qualche maniera al tempo che stiamo vivendo.

SEZIONE ORIZZONTI

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Sarah Marx è invece l’autrice del lungometraggio d’esordio L’EnKas, presentato all’interno della

sezione Orizzonti, incentrato sulla figura del giovane ragazzo Ulysses (Sandor Funtek), il quale

appena uscito di prigione si trova costretto a vendere una miscela di acqua e ketamina in un food

truck per trovare il denaro necessario a curare la madre depressa (Sandrine Bonnaire). Il soggetto

della Marx, scritto con Hamé e Ékoué risulta piuttosto interessante sia in quanto imperniato sul

rapporto rovesciato in cui un figlio ex detenuto deve badare alla madre malata, sia perché la

ketamina a cui il titolo si riferisce ha anche una connotazione positiva in quanto contenuta in un

farmaco anti-depressivo assunto dalla madre. In quest’ottica l’originale intenzione della Marx è

quella di presentare una realtà complessa e contraddittoria per cui le buone intenzioni di Ulysses di

riprendere una vita normale e giusta nella capitale francese sono impedite dalle circostanze familiari

e dall’assenza di una vera assistenza sociale per il reinserimento dei detenuti nella società. Notevole

è la bravura della Bonnaire che manifesta la sua depressione lavorando per ‘sottrazione’, e la prova

del giovane attore che da solo sostiene il film, laddove la Marx procede con una sceneggiatura

debole e una regia talvolta ‘anonima’ che non riescono a far emergere appieno ‘il viaggio’ del

protagonista e quindi a ritrarre in maniera autorale il suo percorso senza un porto sicuro. L’incontro

con l’autrice e con il cast avvenuto inseguito alla proiezione presso la sala Perla ha confermato la

mancanza di elementi stimolanti per poter ragionare sul linguaggio cinematografico come luogo-

non luogo, concentrando il dibattito perlopiù sulla ketamina che tuttavia resta anch’essa in

superficie pur forse nell’ambizione di renderla una sostanza-simbolo, metaforica di come la società

sopravvive oggi.

All’interno della medesima sezione sono stati presentati ulteriori film incentrati sul complesso

rapporto tra madre e figlio; Un giorno all’improvviso, lungometraggio d’esordio di Ciro d’Emilio,

che ruota attorno ad una madre (Anna Foglietta) con una personalità borderline-narcisista. Su una

linea più tradizionale rispetto ai ruoli madre-figlio si muove invece Joachim Lafosse con il film

Continuer in cui una madre decide di intraprendere un viaggio a cavallo con il figlio che aveva

abbandonato anni prima. Se nell’opera D’Emilio la metafora della prossimità e del distacco è data

dalla lingua (il dialetto napoletano) e quindi dalla corporeità, in Continuer Lafosse rielabora le terre

desolate del Kirghizistan come simbolo di estraneità ed enorme distanza tra i due personaggi; la

madre è in prossimità con il mondo attraverso parola (la conoscenza della lingua straniera), di

contro il figlio è animato da una costante diffidenza e incapacità a relazionarsi con i personaggi che

man mano incontrano durante il viaggio, ad eccezione dei cavalli e di coloro che conoscono la

lingua segreta degli equini. Il film di Lafosse è pressoché privo di un trama e meglio i due momenti

ascrivibili a una sussulto non costituiscono i punti necessari a giustificare un accenno

dell’evoluzione del rapporto fra madre e figlio. È il procedere, il continuare appunto, attraverso

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campi lunghi, a costituire quasi l’emblema della vita e dei rapporti umani laddove il viaggio nel suo

procedere, pare avere una connotazione ripetitiva e circolare data anche da uno scenario invariato.

Lo spazio è terra di libertà, ma cela anche il male.

