manuale di letteratura italiana 800 in poi

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INDICE UNITÀ I L’Ottocento, l’uomo e la letteratura. 2 UNITÀ II L’uomo tra ombra e realtà ..........33 UNITÀ III Influssi di letteratura straniera. .72 UNITÀ IV Il decadentismo.....................83 UNITÀ V Diseroicizzazione..................145 UNITÀ VI L’uomo e il teatro.................164 UNITÀ VII Conflitto umano e letteratura.....218 UNITÀ VIII Letteratura e contemporaneità ...245

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Utile sintesi per studiare o ripassare la letteratura contemporanea

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Page 1: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

INDICE

UNITÀ I L’Ottocento, l’uomo e la letteratura.....................................2

UNITÀ II L’uomo tra ombra e realtà .................................................33

UNITÀ III Influssi di letteratura straniera..........................................72

UNITÀ IV Il decadentismo.................................................................83

UNITÀ V Diseroicizzazione............................................................145

UNITÀ VI L’uomo e il teatro...........................................................164

UNITÀ VII Conflitto umano e letteratura.........................................218

UNITÀ VIII Letteratura e contemporaneità .....................................245

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I UNITA’ : L’Ottocento, l’uomo e la letteratura.

Prerequisiti:

- Conoscenza del discorso letterario del tardo Settecento e del periodo del

Preromanticismo.

- Capacità elaborativi e di contestualizzazione dei processi di cambiamento

nell’ambito letterario.

Obiettivi:

- Acquisizione dei cambiamenti metodici ed espositivi dei poeti della prima

metà del secolo ottocento.

- Acquisizione del concetto di “romantico” nella letteratura.

- Acquisizione del contesto socio-politico dei primi anni dell’Ottocento e dei

suoi contagi letterali.

- Acquisizione del nuovo modello letterario quale fu il Romanzo storico italiano.

- Acquisizione del confronto Dio/ uomo, uomo/ società.

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Si studieranno:

- La poetica del Romanticismo e il contesto storico nel quale si sviluppa e cresce.

- Alessandro Manzoni.

- Giacomo Leopardi.

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IL ROMANTICISMO

Il Romanticismo fu un complesso movimento culturale che produsse profondi

trasformazioni nelle lettere, nelle arti, nel pensiero politico e nel costume, sorge sul

fine del ‘700 in Inghilterra e in Germania, presto in tutta l’Europa.

Il nome del movimento deriva all’aggettivo romantic che apparve per la prima

volta in Inghilterra intorno al 600. Via via assumeva il significato di cosa

fantastica, irreale, conservando in parte l’antico significato di narrazione poetica in

versi. È difficile stabilire una cronologia precisa: in Germania si fa sorgere il

Romanticismo intorno al 1798 con la pubblicazione della rivista “Ateneum”, in

Francia con la pubblicazione della prefazione al dramma Cromwell di Victor

Hugo.

Contesto storico

La rivoluzione Romantica si fonda su un nuovo modo di concepire la realtà e i

rapporti tra gli uomini, connesso alle trasformazioni ideologiche, politiche e

morali, dell’Europa tra ‘700 e ‘800.

La Rivoluzione Francese sostituisce all’ideale statico del mondo feudale un’idea

della vita come movimento, liberando le forze genuine della natura umana

compresse da istituzioni secolari.

La proclamazione dell’ideale della libertà corrisponde all’esaltazione di una

società di uomini liberi ed uguali, intesi a proclamare la propria individualità. Ma

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l’illuminata politica liberale si scontra ben presto col grave problema del

proletariato che costituiva una classe sempre più consapevole della mancanza di

un’adeguata legislazione sociale e aprì la strada a nuovi fermenti rivoluzionari. Fu

allora che il Romanticismo poté apparire in parte un movimento reazionario. Se in

un primo tempo, soprattutto in Germania e in Francia, con la sua difesa della

tradizione ed un ritorno al passato in funzione anti-napoleonica coincise con la

volontà politica della restaurazione, ben presto Romantico divenne sinonimo di

liberale e il Romanticismo assecondò ed ispirò il movimento di liberazione dei

popoli.

La nuova concezione della realtà

Durante la corrente Romantica si parlerà di spiritualismo, individualismo, di

storicismo e dialettica.

Spiritualismo: il Romanticismo diviene consapevolmente specchio di un divenire

storico problematico e tormentato. L’Illuminismo aveva esaltato la ragione come

facoltà sovrana a cui tutte le altre dovevano essere subordinate criticando le

religioni e proponendo un vago deismo o una concezione materialistica del mondo.

Il Romanticismo invece pervaso da un’ansia religiosa che sfocia in una religione

dell’umanità fondata sul concetto dei valori spirituali più alti che dirigono la storia.

Nasce così un concetto più ampio della vita dello spirito, fondata sulla libera

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associazione di tutte le facoltà fra le quali però il sentimento è la forma più alta

perché nasce nella profondità dello spirito umano.

Individualismo: la cultura Romantica esalta in primo luogo la libera individualità

creatrice dell’uomo. A differenza della ragione che lo accomunava agli altri, il

sentimento lo distingue come essere unico legato alla natura, alla tradizione, alla

storia, ma da esse emergente con una propria libertà. Questa affermazione dell’Io,

del suo diritto a ribellarsi a ogni repressione e tipica del nuovo ottimismo borghese.

Nell’atmosfera stagnante della restaurazione l’individuo Romantico appare spesso

chiuso in una tragica solitudine, alla ricerca di una impossibile comunione con

l’infinito. Ecco perché il poeta rifiuterà la falsa morale borghese del successo, del

profitto, della vittoria contro la società.

Molti scrittori invece avvertivano il valore progressivo della rivolta e anche della

sconfitta ma diviene denuncia e lotta per la libertà e per la giustizia.

Storicismo: mentre l’Illuminismo aveva respinto il medioevo perché intralciava lo

sviluppo della civiltà borghese, il Romanticismo invece sente la tradizione come

elemento essenziale della vita dell’individuo e dei popoli, il medioevo è

considerato l’età in cui si forma la civiltà moderna cristiana. Si concretizza così

l’idea di nazione che ha anche radice dell’individuo e per questo che i movimenti

di liberazione delle nazionalità oppresse sono considerati riscatti delle proprie

radici.

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Dialettica: nasce da qui il senso drammatico della vita che è proprio del

Romanticismo, l’infinito è la nuova vera divinità del romantico.

Il Romanticismo e la poesia

Il Romanticismo concepì la poesia come una delle più alte espressioni della vita

dello spirito. Canone fondamentale dell’estetica Romantica è che la poesia è libera

espressione del sentimento individuale, della forza più profonda dell’animo.

Furono quindi esaltate la sincerità, la spontaneità, la poesia popolare, poiché nata

dall’ingenua anima del popolo di cui il rifiuto romantico di tutte le altre poetiche.

Se la poesia è continuo divenire tale doveva essere anche l’arte e quindi abolire

l’imitazione, le regole dettate dai classici. Il poeta Romantico cercò un pubblico

vasto, non solo persone colte, vuole parlare al popolo, esserne l’interprete e la

guida. Tale concezione della poesia fu svolta dai Romantici in due direzioni: da un

lato portò allo scavo interiore o al protendersi dell’anima verso il sogno dall’altro

condusse alla rappresentazione della realtà oggettiva, delle tradizioni e della vita di

un popolo o di una società.

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ALESSANDRO MANZONI

La vita di Alessandro Manzoni fu solitaria e raccolta, aliena dalla confessione,

antilirica, si potrebbe dire, e antieroica, intesa non all’affermazione

individualistica, ma a ritrovare il proprio significato nella realtà quotidiana e nelle

comuni aspirazioni degli uomini.

Per questo il Manzoni seppe esprimere, meglio del Foscolo e del Leopardi, gli

ideali democratici e liberali, che l’ambiente lombardo aveva saldato alle istanze

migliori dell’Illuminismo, e che egli congiunse alle proprie persuasioni cristiane.

Nacque a Milano nel 1785 dal nobile Pietro e da Giulia, figlia di Cesare Beccarla,

e compì gli studi prima presso i frati Somaschi, a Merata e a Lugano, poi a

Milano, presso i Barnabiti. Tuttavia la prima formazione intellettuale fu

razionalistica e illuministica, antitirannica e anticlericale. Lo attesta un suo

poemetto giovanile, Il Trionfo della libertà (1801), concepito secondo il gusto

della “visione” montana, che è una fiera invettiva contro la “superstizione”

cattolica e il dispotismo, e un’esaltazione della libertà portata nel mondo della

Rivoluzione.

Al di là delle forme enfatiche e poeticamente acerbe, già in esso si avverte un

impegno civile, un ideale di poesia legata alla vita e posta al servizio della verità.

La meditazione delle opere del Parini, dell’Alfieri e del Foscolo, col quale ebbe

rapporti amichevoli, ribadì, nel Manzoni, l’esigenza di una poesia fusa con la vita

della coscienza, e tale da configurarsi come nobile messaggio; e d’altra parte, il

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contatto con l’ambiente culturale milanese, illuministico e riformistico, sviluppò la

sua tendenza verso una letteratura rivolta alla soluzione dei problemi concreti della

società, a una battaglia morale e culturale in senso democratico.

Assai importanti furono anche i contatti con gli esuli napoletani del ’99 da cui

apprese la filosofia del Vico, cioè la concezione della storia come storia della

civiltà dei popoli e del suo continuo progresso e svolgimento; e apprese inoltre, dei

principi politici a cui tenne poi sempre fede, cioè che la libertà non può essere un

dono ma deve essere conquista d’un popolo, e che l’Italia non poteva conseguirla

se non attraverso l’unità e l’indipendenza totale dello straniero.

I frutti di questa maturazione intellettuale e artistica appaiono nelle opere di

questo periodo, fra le quali si ricordino l’idillio Adda, di elegante fattura, e i

Sermoni (1802-1804), vivace satira morale, politica e letteraria. Ma la più

importante fra le opere giovanili del Manzoni sono gli sciolti

In morte di Carlo Imbonati (1806), composti a Parigi, dove il poeta accompagnò la

madre, dopo la morte dell’Imbonati, col quale elle, separata legalmente dal marito,

aveva convissuto. Il carme rivela una certa spregiudicatezza nei confronti della

morale corrente, ma enuncia anche una poetica che, per molti aspetti, resterà

definitiva. Essa propone come fine della poesia la testimonianza del vero, del

giusto e del retto, ribadita poi nel poemetto neoclassico Urania (1809).

A Parigi egli frequentò i più importanti fra i nuovi ideologi, intesi ad orientare i

principi illuministici, dopo le delusioni della Rivoluzione, verso una sensibilità

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romantica, più rispettosa della tradizione e della storia. Importante fu soprattutto

l’amicizia con Claude Fauriel, il principale storico del gruppo, seguace dello

storicismo tedesco, che rafforzò nel poeta l’amore della storia e lo scrupoloso

rispetto dei fatti, che tanta parte avrà nella struttura delle sue opere maggiori.

Frattanto, nel 1809, il Manzoni aveva sposato Enrichetta Blondel, di religione

calvinista, una donna di elevata virtù morali. Il matrimonio segnò l’inizio del

travaglio spirituale che portò il poeta dal deismo al razionalismo illuministico al

ritorno alla fede cattolica, e fu certo intenso e profondo, anche se egli, col pudore

che era in lui caratteristico, non ce ne ha lasciato precise testimonianze. La

conversione, l’avvenimento senza dubbio più importante della sua vita di uomo e

di poeta, avvenne nel 1810 dopo quello della moglie, e che non fu

un’illuminazione improvvisa, ma un fatto a lungo meditato, il coronamento di tutta

la sua precedente storia spirituale. La fede cattolica consentì infatti, al Manzoni di

ancorare ad una verità, che egli sentì assoluta, le sue esigenze morali, di placare la

sua ansia etico-religiosa nella certezza di una fede comune, radicata nella

coscienza popolare da secoli. Non lo portò a rinnegare i suoi ideali illuministici di

libertà, uguaglianza, fraternità e giustizia, né la sua critica recisa alle forme retrive

delle lettere, della politica, del costume, né la sua concezione della letteratura

come mezzo di edificazione spirituale; gli consentì, anzi, di fondare più saldamente

questi principi, non più sull’astratto razionalismo, ma su una fede che fosse slancio

totale della persona e che gli desse, di là delle delusioni del presente, la certezza

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nell’immancabile trionfo del bene e d’un intervento divino nella storia degli

uomini.

La conversione accompagna il nascere della grande poesia manzoniana. Ritornato

in Italia nel 1810, il poeta visse stabilmente fra la sua casa di Milano e le sue ville

di Brusuglio e di Lesa, immerso nel lavoro.

Il suo grande periodo creativo è compreso negli anni fra il ’12 e il ’27.

Dal ’12 al ’15 compose i primi quattro Inni Sacri, ai quali ne aggiunse un quinto

nel ’22 la Pentecoste, la sua prima tragedia Il Conte di Carmagnola e dal ’20 al ’22

la seconda, L’Adelchi: nel’21 le due grandi Odi politiche, Marzo1821 e il Cinque

Maggio.

Il Manzoni partecipò sebbene la malferma salute lo tenesse lontano da ogni

impegno pratico alla passione politica del Risorgimento.

Nonostante il suo cattolicesimo fu avverso al potere temporale dei Papi e convinto

assertore dell’idea Roma capitale d’Italia, e soprattutto della necessità della

risoluzione del problema nazionale in senso unitario. Ancora più importante fu la

battaglia che egli combatte per portare la nostra letteratura ad un livello moderno

ed europeo e, nello stesso tempo nazionale e popolare. Riconoscendo il popolo

come protagonista della storia, volle, nella sua opera, interpretarne l’animo e gli

ideali, educarlo ad acquistare piena consapevolezza di sé, moralmente e

politicamente, congiungendo alle comuni tradizioni cattoliche i nuovo ideali di

libertà e di giustizia del Risorgimento, in tal modo la sua opera si allineava a quella

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dei nostri primi Romantici, ossia degli uomini raggruppati attorno al Conciliatore,

esprimendone però le aspirazioni in forma poeticamente più valida e destinata

quindi ad una diffusione maggiore. Col 1827 l’attività creativa del Manzoni si

concluse definitivamente., e si limitò in seguito quasi soltanto alla correzione del

romanzo, che uscì in edizione definitiva nel’41.

La poetica manzoniana

Dalla sua prima educazione illuministica il Manzoni trasse gli ideali che rimasero

in lui sempre vivi, pur armonizzandosi successivamente con la sua adesione alla

cultura romantica e alla fede cattolica, di democrazia, di libertà e, soprattutto, di

giustizia.

L’amicizia col Cuoco e i contatti con gli ideologi francesi lo distolsero dall’astratto

intellettualismo illuministico, facendogli sentire l’esigenza di calare i suoi ideali in

una visione storica più matura, fondata sullo studio delle tradizioni e dell’anima

del popolo. L’indagine storica rivelò al Manzoni, fuori da ogni astrattismo

dottrinale, la centralità nella storia delle masse così a lungo oppresse e spregiate, lo

spinse a rigettare i falsi miti della potenza, di un “eroismo”, che, a ben guardare,

altro non era se non un tentativo di giustificare ideologicamente l’ingiustizia, la

sopraffazione, il concetto assurdo e colpevole e di una fatale disuguaglianza fra gli

uomini.

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Queste esigenze liberali e democratiche trovano il loro coronamento nel ritorno del

poeta al Cattolicesimo, nel quale egli vide la radice dei più nobili ideali umani. La

rivelazione di Cristo gli apparve come la fondamentale rivelazione dell’uomo a se

stesso, e quindi il principio di ogni vera moralità e civiltà; il dolore e il male,

tragicamente presenti nella storia, gli apparvero derivati dall’oblio del messaggio

cristiano, non da una legge fatale d’infelicità.

La professione di fede del Manzoni ebbe una sostanza moderna e progressiva che

la portò a denunciare ogni contaminazione tra la religione e gli interessi materiali,

cioè ogni tentativo delle classi dirigenti di giustificare, con una presunta difesa dei

principi religiosi i propri privilegi di casta. La meditazione della storia lo portava a

comprendere meglio l’uomo nella sua vita sociale e nell’intimità della sua

coscienza.

Nella storia egli ritrovava su uno sfondo più vasto, lo stesso dramma di peccato e

redenzione che si svolge nell’anima del singolo, vedeva in essa nonostante il

frequente trionfo di ideali ingannevoli, contrari allo spirito cristiano, la presenza

amorosa di un Dio Provvidenza, che vi svolge un suo piano di redenzione e di

finale trionfo del bene. Forte di questa persuasione il Manzoni giunge da un lato a

superare il pessimismo suscitato in lui dalla visione della presenza sempre

incombente nel mondo del dolore e del male, dall’altro a considerare la storia e la

vita dell’uomo, anche nei momenti apparentemente più umili ed insignificanti non

come un cammino verso il nulla ma come conquista dell’eternità.

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In una schematica dichiarazione del 1823 il Manzoni affermava che la poesia deve

proporsi “il vero per oggetto, l’utile per iscopo e l’interessante per mezzo”. L’utile

coincideva, per lui, come la moralità, in senso rigorosamente cristiano. La poesia

doveva avere un valore formativo delle coscienze, essere meditazione sull’uomo,

sulla sua anima, sulla sua vita, che il Manzoni vedeva incentrata sul dramma di

peccato e redenzione, secondo la fede religiosa. Questo era il vero che il poeta

doveva sentire e meditare, un vero oggettivo, universalmente valido. La fede

religiosa faceva rendere il Manzoni “verso un’arte vera che avesse per oggetto,

cioè la realtà umana, che aderisse alla vita per diventare a sua volta strumento di

vita, patrimonio di civiltà per tutti”.

Il Manzoni rigettava il romanticismo lirico e individualistico, che attribuiva

importanza fondamentale al sentimento, o meglio, alla passione, intesa come

presentimento dell’infinito; intendeva, anzi, risalire di là dal dramma dell’io e della

passione ai supremi valori spirituali trascendenti al Dio cristiano.

Nasce di qui il realismo manzoniano, che vede nella storia la fonte più alta

dell’ispirazione poetica. Il vero perseguito dalla poesia doveva essere il vero

storico, la meditazione di ciò che gli uomini operano e sentono, del loro cammino

nel mondo, proteso, pur tra cadute ed errori, verso una meta più alta, illuminato

dalla Provvidenza e dalla Grazia.

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L’aspetto più interessante della meditazione manzoniana sull’arte è il tentativo di

distinguere il vero poetico dal vero storico, di ritrovare un ambito specifico e una

finalità propria della poesia.

Lunga e travagliata fu la sua meditazione su questo punto, con frequenti

oscillazioni di pensiero. Egli pensò che mentre lo storico deve darci la conoscenza

dei fatti, la loro concatenazione e la loro successione cronologica, il poeta,

mediante la sua profonda conoscenza del cuore umano deve risalire da essi alla

coscienza che li ha generati, di trovare nell’anima dell’uomo il significato della

storia. Il vero storico serviva dunque al poeta come mezzo per ritrovare la autentica

verità della psicologia umana e la radice e il significato della vita.

“Più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell’uomo e più vi si trova

poesia”: la grandezza e la novità della poesia manzoniana, è infatti, in questa

capacità di scavo interiore della coscienza, che l’adesione alla storia distacca

dall’individualismo solitario, conducendo l’autore alla scoperta della serietà e

dell’importanza della vita quotidiana e della dignità di ogni persona, anche della

più umile. Le formulazioni più importanti della poetica manzoniana appartengono

al periodo del più intenso fervore creativo. La prefazione al Carmagnola e la Lettre

à Monsieur Chauvet sur l’unitè de temps et de lieu danss la tragèdie, combattendo

l’assurdità delle “regole” aristoteliche, insistono sul fatto che il poeta deve proporsi

una rappresentazione il più possibile genuine e meditata della verità storica e

psicologica. La poetica del Manzoni giunge alla sua piena maturazione negli anni

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della composizione dei Promessi Sposi che rappresentarono la fondazione di una

nuova narrativa, nazionale e popolare nel contenuto e nelle forme.

I Promessi Sposi

I Promessi Sposi sono l’espressione definitiva della concezione manzoniana della

vita, di quella tensione spirituale che aveva caratterizzato fin dall’inizio la sua

attività culturale e poetica e la sua stessa testimonianza cristiana.

Nel romanzo assistiamo ad un rasserenamento che nasce da un’approfondita

visione umana e religiosa, e che, senza indulgere mai a un facile ottimismo,

approda a un’attesa più fiduciosa del trionfo del bene anche sulla terra. Rispetto

alla tragedia, il romanzo rappresenta una svolta decisiva della poetica manzoniana:

non vi è più in esso, un’invenzione rigorosamente condizionata da evento storici

precisi, ma una vicenda del tutto immaginaria, quella di Renzo e Lucia, ancorata

tuttavia al reale, immersa nei costumi storici di un’epoca ben definita, colta nella

concretezza del suo spirito e della sua civiltà. I romanzi storici erano allora di

moda, e celeberrimi erano quelli di Walter Scott; ma mentre in essi la storia era un

pretesto di narrazione avventurosa e pittoresca, il Manzoni intendeva di applicarsi

a considerare nella realtà il modo di agire degli uomini in ciò che esso ha di

opposto allo spirito romanzesco, di risalire cioè dal vero storico al vero morale.

Voleva, insomma, cogliere, attraverso una visione attenta e circostanziata del suo

agire, la psicologia dell’uomo e la lotta continua che si svolge nella sua coscienza

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fra il bene e il male. Il romanzo diventa così per lui un romanzo d’idee, un

meditazione sulla condizione umana nel mondo.

In questo ambito, il romanzo storico manzoniano rivela un’ispirazione nuova

rispetto alle tragedie. Là il popolo appare nello sfondo, visto come una massa

amorfa e sofferente, destinata non ad agire ma a subire la storia, “fatta” dai potenti,

anche se ad essi il poeta indicava, come unico mezzo di salvezza e di redenzione

da un mondo di sangue e di violenze, l’essere collocati dalla “provvida sventura”

fra gli oppressi.

La novità dei Promessi Sposi è, invece, la scoperta che anche i volghi spregiati

collaborano alla storia, e in modo, sostanzialmente più importante dei “grandi”

perché con la loro umile fede e la loro mansuetudine, e con la loro sete di giustizia,

sono meglio disposti ad accogliere il messaggio cristiano, e quindi capaci di attuare

la vera civiltà, che, è per il Manzoni, coincide con l’affermazione integrale dello

spirito del Vangelo.

Gli Inni Sacri

Dopo la conversione, il Manzoni ripudiò la sua attività letteraria precedente come a

sottolineare la rinascita della sua anima nella Grazia e il radicale impegno cristiano

della sua poesia rinnovata.

Primo frutto di essa furono gli Inni Sacri. Aveva stabilito di comporne dodici, che

celebrassero le festività maggiori del calendario liturgico, ma ne compose solo

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cinque: La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione, e La

Pentecoste.

C’è negli Inni una parte “storica”, cioè la rievocazione del mistico evento, come un

fatto accaduto storicamente un giorno, e tuttavia perennemente attuale, nel senso

che si ripete ogni volta nella celebrazione liturgica, e riacquista il proprio valore

attivo e dispensatore di Grazia. Ma nello stesso tempo, esso è visto attraverso

l’animo dei fedeli che , uniti nella preghiera, sentono e vivono il miracolo della

presenza divina e ne ricavano un significato che illumina la vita.

La parte poeticamente più viva degli Inni è quest’ incontro tra umano e divino,

questo sentire l’esistenza santificata della presenza di Dio. Nasce di qui quello che

è stato definito il tono “democratico” di essi : non le personalità eroiche e

aristocratiche, non i momenti e le esperienze eccezionali interessano al poeta, ma

tutta la vita, che è grande se vissuta con la ferma coscienza del dovere e rivolta alla

liberazione del peccato e al trionfo del bene. Dietro l’esistenza più umile, il

Manzoni sente la presenza di un dramma che si prolunga nell’eternità; anche nei

diseredati e negli oppressi egli vede l’uomo fatto a somiglianza di Dio, oggetto

della sua passione e della Redenzione: avverte, insomma, la suprema dignità della

persona umana. Gli Inni Sacri sono una lirica nuova, oggettiva e corale. In essi il

Manzoni non rappresenta un’esperienza individuale, non allude ai momenti della

sua conversione, non esprime un’esperienza solitaria, ma si fonde con gli uomini

nella coralità della preghiera.

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GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nacque a Recanati, nel 1798, dal conte Monaldo e da

Adelaide Antici. Il padre amante degli studi, ma di ingegno mediocre, era un uomo

pieno di pregiudizi e di scrupoli. La mamma, era intenta con severa disciplina a

restaurare il dissestato patrimonio domestico. In quell’ambiente familiare, gelido,

immobile, privo di slancio, il giovane si era rifugiato in una sua oasi di sogni, in

uno splendido mondo interno da cui doveva poi fatalmente generarsi, in contatto

con la realtà, il suo pessimismo, ma anche la sua inconfondibile voce poetica.

Giacomo trascorse la prima giovinezza in una serie smisurata di letture; una cultura

nata tra gli scaffali della biblioteca paterna, con qualcosa di vecchio, di inutile; con

una curiosità particolare per gli argomenti peregrini e bizzarri, con lacune

inavvertite e gravissime; una cultura di cui ci restano testimonianze, sermoni sacri,

recensione di testi classici, dissertazioni storiche, compilazioni.

In quegli studi il poeta perse i suoi migliori anni, sino a ritrovarsene compromessa

la sua salute. Il forzato abbandono degli studi (culminato nell’anno 1819 con una

infermità agli occhi) accentuò quel processo interiore di conversione filosofica e

letteraria che già si era iniziato sui diciott’anni, ed aveva spinto il Leopardi ad

abbandonare la fede religiosa cattolica per una concezione rigidamente

meccanicistica, e l’erudizione minuta per un incontro più libero ed aperto con la

poesia. Il periodo in cui si maturò e giunse a compimento questa crisi giovanile,

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Page 20: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

cioè il periodo che va dal 1816 al 1822, fu tra i più intensi della sua vita; egli

accoglie e formula in quel tempo, con una coerenza ed una consapevolezza del

tutto ignorata dal Foscolo, i principi di una dolorosa e pessimistica concezione del

mondo.

Egli tenta in quegli anni una fuga da Recanati, quasi una ribellione estrema ed

eroica dell’animo prima di soggiacere alle conclusioni della ragione; tentativo che

fu troppo facilmente scoperto e lasciò nel suo animo uno sconforto ed

abbattimento grandissimo, lo spegnersi di ogni volontà e desiderio, l’abbandono di

tutto se stesso alla noia, alla sensazione prima e fondamentale dell’uomo quando

egli abbia oltrepassato le soglie della giovinezza; egli incontra, al di là dei volumi

della biblioteca paterna, le prime voci della nuova letteratura, l’Alfieri, il Foscolo,

il Goethe, lo Chateaubriand; e stringe un’amicizia epistolare con Pietro Giordani,

che gli fu di conforto e di ammaestramento, e per primo rivelò al mondo la

grandezza “spaventevole” del suo giovane amico. Ma già in quegli anni medesimi

egli perviene ai motivi più profondi della sua ispirazione, e conquista e risolve il

suo mondo interiore in poesia, con i componimenti che vanno dall’Infinito alla

Vita solitaria.

Nel 1822 ottiene dal padre il permesso di soggiornare per alcuni mesi a Roma; ma

il mondo, anche al di là delle mura di Recanati, non poteva ormai rivelarsi che

vano e ridicolo, come i decrepiti e presuntuosi letterari della capitale. Ritornò a

Recanati e vi rimase per più di due anni, intento alla composizione delle Operette

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morali. Nel 1825 accettò l’invito dell’editore milanese Antonio Fortunato Stella,

che gli offriva di curare l’edizione di alcuni classici latini ed italiani. Visse a

Milano, a Bologna, a Firenze, attendendo con scarso entusiasmo e profitto alla

nuova attività editoriale. La sua voce poetica dopo i primi felicissimi “idilli”,

sembrava ormai spenta, in una freddezza ed aridità che appariva più grave del

pessimismo medesimo.

Soltanto a Pisa, nella primavera del ’28, avvertì di nuovo la capacità di

commuoversi e concedersi al canto; e ne nacquero il Risorgimento e la lirica A

Silvia. Per le aggravate condizioni fisiche dovette sciogliersi da ogni impegno con

Stella; ritornare a Recanati, rinchiudersi in sedici mesi di “notte orribile”, come

egli stesso ne scrisse. Ma proprio nel borgo di Recanati, in quelle strade, in quel

cielo, in quelle immagini della natura, il Leopardi, ormai rinato alla poesia,

rinveniva la materia prima del suo poetare, i ricordi ed i luoghi dell’infanzia, i

dolci moti dell’età prima.

Solo nell’aprile del 1830 egli usciva da Recanati, inducendosi ad accettare, in

qualità di anticipo sui proventi di un’edizione dei Canti, una somma offerta, senza

palesare il suo nome, dall’amico Pietro Colletta. A Firenze conobbe un giovane

esule napoletano, Antonio Ranieri, ardente e fervido di entusiasmo; ed a lui si legò

con un amicizia che si concluse in un progetto di vita in comune. A Firenze il

poeta incontrò anche la sua più notevole esperienza amorosa, non più soltanto un

sogno od una speranza d’amore, come quelli della sua giovinezza, ma una passione

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accolta e vissuta con tutto l’animo; e troncata ben presto dal disinganno. Nel 1833

il Ranieri ritornò a Napoli; ed il Leopardi, a cui la famiglia aveva ormai concesso

un assegno mensile, lo seguì sperando di trovare sollievo dal nuovo clima.

A Napoli egli visse gli ultimi anni, assistito dall’amico e dalla sorella di

quest’ultimo. Nel poeta urgeva forse il bisogno di superare la desolata solitudine,

di offrire agli uomini un suo messaggio, una parola fraterna e coraggiosa. Ma il

nuovo motivo della poesia leopardiana, così coerente con il tono più consolatore

dei Canti, era destinato a rimanere più accennato che poeticamente compiuto. Nel

1837, il 4 giugno, il poeta, che aveva visto a Napoli aumentare senza speranza le

proprie sofferenze, cedeva ad un attacco di asma.

Le Opere

Dal furore erudito della prima giovinezza non derivarono opere di un qualche

valore positivo. Quella moltitudine di scritti rivela una dottrina straordinaria, una

stupefacente capacità di lettura e di studio, ma non ancora una maturità

consapevole, una capacità sicura di giudizio e di sintesi.

L’interesse dei lettori moderni potrebbe apparire quasi ozioso, se non fosse il

fascino di qualche argomento, che appare vicinissimo alla sensibilità particolare

della poesia leopardiana. La compilazione di una Storia dell’astronomia,

strabocchevole di notizie e di date, non provoca in noi soltanto una facile

stupefazione, perché non ci sembra privo di significato il fatto che il giovanetto

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abbia dedicato tanta parte della sua adolescenza a studiare la storia delle

osservazioni celesti, i viaggi stellari degli uomini antichi e moderni; la

compilazione, sui diciassette anni, del Saggio sopra gli errori popolari degli

antichi, suscita in noi ancor maggior interesse, per quelle indagini peregrine sui

sogni, sulle paure, sui fantasmi, sulle superstizioni e gli sgomenti dei popoli

antichi. Il furore produttivo dei primi anni continuò anche dopo la conversione

poetica, con un’abbondanza straordinaria di versioni e di rifacimenti; da Mosco, da

Omero, da Esiodo, da Virgilio; sino al 1818, in cui il Leopardi affrontava

criticamente, con il Discorso di un italiano, il problema dell’arte romantica. Subito

dopo, con la gravissima crisi fisica del ’19, si placa e quasi si spegne il furore delle

opere varie. Nel ventennio successivo il poeta perverrà ai suoi capolavori, alla

poesia dei Canti e alla prosa delle Operette, ma non più alla fertilità operosa della

giovinezza. Da quegli anni il poeta affida ai suoi quaderni solo una serie di

appunti, minute, pensieri ed osservazioni, immagini poetiche, moti dell’animo.

E’ questo lo Zibaldone, il suo fitto diario quotidiano in sette volumi manoscritti.

Le poche opere culturali posteriori al 1818 sono esclusivamente dovute agli

impegni con l’editore Stella, dal commento alle Rime del Tetrarca alla

Crestomazia italiana, alla versione del Manuale di Epitteto.

Ma già dal 1818 datano le prime liriche significative della poesia leopardiana, le

due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, con cui si apre la raccolta

dei Canti. Alle due poesie patriottiche seguirono, negli anni che precedettero il

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breve soggiorno in Roma, i cosiddetti “primi idilli”, cioè l’Infinito, Alla luna, La

sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria; ed il gruppo delle canzoni

filosofiche, o di stile, come egli volle chiamarle, difficili per la concentrazione del

pensiero e del linguaggio, tra le quali il Bruto minore, Alla primavera o delle

favole antiche, l’Ultimo canto di Saffo, l’Inno ai Patriarchi.