La noche de 12 anos (A Twelve-Year Night) di Alvaro Brechner e presentato nella sezione

Orizzonti affronta la storia delle vittime della dittatura uruguagia attraverso tre tupamaros: José

Mujica (futuro presidente della Repubblica dell’Uruguay), Nato (Eleuterio Fernandez Huidobro,

futuro Ministro della difesa) e lo scrittore Mauricio Rosencof, reclusi dal 1973 al 1985. L’obiettivo

del film è quello di descrivere l’esercizio del potere come induzione alla follia per i tre prigionieri

costretti non solo a vivere in condizioni igieniche e alimentari disumane, ma impossibilitati a

parlare fra di loro. Il problema di questo film è che Brechner non riesce a descrivere con efficacia né

le nefandezze del potere militare, né la follia di un personaggio, né la determinazione con cui i tre

uomini riescono comunque a dialogare fra loro. Il film che ha un buon inizio, prende poi un passo e

un respiro televisivo (nel tipo di inquadrature, nella scelta delle musiche) come se Brechner

delegasse perlopiù al lavoro del trucco e dei costumi la descrizione della disumanità vissuta. La

follia parziale di Nato è detta più volte dal personaggio stesso, ma non la vediamo né nel volto del

personaggio né tantomeno cinematograficamente. E di contro la ‘dittatura’ è in fondo un nemico

non eccessivamente cattivo laddove vediamo lo stesso Nato ‘conversare’ con il capo che comunque

si pone come suo pari, e un generale innamorato donare a Mauricio del pane in cambio di una

lettera d’amore, e Mujica essere al centro di una scena divertente che coinvolge diversi soldati.

Posto che, forse anche in riferimento alla veridicità dei fatti, Brechner decide di inserire queste

scene più leggere, ne deriva un lavoro confuso in cui la perdita del punto di vista sulla vicenda ce la

fa vivere come una fiaba a lieto fine restando, da spettatori non uruguayani, con una certa ignoranza

su cosa è significata la dittatura in quel paese e sugli effetti di ogni regime totalitario sui detenuti. A

tal proposito, questo film di Brechner fa venire in mente un’opera molto diversa, Fuga di

mezzanotte, che su temi analoghi risultava assai più autoralmente convincente.

SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA

All’interno della sezione segnaliamo in negativo il cortometraggio Epicentro di Leandro Picarella,

un’opera che comunque ha intento meritorio, ovvero quello di riuscire a parlare della democrazia

oggi attraverso la figura di un Pericle redivivo e che tuttavia giunge all’esito opposto. Picarella

scrive un cortometraggio didascalico, dalla sceneggiatura piuttosto banale, i cui personaggi ovvero

il regista, il politico, l’assistente del politico sono a livello registico e recitativo scontati e

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macchiettistici, accumulatori di una serie di luoghi comuni. L’entrata in scena di Pericle sottolinea

poi la difficoltà del giovane regista a sviluppare l’idea di partenza, cosicché il capo politico per

eccellenza di Atene è ridotto a scimmia urlante. La parte più riuscita di questo cortometraggio è

l’inizio ovvero una serie di inquadrature in bianco e nero dei ruderi di una città che forse come

suggestione poetica Picarella avrebbe potuto sviluppare ulteriormente.

Un altro cortometraggio da segnalare in negativo (anche se ha ricevuto il premio della regia) è

Gagarin mi mancherai di Domenico de Orsi. Il giovane regista ci fa vedere attraverso una serie di

campi e controcampi una sorta di astronauta intento a fotografare un paesaggio roccioso, quasi

marziano, e un giovane uomo preso dai lavori di campagna. La storia si conclude apprendendo ciò

che lo spettatore sa dall’inizio, ovvero la corrispondenza fra i due uomini. Gagarin mi mancherai è

un corto dal finale piuttosto debole in cui la ammirevole qualità tecnica del film (ottima è la

fotografia) non sopperisce tuttavia alla mancanza di un’idea autorale forte.