Il lungo silenzio poetico che seguì a questa fioritura fu interrotto solo una volta,

con il canto Alla sua donna, nel quale il poeta vagheggia un’immagine ideale ed

astratta della perfezione femminile, un fantasma puro dell’animo, inesistente e

irraggiungibile sulla terra. Cede all’inizio di questo periodo di silenzio, e più

precisamente al 1824, la composizione di quasi tutte le Operette morali. Le

Operette sono una raccolta di ventiquattro scritti di argomento largamente

filosofico: considerazioni sull’ineluttabile dominio del male, sulla vanità di ogni

vita e di ogni speranza, sulla miseria universale del cosmo.

Le Operette si presentano quasi tutte in forma dialogica, con interlocutori

piuttosto strani e remoti, attinti alla mitologia o alla fantasia (Storia del genere

umano; Elogio degli uccelli; Dialogo d’Ercole e di Atlante; della Moda e della

Morte…). L’ispirazione poetica si rinnovò nel 1828 e continuò sino a tutto il 1830,

con i componimenti più felici della produzione leopardiana (i cosiddetti “secondi o

grandi idilli”, cioè il Risorgimento, che documenta il rinascere del Leopardi alla

commozione poetica, A Silvia, Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo

la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante

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nell’Asia). Seguirono un gruppo di canti ispirati dalla passione amorosa, tra i quali

Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso. Nell’anno che precedette la

morte il Leopardi compose, a Napoli, la Ginestra o il fiore del deserto, che è la

sua lirica di più vaste proporzioni, e deriva dalla contemplazione della forze di

struggitrici del Vesuvio e delle rovine sulle quali fiorisce l’umile pianta, e il

Tramonto della luna.

Appartengono al periodo napoletano anche un piccolo gruppo di opere minori, dai

Paralipomeni della Batracomiomachia, con i quali il Leopardi finse di completare

il poemetto attribuito ad Omero e descrisse in forma allegorica, con accento

satirico, le tristissime condizioni della penisola e le disordinate insurrezioni dei

patrioti, ai Pensieri, in cui sono raccolte un centinaio di meditazioni morali e

filosofiche. Alle opere che abbiamo sommariamente citate è da aggiungere

l’amplissimo Epistolario.

Il Pensiero

Alle origini del pensiero leopardiano è la consueta contraddizione, che noi già

conosciamo, tra le aspirazioni profonde e nuove a scorgere un significato ed un

fine spirituale nella vita e la concezione meccanicistica della realtà. Ma laddove il

Foscolo rinviene, di sull’iniziale pessimismo, la forza per ricostruire a se stesso i

valori dello spirito, il pessimismo leopardiano si fa invece sempre più complesso

ed amaro, sino ad investire le radici stesse dell’esistenza. Non si tratta di una

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organica e sistematica concezione filosofica, come si amò a lungo credere, perché

niente di rigoroso e logicamente giustificato è possibile dedurre dagli scritti

leopardiani; ma di un atteggiamento sentimentale e soggettivo, o meglio di uno

stato d’animo, che si fece col tempo sempre più lucido e consapevole, e si illuse a

volte di tradursi in termini filosofici. Tuttavia, pur non essendo possibile elevare la

concezione leopardiana a sistema universale di verità, è possibile riconoscervi un

certo svolgimento, dalla primitiva consapevolezza della vita umana come dolore al

giudizio negativo sul cosmo intero.

La vita appare al Leopardi dolore senza possibilità di conforto; dolore per

l’insaziabile brama di facilità e per le angosciose domande senza risposta che

rivolgiamo all’universo. Causa prima del male la nostra ragione, con la quale

pretendiamo di indagare i misteri dell’esistenza e ci foggiamo ideali e sogni

sempre superiori al mondo reale; e la memoria, nella quale è la radice prima della

noia. L’unica età immune dal tedio è l’adolescenza, l’età dei sogni luminosi, degli

occhi liberi e vergini dinanzi alle meraviglie del mondo, l’età in cui i colori stessi

delle cose appaiono più nuovi e più vividi, in cui la capacità di vedere, l’ “idillio”,

è ancora intatta nel cuore. Più tardi con la giovinezza, all’apparire del vero, i sogni

si disperdono, gli inganni si rivelano vanità senza costrutto.

Alla riflessione del Leopardi può apparire in un primo tempo, che gli uomini

primitivi, liberi dal tarlo della ragione, abbandonati alla vita irriflessiva e istintiva,

abbiano potuto attingere, come i fanciulli, la felicità o almeno la speranza di essa;

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concezione, come ognun vede, di derivazione illuministica, anche se di un

illuminismo negativo, di un illuminismo che non conduce all’esaltazione dei tempi

presenti ma al disprezzo e all’irrisione. Ma questo primo aspetto del pessimismo

leopardiano è superato da una concezione negativa dell’intero sistema naturale.

Chi può essere incolpato della felicità umana se non la Natura stessa che in noi

creò la ragione? La Natura non è la madre benefica degli esseri ma la matrigna

spietata, anzi una forza misteriosa ed impassibile che ignora le sue stesse creature e

le travolge senza conoscerle verso il nulla. Non solo l’uomo moderno è infelice,

ma l’uomo sempre e dovunque, per la sua stessa costituzione; e non l’uomo

soltanto, ma dovunque e comunque ogni essere vivente. Il cosmo intero è male,

gran mole immensa senza una ragione o un significato; il non essere è migliore

dell’essere.

Da questa visione del mondo derivò nel Leopardi quella solitudine che già

abbiamo notato, quella sua incomprensione della civiltà contemporanea, quel

sentirsi estraneo ed indifferente di fronte alle speranze più generose del secolo; di

qui la sua irrisione per i tentativi ed i sogni dei liberali e l’atteggiamento distaccato

della sua esperienza letteraria; senza che per questo egli possa in alcun modo

essere confuso con gli astiosi conservatori dell’epoca, così nel campo della politica

che in quello delle lettere.

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Le “Operette Morali”

La prima impressione che noi riceviamo dalle Operette è quella di un cattivo riso,

come disse il De Sanctis, di una freddezza solitaria, quasi il frutto di uno spirito

ostile e distaccato dalle ragioni degli uomini. Le Operette possono apparire come il

momento del tutto negativo del Leopardi, l’opera in cui il poeta non solo espone le

proprie concezioni filosofiche ma ironizza, con un tono sdegnoso e polemico, su

chi sente e vive diversamente, e si abbandona con l’istinto alla gioia dell’esistere;

ciò che è esattamente il contrario della poesia, se la poesia scaturisce dalla fede e le

Operette, non che esserne prive, vorrebbero toglierla anche a chi di questa fede pur

vive. Senonchè, anche tenendo presenti queste osservazioni, non è possibile

sottrarsi al fascino che le Operette esercitano sul lettore.

La solennità degli argomenti, la sconsolata freddezza che vi si avverte, lo stile ed il

linguaggio di una composta perfezione, turbano e rapiscono il lettore in

un’atmosfera rarefatta e lontana. Sembra, leggendo quest’opera, di entrare in

contatto con un essere che si sia ormai distaccato – anche materialmente – dalla

vita, di udire la parola non di un vivente, con le sue passioni e i suoi dolori e le sue

ire, ma di una gelida ombra sapientissima.

Quest’impressione si accentua in modo straordinario quando ci avviciniamo agli

unici versi che accompagnano le Operette, cioè a quel mirabile Coro dei Morti con

cui si apre il Dialogo di Federico Ruysch. I morti, che pur giacciono nel nulla

assoluto, serbano nel Coro quel tanto di coscienza che basta ad essi per esprimere

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la pace suprema del non essere, quella loro ignoranza attonita e completa

dell’esistenza terrena, di quel “punto acerbo” ed “ arcano” che fu per essi la vita.

Versi di una perfezione astrale ed immobile, in cui la vita è veramente contemplata

da una lontananza senza confine; senza possibilità alcuna di proseguimento o

sviluppo; estremo tentativo di risoluzione nel canto della meditazione leopardiana.

Sul significato artistico delle Operette si è soffermata con maggior attenzione la

critica più recente, ed ha presto avvertivo, accanto al fascino delle pagine più

solenni, la bizzarria di alcune di quelle invenzioni, l’aerea stranezza di alcuni di

quei dialoghi,in cui davvero il pessimismo è solo un dato anteriore, un fatto già

compiuto e indiscusso; non più motivo di ragionamento ma un occasione da

risolversi in favola, in paradosso, in bizzarrie umoresche e peregrine. In pagine

come quelle del Dialogo d’Ercole e di Atlante, del Dialogo di un Folletto e di uno

Gnomo, del Dialogo della Terra a della Luna, l’interesse filosofico appare

veramente dissolto nel gioco fantastico , nello stile del dialogo.

Anche la prosa leopardiana, quasi sempre sostenuta e freddamente lavorata, si

risolve, nelle operette migliori, in una limpidità incantata o addirittura sognante,

come nel bellissimo dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) Cosa si intende per periodo Romantico.

2) Quali sono le tematiche nuove che il movimento Romantico introduce

nell’ambito letterario e quali conserva e trascina del passato Illuminismo.

3) Cosa si intende per romanzo storico.

4) Quale relazione forte intercorre tra l’uomo e Dio nel pensiero Manzoniano.

5) Quale valenza ha l’ultraterreno e l’ignoto nel pensiero leopardiano.

6) L’uomo e il suo mondo: aspetti intimistici della poesia del Leopardi.

7) Il Romanticismo leopardiano e manzoniano: affinità e divergenze.

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II UNITA’: L’uomo tra ombra e realtà.

Prerequisiti:

- Conoscenza delle nuove tematiche del Romanticismo

- Conoscenza degli aspetti socio-politici dei primi dell’Ottocento.

- Capacità elaborativi di contestualizzazione e di critica.

Obiettivi:

- Acquisizione del concetto del “vero storico”.

- Acquisizione concetto di esistenza come continuo trapasso.

- Acquisizione del nuovo rapporto uomo/ natura.

- Acquisizione del concetto di destino, volontà e Provvidenza.

Si studieranno:

- La poetica del Verismo e Giovanni Verga.

- Giovanni Pascoli.

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Il Naturalismo francese e la poetica del Verismo

Le nuove istanze positivistiche e realistiche della nostra cultura vennero portate

alle conseguenze più rigorose del Verismo, il movimento letterario la cui poetica si

venne elaborando tra il ’70 e l’80 e le cui opere più significative furono pubblicate

nel decennio successivo.

Letterariamente esso è legato al Naturalismo francese del Maupassant, dello Zola,

dei Gongourt, ma risente anche l’influsso del realismo inglese, di quello russo di

Tolstoi e Dostoevskij, e del precursore del Naturalismo francese, il Balzac.

Questi avevano detto che il romanziere deve ispirarsi alla vita contemporanea,

studiando l’uomo quale appare nella società, e aveva rappresentato la società

capitalistica, con un nuovo interesse per il fattore economico. Procedendo su

questa linea e rafforzandola con le idee positivistiche, il Naturalismo si era

proposto uno studio scientifico della società e della psicologia dell’uomo,

rigettando ogni idealismo e studiando di preferenza i ceti più umili, che, per le loro

reazioni psicologiche elementari, meglio sembravano prestarsi ad un’analisi

scientifica oggettiva.

Lo Zola, ad esempio in Germinale, aveva rappresentato le condizioni disumane di

vita dei proletari di un distretto minerario abbrutiti dalla miseria, ma anche le loro

prime sommosse sociali, i primi scioperi. Nella psicologia dell’uomo egli vede dei

caratteri uguali e costanti,. Come quelli degli altri fenomeni della natura, ne vedeva

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svolgersi deterministicamente il meccanismo di cause ed effetti. L’arte non

rinunciava alle finalità morali e sociali, ma si pensava che solo su una ricerca

scientifica rigorosa del vero potesse fondersi un miglioramento effettivo della

società.

Di qui parte il Verismo, sia pure con un interesse di rinnovamento sociale assai

meno deciso e attenuando l’analisi naturalistica dei fenomeni patologici, ma

trasferendo nell’arte il metodo della scienza e fondandosi sulla concezione

positivista della realtà. La sua poetica può essere riassunta nel concetto che l’arte è

lo studio disinteressato del documento umano. Di qui si vede la differenza fra esso

e il realismo romantico.

Per il Manzoni il vero era sempre illuminato da un’interpretazione religiosa o

idealistica della vita; nei veristi, invece, l’angolo visuale è materialistico e

scientifico. Antiromantico è poi soprattutto il canone dell’impersonalità: il verista

si propone di rappresentare la realtà oggettivamente, senza alcun intrusione

soggettiva, né di sentimenti, né di ideologie, procedendo dallo studio scientifico

dei fatti alla formulazione delle leggi che li determinano. Il Verga vagheggiava un

romanzo che “sembrasse essersi fatto da sé, aver maturato ed essere sorto

spontaneo come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo

autore”.

L’importanza del Verismo va considerata nel contesto culturale del suo tempo.

Esso infatti, mentre rigettava il sentimentalismo romantico, ormai banalizzato, e il

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romanzo storico estenuato e convenzionale, sviluppava le esigenze più profonde

del Romanticismo realistico. Suo fine era infatti una letteratura che fosse strumento

di conoscenza e diffusione del vero, considerazione critica delle strutture sociali

presenti, onde stabilire nuovi rapporti fra gli uomini e fondare la ricerca degli

ideali di libertà e giustizia fuori da ogni utopia, estendendoli a tutta la società e non

ad una piccola parte di essa.

Il Verismo è l’espressione più profonda della crisi che seguì all’Unità, quando

apparvero chiare le insufficienze della rivoluzione risorgimentale e le

contraddizioni del nuovo Stato italiano. Sotto l’aspetto della libertà e della

democrazia sopravviveva una struttura burocratica e poliziesca “inetta a produrre

una vera solidarietà delle forze sociali diverse, a immettere nella vita dello Stato,

come forza attiva e partecipe, le plebi meridionali, soffocate dall’ignoranza e da

un’inveterata consuetudine di rapporti feudali.

Per questo il Verismo ebbe come principali rappresentanti degli scrittori

meridionali, anche se il suo centro fu a Milano, la città dove si erano svolti i

movimenti illuministici e romantici, propugnatori di una cultura moderna ed

antiaccademica. Esso assunse un carattere regionale e dialettale adeguato al mondo

delle plebi del Mezzogiorno e delle isole, ancora chiuse in una civiltà arcaica, fra le

barriere di una secolare solitudine e di un secolare abbandono. Mentre però gli

scrittori realistici europei erano i portavoce di un’esigenza consapevole di un’intera

società, i nostri veristi dovevano interpretare il desolato silenzio di una moltitudine

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inerte e miserabile estranea alla cultura e ai problemi della vita nazionale. Per

questo la loro opera appare più solitaria di quella degli scrittori europei, è un

inchinarsi pietoso sui diseredati, ma sempre un po’ distaccato, pessimistico e senza

slancio rivoluzionario: senza la fiducia razionale del progresso che fu propria del

positivismo ed espresse il sostanziale ottimismo con cui una borghesia saldamente

egemone contemplava una realtà sociale da lei stessa determinata. Tuttavia il

Verismo rappresentò il desiderio di rottura nei confronti di una tradizione letteraria

troppo spesso accademica ed estetizzante, la ricerca di un’adesione alla verità e di

uno stile semplice, diretto, legato alle cose e al parlato, tale da assorbire nella

lingua nazionale modi, forme e sintassi dialettali.

Il maggior teorico del nostro Verismo fu il catanese Luigi Capuana (1839-1915),

che fu anche autore di romanzi e di novelle. Rigorosamente legato alle teorie

naturalistiche fu Federico De Roberto nato a Napoli ma siciliano d’origine. Il suo

miglior romanzo, I Vicerè, è una vasta rappresentazione della vita sociale della

Sicilia, nel trapasso dal regno borbonico all’unità, con un’acuta analisi delle

contraddizioni etico-politiche di una rivoluzione mancata.

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GIOVANNI VERGA

Il Verga nacque a Catania nel 1840 e in Sicilia trascorse l’infanzia e la prima

giovinezza. Qui scrisse i primi romanzi, Amore e patria, I carbonari della

montagna, Sulle lagune, primo e ancora incondito rivelarsi di una vocazione

narrativa, per la quale interruppe gli studi di giurisprudenza. Dal ’65 al ’71 visse a

Firenze, dove entrò in contatto col mondo letterario, strinse amicizia col Capuana e

scrisse i suoi primi romanzi di successo, Una peccatrice e Storia di una capinera,

la più fortunata delle sue opere minori. Passò poi a Milano dove conobbe Arrigo

Boito, il De Roberto, il Praga, frequentò i salotti letterari, partecipò alle discussioni

e alle polemiche delle varie tendenze e meditò gli autori del realismo e naturalismo

francese, Flaubert, Balzac, Zola,i Goncourt, maturando lentamente la sua

conversione al Verismo.

Proseguiva intanto la sua attività di romanziere incentrata sull’esperienza degli

ambienti borghesi elevati e oscillante fra una ricerca d’osservazione psicologica

realistica e una vena effettiva di un autobiografismo romantico. Ma nel’74

componeva la sua prima novella di ambiente siciliano e d’ispirazione veristica,

Nedda, alla quale seguirono, nei quindici anni successivi, i suoi capolavori: le

novelle di Vita dei campi, I Malavoglia, le Novelle rusticane, Mastro don

Gesualdo, il dramma Cavalleria Rusticana, riduzione teatrale della novella

omonima, che nell’84, interpretato da Eleonora Duse, ebbe grande successo.

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Tutte queste opere erano ambientate in Sicilia, ed esprimevano con un linguaggio

essenziale e una tecnica ispirata al Verismo, il dramma della lotta per la vita, colto

nelle classi umili e diseredate. Meno felici sono invece, i racconti nei quali l’autore

si accosta alla vita delle plebi cittadine del Settentrione, raccolti in Per le vie,

Vagabondaggio ed altre, dove rappresenta la squallida vita dei guitti. Dal’93 in

avanti Verga si ritirò a Catania, dove visse per circa un trentennio in un silenzio

pressoché completo, amareggiato dall’incomprensione che circondava la sua opera.

Morì nel 1922.

Fu la sua una vita spiritualmente concreta e solitaria, dominata dalla sua passione

di scrittore. Nonostante il carattere schivo e la tendenza, nelle opere maggiori, a

calarsi totalmente nel racconto oggettivo, senza sfoghi autobiografici, l’arte fu per

lui costante e appassionata ricerca della verità, un guardare con occhio fermo e

coraggioso, ma intimamente desolato, il dramma della condizione umana.

Le idee e la poetica

Prima di aderire alla poetica del verismo, un’adesione peraltro, originale e

sostanziata di profonde ragioni, non solo letterarie, ma morali ed umane, il Verga

sembra ripercorrere il cammino della nostra narrativa ottocentesca. Infatti nelle sue

prime prove (I carbonari della montagna, Sulle lagune) ricalca i moduli del

romanzo storico, con echi frequenti del romanticismo dello Scott, del Byron, di

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Dumas padre, in Una peccatrice, Storia di una capinera, Tigre reale, Eva, Eros,

appare legato al tardo romanticismo e alla Scapigliatura.

La materia di questi romanzi è passionale, l’ambiente è quello di una vita

borghese individualistica e raffinata, che nell’amore cerca un diversivo, una

romantica evasione alla piattezza del vivere quotidiano, un mondo di sensazioni

nuove ed intense; anche se, alla fine piomba nell’angoscia della passione delusa.

Ma già in essi l’ispirazione più genuina del Verga comincia a farsi strada pur

attraverso un fondo di torbido romanticismo autobiografico. Nelle pagine migliori

c’è, infatti, la tendenza a un’analisi psicologica obiettiva, volta a studiare con

sguardo lucido il meccanismo delle passioni; inoltre i personaggi e le loro vicende

romanticamente aristocratiche sono calati in un ambiente quotidiano, rappresentato

realisticamente, indicativo del contrasto che è nell’autore fra l’abbandono ai miti

romantici e un bisogno di verità più autentica. Questi romanzi saranno

caratterizzati da un senso di fatalità cupa, un pessimismo che sarà anche nelle

opere maggiori e da uno stile ancora sciatto e provvisorio ma deliberatamente

antiaccademico, attento alle cose e non alle parole.

I migliori tra questi romanzi sono Storia di una capinera ed Eva. Nel primo la

storia di un’educanda costretta dalla famiglia a farsi monaca, che, innamoratasi,

impazzisce e muore, consumata dalla tisi, fra le mura tetre di un convento, rivela

una sensibilità ultraromantica, ma presenta anche uno studio dell’ambiente ben

documentato e la ricerca di verità e di efficacia sociale.

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Il secondo racconta, invece, la passione di Enrico Lantieri per la ballerina Eva; una

passione che conduce il giovane, abbandonato dall’amante, a morire di tisi e

passione nella natia Sicilia.

Anche qui accanto alla materia ultraromantica, appare un notevole realismo nello

studio della psicologia di Eva e nella considerazione del motivo economico che

incide in modo definitivo sulla vicenda amorosa. Nelle pagine finali, poi, la Sicilia

appare come l’approdo in un mondo più vero e un richiamo alla spontaneità della

natura e degli affetti domestici.

Alla Sicilia ritorna decisamente il Verga con la novella Nedda del’ 74 che

costituisce l’inizio della sua “conversione” letteraria, o meglio, la tappa decisiva

nella conquista del suo mondo poetico originale. E’ una storia di miseria e di

sventura: Nedda, una giovane bracciante siciliana, lavora duramente per mantenere

la madre ammalata; dopo la sua morte, cede all’amore d’un giovane povero come

lei, Janu, ma questi muore prima di poterla sposare e di stenti muore la bimba nata

dalla loro unione.

Il poeta adesso lascia parlare le cose e tutto ciò che segue il meccanismo delle

vicende, senza intrusioni soggettive dell’autore, ma cogliendo la concatenazione

necessaria. E’ motivo, questo tipicamente veristico, come l’adesione al mondo

della plebe, dei diseredati sfruttati ed oppressi da secoli e tragicamente rassegnati

al loro destino di sofferenza.

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Alle romantiche individualità d’eccezione dei primi romanzi succedono ora

personaggi comuni, calati in un ambiente definito con scrupolo realistico, che

vivono e soffrono la lotta per la vita, dominata da una legge impietosa. Sono figure

corali, in quanto vivono una comune vicenda di dolore, e corale è la voce stessa

dell’autore, che sembra tradurre immediatamente il ritmo, la sintassi, le immagini

d’un racconto popolaresco.

Questo mondo di passioni elementari, di storie “vere”, di dolore “vero”, non nato

dalle artificiose costruzioni di una fantasia romantica ma dalla vita crudele ed

oppressiva, è rappresentato in tutte le opere rusticane maggiori del Verga, nelle

raccolte di novelle Vita dei campi e Novelle rusticane, nei romanzi I Malavoglia e

Mastro don-Gesualdo. La poetica del verismo serve all’autore a ritrovare la verità

della vita e a rappresentarla senza intrusioni autobiografiche, come uno “studio,

dice egli, nella prefazione ai Malavoglia, sincero e spassionato”.

La breve introduzione a Nedda e a L’Amante di Gramigna, la novella

Fantasticheria e la prefazione ai Malavoglia, rivelano che l’adesione del Verga al

verismo costituì un approdo spirituale prima ancora che letterario. Il ritrovamento

della Sicilia, terra d’infanzia e di memoria, fu per lui un evadere “dalle

irrequietudini del pensiero vagabondo”, per ritrovarsi “nella pace serena di quei

sentimenti miti se4mplici, che si succedono calmi ed inalterati di generazione in

generazione”, un risalire alle ragioni profonde ed essenziali del vivere, una

riscoperta delle cose e del mondo. Rigettando la falsità di una società stanca e

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decadente di ricchi borghesi, di gaudenti, di spostati ( quella raffigurata nei primi

romanzi), ritrovava nei suoi umili personaggi l’uomo, con le sue reazioni

elementari, i suoi dolori veri, la pena del vivere fondata su ragioni concrete,

economiche, la sua durezza implacabile. Ma quella Sicilia, riscoperta nella verità

dei suoi paesaggi e della sua gente, quella realtà economica impietosa, quei

diseredati curvi da sempre sotto un destino di miseria e di angoscia, divenivano

simbolo della condizione umana del mondo. La prefazione ai Malavoglia rivela

l’ambizione del Verga di fare della sua opera una rappresentazione e

un’interpretazione totale della vita dell’uomo. I suoi due romanzi maggiori

dovevano costituire l’inizio di un ciclo dei vinti, inteso ad esprimere la condizione

universale dell’individuo, proteso ad affermare se stesso in tutte le classi sociali e

in vari modi, “ dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni”,

cooperando, ma inconsapevolmente, al “cammino fatale, incessante, spesso

faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso”.

Ma il Verga sentiva che il progresso fatale della specie era costruito sull’infelicità

della persona; donde il suo tragico sentimento della vita e la pietà per i vinti, cioè,

sostanzialmente, per tutti gli uomini, condannati al dolore e alla morte, che

costituisce la sostanza profonda della sua poesia. Nonostante l’affermata

impassibilità veristica e il rifiuto di ogni ricerca metafisica in nome dio una pura e

obiettiva rappresentazione dei fatti, si avverte costantemente, nelle pagine

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verghiate, l’angoscia del nulla in cui precipitano i dolori, le passioni, le speranze

degli uomini.

La morte sommerge implacabilmente l’ansia dei personaggi verghiani. Essa si

esprime soprattutto nel mito della roba, cioè nel desiderio di possedere, di

costruirsi, col duro lavoro, una fortuna, nel tentativo di dominare la avvita, la sua

legge oscura è implacabile, è nel mito del focolare domestico che è quasi un’oasi,

strappata al crudo determinismo economico della lotta per la vita, dove l’uomo può

sentirsi uomo nel culto di affetti semplici e puri. Ma tutto infrange e calpesta il

destino: i personaggi del Verga vivono la loro pena in una solitudine irreparabile,

quella dell’uomo in un mondi senza Dio, sommerso nel meccanismo impietoso di

una natura impassibile. L’unico valore che resta è la dignità umile ed eroica con

cui l’uomo sopporta il destino, senza vane ribellioni e senza viltà. E’ la dignità

austera dei pescatori d’Aci Trezza o di Mastro don Gesualdo, la loro

“rassegnazione eroica”.

All’originalità del mondo rappresentato fa riscontro nell’opera verghiana,

l’originalità dello stile antiaccademico, antiletterario, semplice ed elementare come

le reazioni psicologiche dei protagonisti e il loro modo di vedere le cose. Quello

del Verga è un linguaggio intimamente dialettale, non nel lessico ( che è,

comunque, un italiano ancor più svincolato dalla tradizione umanistico- letteraria

di quella del Manzoni), ma nella sintassi e nelle immagini che riflettono il discorso

mentale prevalentemente emotivo ed intuitivo degli umili personaggi popolari. Lo

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scrittore, soprattutto nei Malavoglia, sembra anch’egli far parte di quel coro di

umili, essere una voce recitante che racconta la vicenda monotona ed implacabile

del loro destino. Una vicenda dolorosa, sottolineata dai mirabili paesaggi che a

tratti affiorano nel ritmo serrato e più frequentemente dialogato del racconto, e

sono visioni di una terra desolata ed arsa, di un mare sempre uguale nel suo

brontolio monotono, di campi fertili, gravati però dal senso della fatica dell’uomo e

dallo spettro della malaria; o, a volte, visioni di certe improvvise aperture di cieli

limpidi, di notti stellate che sembrano, per un istante, accennare ad una speranza di

felicità, dopo la quale l’uomo ripiomba nella sua deserta solitudine. Nei momenti

più intensi, dialogo e descrizioni si modulano in quella che è stata chiamata la

“mesta cantilena siciliana”, chiusa e rassegnata, vibrante di un dolore antico quanto

l’uomo. Quella del Verga è spesso una prosa con una cadenza d’epopea: quella

tragica e dolorosa del vivere.

Vita dei campi

La prima raccolta di novelle del Verga, Vita dei campi (1880), rivela la conquista

del suo vero mondo poetico: la Sicilia, gli umili. Fra essi l’autore trasferisce quelle

passioni che aveva prima rappresentato in ambienti mondani e raffinati. Ma in

questi esseri primitivi, che vivono la vita nella sua verità essenziale, esse

acquistano un tono fiero e generoso, una verità umana più autentica. Anche

l’omicidio passionale nasce da sentimenti austeri e profondi: l’amore e l’onore, la

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difesa della santità del focolare domestico. Le novelle più celebri sono Cavalleria

rusticana, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, La lupa. Interessanti sono anche

L’Amante di Gramigna, nella cui prefazione il Verga definisce la sua poetica, e

Fantasticheria, che espone in sintesi la vicenda e il significato dei Malavoglia.

I MALAVOGLIA

Il romanzo narra le vicende di una famiglia di pescatori, uniti nel culto religioso

della famiglia e del focolare domestico. Essi sono: padron ‘Ntoni, il nonno, uomo

onesto e saggio, rassegnato alla sua vita di stenti e di duro lavoro, inteso soprattutto

a mantenere l’affettuosa coesione dei suoi, suoi figlio Bastianazzo, la longa,

moglie di questo, e i nipoti ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia.

Per migliorare le loro condizioni i Malavoglia decidono di commerciare dei lupini,

presi a crediti dall’usuraio zio Crocifisso. Ma il mare ingoia la loro barca (la

Provvidenza”) che li trasportava e Bastianazzo, lasciando la povera famiglia priva

di due forti braccia, con la barca sconquassata e il grosso debito dei lupini. D’ora

innanzi il destino si accanisce implacabile contro i Malavoglia, che, guidati dal

nonno tentano eroicamente, ma spessi invano, di resistere. Il debito si porta via la

loro casa, la casa de nespolo, la “Provvidenza” torna a naufragare, Luca muore

nella battaglia di Lissa, la Longa di colera. Ancor più amaro è il destino dei

sopravvissuti. Il nipote ‘Ntoni si ribella all’esistenza grama, cerca di far fortuna col

contrabbando, ma scivola sulla china del vizio e del disonore, finché scoperto in

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flagrante da don Michele il brigadiere, lo accoltella e finisce in prigione. Lia,

sconvolta dalle chiacchiere, messe in giro dagli avvocati per salvare il fratello, che,

cioè egli abbia ferito don Michele per motivi di onore per causa di lei, fugge da

casa e si perde nella città. Il nonno muore affranto nell’ospedale, senza aver avuto

la gioia di vedere attuato il suo sogno: il ritorno nella casa del nespolo.

Solo Alessi, dopo tante sventure, riesce a riscattare la casa e a formare di nuovo la

famiglia: con lui resta Mena, che ha dovuto rinunciare all’amore ed a una vita sua.

Ritorna anche ‘Ntoni, una sera, ma per andarsene via disperato, dopo aver saputo

ogni cosa, straziato dal rimorso di essere stato la rovina della famiglia. Attorno ai

Malavoglia c’è come un vasto coro, la gente del paese, con le sue vicende che si

intrecciano alle loro. Tutti appaiono legati ad una liturgia di atti, di gesti, di morale

e costumanze comuni, tutti sono, nello stesso tempo, soli nella lotta contro il

destino. La loro vita è una vicenda dura di miseria e di dolore davanti ad una

natura ostile o impassibile, in un mondo privo di ogni luce, di provvidenzialità.

Sola risplende la religione del focolare domestico, che conforta i protagonisti dalla

brutalità della lotta economica per sopravvivere e li fa sentire uomini nel dolore e

nell’amore. Nella novella Fantasticheria il Verga indica il nucleo lirico del

romanzo nell’esaltazione del “tenace attaccamento di quella povera gente allo

scoglio sul quale la fortuna li ha fatti cadere”, della “rassegnazione coraggiosa ad

una vita di stenti”, della” religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere,

sulla casa, e sui sassi che la circondano”; e così definisce il tema centrale della

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tragedia dei Malavoglia, con particolare riferimento a ‘Ntoni: “allorquando uno di

quei piccoli, ,o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi

dai suoi…il mondo, da pesce vorace che egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi

con lui”. Voleva inoltre rappresentare nel romanzo” il movente dell’attività umana,

che produce la fiumana del progresso”, colto nel suo aspetto elementare, quando è

ancora ricerca di soddisfare i bisogni materiali immediati dell’esiste4nza. Ma

quest’ultima intenzione, positivistica e scientifica, resta sullo sfondo; l’arcaico

mondo contadino, da secoli fuori dalla storia nel suo avvilimento escluso, sembra

da ogni possibilità di progresso, diventa emblema d’una condizione più generale

dell’uomo.

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GIOVANNI PASCOLI

Nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Nel '62 entrò nel collegio dei Padri

Scolopi a Urbino, rimanendovi fino al '71. Il 10 agosto del '67 accadde l'evento

capitale della sua vita: il padre, agente dei principi Torlonia, fu assassinato da

ignoti. Fu l'inizio, per la famiglia, d'un periodo di sventure: l'anno seguente morì

una sorella, poi, di seguito, la madre e, più tardi, due fratelli. Questa precoce

esperienza di morte rimase per il poeta una ferita non chiusa, che si venne

risolvendo sempre più in un senso sgomento dell'inesplicabilità del destino umano.

La prima reazione all'assassinio rimasto impunito e coperto dall'omertà di chi

seppe ma non volle dire, fu un senso di ribellione contro l'ingiustizia.

Nel '73 il poeta vinse una borsa di studio all'Università di Bologna (giudice della

prova d'esame fu il Carducci), dove s'iscrisse alla Facoltà di lettere, che frequentò

per due anni con grande impegno.

Ma nel '76 la morte del fratello Giacomo lo gettò in una cupa prostrazione.

Abbandonò gli studi, perdendo così l'assegno concessogli dai Torlonia, e conobbe

la povertà. In quegli anni strinse amicizia con Andrea Costa, capo dell' anarchismo

romagnolo, e s'iscrisse all'Internazionale, partecipando ai primi moti socialisti. Nel

'79, in seguito a dimostrazioni connesse all' attentato dell' anarchico Passanante

contro Umberto I, subì alcuni mesi di carcere preventivo. Ne uscì assolto e non più

disposto a impegnarsi nella politica attiva, ma rafforzato nel suo umanitarismo e

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convinto che soltanto l'amore fra gli uomini potesse essere un conforto alloro

oscuro destino.

Riprese l'Università, si laureò nell’ '82 e intraprese la carriera dell'insegnamento.

Fu professore di latino e greco nei licei di Matera, Massa, Livorno, poi, dal 1895 al

'97, di Grammatica greca e latina a Bologna, dal 1898 al 1902, di Letteratura latina

a Messina, dal 1903 al 1905 di Grammatica greca e latina a Pisa, e infine, dal 1906,

successore del Carducci nella cattedra di Letteratura italiana dell'Università di

Bologna.

Morì nel 1912, a Bologna e fu sepolto a Castelvecchio di Barga, dove aveva

abitato dal '95 in una villa di campagna con Maria, la sorella fedelissima.

Sin da quando era studente a Bologna, il Pascoli compose, soprattutto fra il 1876 e

il 1880, numerose liriche, che venne pubblicando su giornali goliardici (fra di esse

è la prima redazione di Romagna, uno dei suoi componimenti più celebri), ma il

periodo creativo più intenso si ebbe negli anni fra il 1885 e il 1900 all'incirca. In

questo quindicennio egli compose le sue poesie più significative, che sistemò poi

in successive raccolte, lontane, a volte, dal tempo della composizione: Myricae

(1891) ma si tratta d'una prima edizione, comprendente soltanto ventidue delle

centocinquantasei liriche dell'edizione definitiva, uscita nel 1900), i Poemetti

(1897), in seguito ampliati e sdoppiati in due raccolte, i Primi poemetti (1904) e i

Nuovi poemetti (1909), i Canti di Castelvecchio (1903), i Poemi conviviali (1904),

Odi e Inni (1906), i Poemi Italici, le Canzoni di re Enzio, i Poemi del

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Risorgimento, tutti composti nell'ultimo periodo bolognese, fra il 1908 e il 1911.

Fra i capolavori della poesia pascoliana vanno annoverati molti dei Carmina, cioè

dei poemetti latini, composti fra il 1885 e il 1911, per i quali il poeta fu più volte

premiato al concorso di poesia latina di Amsterdam. Egli seppe fare, infatti, del

latino, una lingua poetica prodigiosamente viva, mentre esprimeva la sua solitudine

di uomo moderno, la sua perplessità davanti al mistero e la sua ansia sempre

delusa. Accanto a essa va ricordata la prosa, che possiamo suddividere in

saggistica letteraria e discorsi di varia umanità.

Alla prima appartengono, innanzitutto, i volumi di critica dantesca, Minerva

oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1902), cui la sorella

Maria aggiunse postuma la raccolta di Conferenze e studi danteschi. Questi saggi,

impegnatissimi e a lungo misconosciuti, propongono una complessa chiave di

lettura simbolico-allegorica della Commedia, interessante per la conoscenza che il

Pascoli rivela di autori certo presenti all' orizzonte culturale di Dante, a partire da

S. Agostino, e per la sua capacità di coglierne gli echi e le suggestioni nel poema.

Ma oggi l'attenzione dei critici è rivolta anche a ritrovare in questi saggi spunti

della poesia pascoliana di quegli anni, come s'è visto, decisivi nella sua

produzione. Analogo interesse presentano i saggi leopardiani (Il sabato, La

ginestra) e quello manzoniano (Eco di una notte mitica), dove il Pascoli coglie le

ascendenze strutturali virgiliane del cap. VIII dei Promessi sposi.

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Altrettanto importanti appaiono i saggi dedicati alle letterature classiche, da La mia

scuola di grammatica, prolusione del suo corso universitario a Pisa, alle

introduzioni e ai commenti ai testi delle antologie Epos e Lyra, dedicate

rispettivamente all'epopea e alla lirica latina. In queste opere, come, del resto, nei

Poemi conviviali, il mondo classico diviene un mondo primitivo, in cui i poeti

vedono le cose come per la prima volta, con lo stupore di fanciulli che il Pascoli

teorizzò come necessario alla intuizione e trasfigurazione poetica del mondo nella

prosa Il fanciullino, dove propose un' estetica di stampo simbolistico; oppure, colto

in momenti di crisi, riflette emblematicamente la problematica del poeta e del suo

tempo in una prospettiva decadentistica. In entrambi i casi, non è più il mondo

esemplare del vecchio classicismo umanistico fondato su una misura di razionalità

e di equilibrio etico, ma riflette un rapporto difficile col reale, sia sul piano

conoscitivo sia su quello pratico, quale fu, in sostanza, quello del Pascoli e del suo

tempo.

Fra i discorsi del Pascoli, affidati poi alle raccolte Miei pensieri di varia umanità

(1903), ripubblicato, ampliato, nel 1907 col titolo Pensieri e Discorsi, ad Antico e

sempre nuovo, e a Patria e umanità, pubblicati postumi, sono contenuti testi che

illustrano la concezione pascoliana del mondo, da L'era nuova a L'avvento. Assai

significativo è poi il discorso La grande proletaria s'è mossa, pronunciato nel

1911, in occasione dell'impresa libica, ispirato a un vago socialismo umanitario e

nazionalistico, che non rifugge tuttavia dall' approvare una guerra colonialistica;

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con una sostanziale incoerenza ideologica che non fu, tuttavia, solo del Pascoli, ma

anche, allora e davanti al primo conflitto mondiale, di molti socialisti.

Le concezioni

La concezione pascoliana della realtà è fondata sulla dominante presenza di un

mistero (o ignoto) insondabile al fondo della vita dell'uomo e del cosmo. Mentre il

Positivismo, fiducioso nella scienza, aveva relegato l'inconoscibile ai margini della

conoscenza, concependolo tuttavia come una sorta di territorio ignoto da sottoporre

progressivamente a una ricerca condotta con metodo sperimentale, il Pascoli ne fa

il centro, l'interesse dominante e, in sostanza, statico d'una sofferta meditazione. La

scienza, a suo avviso, «ha confermato la sanzione della morte», ha ricondotto, nel

momento in cui riconosceva di essere impotente di fronte a essa e incapace di

vincerla, la mente dell'uomo alla coscienza del suo destino inesplicabile.

D'altra parte, ha infranto l'antica fede religiosa, anch' essa, peraltro, fallita, dal

momento che «in tanti secoli non è riuscita a distruggere il lievito cattivo, per il

quale sono ora temute a un tempo guerre coloniali, nazionali ed etniche» (cioè

razziali). Queste parole scriveva il Pascoli nel discorso L'era nuova, allo scadere

del secolo XIX (l'era di cui parlava era, appunto, il Novecento), aggiungendo al

timore di guerre sterminatrici, rese più cruente dalla nuova potenza delle macchine,

quello d'una dura rivolta sociale delle classi oppresse.

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L'era nuova terminava esortando l'uomo ad abbracciare con lucida consapevolezza

il suo destino di creatura mortale. Questa doveva essere la sua nuova religione,

congiunta a una rinnovata solidarietà con gli altri nell' amore e nel dolore. Ne

derivava un messaggio di fraternità e di pace che si ritrova in molte liriche

pascoliane, come nei Due fanciulli.

Si tratta, di un messaggio vagamente cristiano, privo però di un tema essenziale del

Cristianesimo, ossia del riconoscimento della responsabilità individuale, e fondato,

d'altra parte, sulla volontà d'una giustificazione della vita e su una ricerca del

divino che rimasero, nel Pascoli, sempre insoddisfatte. Se mai, il messaggio

pascoliano potrebbe essere paragonato a quello leopardiano della Ginestra; se non

che manca nel Pascoli la volontà della lotta eroica contro la natura e il destino. La

natura è, per il Pascoli, buona, è una «madre dolcissima», contemplata e amata sia

nella quiete e nella dolcezza dei paesaggi campestri, sia negli spazi sterminati dei

cieli. Se i primi sembrano sussurrare una parola arcana ma dolce, i secondi ispirano

spesso un senso di vertigine e di smarrimento, col continuo nascere e morire, anzi

crollare, in loro, di mondi, e per la loro infinità che sembra annullare il limitato

destino dell'uomo.

Certo quello del Pascoli è uno spazio sterminato, senza una direzione, dove

l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, l'astro e il filo d'erba, si toccano,

partecipano egualmente dell'unico mistero della vita; questa nel suo continuo

rinnovarsi, nella sua vastità imponderabile è amata e poeticamente vissuta dal

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poeta. Il senso pascoliano del mistero coincide spesso con la visione dell'infinità

della vita, della sua perenne metamorfosi, dell'intatto, perenne fluire della sua

energia, del suo apparire in una luce di labilità ma anche di bellezza. Leggiamo, ad

esempio, nella prefazione ai Canti di Castelvecchio, là dove il poeta ricorda la

madre, queste parole rivelatrici: «lo sento che a lei devo la mia abitudine

contemplativa, cioè, qual ch'ella sia, la mia attitudine poetica.

Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un

giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo; io

appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a

veder soffiare i lampi di caldo all' orizzonte».

In queste meditazioni senza parole, in questo vivere l'infinità della vita sta la radice

prima dell'ispirazione pascoliana.

La poetica

Il Pascoli svolge la propria ricerca poetica in due direzioni. Da un lato egli

concepisce la poesia come ispiratrice «di buoni e civili costumi, d'amor patrio,

famiglia re e umano», assegnandole il compito di rendere gli uomini «più buoni».

Nasce di qui una serie di liriche di tono oratorio, umanamente sincere, ma spesso

ideologicamente nebulose; un omaggio estremo all'idea ottocentesca del poeta-

vate, educatore dei popoli e dell' umanità. In esse appaiono però i limiti vistosi del

pensiero del poeta: basta pensare al suo tentativo di mescolare all'iniziale

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socialismo suggestioni francescane e magari, come si è visto, un nazionalismo

imperialistico.

Egli visse, in sostanza, la crisi del positivismo, accompagnata dall' affermarsi di

correnti irrazionalistiche, da un vago misticismo decadentistico, da nuove

esaltazioni del sentimento contro il rigore del metodo scientifico.

La poesia pascoliana originale nasce invece fuori d'ogni intenzione

intellettualistica e predicatoria ed esprime l'intuizione del ritmo ignoto della vita in

rapide illuminazioni, in una dimensione evocativa e suggestiva.

La poetica pascoliana è espressa nella prosa Il fanciullino. Secondo il Pascoli,

poeta è colui che conserva intatta la sua anima di fanciullo, un contatto fresco e

immediato con le cose, che si stupisce davanti alla continua rivelazione del mondo,

del suo mistero che palpita in ogni aspetto della vita. Egli parla alle bestie, agli

animali, ai sassi, alle nuvole, alle stelle.

La poesia, ci mette in comunicazione immediata con esso, è la forma suprema di

conoscenza. È questo il carattere decadentistico, o meglio, simbolistico, della

poetica pascoliana, sottolineato dall' affermazione che «a costituire il poeta vale

infinitamente più il suo sentimento e la sua visione del mondo che il modo col

quale agli altri trasmette l'uno e l'altra».

Sul piano espressivo, questa poetica ha esiti nuovi e originali, rispetto alla nostra

tradizione. Rinuncia alle architetture concettuali, per volgersi alla creazione

d'atmosfere suggestive. Inoltre tende spontaneamente al simbolo, poiché la realtà

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che essa rappresenta è metafora spontanea del mistero donde dirama la vita degli

esseri e del cosmo. La «situazione» tipica della poesia pascoliana è quella del poeta

solitario, immerso nella campagna silenziosa e inteso non a confessare il proprio

io, ma ad esprimere le rivelazioni delle cose e l'ombra che le prolunga in una

distanza indefinita, le illuminazioni che gli giungono dall'ignoto; oppure quella del

poeta sperduto nell'immensità degli spazi cosmici, con un senso sgomento di

vertigine davanti all'essenza indecifrabile dell'universo. Il paesaggio, comunque, è

sempre il protagonista della lirica pascoliana più originale.

L'animo del poeta sembra calato nelle cose, intento a coglierne il sorriso e la

lacrima, la vita arcana, anche se, in realtà, è esso a proiettare nel paesaggio la sua

perplessità smarrita, il senso d'una continua presenza della morte nella vita, il suo

sentimento dolente ma anche la sua ansia dell'ignoto.

Momenti analoghi caratterizzano i punti poeticamente più intensi delle liriche in

cui il Pascoli tenta strutture ideologiche e compositive più complesse, dai Poemetti

del '97 alle composizioni più tarde (Odi e Inni, Poemi del Risorgimento, ecc.),

dove tuttavia si avverte sovente un impaccio costruttivo, una ricerca di contenuti

complessi che non sempre evita zone di oscurità o di alchimie ideologiche un po'

lambiccate. La sua poetica più originale e ricca di avvenire, nel senso che ha inciso

nella poesia del Novecento, è stata quella del frammento intenso e rapido,

rifuggente da architetture complesse, inteso a ritrovare nel particolare, nelle forme

più elementari e quotidiane del reale un'espressione totale della vita.

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L'albero, l'ape, il fiore, lo stelo - per riprendere l'espressione d'una sua lirica -

coesistono con la visione dei mondi turbinanti nello spazio astrale, con pari dignità

poetica: gli uni e gli altri riflettono il mistero e il miracolo dell' esistenza che il

poeta cerca di guardare con occhi e stupore di fanciullo, quasi che la poesia fosse

ogni volta una prima scoperta del mondo.

Nelle raccolte Myricae, Poemetti, Poemi conviviali, Canti di Castelvecchio,

nuovissimo appare il linguaggio, aderente, in apparenza, alle cose, ma in realtà più

suggestivo che realistico. Il Pascoli, in un suo saggio, rimproverava il Leopardi per

il «mazzolin di rose e di viole» della «donzelletta», avvertendo che i due fiori

crescono in stagioni diverse, ed esortava a dare il proprio nome a ogni cosa, alberi,

uccelli, fiori, come egli fa, rinnovando dall'interno il linguaggio poetico italiano.

Né qui si arresta la sua sperimentazione linguistica, in quanto egli unisce a questo

linguaggio esattissimo quello che il Contini ha chiamato «linguaggio

pregrammaticale» (i versi degli uccelli) e linguaggi specializzati (i pezeteri o fanti

di Alexandros, la terminologia della montagna lucchese dei Canti di Castelvecchio,

indicante oggetti e lavori della campagna).

In realtà, però, è costante in lui una dialettica di determinato e indeterminato anche

nel linguaggio: il mandorlo e il melo dell'Assiuolo (due parole e cose ignote

all'aristocratico vocabolario di ascendenza petrarchesca della nostra tradizione

lirica, che giunge fino a Leopardi, il quale non parla di fucili ma di «ferree canne»;

e oltre) sfumano nell'indefinito d'una «nebbia di latte»; le cose, pur evocate nella

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loro precisione, sembrano sempre lì per svanire, per riconfondersi nell'indistinta

fiumana della vita donde sono emerse.

Pascoli e gli Antichi

Fondamentale, nella formazione della personalità pascoliana, fu lo studio dei

classici; e non soltanto perché egli riuscì a ricrearne originalmente la lingua nei

suoi carmi latini, ma perché egli individuò in loro un modello poetico e umano

sempre attuale. Antico sempre nuovo fu il titolo dato a una raccolta di prose

critiche scritte fra il 1893 e il 1910; che era, nel contempo, un programma culturale

e poetico, evidente se si pensa ai Poemi conviviali, dove l'antichità rivive in figure

e vicende sentite ancora attuali.

La poesia degli Antichi è vicina al «fanciullino», al suo stupore vergine, intatto

davanti al mondo; è un mito delle origini che contiene in sé un'idea esemplare del

fare poetico, una fondazione di esso avvenuta in una sorta di infanzia del mondo,

che rimane incentivo di rifondazione-perenne. Per questo, ad esempio, il Pascoli

può ritrovare, nel capitolo VIII dei Promessi Sposi, strutture narrative e cadenze

del II libro dell'Eneide, dato che 1'epopea antica è per lui il modello d'ogni narrare.

Si possono distinguere due atteggiamenti del Pascoli verso gli Antichi, anche se

poi finiscono per concordare: la ricerca in essi d'un primitivo che significa

concordia con la «natura» e la spontaneità del vivere sia sul piano umano sia su

quello poetico (e allora il Pascoli rievoca nostalgicamente Omero, Esiodo o le

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origini della poesia latina), e quella d'un declino, colto in un definitivo momento

storico, di questa prima, esemplare civiltà.

Questo secondo aspetto è più vicino alla sua sensibilità decadentistica e lo induce,

sia nei Conviviali sia nei Carmina latini ad approfondire i momenti di crisi delle

civiltà greca e latina e a ritrovare in essi la coscienza inquieta sua e del suo tempo.

Sia che rievochi la figura di Alessandro Magno (Alexandros) o il crollo del mondo

classico davanti alle invasioni barbariche (Gog e Magog), il mondo antico racconta

la storia del presente del Pascoli, della civiltà minacciata di cui egli si sente parte.

Soprattutto, poi, nei Carmina egli s'addentra nel periodo che vede il tramonto di

Roma e il primo affermarsi del Cristianesimo, in una malinconia di declino, aperto

faticosamente a una combattuta speranza di pace e fraternità.

Ma del mondo romano il Pascoli avverte anche la violenza, l'obbrobrio e

1'angoscia della schiavitù, e il perenne, vano combattere dell'uomo contro la morte

e il nulla. Accanto a questo tema, nei carmi latini sugli antichi poeti, egli rivela una

prodigiosa capacità mimetica, nel ricostruire la loro personalità stilistica, in un

latino che è, per esempio, insieme, oraziano e pascoliano.

Il classicismo pascoliano è, per un verso, decadentistico. Ma per un altro verso, si

potrebbe dire che non sia più classicismo, almeno nel senso tradizionale, per

l'abbandono dell'ideale di euritmia, di composta saggezza che aveva fino ad allora

caratterizzato il classicismo; e anche per l'abbandono dell'immagine plastica e

conclusa per l'immagine aperta, musicale, allusiva.

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Questi aspetti sono evidenti, oltre che nelle liriche e nei poemetti, anche in alcuni

saggi, fra i quali spiccano le prefazioni a Lyra (1895) e a Epos (1897), due

antologie scolastiche che si rivelano notevolmente importanti per ricostruire la

poetica e la sensibilità pascoliane. Ne riportiamo due passi, con un commento

rapidissimo, da approfondire in un successivo esercizio di lettura.

«Myricae»

Questa prima raccolta pascoliana ha una storia lunga e complessa, che copre circa

un ventennio, dalle poesie, come Romagna, pubblicate nei primi anni ottanta (ma

poi largamente rielaborata), all'edizione praticamente definitiva del 1900; ed è un

ventennio ricco di esperienze umane, culturali e poetiche. Alla prima edizione, in

un opuscolo per nozze, del 1891, con ventidue liriche, succedono quelle del '92,

del '94, del '97, del 1900, con, rispettivamente, 72, 116, 152, 156 poesie.

Oltre al numero, muta anche la divisione in sezioni, mentre è evidente lo sforzo,

ogni volta, del Pascoli di conferire al libro un'organicità. L'ultimo espediente in tal

senso è il collocare all'inizio un ampio poemetto, Il giorno dei morti, che rievoca i

lutti della sua famiglia, ribaditi poi nella prefazione e nella dedica al padre, e alla

fine tre liriche con funzione di epilogo della propria storia che da quei lutti ha

ricevuto un'impronta indelebile e ormai tale da predeterminare una vocazione

esistenziale anche futura.

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In realtà, tuttavia, il libro rimane incerto fra un' antologia della produzione poetica

di vent'anni e il «mito» dei morti da far rivivere nella poesia, e nella gloria, del

figlio che ha, ora, ricostruito il «nido» domestico. Questa ricerca di unità, e il suo

successo soltanto parziale, anzi, a ben vedere, il suo insuccesso, riflettono la crisi

etica e conoscitiva del Pascoli, una visione dell'universo senza più direzioni né

gerarchie che costituisce, insieme, il suo tormento e la sua modernità.

Nella sua parte più originale Myricae presenta una poesia d'oggetti, immagini,

quadri sintetici (o «idilli») di natura: una poesia, come dice il titolo tratto da un

verso delle Bucoliche di Virgilio (le «mirice» o tamerici sono arbusti bassi), di

cose umili, vicine a terra, della vita dei campi. «Son frulli d'uccelli - dice nella

prefazione il Pascoli - stormire di cipressi, lontano cantare di campane»,

affermando così la volontà d'una poesia voce non di sentimenti individuali, ma

della natura che parla attraverso il poeta, immerso in essa, aperto al messaggio

elementare delle cose, che effigiano il fluire alterno della vita e della morte, la loro

compresenza di sempre.

Nel vagheggiamento della natura «madre dolcissima», dice la prefazione, che «ci

vuol bene», dei paesaggi campestri, rivelazione di vita semplice, intatta, il Pascoli

riusciva a obliare il senso di vertigine che gli ispiravano il mistero dell' essere (le

ragioni non conoscibili della vita) e il problema del male, del dolore, della morte.

Rievocava la vita della campagna, gli esseri più minuscoli o umili (fiori, uccelli),

uguali, per lui, in dignità a quelli considerati «grandi», perché in loro scopriva lo

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stesso movimento che anima il cosmo, la coscienza umana: il filo d'erba e gli astri

remoti. E chiamava ogni cosa col suo nome; rinnovando il linguaggio stilizzato ed

esangue della lirica italiana, tentando nella poesia la rivoluzione che il Manzoni

aveva operato nella prosa col suo romanzo.

Anche attraverso il linguaggio cercava di cogliere la vita nella sua elementarità, di

«vedere e udire», o, come dice nel Fanciullino, di «riconfondersi con la natura»,

per penetrare, attraverso una comunione esistenziale con essa, nell' «abisso della

verità», rifacendosi, nel contempo, alla «psiche primordiale e perenne» dell'uomo.

Per questa via egli giunge a un proprio simbolismo: a cogliere nei rapidi quadretti

di natura o in brevi palpiti lirici, le cose come segni, o manifestazioni-rivelazioni

della realtà profonda dell' essere. Una voce dai campi - un grido d'uccello, un

rintocco di campane, o un moto elementare, un volo di rondine, un molleggiare di

passeri al suolo - diventano non solo e non tanto simbolo del moto cosmico della

vita, ma il perenne instaurarsi di esso, che la poesia coglie in una ritrovata

essenzialità sentimentale ed espressiva: in una perenne «infanzia» del cuore.

Ne risulta una poesia nuovissima, ben diversa dal classicismo umanistico del

Carducci.

Essa non rappresenta più una vicenda esemplare dell'io: la persona del poeta è

quella dell'uomo che si aggira fra le parvenze molteplici, attento alla voce delle

cose, alla loro rivelazione, non a intonarle al proprio individuale sentire e alla

propria vita come costruzione di valori e civiltà. La parola sprigiona una virtù

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analogica, che parte proprio dalla sua sostanza fonica: tende a ricostruire la voce

elementare della natura, il perenne mormorio delle cose, del mondo. La voce

umana sembra elevarsi come un canto dalla campagna, ritrovarne e continuarne in

linguaggio umano la voce. Così la sintassi compositiva appare come franta:

ricomincia a ogni periodo, a ogni istante, aderendo al modularsi della percezione,

al discorso d'una mente calata negli oggetti, ansiosa di riflettere il ritmo della vita

che essi manifestano nel loro apparire e scomparire nella perenne metamorfosi del

mondo.

I «Canti di Castelvecchio»

La raccolta (prima edizione 1903) comprende poesie scritte dal 1897 al 1907

(quindici furono aggiunte nelle edizioni successive, l'ultima delle quali, postuma, è

del 1912).

Molte di esse attestano, rispetto al primo libro, l'ampliarsi della tematica pascoliana

nel senso della meditazione storica e cosmica.

A Castelvecchio di Barga, nella casa di campagna dove abitò a partire dal '95, il

Pascoli scrisse queste nuove Myricae, che egli chiamò «autunnali», alludendo alla

declinante stagione del suo vivere. Comuni alle due raccolte sono l'amore per la

vita della campagna, per le cose umili, e l'atteggiamento contemplativo; ma c'è, qui

nei Canti, accanto alla rappresentazione realistica dell’ambiente contadino

lucchese, una visione simbolistica più decisa e le cose umili divengono come un

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rifugio dalla trepidazione ansiosa davanti alla morte e al mistero, presenza continua

e fortemente sottolineata. Si può anzi dire che le balenanti intuizioni di Myricae si

sviluppano, nei Canti, su di una tastiera più vasta, con l'indubbio pericolo di

disperdere la concentrata purezza dell'emozione lirica, ma con risultati, spesso,

originali e suggestivi. Due temi, in gran parte nuovi,appaiono dominanti nel libro:

quello delle memorie di giovinezza, che giunge ad espressione altissima nel gruppo

di liriche raccolte sotto il titolo generale Il ritorno a San Mauro,e il dilatarsi del

senso del mistero in ampie visioni cosmiche.

L’ angoscia del vivere viene come personificata dalle figure dei morti che

ritornano (basta pensare a Ultimo sogno o al Ritorno a San Mauro), squallidi e

queruli, avidi di preghiere e del sacrificio costante dei vivi, soprattutto d'una vita

perduta per sempre che diviene metafora dell'impossibilità stessa del vivere. Il

senso della loro pena senza conforto e, insieme, della loro non esistenza se non

nella nevrosi ossessiva ispirata al vivo, è dato dal modo in cui il Pascoli li

rappresenta: come fantasmi che recano in sé la spia evidente del loro disfacimento

(al fantasma della madre il pianto cola «lungo le guance smorte»; la Tessitrice non

può parlare se non ripetendo in un'eco sfatta e dolorosa le parole del vivo, il suo

vano interrogare; i famigliari morti aspettano «con pupille fisse» il ricordo dei

vivi,si lamentano nella bufera d'inverno della vita perduta).

Una posizione centrale ha la madre, segno di inesausta nostalgia e di volontà di

annullamento. Essa diviene emblema della vita e della morte, proprio come datrice

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d'una vita che continuamente si cancella nella perenne metamorfosi, e declina

verso il nulla da cui è emersa. Il poeta la rivede giovane, bionda, bella: unico

emblema di femminilità, che diviene, però, anche il simbolo dell'amore negato,

della vita che il poeta non propagherà; né lui,né Mariù e ai figli non nati è dedicato

l'ultimo patetico dialogo fra i due fratelli, nella nota alla fine dei Canti di

Castelvecchio, perché hanno scelto la morte, come dice chiaramente Ultimosogno.

Queste, e altre immagini che sarebbe troppo lungo ora seguire, ma va citata almeno

quella dell'eros negato, che si traduce, spesso, in un'idea del sesso fatta di

attrazione e repulsione: quasi una mancata crescita, un indugio all'età

adolescenziale.

E allora, accanto alle sue nevrosi funebri, occorrerà considerare la problematica

culturale, che egli condivide con tutta una civiltà. l'abbandono, ad esempio, delle

certezze offerte dalla razionalità dispiegata e sicura e dalla scienza, la ricerca di

nuove irrazionalistiche dimensioni ,conoscitive, l'abbandono alle oscure

suggestioni della psiche, concepite come rivelazioni conclusive, mentre

definiscono l'infrangersi di un'idea secolare di armonia del mondo e di razionalità

del reale, sanciscono un'inquietudine che abbiamo indicato caratteristica della

filosofia e della cultura di fine Ottocento e che abbiamo collegata a una crisistorica

e conoscitiva. Quando, nel Fanciullino,il Pascoli ci dice che la poesia ci colloca sul

cuore della verità senza farci percorrere le catene dei sillogismi, allude a una

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conoscenza per partecipazione, a un tentativo di penetrare una dimensione diversa

e più significativa.

I «Poemi conviviali»

La raccolta (1904), che comprende venti poemetti composti a partire dal 1892,

alcuni pubblicati sul Convito, la rivista di Adolfo De Bosis, deve il titolo al ricordo

dei poemi cantati, presso gli Antichi, nei banchetti. Il Pascoli si ispira al mondo

classico, quasi esclusivamente a quello greco (mentre i Carmina latini, che sono un

ideale complemento dei Conviviali, si ispirano a quello romano e paleocristiano),

rivivendolo, però, con la sua sensibilità moderna e tormentata, ritrovando nelle

figure di esso la sua stessa perplessità esistenziale e il senso del mistero, e

trasfigurandolo, quindi, in una dimensione simbolistica.

I Poemi conviviali vogliono essere, infatti, una storia ideale del mondo classico,

tracciando la parabola della civiltà greca dai tempi cantati da Omero ad Alessandro

Magno, e di lì, attraverso la rievocazione della gloria e della decadenza di Roma

(Tiberio), giungendo al presentimento delle imminenti invasioni barbariche (Gog e

Magog) e al primo albore della rivelazione cristiana (La buona novella),che il

Pascoli sente soprattutto come messaggio di fraternità e di pace, ma anche come

approfondita coscienza dell' arcano dramma del nostro esistere. Ma anche quando

il poeta canta l'armonia dell'anima greca (Solon), in una luce di eroismo e di

bellezza(Ulisse, Achille), di poesia, di giustizia, avverte in essa un senso

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d'inquietudine, nato dal sentimento del destino effimero dell'uomo. Questo senso

sofferto e problematico del vivere riscatta i migliori poemetti da un certo

compiaciuto alessandrinismo, dall' estetismo che insidia quasi sempre la poesia dei

Conviviali. Il Pascoli stesso, nella prefazione, si richiamava al programma del

Convito, il quale si proponeva «di salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida

onda di volgarità che ricopriva ormai tutta la terra privilegiata dove Leonardo creò

le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili», e chiamava il

D'Annunzio «fratello maggiore e minore», mostrando la sua adesione alla nuova

atmosfera culturale, aristocratica ed evasiva, del Decadentismo.

«Odi e Inni»

Nelle odi e negl inni (i primi maturarono già al tempo di Myricae; la raccolta è del

1906) il Pascoli rivela il suo impegno etico, sociale e storico-politico, e cioè la sua

volontà, legata alla tradizione romantico-carducciana del poeta educatore e vate

d'un popolo, d'una poesia-messaggio, che evadesse dall'immediata esperienza

lirico-autobiografica.

Ad essa era portato da una tensione sincera, anche se appoggiata a teorie incerte e

contraddittorie (si ricordi che da un vago socialismo iniziale passò a idee

nazionalistiche e imperialistiche, e, quel ch' è peggio, si sforzò di conciliare i due

opposti atteggiamenti), e a una visione piuttosto astratta della realtà storico-sociale

del suo tempo. I temi più personali di Odi e Inni sono il vivo senso del dramma

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dell'uomo, l'appassionato e accorato anelito alla fraternità umana, la volontà di

cantare «i diritti e anche le guerre delle nazioni e degli eroi come mezzo per una

migliore giustizia sociale e universale»; vero è però che la nebulosità ideologica e

la stessa incapacità del poeta di connettere le proprie intuizioni liriche su una trama

organica di pensiero, sommergono molte di queste poesie in un' oratoria enfatica. li

Pascoli non fu, né poteva essere, poeta della storia: il suo simbolismo lo portava a

dissolvere il concreto agire umano in una

vicenda dove non l'uomo, ma il mistero diveniva il protagonista effettivo. Meglio

egli riusciva a cantare l'eroe solitario, staccato da ogni complesso riferimento

storico.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche

1) Cosa si intende per corrente Verista.

2) Cosa si intende per vero storico.

3) Perché la poesia pascoliana è stata intesa come poesia delle ombre.

4) Come l’uomo moderno vive il progresso.

5) Ambiente verghiano e ambiente pascoliano:Immagini e paesaggi a

confronto.

6) Cosa si intende per poesia prosaica.

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III UNITA’: Influssi di letteratura straniera.

Prerequisiti:

- Conoscenza delle innovazioni letterarie attuate dai poeti di primo Ottocento.

- Approccio critico- letterario a nuove tendenze e tematiche.

- Conoscenza del germe filosofico nella letteratura straniera.

Obiettivi:

- Capacità di riflessione e confronto di fronte a nuove problematiche.

- Acquisizione della nuova realtà vissuta dall’uomo che si avvicina al nuovo

secolo.

- Acquisizione dei cambiamenti politici e sociali che portano l’uomo del periodo

preso in esame a nuove e decisive risoluzioni.

Si studieranno:

- Poe.

- Boudelaire.

- Verlaine.

- Mallarmè.

- Rimboud.

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-

Influssi delle letterature straniere

Edgar Allan Poe

Alcoolizzato, soggetto a nevrosi depressiva, l'americano Poe (1809-1849) esasperò

la vena lugubre del Romanticismo, con capacità straordinaria di penetrazione nelle

zone più oscure dell' animo. I suoi racconti sono spesso avvolti da un alone

macabro e surreale, le vicende, dominate da arcane forze soprannaturali, si

risolvono in atmosfere d'incubo e di terrore. li Poe scrisse anche poesie, la più

celebre delle quali è Il corvo.