I due cortometraggi menzionati ci suggeriscono una riflessione più ampia su una tendenza di un

nuovo linguaggio cinematografico in cui si nota a livello di montaggio un prevalente uso dello

‘stacco’ (sono rarissime se non estinte le dissolvenze, i flou, gli scavalcamenti di campo, gli zoom)

come forse bisogno di una visione più naturalistica del cinema e del reale e che tuttavia corrisponde

spesso a una tendenza ad indugiare con la mdp su inquadrature che vogliono dire più che mostrare.

Di tutt’altra fattura sono i film Bêtes Blondes (Bestie Bionde) della coppia Alexia Walther e

Maxime Matray e aKasha (The Roundup) di Hajooj Kuka.

Bestie Bionde è un film in primo luogo cólto, confermando la schisi tra un certo cinema francese

rispetto a quello italiano in cui lo spessore culturale e intellettuale del regista, dello sceneggiatore è

un elemento imprescindibile per scrivere un film, soprattutto se si tratta di una commedia che faccia

sorridere realmente. L’opera di Walther e Matray è una commedia per l’appunto raffinata, colta, ma

anche molto spassosa, il cui protagonista Fabien, ex star di una sit-com degli anni ’90, si trova

coinvolto in una specie di piccolo viaggio di formazione legato ad un ‘dettaglio’ della sua vita

rimosso. L’amore dei due registi per la letteratura simbolista francese, per cui nel film i fiori, gli

animali, i colori, i cibi, gli escrementi stessi vengono ‘rielaborati’ in una sequela di situazioni e

comportamenti ‘assurdi’, grotteschi e surreali, quanto più ancorati alla realtà ripensata

narrativamente. Fabien in seguito ad un grave incidente in moto con la sua fidanzata (deceduta) non

sente più odori, né sapori pur essendo sempre affamato e soffrendo di narcolessia. Questa

condizione di anestesia dalla realtà, di non coscienza o di non voler sapere, è emblematizzata ma

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anche contrastata dalla testa di un ragazzo morto (fidanzato con un giovane che sta cercando la sua

testa) e che Fabien per una serie di circostanze si troverà suo malgrado a portare con sé.

In un processo di sineddoche e di paratassi, la testa del giovane gli permetterà di vedere il fantasma

della sua fidanzata decapitata e che comunque parla. Bestie Bionde concretizza tanto il tema

dell’amore quanto del lutto attraverso la testa della persona amata che è coscienza, intelletto, luogo

legato ai sensi dell’udito, odorato, vista e gusto, oggetto-feticcio, ma anche come oggetto che rinvia

alla colpa.

aKaska (The Rondup) è il notevole lungometraggio d’esordio del regista Hajooj Kuka e che si

distingue come film anomalo rispetto alla produzione cinematografica di film ambientati in Africa.

Il regista sudanese vuole proporre all’interno della realtà della guerra civile in Sudan e attraverso le

vicende di Adnan (Kamal Ramadan) e del suo kalashnikov dal nome Nancy, un ritratto vivace e

colorato dell’Africa in cui il paesaggio, le abitazioni, gli abiti, i giovani, sono belli perché animati

comunque da un impeto di vita legato a un’identità collettiva (quella africana) o a un concetto di

comunità che travalica le lotte intestine.

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Kuka firma la regia, la sceneggiatura, il montaggio e la fotografia imponendosi come autore

completo dell’opera con l’intento coraggioso, ma pure criticabile di far vedere un’Africa allegra e

ironica seppure in guerra. In questo senso le carrellate e gli inseguimenti con la macchina a mano

dei militari verso i giovani disertori e i primissimi piani come i piani lunghi con movimenti di

macchina circolari che seguono i ‘corpi’ dei personaggi principali denotano una ‘salvezza’ del

corpo e dello spirito legata alla tradizione; più fugge dalla guerra e più Adnan si rifugia nel cuore

stregonesco e magico dell’Africa denudandosi dell’abito militare, di quello occidentale e di quello

creolo per congiungersi con il rito.