Nelle sue meditazioni estetiche (Il principio poetico; Filosofia della composizione)

precorse sviluppi dell'estetica del tardo Ottocento: l'idea della poesia come

«creazione ritmica di bellezza», esaltazione necessariamente breve dello spirito,

anticipa la poetica decadentistica del frammento lirico; così come la ricerca d'uno

stile musicale e suggestivo, come mezzo di espressione del mistero che sta dietro le

cose, non attingibile per via intellettuale, anticipa posizioni simbolistiche.

L'influsso esercitato dal Poe sulla letteratura europea fu notevole, dopo che il

Baudelaire lo ebbe «scoperto» nel 1846 e ne ebbe, poco dopo, tradotto i racconti.

Opere principali: Le avventure di Gordon Pym (1838); Grotteschi e arabeschi

(1839); Racconti (1845); Il corvo e altre poesie (1845).

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Charles Baudelaire

Bauldelaire (Parigi, 1821-1867) è uno dei maestri della lirica europea

contemporanea.

Ebbe vita travagliata e sregolata, fra nobili aspirazioni ideali e abbandoni alle

seduzioni del senso fra ansia romantica di elevazione e ricerca di «paradisi

artificiali» nel vino e nella droga. Visse il tema romantico dell' evasione, ora con

atteggiamenti satanici, ora con volontà di purezza e trasfigurazione della vita; sullo

sfondo della metropoli moderna (Parigi), che egli chiamò «vasto deserto umano»,

avvertendo l'analogia fra le contraddizioni del suo animo e lo squallido paesaggio

urbano di brutture e dissonanze, di folla anonima e alienata. Le sue poesie sono

raccolte nel libro I fiori del male (1857) che provocò un processo per una presunta

offesa alla morale e al buon costume. In prosa scrisse I paradisi artificiali (1860), i

Poemetti in prosa e Il mio cuore messo a nudo,postumi. Assai notevoli sono pure i

suoi saggi critico-estetici (Curiosità letterarie; L'arte romantica), dove elaborò

un'idea nuova della poesia e rivelò una profonda comprensione della musica

wagneriana, che avrà un importante influsso sulla cultura decadentistica,come le

opere di Poe che egli tradusse e diffuse in Europa.

Secondo l'estetica baudelairiana, la poesia esprime l'anelito dello spirito «verso una

bellezza superiore», come liberazione dallo spleen, cioè dalla noia che nasce dalla

coscienza del relativo. È una sorta di mistico approdo, di là dalla contingenza, dal

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dolore, dal male, a un mondo più vero. La natura quale appare ai nostri sensi si

fonda, infatti, su un altro universo soprassensibile, di cui le cose non sono che

simbolo; è, dunque, una «foresta di simboli». Il poeta deve decifrarli, scoprire il

loro senso riposto, la trama di analogie che essi intrecciano nella «tenebrosa e

profonda unità» dell'universo. In tal modo la poesia diventa rivelazione metafisica,

superiore intuizione che consente un'intima partecipazione al mistero dell' essere.

La lirica baudelairiana rifugge quindi dall'espressione di un messaggio concettuale

definito, per affidarsi piuttosto alla fascinazione dei suoni, delle metafore, delle

ardite trasposizioni analogiche, unico mezzo per evocare magicamente e

suggestivamente un ignoto altrimenti inattingibile alla conoscenza umana. Sarà

questo il principio fondamentale del simbolismo.

Paul Verlaine

Quella del francese Verlaine (1844-1896) fu la vita d'un poeta «maledetto» (sua è

la definizione), con le squallide vicende dell'alcoolismo, dell'equivoco rapporto

con Rimbaud, i viaggi senza meta, la prigione, le conversioni e le ricadute:

espressione d'una crisi ideologica ed esistenziale che s'esprime come rifiuto della

civiltà borghese, come una rivolta senza approdo sicuro. La sua poetica è quella

della sfumatura, dell'indefinito, della musica, fra una stanchezza sensuale morbida

e melanconica, che ispirerà tutto un filone della lirica contemporanea fino ai nostri

Crepuscolari, e una ricerca simbolista, intesa a togliere ogni elemento ideologico

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dalla poesia per privilegiare le capacità musicali ed evocative del linguaggio come

mezzo per raggiungere, di là dal fenomeno, 1'essenza delle cose. In tal senso la

poesia di Verlaine si rivela originale sviluppo della tematica baudelairiana.

Stéphane Mallarmé

Nato a Parigi nel 1842, visse vita solitaria e ritirata; morì nel 1899. Compose nel

'75 Il Pomeriggio d'un fauno, poi Erodiade e altre liriche, raccolte nell"87 in

Album di versi e di prose e nella raccolta Poesie, successivamente ampliata.

Importanti, per la definizione della sua poetica, sono il saggio La musica e le

lettere (1895) e le Divagazioni (1897).

Come Baudelaire, volle dare, nella poesia, voce all'inesprimibile, superare la realtà

fenomenica per scoprire le segrete corrispondenze e analogie fra le cose. Egli

riduce a simboli le immagini della natura; simboli peraltro soggettivi, intuizioni

sollevate in una astratta luce intellettuale e allontanate sempre più, nel corso della

sua carriera, da ogni riferimento alle occasioni sentimentali e alle immagini

primitive, sì da, giungere a un ermetismo consapevole. La fuga dalla

rappresentazione realistica culmina nella ricerca di un linguaggio «puro», in cui le

parole siano liberate dal significato loro assegnato nella conversazione quotidiana e

riacquistino un potere magico, incantatorio, suggestivo.

Le parole nella frase vengono tolte dalla costruzione abituale, sono aboliti i segni

d'interpunzione, le congiunzioni, le preposizioni; nel poemetto Un tratto di dadi

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non abolirà mai il caso le parole sono disposte come segni d'uno spartito musicale,

con un uso speciale degli spazi bianchi e altri accorgimenti grafici. La ricerca è

quella d'una purezza immacolata della parola poetica, intesa come creatrice di

realtà, spogliata da ogni riferimento alle comuni idee e aspirazioni degli uomini.

Quella di Mallarmé è spesso poesia sulla poesia, intesa a ritrovare una pronuncia e

un' efficacia primitive del linguaggio e un sogno di bellezza che quanto più

s'allontana dall' esperienza concreta tanto più assume il carattere d'un assoluto che

confina col nulla. La «poesia pura», che ha in lui il suo primo teorico, sembra voler

emulare il Verbo divino, la sua efficacia conoscitiva e creativa, ma con la

coscienza sempre immanente d'uno scacco. Con Mallarmé si conclude il processo

di svalutazione dei modi poetici tradizionali e di fondazione d'una nuova ricerca

espressiva che va dal Simbolismo francese (il cui manifesto fu lanciato da Jean

Moréas nel 1886) all'Ermetismo italiano.

Arthur Rimbaud

Anch'egli,come Verlaine, poeta «maledetto», Rimbaud (1854-1891), dopo aver

vissuto, fra i 17 e i 20 anni, una bruciante e intensa esperienza poetica, abbandonò

repentinamente la poesia, per dedicarsi a oscure attività commerciali in Africa.

Anticonformista, ribelle a ogni forma di morale piccolo-borghese fino a uno

sfrenato anarchismo, portò nella sua lirica lo stesso spirito di rivolta, la volontà di

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ripartire da zero. Il poeta è, per lui, il visionario, il veggente, che, attraverso una

nuova percezione delle cose, si addentra nella regione dell'ignoto, dell'inconscio

collettivo. Suo compito è quello di definire «la quantità d'ignoto 'che nel suo tempo

si desta nell'anima universale». Rimbaud divenne una sorta di mito, un modello déi

movimenti d'avanguardia fra fine Ottocento e primo Novecento. Fra le sue opere

ricordiamo: Poesie; Ultimi versi; I deserti dell'amore; Una stagione all'inferno;

Illuminazioni.

Henrik Ibsen

I drammi del norvegese Ibsen (1829-1906) ebbero largo influsso non soltanto sul

teatro, ma anche sulla cultura del tardo Ottocento. Fra i più importanti sono La

commedia dell'amore(1862); Brand (1866); PeerGynt (1867); Le colonne della

società (1877); Casa di bambola(1879); Gli spettri (1881); Rosmersholm (1886);

La donna del mare (1888); Edda Gabler(1890); Il costrutto re Solness (1892);

Quando noi morti ci destiamo (1899).

Ibsen rappresenta i conflitti morali della società borghese, demistificando la

menzogna e il convenzionalismo del costume, le costrizioni e la nascosta violenza

del cosiddetto «decoro »; i suoi personaggi lottano duramente, e spesso senza

successo, per affermare la loro esigenza di libertà e di autenticità contro le

repressioni conformistiche della società.

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Antòn Pàvlovic Cechov

Cechov(1860-1904) esprime una scorata stanchezza che corrisponde alla

depressione.

Della vita russa nell'ultimo Ottocento, ma anche a una diffusa crisi europea. Egli

rinuncia ai complessi temi ideologici di Tolstòj e di Dostoevskij, si sofferma su

esistenze grigie, sulla vita soffocante della provincia russa, su vicende piccolo-

borghesi, sulla tristezza che nasce dall'incapacità di credere e di volere, con u,n

acuto realismo psicologico e una pietà malinconica. Nelle raccolte Racconti

variopinti (1884), La steppa (1888), Gente tetra (1889), I contadini (1897), per

citarne solo alcune, creò il racconto psicologico-realistico di struttura moderna.

Risonanza anche maggiore ebbero i suoi drammi (Ivanov,1888; Il gabbiano,1896;

Zio Vanja, 1899; Le tre sorelle, 1901;Il giardin odei ciliegi, 1904). Il suo teatro di

stati d'animo e di atmosfere, povero d'azione, è tutte giocato su sfumature

psicologiche e su un sommesso lirismo. I personaggi si muovono fra orgoglio e

timidezza paralizzante, frustrazione e ansia di redenzione che s'esprime nei

cosiddetti «miraggi» della loro fantasia, fra noia e scoppi di passione sterile.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) L’uomo e il suo tempo.

2) La folla come concetto di esistenza ed annullamento del singolo individuo.

3) Cosa si intende per poeti maledetti.

4) Come la letteratura italiana sarà contagiata dai poeti maledetti.

5) La morte nello scenario della vita quotidiana.

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IV UNITA’: IL Decadentismo

Prerequisiti:

- Conoscenza della situazione politica e sociale dell’Italia nei primi del

Novecento.

- Capacità di contestualizzaze nuove problematiche.

- Conoscenza del secolo Ottocento dal punto di vista letterario e sociale.

Obiettivi:

- Acquisizione del concetto di decadenza.

- Acquisizione delle nuove tematiche del superuomo, della morte e del

disfacimento fisico.

- Acquisizione del nuovo concetto di borghesia nascente.

Si studieranno:

- Il Decadentismo: aspetti sociali e letterali.

- Quadro storico del primo Novecento.

- Gabriele D’Annunzio.

- Benedetto Croce.

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Premessa

La divisione per secoli della storia letteraria (e di quella generale) è una divisione

di comodo. Il secolo, infatti, è un' entità astratta, anche se conserva un'idea di

tempo concluso e significante, ereditata dal passato. Le religioni antiche

computavano il tempo storico in cicli millenari, suddivisi in «mesi» secolari,

ipotizzando, alla fine di ogni ciclo, una fine e una successiva rinascita del mondo:

un ricominciamento come riscatto dall'orrore e dal male presenti nella storia. Tale

aspettativa, privata dell'istanza religiosa, è ancor viva a livello psicologico, anche

se l'idea di tempo prevalente nella nostra civiltà è lineare e non più ciclica, fondata

cioè sull'interpretazione del tempo storico come continuità e progresso. Un secolo,

comunque sia, nasce non alla mezzanotte di quello precedente, ma quando un

gruppo di idee, rappresentazioni, eventi viene assunto, dagli attori e, in seguito,

dagli storici, come tradizione del nuovo, del diverso: d'una svolta del cammino

della civiltà.

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La periodizzazione letteraria

Quanto s'è detto vale anche per la divisione della storia letteraria sia in secoli sia in

«scuole» o poetiche localizzate nel tempo (il Romanticismo); nel primo caso si

insiste sul complesso generale delle forme della civiltà con cui la letteratura si

correla, nel secondo, su aspetti di poetica più specificamente (e limitatamente)

letterari. In quel genere letterario che è la storia della letteratura, secoli e correnti

sono una sorta di capitoli che pausano il racconto, indicandone gangli essenziali.

La differenza fra la storiografia letteraria e le altre storiografie consiste però nel

fatto che è impossibile fissare in essa un movimento progressivo (che si può

riscontrare, ad esempio, nella storia della scienza e della tecnologia). Vi è, tuttavia,

una continuità evidente nella produzione letteraria, che si individua nel carattere

specifico della letteratura come insieme di convenzioni (linguistiche, strutturali,

come i generi letterari, formali, ecc.), organizzate in una tradizione, cui ogni

scrittore si rifà, anche quando si oppone a essa in una ricerca del nuovo. Da un

lato, nella nostra tradizione, l'opera letteraria istituzionalizza la soggettività,

l'irripetibilità dell'individuo; dall'altra si pone come un particolare tipo di

comunicazione che si confronta con la società, cioè col pubblico, anch' egli

partecipe della tradizione letteraria. In tal senso, si potranno distinguere due

fondamenti della periodizzazione:

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Page 81: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

a) quello che tiene conto dell'affermarsi di nuove tecniche espressive, o di

comunicazione, di principi nuovi di gusto e di poetica, in base a un nuovo

orizzonte di attese formatosi nel pubblico;

b) quello storico generale del modificarsi della cultura e della mentalità: d'una idea

di civiltà che anche la letteratura contribuisce a costruire.

I due aspetti, strettamente correlati, offrono una chiave di lettura valida per

interpretare il linguaggio del testo: dal significato letterale delle parole, che muta

nei diversi tipi di civiltà, alle strutture compositive e fantastiche che le opere

assumono in omaggio o in opposizione alla tradizione. La periodizzazione e la

definizione dei caratteri generali delle correnti letterarie servono a darci il senso

dei problemi espressivi affrontati dall'autore, a misurare l'originalità della sua

risposta alle attese d'un tempo e d'una società: insomma, dell' humus storico-

culturale nella quale e in risposta alla quale l'opera nasce, come nuova lettura del

mondo.

Si può parlare di «Novecento» in generale?

Confortano a dare una risposta affermativa alla domanda, a distinguere, cioè, nel

continuo flusso storico, un periodo definito, il Novecento, questi fatti:

a) il Novecento come epoca moderna, caratterizzata da un grande sviluppo del

progresso scientifico era aspettazione comune negli ultimi decenni dell'Ottocento,

e coincise, già nei primi anni, con un polemico ripudio del passato (col

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Page 82: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

Futurismo); fu, dunque, un'idea posta a fondamento d'una particolare civiltà

letteraria;

b) è evidente, a partire dall'ultimo Ottocento, una vera e propria rivoluzione

tecnico-espressiva nelle arti figurative, nella musica, della poesia, che si legò a una

nuova idea dell' arte e, prima, della realtà;

c) nella mentalità comune ancora negli anni Trenta, «Stile Novecento» non indicò

soltanto uno stile architettonico, ormai diffuso nell' edilizia residenziale, ma anche

uno stile di vita, avverso al moralismo convenzionale, schietto e diretto,

«giovane», secondo un mito della giovinezza - e cioè dell' energia vitale - esteso

allora dal Fascismo anche alla politica (i popoli giovani, come l'Italia, degni per

questo, di fortuna e d'impero).

Una definizione del periodo non potrà non tenere conto, tuttavia, anche nel campo

letterario, di alcuni fatti storici che hanno avuto influssi notevoli sulla psicologia di

massa e sulla produzione artistica e letteraria. Basterà, per ora, accennare a eventi

come le due guerre mondiali, la rivoluzione russa, i movimenti di liberazione dei

popoli coloniali, le sanguinose dittature; e ancora, il grande sviluppo scientifico e

tecnologico e il loro riflesso sociale, le nuove forme di comportamento, i nuovi

mezzi di diffusione culturale,1'aumento fortissimo del numero dei lettori, il

cinema: esperienze e istituzioni che hanno portato a mutamenti anche nell'idea

dell'uomo e del suo rapporto col mondo.

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Page 83: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

Una proposta di periodizzazione

Non sembra inutile, sul piano didattico, suddividere il discorso sul Novecento in

quattro momenti:

a) la fine del secolo XIX (tra il 1880 e il 1903 circa) col primo affermarsi di nuove

istanze filosofiche, culturali, letterarie, politiche e di costume, e d'un rinnovamento

di poetiche;

b) il periodo che va dai primi anni del secolo alla fine della prima guerra mondiale,

col fitto dialogo delle «avanguardie» e dalla sperimentazione fin spericolata di

livelli espressivi inediti;

c) il periodo fra le due guerre, con forme di restaurazione, sul piano letterario, ma

anche con nuove poetiche (surrealismo, espressionismo) che, insieme con

prospettive filosofiche quali 1'esistenzialismo, propongono un'idea nuova

dell'uomo e della letteratura e accompagnano il rafforzarsi d'una tradizione del

Novecento;

d) il periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, con la

possibile distinzione, al suo interno, di due periodi, separati da un anno cruciale, il

1968.

Probabilmente il Novecento, come ha avuto inizio nell'ultimo ventennio

dell'Ottocento, così è già finito (si parla ora, per esempio, soprattutto per le atti

figurative, di «postmoderno»). Converrà, a questo proposito, lasciar procedere il

cammino della storia, prima di tentare un'interpretazione storiografica.

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Decadentismo e Simbolismo

Premessa

Prima di considerare il fitto dialogo di poetiche nuove della fine dell'Ottocento,

converrà osservare:

a) che esse nascono sulla base di mutate prospettive storiche, culturali, esistenziali;

b) che vanno messe in relazione anche con l'aumentato numero dei lettori, prodotto

dall' elevazione culturale della borghesia, delle aristocrazie operaie e del

proletariato, che, attraverso la lotta sociale, elabora una propria cultura.

A riprova di ciò, va sottolineata la vasta diffusione di quella letteratura per tutti che

viene chiamata «paraletteratura» o «letteratura di consumo», o con altri nomi:

almanacchi popolari, romanzo d'appendice (pubblicato, cioè, come appendice nei

quotidiani), ecc. Si può in tal senso parlare d'una industrializzazione della scrittura,

dinanzi alla quale gli scrittori di livello «alto» assumono posizioni di dialogo o di

contrasto.

Col nome Decadentismo si tenta di porre un' etichetta unitaria su fenomeni letterari

non sempre omogenei; tanto che alcuni critici rifiutano questa denominazione, o la

riservano a una parte soltanto dei fenomeni di quest'epoca (all'incirca fra il 1870 e

il 1903), catalogandone altri sotto l'insegna del Simbolismo. Ma anche questa

distinzione non gode oggi di grande fortuna.

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Sappiamo tuttavia che queste denominazioni hanno un valore approssimativo.

Converrà pertanto servircene soltanto per coordinare i punti salienti del dibattito

culturale e letterario di quegli anni.

La crisi del Positivismo

A partire dagli anni ottanta/novanta si accentua la crisi del Positivismo, cui

s'accompagna un'ansia del nuovo e del diverso.

Al Positivismo nocque l’impazienza di pervenire a spiegazioni o ipotesi conclusive

sulla struttura ultima e sulle ragioni del reale , invadendo in tal modo il campo

della filosofia speculativa senza strumenti intellettuali adeguati. Si tradiva così la

vera essenza del metodo scientifico sperimentale, che consiste nella verifica di

successive ipotesi, senza preoccuparsi di cause ultime.

I tentativi corrispondevano alla domanda, anch'essa impaziente, del pubblico: ma

finirono di rivelare che la scienza non poteva risolvere in sé tutta la cultura e la vita

dell'uomo. Da un lato, dunque, il non conosciuto divenne l'Inconoscibile, il

Mistero, con una svalutazione della scienza considerata inadeguata a rispondere

alle domande supreme dell'uomo; dall' altro fu messo in discussione il metodo

positivistico.

Questo, se portò lentamente a un'idea nuova della scienza - il cui fine non è

scoprire una razionalità o armonia implicita della «natura», ma verificare anche i

sistemi e le procedure con cui la mente si sforza di conoscere il mondo - fu,

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Page 86: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

immediatamente, un facile pretesto di svalutazione di essa e di esaltazione di

atteggiamenti conoscitivi diversi, delineati dalle varie filosofie irrazionalistiche di

fine secolo.

Il progresso scientifico aveva portato con sé uno sviluppo tecnologico, e quindi

industriale, che provocò anch'esso una rivoluzione nei rapporti umani. La

borghesia lasciava cadere l'ideologia con cui si era identificata per molti anni (la

scienza come sicura fautrice di democrazia e di progresso), davanti a problemi

sociali che richiedevano nuovi strumenti conoscitivi e pratici.

La grande città industriale, con le sue masse di proletari sfruttati e indifesi,

diventava espressione di alienazione e di solitudine; lo sviluppo dell'industria

comportava l'accumulazione capitalistica, le guerre coloniali per 1'accaparramento

delle materie prime, e quelle per la conquista dei mercati. Era un disfrenarsi di

egoismi che metteva a dura prova sia le forme ancor vive di idealismo romantico,

sia la fiducia positivistica nella ragione, nella scienza; nel progresso.

La lotta fra capitale e lavoro, le agitazioni operaie, causate dalla miseria delle

classi lavoratrici finirono per sconvolgere lo stato liberale, troppo spesso inteso alla

difesa dei privilegi delle classi più forti e resero sempre meno probabile il

ritrovamento d'una struttura razionale dell' agire umano e della storia, lasciando

emergere egoismi sopraffattori che avranno un triste seguito nelle guerre e nelle

dittature novecentesche.

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Page 87: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

Letteratura della crisi

Un senso di disagio è diffuso fra gli intellettuali di fine secolo, che, di fronte

all'incapacità del nuovo tipo di civilizzazione di conciliare progresso tecnologico e

politico-sociale, ripiegheranno spesso su ideologie e filosofie pessimistiche,

interpretando l'attuale disarmonia della vita come destino. Non mancarono poi

filosofie che giustificavano la violenza e il diritto del più forte, imposte dalla classe

dominante che sfruttava lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e diffusione.

Gli atteggiamenti in cui si manifestò la letteratura della crisi si vennero coagulando

sempre più in una reazione agli aspetti ideologici, e quindi anche morali e letterari

del Naturalismo, del Verismo e del Positivismo in genere.

La ribellione esprimeva la sfiducia nell'ideologia borghese d'un progresso,

garantito dalla conservazione delle strutture presenti della società e della cultura.

L'emarginazione di cui gli scrittori si sentivano vittima in un' organizzazione

sociale fondata sull' onnipotenza della ricchezza, modificò il loro rapporto col

pubblico. Nell'età romantica e in quella positivistica, il letterato era stato interprete

e guida dei popoli, o coscienza intellettuale e problematica in cui una società si

riconosceva; nella nuova età capitalistica, invece, egli avverte la propria solitudine

in una società che lo rinnega, intenta com'è a interessi materiali, e si rinchiude in sé

o tenta di imporsi alla folla, tramutando il complesso d'inferiorità in orgoglio. A

ogni modo, la nuova letteratura non è impegnata in un dialogo diretto con la

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Page 88: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

società, in nome di comuni ideali, come nell' età delle rivoluzioni liberali, e com'

era avvenuto ancora nell' epoca del Carducci, anche se limitatamente a quello che

Mazzini chiamava popolo: la borghesia, gli artigiani delle città, un' esigua

aristocrazia operaia. Ora si afferma l'ideale dell'arte per l'arte: di un'arte, cioè, e

d'una poesia come affermazione pura della bellezza, priva d'ogni preoccupazione

morale o civile. Questo diede a molti contemporanei la persuasione d'una

decadenza dei valori.

Letteratura «decadente»

D'un movimento cui può essere assegnato il nome di Decadentismo si può parlare

in Francia, intorno al 1880, anche se già da prima se ne avvertono manifestazioni,

connesse all'esasperazione delle tematiche romantiche soggettivistiche del mistero

e del sogno.

Nacque, per esempio, allora una rivista, «Le Décadent», attorno alla quale

gravitarono autori di ispirazione diversa; come Verlaine che aveva scritto nella

lirica Languore (1883), di sentirsi come l'Impero romano nell'età della decadenza.

Il termine «decadente» ebbe, in origine, un senso negativo. Fu infatti rivolto

polemicamente contro poeti che esprimevano lo smarrimento delle coscienze e la

crisi dei valori, di là dall' ottimismo ufficiale e dal materialismo gaudente e spesso

ipocrita della società. Ma gli scrittori colpiti fecero di questa definizione un'insegna

di lotta, richiamandosi anche, per rivalutarle, alle età storiche dette di decadenza, in

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cui si gettavano, di fatto, i fondamenti d'una nuova visione del mondo e d'una

nuova realtà. Essi ebbero la coscienza di vivere un' età di trasformazioni e di

trapasso, si sentirono scrittori della crisi, e avvertirono che il loro compito non era

tanto quello di proporre nuove certezze, ma di approfondire i termini esistenziali di

questa crisi sul piano conoscitivo.

Tema comune fu il rifiuto della società presente, del costume e dell'etica imperanti:

della massificazione, da un lato, del perbenismo borghese dall' altro, con le sue

ipocrisie che nascondevano un egoismo gretto. Per questo, come afferma Franco

Fortini, «il personaggio decadente cerca e sperimenta quanto possa esaltare il suo

io (egotismo); desidera quanto è nuovo, soprattutto se artificiale; esaspera la

propria sensibilità con l'introspezione. Nella letteratura e nell'arte, che non vuole

distinguere dalla vita, promuove l'ornamentale, il decorativo, il mosaico, la fattura

artigianale, in odio dell' arte industriale e al prodotto di massa».

In politica vi furono esiti diversi e sovente opposti. Il «decadente» disprezza le

correnti umanitarie e socialiste, è, spesso, fautore dell'espansione imperialistica,

ma a volte ripiega sul pacifismo tolstoiano o su nostalgie di vita claustrale, o d'un

francescanesimo estetizzante. Il suo dispregio della morale corrente lo porta infine

a forme dierotismo morboso e aberrante, presentate come una discesa nel profondo

della psiche, alla ricerca d'una verità più autentica. È, sostanzialmente, una rivolta

antinaturalistica, che rifiuta gli aspetti oggettivi dell' esistenza e ogni vincolo

sociale, affermando la solitudine fatale dell'individuo, e interpreta la natura, come

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Page 90: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

insieme di parvenze, come uno schermo che cela una realtà più vera ma

inconoscibile. Esalta l'io soggettivo, creatore, nell'arte, che diviene ora essenziale

mezzo di conoscenza, di evasioni o «paradisi artificiali» che consentono di

sfuggire alla miseria della condizione umana e di attingere una conoscenza più

sostanziale, anche se soltanto in brevi folgorazioni, della realtà.

Lo spiritualismo romantico è soppiantato insieme con lo storicismo, cioè col senso

della vita come divenire e creazione progressiva di valori e di civiltà. La vita

diviene una successione di attimi, di rivelazioni poetiche dell'ignoto, fuori del

tempo e della storia, e del grigio re dell' esistenza quotidiana.

Della fase iniziale del Decadentismo, ricordiamo in primo luogo l'Estetismo

(rappresentato, ad esempio, dal D'Annunzio, da Oscar Wilde, da J.K. Huysmans),

che deriva dalla già esposta concezione della poesia. Se 1'arte è il solo valore

autentico dell' esistenza, questa dovrà, a sua volta, configurarsi come un' opera

d'arte, essere pura ricerca della bellezza, rigettando ogni considerazione morale,

ogni dovere imposto dalla convivenza.

Donde tutta una schiera di esteti, aristocratici e raffinati, intesi al culto della bella

parola e del bel gesto, alla ricerca dei piaceri più sottili, delle sensazioni più

complicate. D'altra parte, l'esaltazione della vitalità istintiva, la svalutazione della

moralità e della razionalità, portarono, fra l'altro, al mito del superuomo cioè a un

egocentrismo anarchico che culminò nelle figure dittatoriali del nostro secolo e nei

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miti collettivi del sangue, della stirpe e della volontà di potenza, che divenne

impulso aggressivo e imperialistico.

Ragioni del Decadentismo

Si è parlato poc’ anzi di «fase iniziale», ma forse sarebbe producente limitare a

essa la denominazione di «Decadentismo», usare, cioè, questo termine per la

letteratura di fine secolo, precisando:

a) che molte problematiche esistenziali ed estetiche allora manifestatesi penetrano

bene addentro nel Novecento e giungono a tempi vicini a noi;

b) che il termine denota un complesso di tematiche che non approda a poetiche

unitarie; ove si escluda il Simbolismo, che rappresenta un modo nuovo e

rivoluzionario di concepire l'arte e lo stile e che converrà considerare a parte.

Sul piano della storia della cultura e delle idee, si possono individuare due aspetti

fondamentali del movimento, di là dalle particolari mitologie del sangue, della

corruzione, della trasgressione ideologica e morale:

a) la scoperta della sfera istintiva, arazionale, come dimensione dell'uomo che la

poesia deve esplorare, aprendosi alle sue suggestioni e rappresentandole;

b) la ricerca d'una nuova definizione della coscienza e delle cose, coerente con

l'esperienza nata dalle nuove conquiste scientifiche e tecnologiche e dalle nuove

forme della vita associata.

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Si può dire pertanto che il Decadentismo è la prima presa di coscienza d'una

trasformazione ideologica, politica, di sensibilità e di costume che ancora travaglia

l'Europa. Dalle prime affermazioni abnormi e plateali esso ha approfondito le

proprie ragioni fino a tentare una nuova definizione dell'uomo. Ha infranto i miti

più facili e superficiali del Positivismo, ha rivendicato la concretezza del dramma

individuale della persona dalle astrattezze dello storicismo idealistico. Movimento

di rottura, piuttosto che di costruzione, ha contribuito a distruggere le forme ormai

vuote o mistificate della cultura precedente.

I Simbolismo

La tendenza più significativa di questa letteratura di fine secolo, destinata ad

un'ampia fortuna anche nel Novecento, fu il Simbolismo; un insieme di

propensioni letterarie, congiunte a un'idea radicalmente mutata dei fatti espressivi.

I poeti simbolisti (il movimento ebbe origine in Francia) riconobbero il loro

maestro in Baudelaire, e più tardi in Verlaine, Rimbaud, Mallarmé che di questa

tendenza rappresentarono l'espressione più alta; diedero vita a numerose riviste,

dalla «Revue wagnerienne» (1885) - ed è caratterizzante questo porre in stretto

contatto la poesia con la nuova idea e pratica della musica portata da Wagner a «Le

symboliste» (1886) a «La pleiade» (fondata nell'86 da scrittori vicini a Verlaine),

che nell'89 diverrà «Le Mercure de France». Non mancarono, infine, i manifesti,

dal Trattato della parola di Renè Ghil al Manifesto del Simbolismo di Jean Moréas

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(1886). Fra gli autori interessati alla nuova poetica vanno ricordati inoltre Jean

Claudel e Paul Valéry, Gustave Kahn, sostenitore del verso libero come conquista

d'una «musicalità» poetica inedita, Maurice Maeterlinck, Francis Vielé Griffin,

Jules Laforgue, Emile Verhaeren, Georges Rodenbach, Albert Samain, e altri. Il

movimento ebbe vasta risonanza europea, con seguaci inglesi (Algernon Charles

Swinburne, Gerard Manley Hopkins), tedeschi (Gottfried Benn, Stephan George,

Rainer Maria Rilke), russi (Aleksàndr Blok), spagnoli (Ruben Dario, Antonio

'Machado, Juan Ramòn Jimenez). In Italia furono legati al Simbolismo Pascoli,

D'Annunzio, DinoCampana e, in genere, i poeti del primo cinquantennio del

secolo.

Il nome del movimento, deriva da' un'idea del mondo come una rete di simboli (le

cose) mediante la quale il poeta evoca una realtà più profonda, ricostruendola (e

dunque ricostruendo e re-inventando la «natura») su una trama di analogie e

corrispondenze (si legga, più avanti, la lirica Corrispondenze di Baudelaire).

Questa visione del mondo produce nell' arte una rivoluzione totale, del contenuto e

delle forme.

Ammessa l'impossibilità di conoscere la realtà vera mediante l'esperienza, la

ragione, la scienza, si pensa che soltanto la poesia, per il suo carattere d'intuizione

arazionale e immediata, possa attingere il «mistero», esprimere le rivelazioni

dell'ignoto. Essa diviene dunque la più alta forma di conoscenza, l'atto vitale più

importante: coglie le arcane analogie che legano le cose, scopre la realtà che si

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nasconde dietro le loro apparenze esteriori, esprime i presentimenti e i trasalimenti

che affiorano al fondo dell' animo. Per questo è concepita come pura

illuminazione, messaggio che giunge da una zona remota, opposta all'esperienza

usuale: come espressione, appunto, simbolica.

Non rappresenta più immagini o sentimenti concreti, rinuncia al racconto, alla

proclamazione di ideali; la parola non è più usata come elemento del discorso

logico, ma per la sua virtù evocativa e suggestiva. È come una musica che suscita

una vibrazione indefinita, una rivelazione. In tal senso si può parlare di misticismo

estetico.

La struttura espressiva e il senso dell'euritmia, propri della tradizione classica,

vengono infranti, insieme con ogni torma di costruzione intellettuale e sintattica.

Nascono la poesia del frammento illuminante, denso, spesso, di una molteplicità di

significati simbolici, e una nuova metrica, sciolta dagli schemi della tradizione,

intesa a rendere il ritmo della vita interiore, il suo fluire libero. La nuova poesia

non si rivolge all'intelletto o al sentimento del lettore, ma alla profondità del suo

inconscio, lo invita non a una lettura, ma a una partecipazione vitale. Donde la

difficoltà di riassumere una poesia moderna, di spiegarne in termini logici il

significato. Essa si propone di darci non dei concetti, ma un'esperienza dell'ignoto,

di porci in comunione con esso. Il poeta non è più il Vate romantico, guida e

coscienza dei popoli: è il veggente, o sacerdote dell'invisibile, che trasfigura la

realtà, ne fa l'oggetto d'una miracolosa/olgorazione, come si disse allora

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sottolineando il suo carattere di scoperta e fondazione del mondo. Il poeta canta

essenzialmente questo miracolo, che è poi, di fatto, la stessa poesia, stabilendo un

rapporto con un pubblico rigidamente selezionato.

La vera novità di questa poetica si verifica a livello di linguaggio e di espressione.

Si prediligono le metafore dense, che alludano alla complessità del mondo e ne

riflettano la cangiante metamorfosi, le analogie fra le cose come manifestazione

d'una profonda e riposta unità. Di qui, ad esempio, l'uso frequente delle sinestesie,

cioè il passaggio, nell'immagine, da un ordine di sensazioni a un altro; per

esempio, in Pascoli: «soffi di lampi», dove l'impressione visiva è sostituita da

quella tattile del soffio, come a denotare la simultaneità di tutte le pulsioni della

coscienza nel singolo atto conoscitivo, che è poi, a sua volta, non conoscenza d'un

oggetto chiuso in se stesso, ma del manifestarsi in esso della comune energia

vitale. La ricerca d'una musicalità verbale, non cantabile (lo dimostra l'uso del

verso libero), ma allusiva e impressionistica, proclamata, fra gli altri, da Verlaine

nella sua Arte poetica, rivela la volontà di effigiare in forma unitaria l'apparente

diversità della vita e di ritrovare l'eco profonda che le «occasioni» o

«illuminazioni» (le cose penetrate da questa nuova sensibilità poetica) producono

nella coscienza.

La poesia appare pertanto - è questo uno dei miti fondamentali del simbolismo -

una creazione del mondo attraverso il linguaggio, una riprova della creatività

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dell'io; un modo per il poeta, di isolarsi dalla «tribù» degli altri uomini, dal loro

modo di conoscere e di esprimersi.

Introduzione storica

Nei primi anni del secolo maturano le condizioni economiche, politiche e

ideologiche che porteranno l'Europa alla guerra c’è, nei singoli stati, un

disfrenarsi d'avidità di dominio e di tendenze imperialistiche: l'espansione

industriale, la logica stessa d'un capitalismo che accetta come unica finalità il

profitto, portano, in genere, i governanti europei a rinnegare il genuino spirito

liberale dell'Ottocento e a sostituire ai principi di democrazia, d'uguaglianza e di

solidarietà fra i popoli, la volontà di potenza e il diritto del più forte.

Alla crisi dei rapporti internazionali si accompagna, all'interno dei singoli stati,

quella dei rapporti sociali. In quest'età s'inasprisce il conflitto fra capitale e

lavoro, divampa la lotta di classe. L'alta borghesia, compiuta la grande

rivoluzione industriale, tende a fare dello stato lo strumento di conservazione dei

privilegi acquisiti, mentre il proletariato, ispirandosi alle idee marxiste e

sindacaliste, minaccia di rovesciare l'ordine costituito.

Da questa situazione derivano, nonostante la pace e la prosperità economica, un

sentimento d'insicurezza, la sensazione di essere a una svolta decisiva della

storia, e, di conseguenza, ora l'affermazione di torbidi miti nazionalistici e

imperialistici, ora un senso inquieto di crisi.

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Agli inizi del Novecento l'Italia, uscita dal faticoso travaglio formativo che seguì

la conquista dell'unità, si avviava a divenire una potenza europea, con un moto

d'ascesa che sembrò culminare nell'impresa libica (1912). All'interno, dopo la

crisi del '98 e il fallimento dei tentativi reazionari, il Giolitti rafforzò le istituzioni

dello stato liberale, sforzandosi di porre le premesse di un dialogo democratico

fra le forze politiche e le ideologie contrastanti: il liberalismo, il socialismo e i

cattolici. Furono anni di sviluppo economico e industriale e di progresso delle

istituzioni, ove si escluda la grande arretratezza economica e sociale in cui fu

lasciato il Mezzogiorno.

Ma all'Italia giolittiana mancò un profondo slancio ideale: il liberalismo fu allora,

come osservò Benedetto Croce, «una pratica e non già una viva e intima fede»,

una teoria economica e non una religione della libertà, come era stato alle origini.

Gli ideali risorgimentali perduravano molto spesso come un'antica memoria di

giovinezza, contemplati con nostalgia e capaci ancora di commuovere (quando

non erano puro pretesto di celebrazioni enfatiche), ma non più di essere un

fondamento attuale del vivere e dell'operare. Né, d'altra parte, ebbero la forza di

costituire una vera alternativa le due nuove forze politiche, i socialisti e i

cattolici, irretiti, i primi, in una politica riformistica e attratti nell'orbita giolittiana

perdendo la loro spinta rivoluzionaria più genuina, ancora isolati, i secondi, dalla

vita culturale moderna e faticosamente intenti a uscire dalle posizioni arretrate in

cui 1't aveva relegati il Sillabo di Pio IX.

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Questa carenza ideologica favorì il sorgere del nazionalismo, cioè un'esaltazione

dell'idealità patriottica, ma pervertita e nata nel clima estetizzante di cui il

D'Annunzio fu esempio vistoso. Fu un movimento antiliberale e

antiparlamentare, militarista e imperialista, che vagheggiò la guerra come «igiene

del mondo» e stravolse l'amor di patria a impeto d'affermazione violenta e di

conquista, sognando impossibili grandezze e assurde vocazioni imperiali della

stirpe. Rappresentò da un lato un'evasione da quelli che erano i problemi reali

della nazione, dall'altro la deliberata intenzione di eluderli mediante una politica

estera avventurosa, che desse una giustificazione pseudoideologica all'azione

della ricca borghesia industriale, intesa a rafforzare il proprio dominio dallo stato

e a opporsi al «pericolo socialista», cioè all'elevazione materiale e spirituale delle

masse oppresse.

La crisi dello stato liberale si concluse con la guerra del '15-'18, che se nella

scelta dell'avversario sembrò continuare la tradizione antiaustriaca

risorgimentale, in realtà rappresentò per molti interventisti un'impresa

imperialistica, un'affermazione della «volontà di potenza» della nazione.

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La cultura del primo Novecento

Temi dominanti delle complesse e spesso contrastanti esperienze culturali di

questo periodo furono, in Italia, la reazione antipositivistica e la rinascita d'un

atteggiamento di pensiero idealistico, che, però, se nel Croce s'inserì nella linea

della grande filosofia storicistica tedesca dell'Ottocento, in altri approdò a

soluzioni irrazionalistiche (Bergson, Pragmatismo, Nietzsche, Sorel), che

proclamavano il dominio della volontà sull'intelletto o venivano legate, a volte

attraverso interpretazioni fuorvianti, all'esaltazione decadentistica dell'io e alla

«contrapposizione di bellezza e di potenza a verità e virtù».

Agli inizi del secolo la fiducia positivistica nella ragione e nella scienza era in

netto declino. Alcune rivoluzionarie scoperte nel campo della fisica avevano

distrutto la pretesa di validità assoluta dei principi tradizionali della conoscenza

scientifica; e, d'altra parte, le sintesi frettolose di scienziati improvvisatisi filosofi

facevano chiaramente avvertire le angustie d'un sistema di pensiero che si

fondava su un grossolano e statico materialismo, degradava la ragione a una pura

registrazione di fenomeni e privava il uomo, immergendolo in un meccanico

universo fisico, della sua libertà, misconoscendone la capacità inventiva e la

responsabilità nella storia.

Questo venir meno della fiducia nel metodo scientifico (che, in realtà, doveva

soltanto, come ha fatto in tempi più vicini a noi, liberarsi dal dogmatismo e dalla

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pretesa di costituire l'unica e totale spiegazione della realtà) portò a una piena

svalutazione della ragione e della scienza e a un nuovo insorgere

dell'irrazionalismo decadentistico. L'affermazione dell'uomo come libertà

divenne in molti esaltazione dell'io, della sua: potenza operativa, concepita quasi

come una forza magica, capace di creare il mondo conforme al suo pensiero e alla

sua volontà, o meglio, al suo arbitrio, alla sua volontà di potenza, e si concluse

nel culto estetizzante della personalità eccezionale. Furono inoltre applicati al

mondo della storia e proclamati con esaltazione febbrile certi motivi del pensiero

positivistico, come la legge della «selezione naturale», cioè della sopravvivenza,

nella lotta per la vita, degli individui e delle specie più forti, e di qui derivarono

l'attivismo e il razzismo, l'idea del superuomo e della razza e del popolo eletto, il

culto del barbarico e del primitivo e il dispregio degli ideali democratici.

Tuttavia, nonostante questa apparenza volontaristica ed energica, l'irrazionalismo

decadentistico esprime, anche in questa sua fase aggressiva, una debolezza.

Esso nasce al tramonto d'ogni precedente fede morale, intellettuale e religiosa, e

dalla conseguente disperazione di poter conoscere il mondo e le cause della

realtà; disperazione che invano il culto dell'io e il mito dell'azione per l'azione

cercano di celare. Per questo, estetismo e angoscia esistenziale appaiono le due

componenti centrali e complementari della cultura del Novecento.

L'estetismo, anche quando si spogli dei toni preumanistici dannunziani, è un

tentativo di aderire misticamente al flusso vitale, orzandosi di comporlo in una

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costruzione aristocratica e solitaria; è un ideale di vita eroica e autosufficiente che

nei momenti di più autentico ripiegamento interiore si vela come effimero sogno.

Di qui nasce il senso della vita come vanità e frustrazione, me delusione e nulla,

un motivo, questo, che verrà approfondito ed esasperato dalle filosofie

dell'Esistenzialismo.

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Letteratura italiana del primo Novecento

La letteratura del primo Novecento riflette questa inquietudine. L'ultima voce

d'una visione dell'uomo considerato pienamente responsabile della sua storia,

concepita con consapevole conquista della civiltà e della piena coscienza di sé, fu

la filosofia idealistica e storicistica di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, fedele

a un'idea di progresso fondato su valori spirituali, fiduciosa nella razionalità del

reale e della storia, avversa al Positivismo, al Marxismo, alle correnti

irrazionalistiche. Dopo un'iniziale collaborazione, i due filosofi seguirono, però,

vie diverse. Il Gentile, riallacciandosi all'idea hegeliana del superiore valore etico

dello Stato, si allineò su posizioni fasciste. Il Croce continuò, invece, la

tradizione liberale, riaffermando la fede nella «religione» laica e immanentistica

della libertà.

Le posizioni neoidealistiche prevalsero nella scuola e nell'alta cultura

universitaria, in opposizione, spesso, alla letteratura militante, dominata dal senso

di crisi dei valori e della stessa persona, dall'avvertita problematicità del vivere e

del conoscere, lontana da ogni certezza di approdi. Di qui l'alternarsi di

«avanguardie», ossia di posizioni artistiche dominate da un'idea conflittuale della

realtà, evidente anche nel sovvertimento delle strutture formali, e di

«restaurazioni», o difese d'un passato migliore, che il Croce impersonò nel

Carducci, visto come il poeta della «sanità» morale e spirituale, opposta alla

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«malattia» contemporanea. Tali posizioni coinvolgevano scelte etico-culturali di

fondo, in una civiltà che assegnava ancora importanza dominante alla poesia,

riducendo quella di altre branche del sapere, ad esempio, della scienza.

Le nuove poetiche

Il senso della realtà come fluire di labili parvenze, a cominciare dal proprio io, la

rinuncia a ogni ideale, ad ogni certezza e ad ogni avventura spirituale, che si

concreta in un deluso ripiegamento sulla vita quotidiana meschina e consunta,

ispirano la poesia dei Crepuscolari, dal Corazzini al Gozzano. A questa

malinconia romantica volle reagire il Futurismo, che portò alle estreme

conseguenze l'intuizione romantico-decadente della vita come istinto e azione e

volle esprimere nell'arte questo slancio vitale nella sua realtà di sensazione e di

violenza aggressiva, cantando la civiltà delle macchine, la guerra, l'attivismo

frenetico. Crepuscolarismo e Futurismo, quest'ultimo in forma più drastica,

vollero anche negare la tradizione letteraria e dar vita a un'arte nuova nello spirito

e nelle forme.

La ricerca di rinnovamento e di esperienze d'avanguardia è presente in quasi tutti

gli scrittori del primo Novecento, spesso in forme immature e febbrili, altre volte

con più matura consapevolezza e una considerazione approfondita della

letteratura europea coeva. A tale ricerca portano un importante contributo di

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discussione le riviste di cultura quali L e o n a r d o , L a c e r b a , L a V o c e , che

accompagnano con una impegnata analisi critica il sorgere delle nuove poetiche.

Si propugna ora, e spesso si attua, una rivoluzione stilistica che investe le

immagini, il lessico, la versificazione, e lo stesso modo di porsi davanti

all'oggetto. Prevale una tecnica di rappresentazione analogica, allusiva, che

rifletta il flusso della coscienza, il suo essere e il suo rapportarsi alle cose, che

giunge - come si vede anche nelle arti figurative - fino alla deformazione, nella

ricerca di un contatto reale col mondo, non mistificato dal convenzionalismo e

dall'abitudine.

In pratica, entra in crisi un concetto di poesia e di rapporto col pubblico. Pascoli e

D'Annunzio sono ancora considerati importanti per la loro sperimentazione

formale connessa al simbolismo europeo; ma si rigetta di loro ciò che li tiene

ancora legati all'Ottocento, e cioè la perdurante idea umanistica della poesia come

celebrazione degli «eroi», o esaltazione dei grandi ideali mazziniano-romantici, a

cominciare da quello patriottico, o messaggio, comunque sia, di civiltà. L'arte

vive ora la crisi che coinvolge non soltanto le mitologie romantiche dell'io, ma la

stessa identità della persona.

La morte dell'arte preannunciata da Hegel sembra incombere sulla nuova era

capitalistica. La violenza dei contrasti sociali e delle guerre fa del poeta una

coscienza inquieta, un «uomo di pena» (Ungaretti), un «fanciullo che piange»

(Corazzini), un uomo dalla desolata chiaroveggenza che sorride e guarda vivere

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se stesso (Gozzano), un «saltimbanco» che porta la poesia fino a una parodia

sofferta, dato che gli uomini non chiedono più nulla ai poeti (Palazzeschi).

Ricerca e rifondazione

L'inquietudine conoscitivo-esistenzíale dei due primi decenni del secolo va

considerata tuttavia anche in senso positivo: come espressione della volontà d'un

rapporto nuovo con le cose, col mondo, congruente con lo sviluppo scientifico-

tecnologico e le nuove, conseguenti, forme di convivenza. Parallelamente si fa

strada un senso rinnovato della responsabilità dell'artista nella civiltà di massa, con

l'abbandono delle sue astratte pose di educatore o vate o superuomo.

Vero è che la dialettica fra il vecchio e il nuovo non si risolve sempre a favore del

secondo, che al tramonto delle antiche certezze non corrisponde la nascita d'una

coerente visione del mondo, ma piuttosto l'ansia, il tormento, spesso, d'una ricerca

non conclusa. Si può tuttavia affermare che l'interesse della letteratura del primo

Novecento - e anche la sua originalità - consiste, prima di tutto, nella sua volontà

di demistificazione etico-conoscitiva, e, mediatamente, letteraria; nella volontà

d'una rifondazione del rapporto autore-pubblico e poesia-realtà.

In tal senso si può assegnare a questo periodo il merito di avere liquidato forme di

sensibilità e di scrittura ormai viete, romantiche, veristiche e decadentistiche;

anche se non si giunse a scalzare del tutto l'idea simbolistica della poesia-

rivelazione e organo privilegiato di conoscenza.

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Page 106: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

Sul piano specificamente formale e letterario due aspetti vanno messi in evidenza.

Il primo è il dialogo impegnato con le letterature europee, non più assorbite, per

esempio, attraverso gli echi fastosi, ma, almeno parzialmente, livellatori del

D'Annunzio, bensì penetrate direttamente, come nel caso di Rimbaud e Mallarmé.

Soprattutto importante è però la volontà di rifondazione dello stesso patto letterario

fra autore e pubblico, che è poi l'origine e la motivazione prima dei movimenti di

avanguardie che si succedono e si intrecciano in questi anni. Dalla parodia di

Gozzano a quella di Palazzeschi, dalle parole in libertà dei Futuristi a quelle

ritrovate da Ungaretti nel suo silenzio e distillate con una pronuncia rarefatta, per

così dire, e sofferta, dal gusto del poema in prosa al verso libero e al

frammentismo, si determina un distacco radicale fra eloquenza e poesia, e,

comunque sia, una ricerca di autenticità espressiva congiunta alla novità

linguistico-formale che conduce a un rinnovamento della nostra letteratura anche, e

soprattutto, sul piano della comunicazione, del coinvolgimento del lettore.

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Gabriele D'Annunzio

La vita

Gabriele D'Annunzio nacque a Pescara nel 1863. Dal '74 all'81 studiò al Collegio

Cicognini di Prato, poi si stabilì a Roma, dove si iscrisse alla Facoltà di lettere,

senza però laurearsi. Nel '79, mentre ancora frequentava il Liceo, aveva

pubblicato un libro di versi, Primo vere; nell'82 ne uscì un secondo, Canto novo,

dove rivelava, accanto all'imitazione del Carducci paganeggiante, un'ispirazione

sensuale e naturalistica, espressa, lo stesso anno, in una raccolta di novelle, Terra

vergine (primo nucleo della raccolta definitiva Novelle della Pescara), fedele

al Verismo.

A Roma incominciò una brillante avventura letteraria e umana. Cronista per più

anni dell'aristocrazia della capitale e partecipe della sua vicenda mondana,

collaborò a vari giornali, il «Fanfulla della domenica», la «Tribuna», il «Capitan

Fracassa», la «Cronaca bizantina», e s'immerse in una vita di esteta, di dilettante

di sensazioni, alla ricerca di piaceri raffinati esasperati dal giuoco sottile

dell'intelligenza. Quell'erotismo complicato da pose estetizzanti resterà un aspetto

fondamentale della sua personalità e della sua poesia.

È appena il caso di accennare alle numerose esperienze amorose di questi anni e

di quelli successivi, che crearono intorno a lui un'atmosfera scandalistica,

compiaciuta, tuttavia, e da porre fra le ragioni dei suoi successi editoriali. A

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vent'anni sposò, dopo una fuga romantica, Maria Hardouin di Gallese: un

matrimonio presto fallito. Pochi anni dopo ebbe una passione sconvolgente per

Barbara Leoni, ispiratrice di un paio di protagoniste dei suoi romanzi.

Ma basterà dire, data la sostanziale uniformità dei personaggi femminili del

D'Annunzio, che un gruppo di lettere a Barbara entrerà nel romanzo il Trionfo

della morte, e che questa reversibilità totale di vita e arte, con la subordinazione

della prima alla seconda, fu un modello più volte ripetuto negli amori e nell'opera

dannunziana: come dimostra, per esempio, il suo rapporto con una grande attrice,

Eleonora Duse, amante, ispiratrice, interprete di tragedie dannunziane e

personaggio d'un romanzo, Il fuoco.

Con le avventure amorose si accompagnò la smania sfrenata del lusso, che espose

fin da allora il poeta a difficili guerre coi creditori. Anch'essa riflette una volontà

di trasgressione, concessa al genio che si sente superiore alla moralità comune e

anela a un'affermazione sociale; a una «vita inimitabile», superiore a quella del

«gregge» plebeo e piccolo-borghese, e anche a quella delle classi elevate.

Sin dalle prime prove vi fu nel D'Annunzio la volontà di imporsi al pubblico, non

rifuggendo da espedienti pubblicitari. Tali furono l'invio del suo primo libro di

versi al Carducci e ad altri letterati importanti, e la notizia divulgata ad arte della

propria morte quando, nell'80, stava uscendone la seconda edizione. Più tardi vi

fu il viaggio in Grecia, con un gruppo di letterati (1895), seguito da una sapiente

orchestrazione di stampa, e rievocato nel poema della Laus vitae (Maia); esso

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volle apparire come continuazione potenziata del messaggio «pagano» del

Carducci, dal quale, invece, mai il D'Annunzio era stato così lontano. Più tardi,

durante la guerra '15 - '18, il D'Annunzio apparve nella veste del letterato-eroe -

questa volta in imprese realmente audaci e a rischio della vita -, fondando,

comunque sia, anche in questo caso (o meglio, rinforzando), un'immagine

esemplare di individualità creatrice che incontrò largo consenso fra i giovani.

A questa volontà di affermazione si congiunse una capacità straordinaria di

lavoro, come attesta la mole della sua produzione - lirica, romanzo, teatro, prose

autobiografiche - con una gamma estesa di sperimentazioni che vanno dal

verismo delle prime novelle, al simbolismo, alla prosa originalissima del

Notturno. Si aggiunga a questo la straordinaria capacità di riconoscere fra i primi

e di far proprie le novità letterarie e ideologiche d'Oltralpe: dalla filosofia del

Nietzsche, al Preraffaellismo inglese, al Simbolísmo francese; mentre non meno

costante fu l'appropriazione della nostra tradizione letteraria, a cominciare dalle

Origini. Egli fu, anzi, accusato di plagi, per l'uso disinvolto di numerose fonti: dai

nostri poeti del Quattrocento a Pascoli, da Tennyson a Swinburne; tutti assorbiti

nella sua raffinata scrittura.

Fin dal periodo vissuto a Roma e a Napoli il D'Annunzio lesse i poeti del

Decadentismo e maturò, anche per loro sollecitazione, l'amore quasi sensuale

della parola che espresse con tecnicismo a volte esasperato.

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Frutto di queste esperienze letterarie furono le raccolte di liriche: Intermezzo di

rime ('84), Isotteo ('86), Elegie romane ('92). Ma intanto l'autore aveva

incominciato a dedicarsi a un genere letterario più vicino ai gusti del grande

pubblico, il romanzo, con Il piacere ('89), Giovanni Episcopo ('91),

L'innocente ('92), nell'ultimo dei quali accoglieva con sorprendente eclettismo la

lezione di Tolstoi e Dostoevskij, dopo aver creato nel primo uno dei capolavori

dell'estetismo europeo. Alla lirica ritornò col Poema paradisiaco ('93),

testimonianza d'una crisi che segnò il passaggio a una nuova mitologia: quella del

superuomo, ispirato dalla filosofia dei Nietzsche.

Si trattava, come vedremo in seguito, d'una variante del sensualismo e

dell'estetismo di prima, che comportava, sulla scia di un'interpretazione in gran

parte arbitraria del filosofo tedesco, l'esaltazione della volontà di potenza di

individualità privilegiate, intese a esprimere la propria volontà di dominio e di

avventura fuori d'ogni legge morale e al di sopra della massa.

Questo ideale rimase limitato a nuove avventure erotiche, a un ribadito

esibizionismo, all'esaltazione della propria personalità eccezionale; ma da questo

momento il dannunzianesimo diventò moda e costume, esaltato e imitato da una

borghesia ambiziosa e megalomane, soprattutto quando dall'esaltazione del

superuomo il D'Annunzio passò a quella della supernazione, l'Italia, dotata di

un'oscura vocazione d'impero. Egli divenne così il massimo esponente d'un

nazionalismo aggressivo, comodo alibi per la classe dirigente, in quanto le

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consentiva di celare la propria incapacità di risolvere i problemi di fondo del

nuovo stato unitario dietro speciosi sogni di grandezza.

Il tema del superuomo ispirò la produzione dannunziana a partire dal Trionfo

della morte ('94) e dalle tragedie (una produzione iniziata nel '99); e trovò piena

espressione nel periodo della maturità artistica, fra il '98 e i11910, quando il

D'Annunzio visse nella sontuosa villa della Capponcina, presso Settignano. Sono

di questo periodo le Laudi (1903), il capolavoro della sua poesia, tragedie come

La figlia di Iorio (il capolavoro del suo teatro), il romanzo Il fuoco.

Nel 1910 le preziose suppellettili della Capponcina furono sequestrate dai

creditori, il D'Annunzio riparò in Francia, dove compose e rappresentò Le

martyre de Saint Sébastién (1911) e scrisse un libro di prose fra i suoi migliori,

La contemplazione della Orte ('12). Scoppiata la Grande guerra, rientrò in

Italia, fu tra gli interventisti più accesi e combatté valorosamente, partecipando ad

alcune memorande imprese (il volo Vienna, la «beffa» di Buccari). Ferito a un

occhio in un incidente aereo, scrisse, durante la degenza, la sua opera in prosa più

suggestiva, il Notturno. Terminata la guerra, pensando che, con 1'assegnazione

della Dalmazia alla Jugoslavia, la vittoria fosse stata «Mutilata», marciò da

Ronchi, con un gruppo di volontari, su Fiume e la occupò dalla fine del '19

all'inízio del '21, quando fu costretto ad abbandonarla dalle truppe inviate dal

Governo italiano. Si ritirò allora a Gardone, nella villa detta «Il Vittoriale», tolo

di Principe di Montenevoso. Salutò con entusiasmo l'avvento del Fascismo, ma fu

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messo risolutamente da parte da Mussolini. Sopravvissuto ormai a se stesso, e se,

negli ultimi anni, scrisse ancora prose autobiografiche di livello notevole, morì a

Gardone nel 1938.

La vita del D'Annunzio rimase sempre quella di un esteta, amante della bella

parola e del bel gesto, con una risoluta tendenza anarchica ed egocentrica.

Qualcosa di analogo può dirsi della sua produzione, imperniata sulla confusione

decadentistica di arte e vita pervasa da una tensione eroica di messaggio totale

alla società e alla nazione, e tuttavia non immune da atteggiamenti plateali e da

un'eloquenza reboante. Questi atteggiamenti, si vedrà, furono almeno in parte

connessi alla volontà di colpire il lettore, di assicurarsi un successo sul piano

editoriale, in un'età in cui il rapporto autorepubblico era radicalmente mutato

rispetto a quello dell'epoca romantica.

Ma D'Annunzio fu anche applaudito come modello di vita aristocratica dall'alta

borghesia dell'Italia umbertina per la sua esaltazione dell'individualismo e il suo

sogno di volontà eroica in un momento della vita nazionale che appariva grigio.

La poetica

La poetica dannunziana è l'espressione più appariscente del Decadentismo

italiano. Dei poeti «decadenti» europei D'Annunzio accoglie modi, forme,

immagini, con una capacità assimilatrice notevolissima; quasi sempre, però,

senza approfondirli, ma usandoli come elementi della sua arte fastosa e portata a

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un'ampia gamma di sperimentazioni. Per quest'ultimo aspetto lo si può avvicinare

al Pascoli, anch'egli impegnato in una ricerca di nuove fondazioni tematiche e

linguistiche.

Anche per il D'Annunzio fu importante l'incontro col Simbolismo europeo,

soprattutto francese, a cominciare dal Poema paradisiaco (1893; ma le liriche

sono frutto d'un triennio), dove s'avverte la ricerca della parola suggestiva,

dell'analogia simbolistica, l'ansia d'una poesia che evochi il «mistero» attraverso

raffinate atmosfere sentimentali e di sensibilità e oggetti ridotti a emblemi d'una

realtà più profonda: il non-dicibile delle cose e dell'animo, aperto soltanto

all'intuizione, al presentimento, alla ricerca d'una rifondazione poetica della

realtà.

È stato spesso osservato che D'Annunzio subisce 1'influsso prevalentemente dei

Simbolisti «minori», e rimane fuori dalla linea Baudelaire-Verlaine-Rimbaud'-

Mallarmé, quella, cioè, più ricca di futuro nella letteratura europea; e si è parlato,

per lui e per il Pascoli, d'una sorta di simbolismo «indigeno», di livello inferiore,

cioè «provinciale». Ma la condanna non pare sempre giustificata, per quel che

riguarda la prima accusa - e, in effetti, non dovrebbe neppure essere una

condanna, ma il segno d'un mondo poetico diverso -, e quanto al provincialismo

degli atteggiamenti meno persuasivi dei due poeti, converrebbe confrontarli con

altri «provincialismi» europei.

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Del D'Annunzio in particolare si può dire che egli aderì soprattutto alla tendenza

irrazionalistica e al misticismo estetico, fondendoli con la propria ispirazione

naturalistica e sensuale, ben evidente nelle sue prime raccolte poetiche e non mai

rinnegata, che potremmo schematicamente definire così:

a) rigetto della ragione come strumento primario di conoscenza e fondazione

di valori spirituali;

b) abbandono alle suggestioni del senso e dell'istinto (dell'erotismo e della

percezione sensibile immediata) come mezzo per porsi in diretto contatto - inteso

come unica conoscenza possibile - con le forze primigenie della natura-vita.

Nasce di qui quello che fu detto il panismo di molta poesia dannunziana: per un

verso un dissolversi dell'io, un suo farsi forma, colore, suono, un immergersi

totale nelle cose, dietro la suggestione dei sensi e dell'istinto; per un altro verso,

una nuova creazione della realtà in una luce di bellezza, coincidente con l'impeto

inesausto della vita, col moltiplicarsi costante delle forme davanti alla vigile

«attenzione» del poeta. La poesia diviene così per D'Annunzio scoperta

dell'armonia del mondo; il poeta a suo avviso continua e completa l'opera della

natura.

È questo, in sostanza, il nucleo primario dell'ispirazione dannunziana, evidente

soprattutto nella poesia, da Primo vere alle ultime raccolte; spesso sommerso

dall'enfasi, quando il poeta complica il suo naturalismo istintivo col desiderio di

dire cose mai dette o di rivelare una sensibilità d'eccezione o di esaltare un

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proprio dominio creativo sulle cose. Abbiamo allora i falsi miti del barbarico, del

primitivo, dell'erotismo, del proprio io, nelle due direzioni dell'estetismo o del

superumanismo. Comune a entrambe è l'esaltazione di quella che il poeta chiamò

la sua «quadriga imperiale» cioè l'unione di voluttà e istinto, orgoglio e volontà (í

due ultimi termini sono espressione soprattutto dell'esperienza «superumana»).

Estetismo e superumanismo rappresentano, in sostanza, due aspetti concomitanti

e complementari dell'ispirazione sensuale. Con questo aggettivo alludiamo non

tanto al contenuto eroico di molte opere dannunziane, ma all’accettazione della

vitalità pura ed istintiva come norma suprema, con piena negazione della

razionalità e della storia.

Il poeta e il suo pubblico

Un carattere saliente dell'arte del D'Annunzio è una continua e sin impaziente

volontà comunicativa nei confronti del pubblico, che s'accompagna alla

costruzione, quasi in ogni pagina, del proprio io come modello esemplare. Non è

più, tuttavia, l'immagine romantica e carducciana del poeta come maestro di

civiltà, d'una moralità e di ideali che lo trascendono, ma un nuovo emblema di

vitalità, di intelligenza, di raffinatezza da imporre a un pubblico alto-borghese

che tende a comporre la propria vita sociale in forme aristocratiche.

Ha scritto Asor Rosa che la capacità del D'Annunzio di essere «multanime», di

passare cioè attraverso le più varie esperienze di vita e di scrittura, costituisce

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l'unità della sua opera, e che in tal modo egli impose la figura del poeta «come

figura sociale dominante, come modello imitabile per rutti». Va tuttavia precisato

che questa essenza «multanime» ha una sostanziale monotonia: esaspera il culto

del piacere e della bellezza in varianti non sostanziali d'una tematica sola: l'io

poetico, creatore, in cui confluisce l'oscura volontà di tutti, sottratto alle leggi

comuni dell'esistenza, e soprattutto a quelle morali, dato che egli deve tutto

sperimentare e comprendere. Imitabile, poi, non vuol dire raggiungibile (c'è

sempre una differenza di «natura», invalicabile fra lui e gli altri); ma vuol dire

ispiratore d'un costume di vita eletto, raggiungibile soltanto dalle classi elevate

che sono espressione delle oscure virtù della stirpe. Il D'Annunzio insiste per tanto

su tematiche - come quella erotica - facilmente partecipabili, o sulla proposta d'un

eroismo politico e militare in cui si assommano i desideri imperialistici della bor-

ghesia industriale e capitalistica.

Tutto questo ebbe un notevole effetto in un'età di costrizioni a livello sociale e di

costume, di volontà di riscatto da sconfitte (Lissa, Adua), di grandi ambizioni di

un' Italia che voleva diventare grande potenza prima di avere superato miserie e

arretratezze secolari. Naturalmente il poeta non poteva essere un liberatore se non

nell'illusione e nel sogno; ma questo lo capirono in pochi; e, comunque sia, il

D'Annunzio seppe gestire con avvedutezza la funzione di incantatore cui lo

chiamava una società che preferiva i grandi sogni all'aspra fatica di affrontare il

vero.

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D'Annunzio fu così lo scrittore della nuova civiltà industriale, che giungeva ora,

in ritardo, in Italia; lo scrittore che entra, di conseguenza, nella nuova economia

di mercato: che deve piacere al pubblico e saperselo scegliere e gestire, dato che

vive del proprio lavoro letterario. Vedremo fra breve, riportando alcuni passi dell'

intervista concessa a Ugo Ojetti, come egli, fin dall'inizio, fosse ben consapevole

di questo e come costruisse con cura il proprio personaggio.

Derivano di qui la sua narrativa che tiene conto del pubblico femminile in quanto

maggior consumatore di romanzi; la ricerca d'una comunicazione immediata con

un pubblico vasto (i romanzi, il teatro), senza trascurare però la poesia,

considerata ancora in Italia come la sommità del discorso umano; 1'ostentazione

di lusso e di amanti, che gli garantisce uno spazio importante nelle cronache

mondane; la più volte proclamata volontà di «rinnovarsi o morire» (cioè di offrire

un prodotto sempre nuovo e legato alle mode letterarie straniere); e la sua vena

infaticabile. D'altra parte questa coscienza d'un mestiere si presenta in forme di

altissimo livello, soprattutto linguistico: lo scrittore è il signore della lingua ed

esibisce inoltre una cultura pittorica, musicale, letteraria. È, insomma, l'artefice

della Bellezza in ogni sua forma, in ogni suo aspetto.

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Page 118: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

La produzione dannunziana fra il 1879 e il 1893

1.Una suddivisione di comodo. Questa prima suddivisione della produzione dan-

nunziana a scopo didattico giunge fino alla conclusione dell'apprendistato

letterario dell'autore che culmina in due testi fondamentali: un romanzo, Il

Piacere, i1 primo capolavoro della narrativa dannunziana e un libro di versi, Il

poema paradisiaco, che conclude una prima fase poetica col decisivo incontro

col Simbolismo francese (già peraltro presente nel romanzo).

La fase così delimitata si svolge seguendo un'ispirazione naturalistico-sensuale

che si viene definendo nel segno dell'Estetismo e del Simbolismo. In tal senso, il

Piacere può essere visto come un punto d'arrivo e, insieme, di crisi, approfondita

poi, sul piano della produzione in versi, nel Poema paradisiaco. L’ansia di

rinnovamento condurrà il poeta all'incontro, decisivo, con le teorie del

«superuomo» e con l'avventura nazionalistico-imperialistíca. Seguiranno le opere

della maturità poetica (le Laudi, La figlia di Iorio, e, tra i romanzi, Il fuoco) e,

infine, un ultimo D'Annunzio, quello del Notturno e di altri notevoli scritti

autobiografici.

È una storia priva d'uno svolgimento lineare, ché anzi certe tematiche contenutisti

che ed espressive seguiranno una sorta di percorso ciclico. La produzione poetica

più matura, le Laudi, riprenderà l'iniziale naturalismo e anche le tematiche del

superuomo, strettamente connesse a quelle estetizzanti, che, a loro volta,

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Page 119: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

appaiono un affinamento dell'esperienza naturalistico-erotica. Dal tripudio dei

sensi, dal loro libero espandersi alla ricerca estetizzante di nuovi e più raffinati

piaceri, allo sviluppo, nell'esteta, di una forma di esemplarità aggressiva e

dominatrice: queste le tappe della sperimentazione dannunziana in verso e in

prosa.

Le opere fra il 1879 e il 1893.

2. Il D'Annunzio si mosse fin dall'inizio con uguale impegno nel campo della

poesia e in quello della prosa, ripercorrendo il cammino degli autori più

importanti -Carducci in poesia e Verga nella narrativa -, ma accogliendo altri

suggerimenti, soprattutto di autori stranieri, da Flaubert a Maupassant, a Tolstoi e

Dostoevskij nella prosa, dai Parnassiani ai Simbolisti francesi e inglesi nella

poesia. Ci si limiterà qui a una presentazione schematica in ordine cronologico:

-1879. Primo vere (1880, seconda edizione): poesie in metri «barbari» a

imitazione del Carducci, che ne sviluppavano il «paganesimo», e cioè

1'esaltazione naturalistica e immanentistica della vita.

-1881-82. Canto novo: ancora poesie in metri barbari, ma con sviluppo

originale della tematica vitalistica, arricchita d'una forte carica sensuale ed

edonistíca, lontana dalla ispirazione carducciana.

-1882 (1884). Terra vergane: comprende novelle, ambientate nella campagna

abruzzese, fra contadini e pastori; di tonalità veristico-verghiana.

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-1883 (1884). Intermezzo di rime: raccolta poetica, la cui veemenza

naturalistico-sensuale suscitò scandalo. Il primo libro fu completamente

rielaborato e arricchito nel '94, col titolo di Intermezzo.

-1884.I1 libro delle vergini: quattro novelle di ispirazione zoliana. Vi si nota

una particolare attenzione ai fenomeni fisiopatologici.

-1886. Isaotta Guttadauro e altre poesie: liriche, ripubblicate nel 1890 coi

titoli L'Isotteo e La Chimera, in cui continua l'ispirazione erotica.

San Pantaleone: raccolta di novelle, ancora di ispirazione abruzzese e

naturalistica.

Nel 1902 Le novelle della Pescara si presenteranno come un'antologia della

produzione novellistica dell'autore, che, di fatto, rifiuterà i testi non raccolti; ma il

primitivo tono veristico risulterà soverchiato dallo studio psicologico.

-1889. Il Piacere: è il primo grande romanzo dannunziano, idealmente

autobiografico; importante soprattutto perché abbandona il modello naturalistico

e instaura un dialogo con le correnti decadentistiche europee (J.K. Huysmans,

Controcorrente, per esempio), con originalità di contenuti e di stile.

Confluiscono nel romanzo esperienze personali di vita e di scrittura, dalla

produzione novellistica a quella di cronista mondano sulla «Tríbuna», agli amori

e alle personali avventure nel «bel mondo» romano e, vi si afferma l'estetismo

dell'autore come proposta culturale. Il romanzo fu un'esperienza fondamentale.

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-1891. Giovanni Episcopo: uscito a puntate sulla «Nuova Antología», indica

l'attenzione vigile dell'autore a ogni forma contemporanea di successo e di

produzione letteraria europea. Il modello emulato è Dostoevskij, nel periodo in

cui il romanzo russo ebbe vasta fortuna in Europa. Accanto al procedimento

narrativo veristico si avverte l'interesse per l'analisi del dramma psicologico e

psichico dei personaggi.

-1892. L'Innocente, pubblicato anch'esso a puntate nel '91: qui D'Annunzio

fonde l'esperienza estetizzante, intesa a costruire personalità d'eccezione, col

modello russo di analisi di tormentate psicologie del profondo e di drammi etici

complessi (accanto a Dostoevskij, c'è l'impronta di Tolstoi).

Il protagonista, Tullio Hermil, egocentrico e raffinato esteta, trascura la moglie

Giuliana, seguendo le suggestioni del proprio raffinato erotismo. Quando

ritornerà a lei, saprà che ella è incinta, essendosi abbandonata per breve tempo,

nella sua disperazione, a un amore. Tullio la perdona, ma l'odio verso il bambino

che poco dopo nasce lo spinge ad esporlo, di nascosto, al freddo, mentre tutti

sono in chiesa per la novena di Natale, causandone la morte.

Il romanzo vuole scandagliare - con risultati diseguali - le trame tortuose della

coscienza; ma ancora una volta il protagonista è l'uomo che si sente superiore alle

leggi, alla morale comune.

Elegie romane: liriche in metro «barbaro» incentrate sull'amore per Barbara

Leoni.

121

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-1893. Poema paradisiaco: segna un nuovo atteggiarsi della lirica dannunziana,

meglio legata al Simbolismo europeo. È un libro di stanchezze e di languori, di

vicende amorose crepuscolari e stremate. Nell'ideale ritratto di sé che il

D'Annunzio viene componendo, il libro rappresenta la stanchezza dei sensi e

l'ansia d'una purezza da riconquistare, un rinnovamento interiore che prepari una

nuova avventura artistica e umana.

Odi navali: esprimono il desiderio che l'Italia torni ad essere potente sul mare:

no una delle prime manifestazioni dell'impegno dell'autore in senso

nazionalistico.

Di tutta questa produzione si darà qui una modesta documentazione, non

adeguata alla sua importanza, ma imposta da tirannia di spazio. Tale importanza

va attestata su due direzioni: nella storia della produzione dannunziana e nella

storia della letteratura italiana.

Per il primo aspetto si può osservare soprattutto l'affermarsi di tematiche che

rimarranno acquisite e presenti nelle opere successive: il naturalismo panico, per

esempio 1'ispirazione sensuale, la ricerca ritmico-musicale d'una nuova

versificazione, l'estetismo, la struttura narrativa originale che tende a sostituire ai

fatti l'analisi dell’avventura interiore delle oscillazioni della coscienza, la

creazione di un personaggio, portatore ideologia e sensibilità dell'autore, che si

presenta come individuo inteso all'autosufficienza egocentrica ed egoistica (già,

in questo, modello del futuro superuomo), ribelle ad ogni legge comune, anzi

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legge a se stesso, nella totale accettazione dei propri impulsi a propria carica

vitalistica.

Sul piano storico-letterario queste prime opere segnano un atteggiamento nuovo

nella cultura letteraria italiana: la liquidazione del Verismo, del carduccianesimo,

delle à romantiche e il tentativo di sprovincializzare la letteratura italiana

stabilendo un re contatto con quella europea; più specificatamente con le varie

correnti del Decadentismo.

La produzione dannunziana fra il 1894 e il 1912.

E’ il periodo della maturità, e vede ampliarsi la gamma degli interventi letterari

dannunziani con un’amplia produzione teatrale, con due romanzi più significativi

e la pubblicazione delle poesie più importanti: i tre libri delle Laudi.

Evento culturale decisivo di questi anni è l’incontro col “superuomo”, quale il

D’Annunzio lo desunse ed interpretò dalle pagine del Nietzsche ( che egli per

altro considerò un poeta, piuttosto che un filosofo), in particolare da Così parlò

Zarathustra (1883-1885), non ignoto, prima, anzi vagamente presente nella figura

dell’esteta dei romanzi precedenti. Ma è nel Trionfo della morte che gli accenni

al filosofo tedesco si fanno precisi ed insistenti, per rimanere, anche dopo,

radicati nell’immaginario dannunziano.

2. Anche qui si procederà con una notizia sintetica delle opere, seguendo, in

prevalenza, l'ordine cronologico.

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• 1894. Trionfo della morte: romanzo

• 1895. Le vergini delle rocce: romanzo.

•1897. Sogno d'un mattino di primavera: dramma, rappresentato dalla Duse a

Parigi. Sarà seguito nel '99 dal Sogno d'un tramonto d'autunno. Entrambi i testi

sono in prosa .

La città morta: tragedia, interpretata con successo a Parigi da Sarah Bernhardt

• 1898-1899Rispettivamente le tragedie La Gioconda e La Gloria

• 1900. Il fuoco: romanzo che alcuni considerano il capolavoro della narrativa

dannunziana.

• 1901. Francesca da Rimíní, tragedia.

• 1903. Uscirono in questo anno i tre volumi delle Laudi del cielo del mare

della terra e degli eroi, ossia Maia, Elettra, frutto di un lavoro intenso, fra il

1896 e il 1903, ma soprattutto nell'ultimo anno.

• 1904. La figlia di Iorio, tragedia: l'opera più significativa del teatro

dannunziano .

• 1905-1909 La fiaccola sotto il moggio (1905); Più che l'amore (1906);

'La Nave (1907); Fedra (1909): tragedie.

• 1910. Forse che sì forse che no: romanzo, concentrato ancora su una figura

di «superuomo», Paolo Tarsis, appassionato di automobili e aeroplani e dunque

vicino a una nuova «modernità» (si ricordi che sono già apparsi i primi manifesti

del Futurismo).

124

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• 1911. Le martyre de Saint Sébastien: tragedia scritta in francese antico,

accompagnata dalle musiche di Claude Debussy e dalla coreografia di Ida

Rubinstein, rappresentata a Parigi (è l'anno dell'«esílío» francese). Un'altra

tragedia in francese, in prosa, sarà, nel 1914, Le chèvrefeuille, tradotta in

italiano col titolo Il ferro.

• 1912. Canzoni della gesta d'oltremare: scritte fra 1'11 e il '12 per la guerra

italo-turca che si concluse con la conquista della Libia. Il volume uscì nel '12 -

dopo la pubblicazione delle canzoni sul «Corriere della sera» - col titolo

Merope, quarto libro delle Laudi.

La contemplazione della morte: prose di memoria che rievocano

l'amicizia del D'Annunzio con Adolphe Bermond e Giovanni Pascoli, morti lo

stesso giorno (6 aprile 1912). Incomincia con questo libro la pubblicazione di una

prosa memoríale che comprenderà alcune delle pagine più belle dell'autore e che

considereremo nel terzo momento della produzione dannunziana.

II «Trionfo della morte» e il «superuomo»

Il romanzo ebbe una lunga vicenda compositiva, tanto che il D'Annunzio,

pubblicandolo nel 1894, vi appose le date 1889-1894 (la prima si riferiva a un

abbozzo, L'invincibile e a partire dal '93 il romanzo era apparso a puntate su «La

Tribuna»). Nel frattempo, dal '92 (dall'articolo La bestia elettiva), egli aveva

dibattuto, con consenso sempre più convinto, il pensiero del Nietzsche, ed era

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venuto sovrapponendo alla figura dell'esteta quella del superuomo, adattando il

pensiero nietzschiano alla sua idea dell'io creatore, nell'arte e nella «vita

inimitabile», superiore a ogni legge o costrizione. L'idea del filosofo tedesco

della morte di Dio, e cioè dei valori considerati fondamentali nella civiltà

occidentale per secoli e denunciati da lui, invece, come del tutto relativi - il che

consentiva al superuomo la sua ampia iniziativa liberatrice e fondatrice d'una

umanità nuova -, appariva al D'Annunzio coincidente con la sua idea del poeta

come libero creatore di sé e della sua vita, portatore d'un messaggio totale. Da

questa persuasione nasce 1'«assioma» che egli presenterà come «fin troppo

semplice» nel romanzo del '95, Le vergini delle rocce:

«Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi

uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del

tempo e andranno sempre più ampliando e ornando nel futuro. Il mondo quale

oggi appare è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli

schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare».

Ambizione suprema del poeta è quindi «portare un qualche ornamento...

aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno

s'accresce di bellezza e di dolore».

Siamo fra Nietzsche e Schopenhauer, fra la cieca volontà vitale (il dolore) e la

rappresentazione liberatrice dell'arte che è pur sempre illusione: il pensiero del

passo riportato va interpretato su questo sfondo ideologico, che spiega l'impeto

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del «creare con gioia», come dice il Fuoco, ossia l'esaltazione di sé, da un lato, e

dall'altro un senso nichilistico che affiora di frequente nell'opera dannunziana.

Non appare pertanto incongruo che il primo romanzo fondato sulla teoria

superumanistica abbia non soltanto una soluzione, ma anche un andamento

tragico: sia la storia di un lungo dibattersi entro una sconfitta che il suicidio

finale non riesce a tramutare in vittoria.

Il protagonista, Giorgio Aurispa, è anche lui, come tutti i protagonisti dei

romanzi dannunziani proteso ad una «vita inimitabile», ma si dibatte fra la

voluttà sensuale, impersonata dall'amante Ippolita Sanzio, e la volontà di

infrangerne la suggestione, di dominarla. Quest'ansia di liberazione resta

tuttavia velleitaria: l'eroe cade in una spenta abulia dalla quale si riscatta

soltanto alla fine del libro, suicidandosi trascinando con sé l'amante nella morte:

un gesto nel quale ritrova, per un attimo, il proprio orgoglio e la propria

«volontà di potenza».

Questa trama si arricchisce di numerosi episodi, che sarebbe ozioso qui

ripercorrere rattamente; anche perché ripetono, come in cerchi ora eccentrici,

ora concentrici, la situazione di fondo. Ma almeno un episodio va ricordato ed è

l'incontro fra il protagonista e la sua terra: un Abruzzo arcaico e tuttavia vero,

amato e respinto (il protagonista tenta invano una liberazione attraverso questo

contatto), ma sostanzialmente positivo per la sua oscura carica di energia vitale.

superuomo dannunziano, mentre impone il proprio dominio sulle classi

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subalterne nella terra e nella stirpe l'origine della propria forza, concepita

naturalistiche. Questa base fisica, naturalistica, biologica è tipica del

D'Annunzio e sempre presente nella sua poesia; e diverrà, soprattutto nelle

tragedie, il fondamento della sua à di potenza trasformatrice del mondo.

La massa che il D'Annunzio stesso saprà ere e guidare con la parola - dalla

propaganda interventista all'impresa di Fiume composta anche dal popolo e

dalla borghesia cittadina, ma nelle masse contadine te l'intatta forza della terra e

della vita, da lui mitizzate sia nelle Laudi sia in tragedie come La Gloria.

Resta da fare qualche considerazione sul finale tragico In primo luogo esso è

dovuto al fatto che il superuomo (anche per Nietzsche) è una tensione, non una

méta raggiunta: l'uomo è visto da Zarathustra come un tramonto, un ponte

gettato verso questa oltre-umanità. Giorgio Aurispa esprime la crisi dell'uomo

proteso verso una il superuomo - che è ancora lontana, che è una conquista

eroica non ancora né ipotizzabile con precisione. La volontà di andare oltre

l'umano è, almeno edita dalle leggi etiche e sociali d'un mondo vicino alla

dissolvenza ma non consapevole dell'auspicato futuro.

Il teatro dannunziano

La produzione teatrale del D'Annunzio incomincia nel' 97 e giunge fino alla

vigilia della prima guerra mondiale. Ancora una volta come e più che col

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romanzo, egli sceglieva un mezzo di divulgazione immediata, un confronto col

pubblico conforme alla sua ansia di lotta e di vittoria.

In realtà, lotta vi fu: non mancarono insuccessi anche clamorosi, nonostante

l'aiuto che a questo teatro diede una grande attrice, Eleonora Duse; e lotta vi

sarebbe ancora oggi, se questo teatro potesse sopravvivere. In realtà esso ha

espresso un solo capolavoro, La figlia di Iorio (1904), e qualche testo

apprezzabile in parte, come La città morta (1897), La fiaccola sotto il moggio

(1905) e forse Francesca da Rimini (1902). La Nave (1907) godette qualche

favore in epoca fascista; oggi essa e la maggior parte delle tragedie dannunziane

appaiono fin troppo datate e improponibili.

Esse hanno tuttavia un valore di testimonianza di un'epoca e soprattutto di una

ideologia che ha poi dominato decenni di vita italiana: quella che va dal

Superuomo alla supernazione, con una sua prassi coerente e implacabile, che

alimentò i falsi miti dei fascismi posteriori: quelli del sangue, della terra, della

razza e della potenza dominatrice di Roma, del capo carismatico c della sua

volontà di potenza, di assoluto dominio sugli uomini. E il sangue, la terra, l'anima

oscura della stirpe sono anche il lievito della Figlia di Iorio, dove è assente la

tematica politica, ma tutto appare fondato su un destino cieco e irrazionale, sugli

oscuri richiami del sangue. Solo che l'atmosfera leggendaria conferisce un suo

fascino al poema tragico della terra abruzzese, che non si ritrova nell'eroismo

frenetico e astratto delle tragedie «politiche».

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Si ripropone qui innanzitutto una delle tragedie «politiche» più significative in

questo senso, La Gloria (1899), e quindi il discorso del protagonista della Nave.

Termineremo con una delle scene più intense della Figlia di Iorio.

«La Gloria»

La tragedia è ambientata in una ideale Roma moderna, in un presente-avvenire

visitato da ombre imperiali: la romanità col suo richiamo di grandezza e dominio

che ispira inizialmente il protagonista, Ruggero Flamma e i suoi partigiani, e

anche Bisanzio, l'Impero Romano d'Oriente amato dal Decadentismo, come

implacabile volontà di affermazione e di dominio impersonata dalla protagonista

femminile, Elena Comnèna Flamma si batte per ricostruire la Città, la Patria, la

Forza latina (le maiuscole sono del D'Annunzio) contro Cesare Bronte, anch'egli

dominatore di tempra forte, popolano, in origine, e quindi legato alla terra, ma

vecchio, circondato da vecchi e non più atto a portare avanti i sogni che Flamma

fa balenare: anzi, rassegnato ormai a essere l'amministratore del decadimento,

della corruzione di un popolo e d'una società civile in cui appaiono spente le

antiche virtù della Stirpe.

Mentre è ancora viva la lotta fra i due, la Comnèna va da Flamma, affascinata

dalla sua impetuosa eloquenza e da quella che le appare una volontà risoluta di

vittoria. Ella dà subito l'idea «d'una forza che deve inevitabilmente andare a

segno»; anela alla liberazione totale di sé (i suoi l'hanno data in sposa, per

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meschino interesse, al Bronte) «per la gioia, per il gran respiro, e per il lungo

volo, per la sete che scopre le fonti, per la fame che coglie il suo frutto, per il

coraggio che sceglie il suo rischio, per la musica della vita bella». Dalla voce di

lei si sprigiona, accanto alla fermezza implacabile, una «melodia» che «sembra

prolungarsi nel più remoto mistero dell'essere, nella cieca oscurità naturale ove

risiedono le leggi primitive per cui le sorti delle creature dinanzi alla Vita e alla

Morte si congiungono nelle mille spire dell'odio e dell'amore». È questa una

didascalia essenziale, che anticipa il nodo tragico della Figlia di Iorio e nel

contempo esprime lo scoppio di passioni elementari e d'una volontà

irrazionalistica che domina i rapporti umani e dunque anche la vita politica,

secondo il D'Annunzio.

Innamoratasi di Flamma, la Comnèna avvelena Bronte, e diviene quindi

l'ispiratrice dell'amante, che incita a un dominio sempre più assoluto sugli altri,

fino a fargli dimenticare ogni ideale politico in nome del potere, fino a lasciare

massacrare i contadini (il popolo «forte, rude, sobrio, tenace, sano») cui egli

voleva dare la terra, e uccidere alcuni dei suoi seguaci più fedeli, puntando sugli

istinti «più acri» delle masse (cupidigia, gelosia, paura) per dominarle, dando loro

la speranza di soddisfarli. Flamma, prigioniero della sua passione, intuisce che

dovrebbe uccidere la Comnèna per liberarsi, ma non ne ha la forza; e quando il

popolo gli si rivolta contro rinuncia a combattere, a chiede ed ottiene che la

donna lo uccida.

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Ruggero Flamma è l'uomo che non riesce a divenire superuomo, il genio latino

che on riesce ad essere se stesso, a sviluppare la sua volontà di potenza, e in

questo sta la Sua tragedia: la «gloria» non raggiunta. L'opera è enfatica, priva di

razionali motivazioni ideologiche e politiche e punta sulla scoperta del legame di

volontà/voluttà, sesso e dominio; ma soprattutto fa balenare alcune idee destinate,

in politica, a triste fortuna: virtù del sangue, della terra e della stirpe, il falso della

romanità imperiale, eredità del popolo italiano, la grande figura del capo che

assomma in sé il popolo, accogliendone la vitalità istintiva in una vitalità

superiore. E qui appunto Flamma fallisce: nell'eros (è capace di dominare la

Comnèna) e nella volontà di potenza.

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Benedetto Croce

La più decisa reazione al Positivismo fu, alle soglie del '900, quella di Benedetto

Croce, filosofo, storico e critico letterario che ebbe un influsso dominante sulla

cultura del primo cinquantennio del secolo. Nato a Pescasseroli nell'Abruzzo

(1866), passò presto a Napoli, dove visse fino alla morte svolgendo una

vastissima attività di studioso. Dopo un giovanile avvicinamento al marxismo, si

orientò verso un liberalismo progressista, che riconosceva l'importanza del

movimento operaio, ma cercava d'inserirlo come forza attiva nella vita nazionale,

armonizzandolo con gli ideali più alti del liberalismo ottocentesco.

Avversò, in nome della libertà, sentita come il valore fondamentale della persona

umana, il Fascismo. Dopo un'iniziale incertezza (lo stato liberale coltivò per

qualche tempo l'illusione di spingere questo partito in una direzione democratica),

votò, nel '25, contro le leggi liberticide e scrisse il Manifesto degli intellettuali

italiani antifascisti, in opposizione al Manifesto degli intellettuali fascisti di

Giovanni Gentile. Da allora fu, negli anni della dittatura, una delle maggiori

forze morali d'opposizione. Dopo l'ultima guerra fu deputato alla Costituente, ma

era ormai tagliato fuori dalla problematica sociale e politica del nostro tempo,

anche se fa sua figura restava pur sempre un modello di coerenza.

Morì nel 1952. A noi qui interessa la sua opera di filosofo dell'arte, di critico, di

storico. Rícordíamo, a questo proposito, fra le sue opere più importanti, l'Estetica

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(1902), i Nuovi saggi di estetica (1920), La poesia (193G); i saggi La

letteratura della nuova Italia (1914-40), 6 voll., Poesia e non poesia (1923),

Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), La poesia di Dante (1921); e, fra le

opere storiche, la Storia della età barocca in Italia (1929), la Storia d'Italia

dal 1870 al 1915 (1928), e La storia come pensiero e come azione (1938).

La filosofia del Croce oppose al culto della scienza sperimentale e all'ingenuo

materialismo positivistico un rinnovato idealismo storicistico. Egli, cioè, concepì

la realtà come storia, come continuo divenire e continua creazione dello spirito

umano, nel quale distinse due attività: una pratica, riguardante la vita economica

e quella morale, e una contemplativa, riguardante l'attività del conoscere e

comprendente due distinte forme, la poesia e la filosofia. Poesia, filosofia,

economicità, moralità risultavano così i quattro momenti distinti e tuttavia

convergenti nel continuo svolgersi della vita spirituale.

Trascurando le implicazioni filosofiche di questo pensiero, diremo che, per il

Croce, poesia è liricità, cioè espressione, in immagine lirica e fantastica, d'un

sentimento che, attraverso la contemplazione artistica, si spoglia d'ogni

immediatezza soggettiva e diviene intuizione universale della realtà.

Essa costituisce la forma aurorale e primigenia, e quindi autonoma, del

conoscere, la prima forma di autocoscienza, di presa di possesso della realtà; è il

primo consapevole affermarsi della spiritualità. Riprendendo le concezioni del

Vico e del De Sanctis, il Croce considerava, dunque, la poesia come un momento

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essenziale nella storia dell'uomo e della civiltà. Il Croce eliminava la confusione

romantica fra il sentimento vissuto dal poeta come uomo, nella sua esistenza

quotidiana, e quello che egli esprimeva nella sua poesia, trasfigurato in una luce

universale e assurto a nuovo valore spirituale valido per tutti. Ma nello stesso

tempo rigettava il Decadentismo e il suo misticismo estetico, che esaltava l'arte

come suprema e unica rivelazione d'un mistero fuori di noi e come atto vitale per

eccellenza. Essa era invece, per il Croce, un valore fra altri valori, un'attività di

contemplazione che, mentre sintetizzava in sé tutti i momenti della vita della co-

scienza, contribuendo a rigenerarci e a rinvigorirci spiritualmente, veniva poi a

sua volta riassorbita nel divenire dello spirito, nella sua vicenda continua e

sempre nuova e ascendente di pensiero e azione.

La critica letteraria del Croce è volta a ritrovare e a riconoscere, nelle opere

esaminate, i momenti veramente poetici, quelli, cioè, in cui si dispiega il puro

valore della bellezza, distinguendoli dalle forme extrapoetiche, cioè, da quei

motivi sentimentali e contenutistici che non hanno saputo trovare piena

espressione lirica. A prescindere dai pur pregevoli risultati particolari delle

singole indagini, essa servì, nel suo complesso, a richiamare i nostri critici,

ancora immersi in certi schemi aridi della metodologia positivistica (lo studio del

genio come fenomeno patologico, l'erudizione oziosa e pedantesca), a un'indagine

propriamente estetica della poesia.

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Questa riduzione del complesso mondo dell'opera d'arte all'intuizione-espressione

di generici sentimenti universali rischiava però di togliere all'opera stessa la sua

dimensione storica concreta, nonostante la volontà storicistica del Croce, e di

impoverire il significato reale del testo.

Il ridurre, ad esempio, la Commedia di Dante ad alcune liriche o momenti

autentici di poesia da tenere rigorosamente distinti dall'impoetico «romanzo

teologico», cioè dal resto del poema, dalla sua costruzione etico-religiosa,

portava, infatti, a misconoscere il reale messaggio poetico di Dante, che si

costituiva proprio nel dialettico incontro fra passione umana e norma religiosa.

Allo stesso modo, il Croce era spesso portato a trascurare gli elementi della

tecnica compositiva che non sono neppure essi un dato estrinseco, ma la struttura

concreta del linguaggio poetico.

Analogamente il concepire la storia come storia della libertà, con un idealistico

ottimismo che considerava il male come un momento dialettico dell'immancabile

trionfo del bene, rischiò di apparire, soprattutto dopo la rivelazione degli orrori e

della negazione dell'uomo perpetrati nell'ultima guerra, e nel momento in cui si

chiedeva una libertà concreta per tutti, da attuare nell'impegno incessante della

lotta di tutti contro ogni tirannide, un messaggio genericamente idealizzante,

destinato a pochi spiriti aristocratici. Ma non è qui il luogo di insistere sui limiti

del pensiero crociano. Conviene piuttosto sottolineare il significato che ebbe la

sua opera sia agli inizi del secolo sia più tardi, fra le due guerre, nella resistenza

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al totalitarismo fascista e nazista. In entrambi i casi, davanti al trionfante

irrazionalismo che si traduceva in torbidi miti letterari e politici, in esaltazione

della violenza contro la razionalità, della mera politicità contro ogni impegno o

preoccupazione morale, egli tenne fede ai valori spirituali ed etici della persona e

riaffermò, con la sua concezione storicistica, la sua fede nella libertà.

Soprattutto nella rivista La critica, che egli scrisse e pubblicò dal 1903 alla sua

morte, e che fu per decenni in Italia «lo strumento più valido per penetrare in

ogni campo del sapere», possiamo cogliere il tentativo di educare culturalmente il

Paese, abituandolo a pensare, fuori d'ogni angusto provincialismo, in una

dimensione europea.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) Cosa si intende per periodo Decadente.

2) Come vive l’uomo l’inizio del nuovo secolo.

3) Cosa si intende per superomismo.

4) La nuova concezione della vita crociata.

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V UNITA’ : Diseroicizzazione

Prerequisiti

- Conoscenza della poetica dannunziana e delle filosofie da essa prese in

considerazione.

- Conoscenza della nuova figura dell’essere umano emerso attraverso la poetica

dannunziana e dei poeti maledetti.

Obiettivi

-Acquisizione della nuova realtà umana immersa nel disagio del suo tempo.

- Acquisizione del concetto di antieroe.

- Acquisizione delle nuove tecniche sintetiche e scarne dell’elaborazione

crepuscolare e futurista.

Si studieranno:

- I Crepuscolari.

- Il Futurismo: Martinetti e Palazzeschi.

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Page 140: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

-

I C r e p u s c o l a r i

La poesia che fu detta «crepuscolare» (più che di una «scuola», si trattò d'uno

stato d'animo diffuso) fiori fra il 1905 e il 1915, e rappresentò da un lato

un'esasperazione della tonalità del Poema paradisiaco del D'Annunzio, e della

poetica del fanciullino e delle umili cose del Pascoli, dall'altra una reazione ai

miti del dannunzianesimo e dell'affermazione eroica dell'io. Infatti questi poeti

denunciano una condizione di fiacchezza e di estenuazione spirituale, un

bisogno di rinchiudersi in se stessi, rifiutando d'aderire ai problemi politici,

sociali, culturali del tempo, per ritrovare, nel silenzio e nell'ombra, una nuova

spontaneità del sentimento. Ma non si tratta d'una conquista e d'un

rinnovamento spirituale, bensì d'uno stanco, sfiduciato abbandono. La loro è la

poesia dell'assenza, dell'incapacità d'aderire a una fede, a degli ideali, d'uno

stato di crisi e di stanco crepuscolo della persona, sentito come la realtà vera e

unica dell'esistenza; poesia, potremmo dire, dello sfiorire, del vanificarsi.

Oltre a quello dannunziano e pascoliano, è evidente, in questi poeti, l'influsso

di certo Decadentismo francese (Jammes, Maeterlinck, Rodenbach, Samain); e

decadente fu anche il loro rifiuto della realtà, quel vivere la propria esperienza

di vita soltanto nella letteratura, cosa che dà alla loro poesia un carattere

estetizzante, nonostante gli accenti intimistici sinceri. La poesia crepuscolare

vive in un'atmosfera, appunto, di crepuscolo: ha toni smorzati, un linguaggio

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volutamente dimesso, canta cose umili e banali. Ha un suo paesaggio

caratteristíco, continuamente rievocato: lo squallore dei solitari pomeriggi

domenicali, organetti di Barberia che suonano nelle vie deserte, piccoli interni

domestici, corsie d'ospedale, pallide e scialbe amanti provinciali. E tutto è

avvolto da un sentore d'autunno e di rinuncia, di rimpianto per ciò che non è

stato, e soprattutto da un senso di morte imminente, o meglio, da un sentirsi

morire un poco ogni giorno, che riflette l'avvertita incapacità di vivere.

La ragione prima del crepuscolarismo è, come s'è detto, il rifiuto del

dannunzianesimo più esteriore e reboante, sia sul piano formale sia su quello

esistenziale. Ma questa «diseroicizzazione» si estende alla stessa concezione

della poesia e dell'attività poetica. Lungi dalle «illuminazioni», dall'orgoglio

d'un contatto privilegiato con l'ignoto, questi poeti cercano un colloquio diretto

col pubblico (o per lo meno questa è la loro finzione, il loro tipo di

stilizzazione del discorso), uno stile di confessione umile, trita, quoti diana,

anche se, in realtà, ben sorvegliata sul piano formale e lontana

dall'immediatezza ingenua che raffigura. Si coglie in essa un voluto

declassamento dell'ideale di poesia, parallelo a quello dell'uomo e della sua

vita. Quando Gozzano esclama «mi vergogno d'essere un poeta!», collega il

proprio fallimento poetico e conoscitivo a quello esistenziale, con una sofferta

ambiguità in cui palpitano, insieme, l'orgoglio baudelairiano e decadentistico

del poeta come anima nobile e per questo misconosciuta dalla mediocri tà

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borghese, e la parodia amara della maschera di eccezionalità che il poeta

continua ad assumere nonostante la delusione e che lo rende incapace di vita,

d’azione, d'entusiasmo, nell'attuale assenza o negazione di tutti i valori.

Tuttavia proprio la «prosaicità» di questa poesia, la sua coscienza amara d'un

fallimento preparavano un possibile superamento della crisi.

In questa discesa, per così dire agli Inferi del quotidiano, del cosiddetto

impoetico, nella conseguente abolizione dei confini astratti stabiliti dai sempre

risorgenti classicismi, era possibile un approccio non mistificato con la realtà.

La definizione di poesia “crepuscolare” risale a un critico e romanziere

Giuseppe Antonio Borgese, che l'usò in un articolo su «La Stampa», nel 1910,

recensendo liriche di Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves

(ma l'aveva preceduto, in parte, il Cecchi, l'anno prima, recensendo Gozzano).

A questi possiamo aggiungere altri poeti, come Carlo Vallini e Corrado

Govoni, per il quale, tuttavia, il crepuscolarismo rappresentò soltanto

un'esperienza momentanea. Più originale e intensa appare oggi la lirica di

Sergio Corazzini e di Guido Gozzano, il maggiore fra questi poeti.

In una prospettiva generale di storia della cultura e della civiltà la

testimonianza dei Crepuscolari assume un carattere significativo. Il loro rifiuto

del dannunzianesimo (contrastato, per certi aspetti e mai totale) fu anche, e

forse prima di tutto, rifiuto d'un certo tipo d'impegno politico.

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I Crepuscolari avversarono quel «complesso di superiori tà» nazionalistico, che

era poi, a ben vedere, il rovesciamento, interessato, d'un complesso

d'inferiorità radicato obiettivamente nelle arretratezze e contraddizioni della

giovane nazione italiana, propugnato da una cultura alto-borghese che nelle

avventure coloniali e nell'orgoglío di sbandierati superiori destini della

Nazione, eludeva gli urgenti problemi sociali.

Il rifiuto dei Crepuscolari coinvolgeva, peraltro, l'esaltazione parallela, ormai

a-critica ed enfatica, dei vecchi ideali risorgimentali che nessuno si curava di

adeguare alla realtà del Paese. Dirà il Gozzano: «La Patria? Dio? l'Umanità?

Parole / che i retori t'han fatto nauseose!...». Questa critica dissolvente

implicava anche quella del poeta-vate, romantico, carducciano, dannunziano,

legato a una vicenda risorgimentale conclusa e alla sua cultura ormai

tramontata per lasciar luogo a nuove esigenze culturali, politiche, civili. In

sostanza i Crepuscolari soffrono la baudelairíana «perdi ta d'aureola», ma

cercano tuttavia di rifiutare l'estetismo della nostra tradizione recen te, dal

quale neppure il Pascoli, con la sua poetica dell'umiltà, era rimasto immune.

La poesia rimaneva per loro ancora rivelazione, ma d'una crisi morale e d'una

sofferenza, di cui essi non sapevano vedere una via d'uscita.

Sarebbe scorretto stabilire un rigido e fatalistico rapporto di causa ed effetto

fra depressione etico-politica e crepuscolarismo. Non foss'altro perché si

assiste, in quegli stessi anni, all'esaltazione, da parte dei Futuristi, della nuova

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civiltà della macchina, e anche dei suoi aspetti capitalistico -imperialistici; e

alla ricerca «ílluministica» degli uomini della «Voce», alla loro diagnosi

corretta delle problematiche culturali e civili del l' Italia.

Il tema unificatore era la coscienza d'un passaggio di civiltà, che comportava

nuove soluzioni letterarie. I Crepuscolari partirono dal ripudio di ogni forma di

trionfalismo e di esaltazione dell'esistente, dalla verifica dell'inadeguatezza dei

vecchi miti culturali, sociali, etico-politici a esprimere una realtà mutata, e

dalla volontà di un linguaggio letterario più «vero», d'un nuovo «patto» da

stabilire col lettore e con le cose. La demitizzazíone del poeta e della poesia da

loro tentata ebbe una notevole importanza nella civiltà letteraria del Nove -

cento.

Sergio Corazzini

Nacque a Roma nel 1887. In seguito al fallimento del padre conobbe la miseria

e dovette, ancor giovanetto, impiegarsi in una compagnia di assicurazioni e

vivere una vita scolorita e grama. La precoce esperienza di frustrazione vitale

fu tragicamente approfondita dall'insorgere della tisi, che lo condusse ventenne

alla tomba.

La poetica crepuscolare fu da lui vissuta con totale abbandono: divenne

1'espressione della sua deserta tristezza di fanciullo che si sente morire e

s'attacca alle piccole cose, anzi, alle povere piccole cose, che vede sfiorire con

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la sua persona. La sua poesia ha un tono di musicale estenuazione, di una

tristezza che si esala, senza speranza, alle soglie del silenzio.

Guido Gozzano

Nacque ad Agliè (Torino) nel 1883. Studiò giurisprudenza, ma la lasciò presto

per la poesia. Nel 1907 uscì La via del rifugio, il suo primo volume di liriche,

alcune delle quali entrarono anche nella seconda raccolta, 1 Colloqui, del

1911. Colpito dalla tisi verso il 1908, si appartò dalla vita mondana. Invano

tentò di ricuperare la salute con un viaggio in India, le immagini e í ricordi del

quale sono raccolti nel suo libro in prosa più bello, Verso la cuna del mondo.

Morì a trentatré anni, nel 1916. Uscirono postume due raccolte di fiabe, La

principessa si sposa, l tre talismani, e due di novelle, L'ultima traccia,

L'altare del passato.

Il Gozzano può essere avvicinato ai Crepuscolari, di cui condivise il senso

d'estenuazione spirituale e d'uno scorato rifugio nel grigiore del mondo

quotidiano, in seguito al tramonto d'ogni fede e d'ogni certezza, e anche per la

tendenza a una poesia colloquiale e prosastica. Ma l'ironia e la spietata

chiaroveggenza con cui si guarda vivere («sorrido e guardo vivere me stesso»)

e un più raffinato impegno artistico lo distinguono nettamente dagli altri. La

sua situazione lirica fondamentale è l'amara consapevolezza di essere figlio

d'un tempo colto ma arido, senza miti, incapace di risollevarsi dalla propria

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indifferenza non soltanto verso la speranza, ma neppure verso una disperazione

virile e combattiva di stampo leopardiano.

La sua, potrebbe essere chiamata poesia dell'assenza, della vita mancata, d'una

stanca aridità, conseguita al crollo dei miti fastosi romantici o dannunziani e

approfondita da quel suo sentirsi morire giorno per giorno. Egli resta perplesso

davanti all'assurdità della vita e del suo stesso io (è strano / fra tante cose

strambe / un coso con due gambe / detto guido gozzano), ed esprime il suo

tormento, ora abbandonandosi a un cinismo spinto fino alla crudeltà, ora

insistendo sulla propria disperata aridità sentimentale.

La tristezza del poeta non assume accenti tragici, ma s'esprime attraverso 1'iro -

nia corrosiva di chi sente assurda anche la ribellione; ed è un'ironia

contraddetta di continuo da un desiderio di vita semplice e sana, dal rammarico

di non amare

e di non essere amato, da un bisogno d'amore sentito come poesia serena del -

l'esistenza.

Espressione pregnante di questo suo contrasto sono i versi finali di una delle

sue poesie più belle, Paolo e Virginia (Amanti; Miserere, / Miserere di

questa mia giocosa / aridità larvata di chimere!) . Altrove (La signorina

Felicita, L'amica di nonna Speranza) il poeta cerca rifugio in un mondo

umile, in un'atmosfera di piccola borghesia provinciale, ignara delle

complicazioni morbose del pensiero e della sensibilità moderna, dei miti

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estetizzanti e «superumani» del D'Annunzio; magari un po' pettegola e goffa,

ma ancora capace di sentimenti schietti. È un ritorno a un mondo

d'adolescenza e d'infanzia, fatto di buone cose di pessimo gusto, ma riposante

per le sue semplici certezze e vagheggiato come approdo di pace. Il poeta ne

rievoca gl'interni domestici, i salotti decrepiti, gli oggetti, con una precisione

puntigliosa, con un atteggiamento che di continuo trascolora dalla parodia alla

nostalgia e con uno stile volutamente dimesso, discorsivo, che mescola

all'abbandono lirico espressioni prosastiche, banali, quotidiane. Si tratta,

comunque, d'un mondo immobile, pervaso dal sentore di morte che sempre

accompagna la rievocazione d'un tempo perduto.

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Il Futurismo

Parallela all'esperienza dei Crepuscolari, anche se opposta sul piano

ideologico e formale, fu quella del Futurismo, che partì anch'esso da premesse

antidecadentistiche e parzialmente antidannunziane, da un'adesione sostanziale

al diffuso pensiero irrazionalistico, dall'esaltazione d'un contenuto psicologico

come unica sorgente di poesia e dalla volontà di nuovi modi espressivi, in

contrasto con la tradizione, e d'un nuovo rapporto col pubblico.

I due movimenti furono coevi, al punto che diversi autori poterono, in un breve

giro d'anni, collaborare a tutti e due ed entrambi segnano la crisi e il tramonto

dell'ideologia letteraria ottocentesca. Qui si arrestano le analogie. Intanto il

Futurismo, a differenza del Crepuscolarismo, si organizzò in una scuola ben

definita, con tanto di capo storico e di atto di nascita, il Manifesto, pubblicato

da Filippo Tommaso Marinetti, su un giornale francese, «Le Fígaro», nel

1909; e a questo ne seguirono poi altri; con espedienti pubblicitari, quali le

famose «serate» di incontro col pubblico nei teatri, tempestose perché

volutamente provocatorie; con riviste come «Lacerba», ove venivano dibattute

le idee futuriste.

Forte anche di questa organizzazione, che si appoggiò ai movimenti

nazionalistici e al Fascismo, il Futurismo perdurò oltre l'occasione storica

reale, con manifestazioni che giunsero fino alla guerra d'Etiopia e alla seconda

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guerra mondiale. In secondo luogo, quanto il Crepuscolarísmo è umbratile e

rinunciatario, tanto il Futurismo è volontaristico e aggressivo: una vera

avanguardia che s'impone con un'organizzazione culturale, politica, editoriale,

con un'ideologia espansiva, di trionfante attivismo, almeno nelle intenzioni,

che tenta di tramutarsi in una moda, in un costume di vita.

Mentre rigettava certi aspetti del D'Annunzio, ne riprese ed esasperò la

tensione vitalistico-eroica, l'esaltazione dell'energia irrazionale e della vitalità

immediata e aggressiva. Volle essere l'espressione del dinamismo del mondo

moderno, cantare la civiltà della macchina, attingere sensazioni nuove dal

mondo della scienza e della tecnica, rigettando l'analisi dell'interiorità, tipica, a

suo avviso, della letteratura «passatista».

L'ipotesi era che la rivoluzione tecnologica e la mutata organizzazione della

vita associata imponessero non soltanto un nuovo costume, ma anche nuove

forme di sensibilità: si rilevava, ad es., che la velocità di una automobile

conduceva a una percezione diversa del paesaggio, a un diverso modo di

viverlo. Il futurismo esaltò, infine, le forme materiali, istintive della vita,

1'amore del pericolo e l'audacia, fino alla violenza e alla guerra, che Marinetti

definì come «sola igiene del mondo».

Per esprimere adeguatamente questi contenuti, stabilì che doveva essere

abolito il culto della tradizione, nelle poetiche e nel linguaggio; rigettò la

sintassi, le parti qualificative del discorso (avverbi, aggettivi), propose di usare

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le parole in libertà (cioè senza alcun legarne grammaticale-sintattico fra loro,

senza organizzarle in frasi e periodi), onde esprimere per via analogica e

suggestiva l'immediatezza del meccanismo psichico dell'impressione.

Il Futurismo ebbe valore soprattutto come movimento di rottura; servì, per

esempio, a sotterrare una ormai consunta enfasi ottocentesca e a far nascere

l'esigenza di nuove forme d’ espressione.

In tal senso venne effettivamente incontro a una domanda; si può ricordare, a

riprova di ciò, l'interesse che suscitò, a detta del Granisci, fra gli operai di

Torino la diffusione che ebbe nella Russia rivoluzionaria: basta fare il nome di

un poeta come Majakovskij. Le stesse «serate», o spettacoli teatrali,

esasperatamente anticonformisti, organizzati dai futuristi, richiedevano una

nuova coni partecipazione del pubblico, sia pure nella forma della discussione e

del rifiuto; anzi, la maggiore importanza del movimento , anche se non fu

percorsa fino in fondo, fu la nuova coscienza dell'opera d'arte come

straniamento, della partecipazione critica e non più della romantica

identificazione richiesta al pubblico, oltre alla richiesta d'un nuovo rapporto fra

umanesimo e civiltà industriale. Ma anche qui non si andò oltre alla premesse.

Nel campo letterario il Futurismo non espresse il meglio di sé, anzi, finì per

ridursi a un uso fin esasperato e al limite della parodia più o meno involontaria

dell'analogia di tipo simbolistico; senza contare che l'adesione al Fascismo

rinchiuse il movimento in forme di enfasi convenzionale, di novità soltanto

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apparente e sostanzialmente mistificata. Risultati assai più convincenti si ebbero

sul piano delle arti figurative (si pensi a Carrà, Severini, Boccioni, Balla), dove

il movimento fu uno dei principali incentivi a quella che si può chiamare la

rivoluzione dell'arte moderna.

Filippo Tommaso Marinetti

Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1876, studiò a Parigi e in francese scrisse le

sue prime opere, poi tradotte in italiano, La conquista delle stelle (1902),

Distruzione (1904) e La città carnale (1908), raccolte poetiche nel solco della

crisi del Simbolismo francese. Già notevoli in esse alcuni fatti: l'uso del verso

libero (preludio alle «parole in libertà») e la mistica del superuomo di

ascendenza dannunziana.

Nel 1909 pubblicò, sul giornale «Le Figaro», il “Manifesto del Futurismo”, cui

seguirono nel 1912 il “Manifesto tecnico della letteratura futurista” e altri quali

quelli apparsi sulla rivista «Lacerba», Dopo il verso libero, le parole in

libertà; L’immaginazione senza fili e le parole in libertà; pubblicati tutti fra

il '13 e il '14. Per Marinettí, il manifesto diventa un genere letterario originale,

tanto che numerosi critici vedono nei suoi manifesti futuristi le sue cose

migliori. Hanno, comunque sia, un notevole interesse storico-letterario il

romanzo Mafarka il futurista (1910) e i due scritti legati alla teorica del

«paroliberismo», Zang Tumb Tumb (1914); sul piano dei risultati, Spagna

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veloce e toro futurista (1931) e i due volumi, pubblicati postumi, La grande

Milano tradizionale e futurista e Chiara sensibilità italiana nata in Egitto.

Numerose sono le sue opere, le antologie, gli interventi, le interviste (come

L'Inchiesta sul verso libero), le prese di posizione, connesse alla sua qualità di

riconosciuto capo del movimento; una qualifica, tuttavia, nella quale rimase

come imprigionato, dopo che, a partire all'incirca dal 1920, il Futurismo apparve

come un fenomeno ormai archiviato, mentre nuovi movimenti d'avanguardia,

che pure a esso, in parte, si rapportavano, cominciavano a delinearsi in Francia

e, in genere, in Europa.

Né giovò allo scrittore la sua fervida adesione prima ai movimenti interventisti e

quindi, dal 1919, al Fascismo. Diventò accademico d'Italia (l'Accademia d'Italia

era stata fondata dal Fascismo e accoglieva i più importanti intellettuali del

Paese) e poeta di regime, fedele a esso fino alla Repubblica di Salò; continuò le

sue «serate», sempre più anacronistiche, e la fedeltà a un movimento concluso.

Di fatto, divenne egli stesso un «passatista», anche se, in opere come Il fascini

dell’Egitto, rivela la sua attenzione alle nuove poetiche italiane ed europee.

Morì nel 1944.

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Aldo Palazzeschi

Le opere di maggior successo del fiorentino Aldo Palazzeschi (pseudonimo di

Aldo Giurlani, 1885-1974) furono composte dopo il 1930: alludiamo ai tre libri

di racconti Stampe dell'Ottocento ('32), Il palio dei buffi 07), Bestie del

Novecento ('S1) e ai romanzi Sorelle Materassi ('34), I fratelli Cuccoli ('48),

Roma ('S3), che gli assicurano un posto di primo piano nella narrativa

contemporanea. Ma la sua formazione si svolse fra le polemiche letterarie del

primo Novecento, cioè fra Crepuscolari, Futuristi e la rivista fio rentina

"Lacerba".

Nel Futurismo, cui aderì, pur mantenendo una propria indipendenza di

sviluppi, egli vide essenzialmente rappresentato lo «spirito d'avanguardia»,

un'esigenza di rinnovamento culturale, capace di far meglio aderire la

letteratura alla vita, che è dinamicità e movimento, e di far meglio

comprendere il ritmo vario e molteplice, spesso imprevedibile e illogico di

questa. A tale intuizione Palazzeschi si mantenne sempre fedele,

rappresentando uomini e cose con un tono fra l'oggettivo e il fantastico, con

un atteggiamento fra l'ironico e il pensoso.

Cominciò come poeta, e le sue prime raccolte (I cavalli bianchi, '905;

Lanterna, '907; L'incendiario, '910) riunì, più tardi, nel volume delle Poesie,

che ebbe numerose edizioni. Questa esperienza ebbe grande importanza nella

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formazione del narratore, ma ha valore anche per se stessa. Nessuno, infatti, in

quegli anni, reagì come lui al pascolismo e al dannunzianesimo e a ogni forma

di imitazione letteraria e sentimentale. Contro un mondo poetico divenuto

ormai irreparabilmente convenzionale, egli affermò il proprio rifiuto

ponendosi come temi il nulla, il divertimento, l'ironia e dissolvendo le forme

della letteratura precedente in un puro giuoco bizzarro, apparentemente senza

senso; ma questa non-partecipazione era una protesta radicale.

La poesia del Palazzeschi si fonda soprattutto sull'invenzione estrosa, su

atmosfere tra visionarie e fiabesche, sul rifiuto d'ogni contenuto determinato,

su un ritmico apparire e dissolversi d'immagini in libertà, sottolineate da un

metro cantilenante, a tratti ossessivo. È, la sua, la libertà del funambo lo, del

clown (Sono forse un poeta? / no certo, scrive egli, ma: il saltimbanco

dell'anima mia); un movimento che sembra svolgersi nel vuoto, un riflettersi

del reale in una molteplicità di specchi deformanti e un frantumarsi digesti

umani in un giuoco meccanico di marionette.

Era, comunque sia, importante la sua accettazione della «perdita d'aureo la» del

poeta; la sua volontà anticonformistica di rigettare i travestimenti di vaticinio,

o attività superumana, o di magia evocativa e rivelatrice che la poesia tardo

ottocentesca si era assunti. In tal senso la sua rivolta di «incendiario» era più

radicale di quella di molti futuristi, ancora compromessi, come Marinetti, col

dannunzianesimo e il simbolismo.

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Un'atmosfera fra scanzonata e patetica si ritrova nella sua opera narrativa, a

cominciare dal Palio dei buffi. Più tardi l'autore affermò che sotto questa

insegna va collocata tutta la sua opera, e che per buffi intendeva «tutti coloro

che per qualche caratteristica, naturale divergenza e di varia natura, si

dibattono in un disagio fra la generale comunità umana; disagio che assume ad

un tempo aspetti di accesa comicità e di cupa tristezza», e riconobbe come

«divino maestro d'arte e di vita» il Boccaccio, ideale modello degli scrittori

che «attraverso le infinite qualità di peste che affliggono l'umanità in ogni

epoca, novellando si danno buon tempo».

Ma piuttosto che cupa o drammatica, quella del Palazzeschi è comicità

sorridente ed estrosa, anche se malinconica; è una caricatura del mondo

piattamente quotidiano e convenzionale, che mentre riduce gli uomini ad

aspetti marionettistici, ne suggerisce la sofferenza interiore con pietà

compartecipe e rivela la nostalgia d'un mondo di naturalità istintiva e serena.

II romanzo più noto del Palazzeschi è le Sorelle Mataressi. Esso racconta la

storia di due dignitose zitelle la cui vita è sconvolta dall'apparizione di Remo,

un nipote scapestrato, privo d'ogni sensibilità morale, ma animato da

un'istintiva e insaziabile gioia di vivere. Le sorelle si rovineranno per

soddisfare í capricci del bellissimo nipote che le ha affascinate, e dovranno

alla fine, quand'egli se ne sarà andato, ricostruirsi faticosamente una vita; ma

non gliene vorranno, anzi, rimarranno ancora estasiate dinanzi al ricordo di

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quella vampata di giovinezza che ha rotto il corso grigio e incolore della loro

«rispettabile» esistenza.

Questo romanzo è come la sintesi del mondo dell'autore, con quello svariare

del tono, dall’arguzia alla bizzarria, alla tenerezza, dal gusto del ridicolo alla

pietà, che culmina in una visione compartecipe, fra ironica e malinconica,

della vita umana.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) Cosa si intende per antieroe.

2) Come l’uomo vive il trapasso del suo tempo.

3) Perché si parla di innovazioni stilistiche.

4) Quali motivazioni spingono il poeta futurista ad adottare nuove tecniche

comunicative.

5) Il nuovo poeta.

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VI UNITA’ : L’uomo e il Teatro.

Prerequisiti:

- Conoscenze dei nuovi influssi letterari

- Conoscenza degli aspetti salienti del teatro italiano contemporaneo.

- Conoscenza del quadro storico-politico dell’Italia.

Obiettivi

- Acquisizione del nuovo concetto di realtà e irrealtà

- Acquisizione del concetto di “inetto” e condizione dell’essere umano nel

sistema del progresso contemporaneo.

- Acquisizione del nuovo genere letterario del racconto breve.

Si studieranno;

- Italo Svevo

- Luigi Pirandello.

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-

ITALO SVEVO

Nacque a Trieste nel 1861, da padre tedesco, israelita, figlio di un'italiana, che

sposò anch'egli un'italiana, la madre del nostro autore. Lo pseudonimo (il vero

nome fu Ettore Schmitz) non intendeva tanto indicare questa sua origine - il padre

e il nonno si sentivano triestini - quanto la volontà di conciliare la cultura tedesca

(nel Profilo autobiografico si esprimeva ammirazione soprattutto per un filosofo,

lo Schopenhauer) e quella italiana.

Inviato in Germania a imparare bene il tedesco e a compiere studi di avviamento

al commercio, fu, al ritorno, impiegato in banca. Maturava intanto una vocazione

letteraria che lo spingeva a vaste letture, di autori italiani, prima di tutto

Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio, De Sanctís, Carducci: una linea che si può

definire realistica, dal momento che per Svevo suddito dell'Impero austro-

ungarico, che allora comprendeva anche il «porto franco» di Trieste, l'italianità

era la scelta d'una tradizione di civiltà e di cultura, oltre che di lingua.

Ma Trieste era anche un «crocevia di più popoli»,,permeato «dalle culture più

varie», «adatto a tutte le coltivazioni spirituali» e questo spiega l'importanza che

ebbero nella formazione di Svevo non soltanto le letterature francese (il romanzo

ottocentesco), inglese, tedesca, russa (Turgenev), ma anche la cultura e la

filosofia, che allora potevano considerarsi d'avanguardia, diffuse in Austria: da

Marx a Schopenhauer a Freud a Nietzsche a Darwin. Svevo si trovò così al centro

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d'un dialogo più ricco di quello di cui poterono ruíre i letterati italiani verso la

fine dell'Ottocento. Basta pensare, in proposito, alla psicoanalisi, che egli

conobbe soprattutto a partire dal 1910, ma di cui ebbe forse notizia anche prima

(è del 1900 una delle opere più importanti di Freud, L'interpretazione dei

sogni, un cui compendio sul sogno, sarà tradotto da Svevo nel 1918, con un

cugino medico). D'altra parte la sua appartenenza a un ceto mercantile e

affaristico (dopo impiego in banca fu anche direttore d'azienda), mentre impediva

una sua dedizione totale alla coevi, della crisi del letterato nella civiltà

capitalistica.

Di qui l'insistenza, nella sua narrativa, che riflette, in parte, esperienze

autobiografiche, sulla figura dell'«inetto» - direbbe oggi del disadattato -: il

sognatore e artista che si trova in rapporto conflittuale con il vivere comune.

Certamente fu ben lontana da Svevo la prospettiva superomistica di D'Annunzio,

uno scrittore che egli non amò e di cui non subì l'influsso.

La sua visione critica della realtà contemporanea e il senso della solitudine

dell'intellettuale e dello scrittore nel mondo moderno furono ribaditi

dall'insuccesso che a go incontrò la sua opera. Esso fu in parte dovuto alla

posizione eccentrica della letteratura triestina rispetto ai centri di produzione

letteraria dell'Italia di allora; anche ché Svevo non ebbe la possibilità che ebbero

altri scrittori triestini più giovani, come Giotti, Michelstaedter, Slataper, di

entrare in diretto contatto, a Firenze, col movimento culturale e letterario guidato

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dalle riviste. La sua cultura europea gli risentì tuttavia di evitare alcune delle

mode più appariscenti ma meno significative della letteratura italiana coeva.

Il primo romanzo, pubblicato da Svevo a sue spese (come poi gli altri), fu Una

vita che ebbe un successo di stima a Trieste, ma passò inosservato in Italia. Più e

fu l'insuccesso di Senilità (1898), per il quale invano cercò di ottenere una recen-

sione sui giornali italiani. Fu questo il culmine di quello che egli definì il «caso

Svevo», che si costrinse a un silenzio quasi venticinquennale, nel senso che per

questo o non pubblicò nulla, pur seguitando a coltivare la letteratura.

Nel 1919 incominciò, all'indomaní dell'occupazione italiana di Trieste, salutata

con entusiasmo, il terzo romanzo, La coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923, e

rimasto anch'esso ignoto, fuori che a Trieste, fino a quando un amico, James

Joyce, uno dei maggiori scrittori europei del secolo, non lo fece conoscere in

Francia, dove ebbe vasti consensi per opera soprattutto di due importanti letterati,

Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud. Nel '27 il romanzo veniva tradotto in

francese e venivano ristampati in Italia gli altri due romanzi; già, tuttavia, dal '25

Eugenio Montale aveva attestato in un articolo importante la grandezza di Svevo.

Questi si pose al lavoro con rinnovata alacrità, ma nel 1928 incontrava la morte in

un incidente di macchina.

Postume uscirono raccolte di prose narrative, alcune delle quali incompiute: La

novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale,

e ancora Saggi e pagine sparse, La teoria del conte Alberto; Il ladro in casa;

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Una commedia inedita; Prima del ballo; La verità; Terzetto spezzato; Atto

unico; Un marito; Inferiorità; Con la penna d'oro; La rigenerazione, che

rimase incompiuta). A parte vanno considerati i frammenti di quello che si è

convenuto di chiamare il Quarto romanzo, che avrebbe dovuto essere una

continuazione della Coscienza di Zeno: Il vecchione, Le confessioni di un

vegliardo; Umbertino; Il mio ozio; Un contratto.

Si parlerà più ampiamente di queste opere (tranne che delle commedie) nel corso

dell'antologia. Ma conviene fin da ora precisare che i protagonisti dei romanzi di

Svevo rivelano una crisi del personaggio che accompagna il senso della crisi della

concezione classico-cristiana dell'uomo, della sua centralità nella vita, nella

realtà. In tal senso l'opera di Svevo è idealmente vicina a quella di Pirandello, di

Proust, di Joyce, di Kaflca, o all' Uomo senza qualità di Musil, pur conservando

una propria peculiarità. Svevo ha rappresentato la solitudine e la non

comunicabilità dell'uomo alienato, la sua sconfitta esistenziale, con un umorismo

graffiante e un senso della precarietà d'ogni approdo che gli conferiscono un

posto di assoluto rilievo nella narrativa contemporanea.

Saggistica sveviana

Le pagine saggistiche di Svevo possono essere suddivise in autobiografiche (è

un'autobiografia che commenta la sua opera) e saggi dedicati a problemi culturali

del tempo. Fra le prime vanno ricordati il Profilo autobiografico (1927), il

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Diario per la fidanzata (Livia Veneziani), scritto nel 1896, le Pagine sparse,

che delineano un diario intellettuale, il Soggiorno londinese, scritto forse fra il

'25 e il '26, in occasione d'un soggiorno in Inghilterra, dove il suocero lo inviò a

impiantare una fabbrica. Qui come nelle Lettere sono interessanti gli spunti di

poetica e il racconto della vicenda culturale dell'autore.

Carattere intellettualmente più sistematico è nella seconda serie di scritti,

importanti perché il dibattito delle idee scientifiche e filosofiche del tempo non fu

soltanto, per Svevo, una curiosità e un impegno di intellettuale, ma anche un

importante elemento della sua attività di narratore.

I suoi romanzi non prescindono mai da quel dibattito, lo assumono, anzi, nella

propria ricerca di verità, anche se poi questa si muove consapevolmente su

un'altra strada, che unisce al rigore intellettuale la rappresentazione della vita e

umanizza, come voleva l'autore, le singole filosofie e l'espressione specialistica

del pensiero. Fra questi saggi segnaliamo L'uomo e la teoria darwiniana, La

corruzione dell'anima, Ottimismo e pessimismo.

C'è poi tutta una fitta attività giornalistica di Svevo, che, giovanissimo, collaborò

con recensioni, critiche teatrali e articoli di vario argomento a «L'indipendente»,

un giornale irredentista triestino. Questa attività durò fino al 1890. Un altro

impegno giornalistico fu quello legato a «La Nazione», fondato a Trieste verso la

fine della guerra. Importanti, nella sua saggistica letteraria, furono gli Scritti su

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Joyce (all'amicizia personale col grande scrittore che soggiornò a Trieste si deve,

come s'è visto, il «lancio» della narrativa sveviana in Francia).

« U n a v i t a »

È il primo romanzo di Svevo, pubblicato a proprie spese nel 1892, dopo che

l'editore Treves lo aveva respinto. Il primo titolo, Un inetto, rifiutato dall'editore,

scomparve per lasciare il posto a quello attuale; identico, a insaputa dell'autore, a

quello d'un celebre romanzo di Maupassant.

Il protagonista, Alfonso Nitti, si trasferisce dal proprio paese a Trieste, dopo

aver trovato lavoro presso la banca Maller. È animato da un forte desiderio di

emergere, sul piano sociale, unito, però, a un temperamento di sognatore, che

aspira a un successo letterario, ed è più attento a scrutare se stesso, nella ricerca

di una verità che sia anche ispirazione poetica, che non al mondo aspro e positivo

dell'alta finanza e dell'affermazione sociale, in cui è entrato.

Un'occasione risolutiva sembra essergli offerta dalla figlia di Maller, che riunisce

attorno a sé un salotto letterario, dove Alfonso viene ammesso, incominciando

così una scalata sociale che culmina nella seduzione di Annetta; un rapporto,

tuttavia, mistificato, congiunto, com'è, nella donna a un capriccio volubile, nel

protagonista alla volontà di successo mondano. Proprio nel momento a lui più

favorevole, Alfonso ritorna al paese, per assistere la madre ammalata, ma anche

per ritrovarsi nella solitudine e analizzare i propri reali sentimenti. Morta la

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madre, ritorna a Trieste, dove apprende che Annetta si accinge a sposare il

cugino; e si rassegna all'evento, sperando di potersi ritrovare in un'interiorità non

più turbata da tentazioni esterne, e di potersi dedicare alla letteratura.

Ma il grigiore della vita impiegatizia lo riafferra, isterilisce il suo animo, mentre

il trasferimento a un ufficio meno importante gli fa pensare di essere perseguitato

dalla famiglia Maller. La cosa è senza dubbio vera, e il suo tentativo di farla

cessare spinge i suoi persecutori a credere che egli voglia ricattarli; pertanto a un

incontro, chiesto dal Nitti, con Annetta, si presenta, in sua vece, il fratello di lei e

lo sfida a duello. Il Nitti, convinto che anche Annetta voglia la sua morte, si

suicida.

Il romanzo rivela la capacità dell'autore di dominare originalmente numerosi in -

flussi della letteratura coeva. Un modello importante è la narrazione naturalistica

francese, e, in genere, un'ascendenza realistica che si rivela nella scrupolosa resa

degli ambienti. Ma accanto a questo, e dominanti, si riscontrano altri due modelli:

il romanzo di formazione e soprattutto il romanzo incentrato sull'analisi

psicologica del protagonista.

Svevo oltrepassa la tecnica naturalistica, per avvicinarsi piuttosto a suggestioni

decadentistiche nella rappresentazione dell'«inetto», del personaggio che non

riesce a vivere con gli altri, intento com'è all'auscultazione di sé, paralizzante nel

momento delle scelte decisive.

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Incapace di godere; di amare, di afferrare la vita, di affermarsi in un mondo

dominato da interessi economici materiali, sceglie la morte come una stanca

esecuzione di pena su se stesso; e il suo è il suicidio di chi si sente incapace di

vivere, di chi passa dai sogni infranti a una volontà stanca del nulla.

L'urto reale è quello fra una modesta esistenza piccolo-borghese, coi suoi ideali di

pulizia e di decoro, di semplici affetti, di pietà compartecipe per gli umili e la

sventura, e quella, implacabile, d'una ricca borghesia (la famiglia Maller) che

impone la propria egemonia su un mondo impiegatizio privò di ideali e di

iniziativa e oppone ai sentimenti spontanei il proprio capriccio, come fa la

volubile Annetta nei confronti di Alfonso. Ma l'interesse maggiore di questo

personaggio, che anticipa gli altri «inetti» della narra tiva sveviana, sta nella sua

psicologia depressa, nella sua vitalità sempre sul punto di negarsi, come

paralizzata da una delusione esistenziale sentita come destino.

Nelle Pagine autobiografiche Svevo afferma di avere concepito il romanzo

dietro la spinta dominante della filosofia di Schopenhauer. Ma, com'egli stesso

dice altrove, i romanzieri non sono atti a chiarire i filosofi: li falsificano, anche

se li umanizzano. Si può, infatti, parlare, a proposito di questo romanzo, d'una

generica suggestione schopenhaueriana per quel che riguarda il pessimismo di

fondo con cui è guardata la vita, non soltanto quella crudele e avida dei

dominatori, ma anche quella degli umili, anch'essi legati a un materialismo

basso e privo d'ogni vera luce di ideali, come attestano le squallide vicende

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della famiglia Lanucci, presso la quale Alfonso sta come pigionante. Ancora si

potrebbe indicare come tema genericamente schopenhaueriano il contrasto fra

volontà e rappresentazione; fra i falsi miti che ispirano la condotta comune e

una cieca volontà irriflessa di vivere che coincide con l'egoismo più totale, che

diviene vitalismo cieco, senza motivazioni né scopi.

Senilità

Il romanzo, scritto fra il 1892 e il 1897, uscito nel '98 prima sul quotidiano

«L'Indipendente» di Trieste, poi in volume, a spese dell'autore, presso l'editore

Vram, fu ripubblicato a Milano nel 1927, con una prefazione in cui Svevo

parlava dell'insuccesso di esso, che lo aveva indotto al silenzio venticinquennale,

e della fortuna che esso aveva incontrato, dopo la «scoperta» di Zeno, presso

molti critici, a cominciare da Montale.

Il romanzo ha una struttura meno radicalmente innovativa della Coscienza di

Zeno, un intreccio narrativo saldamente equilibrato, e, nel contempo, una

passione e una drammaticità, anche se contenute nella linea severa appresa dal

Naturalismo, che conquistano il lettore.

La sostanza autobiografica di partenza lo accomuna agli altri. Ma qui c'è

maggiore abbandono, almeno nelle pagine in cui viene rappresentata la vicenda

amorosa fra Angiolina ed Emilio, e il dibattito interno, la furia, la disperazione

del protagonista, quando si vede tradito. Angiolina, ci avverte Svevo, fu persona

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reale, di cui egli fu innamorato: una popolana per 1'«educazione» della quale fu

scritto il romanzo, i cui personaggi principali, avverte ancora l'autore, erano ben

noti a Trieste. Un «pezzo di vita», dunque, fra autobiografia e studio psicologico

di ascendenza naturalistica?

L'ipotesi sembrerebbe plausibile, se si pensa che l'autore avverte ancora che, nel

romanzo, «non ci sono propositi di filosofia, né le debolezze umane, quella del

Brentani in primo luogo, sono sublimate da teoremi» (dove l'ultima parola indica

evidentemente `dimostrazioni' o `esemplificazioni' filosofiche).

Ma Svevo sapeva bene, e lo ha scritto, che il romanziere, in genere, «tradiva» le

invenzioni del filosofo, o meglio, le «umanizzava»; le metteva cioè in diretto

contatto con la complessità e contraddittorietà, organica, si direbbe, della vita. Fra

lo Schopen hauer di Una vita e la psicoanalisi compresa e dibattuta della

Coscienza di Zeno, Senilità è il romanzo in cui meno si rivela l'impegno

concettuale; non è, come gli altri romanzo-dibattito d'idee, ma orientato verso la

pura narrazione. Ma tuttavia, esso sottende una visione del mondo complessa. Vi

si ritrova la rappresentazione d'una società dove i sentimenti vengono adulterati

(la bellezza di Angiolina, la sua condanna alla prostitzione, negata, peraltro, da

lei stessa, che ancora sceglie l'amore indipendentemente dall'interesse); dove

l'arte, la poesia, l'impegno dell'intellettuale appaiono scissi dalla realtà

dell'esistenza degli altri, ridotti a una sterile superbia e a una totale incapacità di

modificare l'esistente. Quanto all'amore, la patetica figura di Amalia, la donna

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giovane, della famiglia «bene», che non può viverlo come scelta, ma deve

attenderlo nel grigiore d'una squallida vita di faccende domestiche e lavori

all'uncinetto, diviene emblematica di una vita negata da un conformismo sociale

feroce.

Fin qui si potrebbe parlare di ascendenze naturalistiche o verístíche. Ma il fatto

nuovo è la sintassi narrativa e descrittiva del tutto originale.

Ha scritto il De benedetti che anche questo è un «romanzo d'analisí», certo

ricordando il significato che la parola ha nella psicoanalisi, e paragonandolo,

implicitamente, a La coscienza di Zeno. Esso, infatti, è molto spesso racconto del

riflettersi degli eventi nella coscienza di Emilio.

Egli si lascia, di fatto, portare dalla vita; è uno degli «inetti» tipici della narrativa

di Svevo, espressione della crisi del personaggio che riflette quella dell'uomo

contemporaneo: e il romanzo, di conseguenza, si struttura liberamente c quasi

senza cercare un ordine, sui modi del suo sentire e della sua psicologia, magari

attraverso espedienti narrativi quali il discorso indiretto libero, di cui certo Svevo

avrà parlato, più tardi, con l'amico Joyce, che ne fece uno degli strumenti della

sua poetica narrativa. Si vedano i passi qui trascelti: il paesaggio d'un incontro

d'amore si configura sulla coscienza di Emilio, che vive quell'incontro e, nel

contempo, lo sogna, come bacia la luna sul viso di Angiolína, fondendo la

bellezza di lei con quella, riscoperta in quell'attimo, del mondo. Persino la

straziante fine di Amalia è intercalata dal tormento d'amore del protagonista. Qui

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sale in primo piano la «coscienza» dei personaggi, che costruisce lo spazio e il

tempo delle vicende narrate, commisurati sui loro impeti e le loro angosce.

Nella prefazione del '27 alla seconda edizione del romanzo, Svevo ne difende il

titolo che appariva improprio al Valéry Larbaud, uno dei suoi critici più

favorevoli, pur ammettendo che anche a lui sembrava incongruo avere attribuito

alla senilità «un eccesso in amore» (la passione bruciante di Emilio).

E tuttavia pensava che quel titolo potesse «spiegare e scusare qualche cosa». La

«senilità», infatti, è l'inettitudine di Emilio (e di Amalia, la sua prima vittima) di

fronte alla vita, l'eccesso della vita interiore elevata a supremo e unico valore che

rende inadatti ad affrontare la realtà. Siamo sulla linea della Coscienza di Zeno.

La Coscienza di Zeno

Il romanzo interruppe il silenzio quasi venticinquennale che Svevo si era

imposto dopo l’insuccesso dei due precedenti.

Nacque nel’19, subito dopo l’entrata italiana in Trieste, da un attimo di forte

travolgente ispirazione (quindici giorni durò, secondo la moglie, la prima stesura,

poi distrutta), e fu pubblicato nel 1922, incontrando la stessa glaciale indifferenza

degli altri. Soltanto tre anni dopo venne il riconoscimento, via via consolidatosi

fino all'indicazione del romanzo come una delle opere più significative della

letteratura europea del Novecento.

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L'opera ha una sintassi originale: s'impernia su una trama narrativa che procede

per episodi senza curarsi della loro successione temporale, ma presentandoli

come momenti d'una coscienza che il protagonista viene assumendo lentamente;

o meglio, crede di assumere, anche se, alla fine, si ritrova fondamentalmente, e

inconfessatamente, in un'insuperabile perplessità esistenziale.

Il libro dovrebbe rappresentare la storia d'una guarigione; è, anzi, una sorta di

«compito» scritto, imposto dal dottor S., psicoanalista, che dovrebbe consentire al

paziente di vedere meglio in se stesso, essere il momento culminante d'una

terapia psicoanalitica, di cui conserva la libera successione concessa al fluire dei

ricordi e al flusso di coscienza. Si viene così articolando nei capitoli di cui si

presenta qui una rapida sintesi, imperniati ciascuno su un nucleo tematico che

ripercorre un momento della «malattia» del protagonista.

a) Il firmo. Il capitolo narra il nascere e l'esasperarsi in Zeno, fin dall'infanzia,

di questo vizio, di cui cerca poi invano di liberarsi, con propositi che culminano

infinite volte in un'«ultima sigaretta» collegata a date stabilite come importanti. Il

vizio, in realtà, riflette una volontà di rivalsa contro la pur mite figura paterna, ma

anche la volontà di trasgressione, che non sa, tuttavia, legarsi a una progettazione

coerente della propria vita: ed è questa la malattia. Zeno è un «giovin signore»

ozioso e annoiato, che cerca un'affermazione di sé a buon mercato e non sa, né

vuole, se non velleitariamente, affrancarsi dal conformismo della società in cui

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vive. Il capitolo si chiude con l'internamento volontario in una clinica per

disintossicarsi e la fuga da essa.

b) La morte di mio padre. Viene qui esaminato il difficile rapporto di Zeno

col padre, in cui egli non sa trovare, come pur vorrebbe, una guida, ma verifica

soltanto un'incomunicabilità e un'assenza. Il padre, una sera, si accinge a dirgli

qualcosa di importante (è il problema, che lo travaglia, con un presentimento

oscuro di morte imminente, di un'altra vita, che sia giustificazione di questa), ma,

come al solito, la confidenza non avviene, e durante la notte il padre è colpito da

un edema cerebrale. Seguono i lunghi giorni dell'agonia, in cui si manifesta il

contrasto insanabile fra il dottor Coprosich, che, secondo la deontologia medica,

tenta di prolungare la vita del paziente e Zeno, che teme che il padre possa

riprendere conoscenza e accorgersi del proprio stato, e ne desidera quindi la

rapida morte, pur pentendosi di questo desiderio, contrario alla morale

convenzionale, ma espressione, anche, d'un proprio oscuro egoismo. Poco prima

di morire il padre schiaffeggia Zeno: è un gesto inconsulto, che appare però al

figlio come una punizione irrevocabile: una condanna inscritta nel fondo oscuro

della propria vita.

c) La storia del mio matrimonio. Entrato in confidenza con Giovanni

Malfentí, un importante uomo d'affari, Zeno ne frequenta la famiglia (madre e

quattro figlie, tre in età da marito). Si innamora di Ada, la più bella, che però gli

preferisce un altro, Guido Speier. Dopo lunghe schermaglie si giunge al momento

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conclusivo. C'è una serata in casa Malfenti, nella quale, dopo varie vicende, Zeno

viene respinto da Ada, e si rivolge successivamente alle altre due, chiedendo loro

di sposarlo. Lo accetta soltanto la più brutta e da lui non amata, Augusta, che

riuscirà però a garantirgli un matrimonio felice.

Il lungo episodio attesta 1'inettitudine del protagonista, il suo lasciarsi

trascinare dalla vita, la fragilità d'una coscienza che non sa definirsi secondo

scelte responsabili e consapevoli.

d) La moglie e l'amante. Nonostante la felice vita matrimoniale, Zeno sente

l'esigenza di avere, secondo una prassi sociale codificata e conformistica,

un'amante, e la trova in una fanciulla povera, Carla.

Ne segue una relazione continuamente contrastata, in Zeno, dalla volontà di

non fare soffrire la moglie, alla quale costantemente ritorna come a una meta di

sanità e di purezza che, insieme, lo attirano e lo invitano alla trasgressione, come

sempre in lui, velleitaria. L'adulterio, insomma, coincide con la sua volontà di

non guarire, che è poi, a sua volta, un'oscura volontà di contrapporsi alla

normalità, di avere una vita ben sua, o meglio di essere superiore alla vita, alla

costrizione; una volontà, tuttavia, che, ancora una volta, non sa definirsi in un

progetto responsabile. L'avventura finisce: Carla sposa il suo maestro di canto,

Zeno diventa padre e ritorna così alla vita della famiglia.

e) Storia di un'associazione commerciale. Incapace di gestire il proprio

patrimonio, Zeno viene pregato da Guido di aiutarlo a mettere in piedi un'azienda,

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e accetta, per «bontà», come egli dice a se stesso, ma in realtà per un oscuro

desiderio di rivalsa, di superiorità nei confronti del fortunato rivale in amore che,

nel frattempo, ha sposato Ada. Anche Guido, peraltro, è un inetto, e incomincia,

per insipienza, a sperperare il suo patrimonio, mentre Zeno ha la soddisfazione di

essere incaricato da Ada di aiutare e proteggere il marito.

Questi, dopo un'ennesima perdita (s'è messo a giuocare in borsa) simula un

tentativo di suicidio, per indurre la moglie a sovvenzionarlo con la propria dote.

Più tardi, ritenterà il colpo astuto, ma, per un banale giuoco della sorte, si ucciderà

davvero. Svevo che, impegnato a salvarne, per quanto è possibile, il patrimonio,

non riesce a giungere in tempo al suo funerale, è accusato da Ada, divenuta nel

frattempo brutta e non più desiderabile per una malattia, di avere in tal modo

espresso la sua gelosia, il suo malanimo verso il marito.

Il famoso «triangolo» matrimoniale termina con tre sconfitte irreparabili, ma

anche con l'autoinganno dei tre protagonisti, incapaci di distinguere fra sogno e

realtà.

La psico-analisi. Il capitolo precedente aveva chiuso il racconto autobiografico

imposto dal medico a Zeno come cura. Ma ora, a distanza di sei mesi, il

protagonista lo riprende, prima di tutto per ribellarsi al medico, che non l'ha

guarito, come crede, ma ha aggravato la sua malattia costringendolo a riportare alla

coscienza la storia dei suoi fallimenti. Mentre mostra il suo disprezzo verso i

metodi e la sostanza della p9lcoanalisi, egli esalta la scrittura come metodo vero di

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autocoscienza e guarigione. A questo punto incontra la guerra (siamo nel maggio

del 1915), che affronterà da navigato uomo d'affari, impegnandosi in fortunate

speculazioni. È dunque «guarito», secondo la comune opinione, rientrato nel

conformismo, o meglio, nella malattia che ora scopre in tutti, nella società, nella

stessa guerra: che vede, anzi, come consustanziata alla vita.

Paradossalmente, la sua guarigione consiste nella coscienza di questa malattia

universale e inevitabile, che coincide con lo stesso sviluppo della civiltà. Forse un

giorno verrà creato un ordigno perfezionatissimo (la civiltà dell'uomo consiste

nella produzione di ordigni), e un uomo lo collocherà in un punto strategico,

provocando una deflagrazione immane, dopo la quale la terra, ritornata in forma di

nebulosa, «errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». la «sanità», dunque,

potrà coincidere soltanto con la scomparsa dell'uomo e della vita.

Protagonista del libro è, come dice il titolo, una coscienza, il suo difficile tentativo

di costruirsi nel flusso travolgente della vita. Ma è proprio il concetto tradizionale

di coscienza a entrare in crisi, e il romanzo è il racconto di questa crisi.

La coscienza non coincide né con una vocazione alla trascendenza né con una

consapevolezza fondata su valori universali e riconosciuti che siano il modello

intellettuale o morale su cui essa ossa costruirsi e verificarsi; è soltanto lo scatto al

quale l'intelligenza si sforza di rendere atto del flusso vitale, di comprenderlo, di

indirizzarlo, ma sempre rassegnata a propria precarietà, a una costituzionale

insufficienza.

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La psicoanalisi non è trattata molto bene nel libro: l'intelligenza, anzi, la

contesta, e ne definisce il valore come meramente funzionale e di per sé

insufficiente (ma nonostante certa aperta ironia, era poi una posizione corretta, che

la riconosceva come un metodo scientifico, da sottoporre, come tale, a una

continua verifica, e non come una filosofia); tuttavia Svevo, unico fra i letterari

italiani del suo tempo, ove si escluda Saba, che ha inteso il valore rivoluzionario e

demistificatore; in primo luogo nei confronti dell’idea tradizionale di coscienza cui

si alludeva prima: quella che la concepiva come ordinatrice consapevole e coerente

della vita, come sostanza spirituale autonoma di fronte a essa.

La psicoanalisi, con le teorie del rimosso, con la scoperta dell'inconscio

rivelato la presenza fondamentale di questo alla coscienza, la sua legge, la sua

dimensione esistenziale del tutto diversa dalla prospettiva razionalistica su cui si

fondava tradizionalmente l'idea dell'interiorità.

Con questa scoperta si allineano la «morte di Dio» o crisi radicale di valori

scoperta da Nietzsche, e la crisi della società capitalistica, il cui stesso «realismo»

o materialismo trionfante nei personaggi «forti» del romanzo, è messo in crisi

dalla guerra imperialistica che Zeno incontra alla fine.

II tramonto dell'antica ragion d'essere della coscienza porta con sé un

dissolversi del concetto stesso di realtà, come trama di rapporti razionali e

coerenti.

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In un universo senza direzioni, in una società dove l'erompere degli egoismi

individuali chiude ognuno nel cerchio invalicabile delle proprie rappresentazioni,

diviene precario il colloquio con l'altro, e anche quello con se stessi, per

l'impossibilità di trovare una direzione che organizzi le pulsioni incoerenti del

vivere, in una storia della persona. Zeno riesce parzialmente a risalire alle origini

della propria malattia soltanto quando dissolve il concetto di sanità e identifica la

malattia con la vita, dato che essa si conclude con la morte; ama, ma non sa

isolare adeguatamente l'oggetto del desiderio, indifferente per il puro impulso

vitale inconscio, per la schopenhaueriana volontà di viversi della vita universale

che portiamo in noi; altre volte odia chi crede di amare, e, comunque sia, non

riesce mai a chiarirsi completamente a se stesso; ogni pensiero, infatti, appare a

lui, e al suo autore, come una mistificazione, in quanto tenta di chiudere in una

torma statica il prepotente flusso vitale.

Soltanto l'egoismo riesce a trovare in lui un cammino rettilineo, nonostante

le oscillazioni di quella che viene tradizionalmente detta «coscienza», ossia

l'insieme di convenzioni più o meno sincere (ma mai sincere fino in fondo) della

società. D'altra parte il disordine e l' inautenticità di questa finiscono per ribadire

la falsità, o per lo meno, l'inadeguatezza dei valori costituiti davanti alla realtà

profonda dell'esistere; sanzionano il divorzio irreparabile fra coscienza e vita cui

è giunta la civiltà contemporanea, o quella che si può chiamare civiltà in senso

lato.

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L'ordigno (la macchina, l'ideologia, il complesso delle convenzioni sociali)

rischia ormai di proseguire fino in fondo l'opera di distruzione della natura, che

ha già incominciato con la sua lotta contro la libertà dell'inconscio o dell'istinto

vitale, non più incentrata, tuttavia, su principi universalmente condivisi. Mentre

tramuta la crisi storica della borghesia e della civiltà europea in una crisi radicale

dell'idea dell'uomo, Svevo intraprende coraggiosamente un cammino originale

nei meandri della coscienza (anche propria, dato l'autobiografismo intimo dei

personaggi dei suoi romanzi); invita a una verifica non soltanto della razionalità e

dei principi, ma anche delle rappresentazioni mentali e della psicologia: di

un'immagine dell'uomo che egli avvertiva usurata e bisognosa d'una

riedificazione.

Romanzo e antiromanzo

La mutata prospettiva esistenziale mette coerentemente in crisi la struttura

del romanzo, quale era stata tramandata dal Settecento e dall'Ottocento. Romanzo

d'idee e romanzo realistico erano stati concordi nel concepire la realtà come

qualcosa di organico e unitario, cui corrispondeva una struttura narrativa fondata

mimeticamente su quelle stesse qualità. La coscienza di Zeno prende invece atto

della struttura dissociata del mondo, la riflette nella propria, confondendo spazi e

tempi della narrazione, o meglio, fondendoli nella realtà senza tempo della

«coscienza»: uno spazio, a sua volta, d'illusione, perché aperto alle suggestioni

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d'una dimensione più profonda, l'inconscio, irriducibile a leggi intelligibili. Così

ogni episodio in cui viene suddiviso il libro non soltanto si presenta con una

propria individualità, disponendosi con gli altri in una relazione problematica, ma

confonde o non correla i tempi, nel senso che ciascuno ha un proprio tempo e un

proprio spazio, anela a una significazione propria; e anche dove si può stabilire

una correlazione (la storia di Zeno con Ada, affidata a due episodi diversi), non

delinea tuttavia una logica di svolgimento progressivo.

Ada rifiuta Zeno, poi ne chiede l'aiuto, infine lo respinge di nuovo

quand'egli ormai non l'ama più: o l'ama come un passato che la scrittura gli

ripropone privato del suo non senso di mera contingenza; non, comunque sia,

nella sua realtà attuale di donna sfiorita. E Zeno, in qualche modo sta al giuoco,

trascinato da una logica mondana falsa, cui tuttavia, come i personaggi

pirandelliani, non sa rinunciare.

Altra dimensione originale del romanzo è l'incapacità che hanno i personaggi di

comunicare, anche con se stessi; donde il loro consistere soltanto nel confronto

inutile, nella «chiacchiera» quotidiana.

Anche il personaggio principale è statico: si analizza, ma non giunge mai a

comprendersi veramente, a modificare la propria vita con scelte decise: è uomo

senza qualità (per parafrasare il titolo d'un grande romanzo dell'epoca, quello di

Musil) e senza storia; o, per meglio dire, senz'altra storia che non sia quella dello

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scorrere del tempo che lo conduce progressivamente a uno scadimento biologico

da cui anche la mente verrà influenzata.

In effetti, però, le sole modifiche di Zeno derivano dal «tempo», per dir così,

bloccato che il romanzo configura; dall'accumularsi di esperienze in qualche

modo ripetitive che sottolineano e rendono irrevocabile il suo misconoscimento

della propria «malattia», gliela fanno apparire come un fatto biologico e non

come espressione d'una particolare società e civiltà. In tal senso la Coscienza è il

rovesciamento del «romanzo di formazione» dal quale pure prende le mosse; è il

romanzo della formazione mancata e avvertita impossibile.

II romanzo è percorso da una vena umoristica sottile, che rivela anche il

sostanziale accettarsi del personaggio che dice io, dell'anti-eroe.

E ironica è anche la conclusione, soltanto apparentemente apocalittica, o, per lo

meno, tale non in senso drammatico. Fino alla conclusione il personaggio rifiuta

di porsi in conflitto con la vita, anela a un comporsi con le cose che mentre

giunge, a volte, a esiti comici, sottolinea l'amarezza e l'assenza di speranza dello

scrittore.

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Luigi Pirandello

Nacque presso Agrigento nel 1867 e morì nel 1936 a Roma, dopo aver

conosciuto una rinomanza mondiale, sanzionata, nel '34, dal Premio Nobel.

Basterà qui ricordare pochi eventi della sua vita: gli studi universitari e la

laurea a Bonn, in Germania (1891); lo sconvolgimento portato nella sua vita

dalla malattia mentale della moglie manifestatasi quando (1904) l'economia

della famiglia subì un tracollo, essendosi allagata la miniera di zolfo che ne

garantiva il benessere (solo nel '19 la donna sarà internata in casa di cura);

l'angoscia quando il figlio fu preso prigioniero, nella prima guerra mondiale.

Pirandello visse la vicenda d'una famiglia fra piccolo e medio-borghese,

con angustie e miserie, e le difficoltà implicite nello Stato post-unitario

italiano; quella d'un uomo del Sud, radicato da una parte nella sua Sicilia,

dall'altro anelante a una posizione di intellettuale di livello europeo.

La fama gli arrise relativamente tardi, con la pubblicazione, nel 1904, del

romanzo Il fu Mattia Pascal, e, in forma più decisa, e anche all'estero, a partire

all'incirca dagli anni venti, quando il pur contrastato successo dei suoi drammi

più importanti lo impose sui palcoscenici italiani ed europei. A partire dal

1925, anno in cui fondò il «Teatro dell'Arte» a Roma e ne assunse la direzione,

all'attività di drammaturgo accompagnò quella di regista, aiutato da Marta

Abba che gli fu affettuosa compagna e interpretò molti suoi drammi.

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Nel '24, dopo il delitto Matteotti, aderì al Fascismo. Fu un gesto in cui si

può vedere la rivolta, comune ad altri intellettuali, contro la degenerazione del

sistema parlamentare, e forse anche uno spirito di classe che gli proveniva

dalla condizione sociale della sua famiglia.

Certamente le idee che il suo teatro veniva allora sostenendo non erano

conformi al programmatico ottimismo fascista; d'altra parte, però, se è giusto

riconoscere a Pirandello una volontà demistificatrice nei confronti del

conformismo borghese, non si può affermare che egli proponesse

un'alternativa sul piano politico; questo, anzi, dopo la lucida diagnosi

dell'Italia post-unitaria compiuta nel romanzo I vecchi e i giovani, esce dal

campo dei suoi interessi.

Cronologicamente, Pirandello è vicino non tanto agli uomini della

«Voce», ma a un Pascoli, a un D'Annunzio: la sua formazione si svolge

nell'ultimo decennio dell'Ottocento fra rifiuto del Positivismo, Decadentismo,

e vaghe tensioni spiritualistiche.

La sua produzione può essere suddivisa in due periodi. Nel primo, che

giunge fino alla Grande Guerra, predomina l'interesse narrativo, dopo un

periodo di tirocinio poetico; nel secondo quello per il teatro.

Le raccolte poetiche furono: Mal giocondo (1889), Pasqua di Gea ('91),

Elegie renane ('95).

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Più insistita e importante fu la produzione narrativa di romanzi e novelle,

un impegno, quest'ultimo, che si potrebbe dire sistematico, per tutta la vita.

Delle 365 novelle ideate, Pirandello ne scrisse 225, più alcuni abbozzi, e da

esse trasse molte volte spunto per í suoi drammi. I romanzi vanno da l’Esclusa

(scritta nel 1893), a Il turno, Il fu Mattia Pascal (1904), I Vecchi e i

giovani;Quaderni di Serafino; Gubbio operatore;Suo marito Giustino Roncella

nato Boggiolo, , pubblicato dopo una gestazione di anni, che si colloca al

centro dell'attività drammaturgia più importante e può essere considerato come

una conclusione dell'itinerario ideologico dell'autore.

Fra il '16 e il '36 cade, invece, la composizione e rappresentazione di

quasi tutti i drammi, e la fervida attività di uomo di teatro cui s'è alluso. Fra le

opere teatrali, le più celebri rimasero Pensaci Giacomino!, Liolà, Questa sera si

recita a soggetto, Così è (se vi pare), Enrico IV, Sei personaggi in cerca

d'autore; che colpirono il pubblico per la nuova idea di teatro, non meno che

per la critica demistificatrice delle persuasioni comuni più intatte e

inattaccabili, provocando un'alternativa di discussioni vivaci, di cadute e di

trionfi. Pirandello godé d'una fama internazionale, perché offrì soluzioni

originalissime anche nel campo della rappresentazione scenica, del dialogo

drammatico, della concezione stessa del personaggio, imprimendo la propria

impronta in tutto il teatro mondiale contemporaneo, da O'Neíll ad Anouilh, da

Ionesco a Beckett.

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Fra i saggi e le conferenze vanno ricordati in primo luogo L'umorismo

(1908), dove Pirandello raccolse la materia delle sue lezioni universitarie e di

articoli pubblicati su riviste. Il saggio è la sua formulazione più matura di

estetica e, soprattutto, di poetica, e costituisce un'introduzione necessaria alle

opere più importanti. Fra gli altri saggi vanno ricordati Arte e Scienza (1908) e

gli interventi su Verga, Tozzi, D'Annunzio.

II pensiero

Pirandello appare costantemente inteso a porre drammatici interrogativi

alla vita; teorico d'un'ispirazione che egli chiama umorismo o sentimento del

contrario, e coincide con una visione scissa e conflittuale, o comunque sia,

paradossale della realtà. Converrà seguire questo suo dialogo-dibattito col

reale nel vivo delle singole opere, tenendo conto anche dell'atteggiamento

diversificato che gli imposero i generi letterari in cui calò la sua ispirazione:

poesia, novella, romanzo, teatro.

Si tenterà qui una prima sintesi generale e uno sguardo al significato

complessivo del suo messaggio. La critica recente (negli ultimi trent'anni

all'incirca) ha liberato l'opera pirandelliana dal peso d'una «filosofia» sin

troppo sistematica che alcuni interpreti coevi, a cominciare dal Tilgher (ma

Pirandello stette al giuoco), credettero di poter desumere da essa.

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É stato osservato che i grandi problemi dibattuti dal teatro (e dal romanzo)

pirandelliano - il nostro rapporto con gli altri e, prima, con noi stessi, con la

«maschera» che ciascuno di noi si impone, l'urto tra una verità che avvertiamo

nascosta (e indefinibile) nel nostro essere e la finzione della vita associata, e

così via non vengono considerati nella prospettiva d'una filosofia sistematica,

ma nei termini in cui li definisce la coscienza comune.

Nuovo è lo spirito di demistificazione, connesso a una tensione

intellettuale che si esprime soprattutto nella forma d'un dibattito tormentato, in

cui l'impegno razionale, consequenziario in forma persino rigida, si scontra

con la pietà del caso umano, la passione del protagonista che l'impersona e una

sofferenza che coinvolge l'autore, anch'egli implicato in una lotta sempre

problematica per la verità.

La produzione pirandelliana nasce in margine all'oggettivismo del

Verismo meridionale, ma se ne distacca per una visione dei contrasti del reale

spinta fino al paradosso e a un'ironia corrosiva. Piuttosto che a una pittura

d'ambienti, Pirandello è interessato al dramma dell'individuo, alla sua angoscia

di uomo solo, umiliato e offeso dalla società.

I suoi personaggi sono, in genere, piccoli borghesi dall'esistenza grama,

che oppongono al conformismo d'una società in sfacelo la brama di essere

qualcuno, di trovare un significato alla propria pena. Ma questa brama, sempre

insoddisfatta, si esaspera in gesti bizzarri, in una stravaganza allucinata che

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trapassa in forme di una più o meno lucida follia. Il rifiuto della vita

inautentica riflette la scoperta dell'impossibilità di vivere così, e, insieme, la

coscienza che, se assurda è la vita, lo è altrettanto ogni ribellione. La società,

respingendo nella follia ogni tentativo di anticonformismo del singolo, conferi -

sce a questa scoperta una sanzione definitiva: e tuttavia oltre la menzogna

della convivenza non c'è la libertà, ma il vuoto dell'anarchia, i1 nulla.

Pirandello è consapevole che tutto questo deriva da una frattura storica,

dalla disgregazione della civiltà romantica e borghese. Essa è resa evidente

dall'attuale società o banalmente materialistica o intesa a smascherare

1'egoismo e l'assenza (il ideali nell'enfasi astratta dell'eroismo superumano,

ultima, definitiva espressione d'un'etica falsa, fondata non sull'essere, ma

sull'apparire, e sulla volontà sopraffattrice del singolo.

La sua critica, dunque, non parte, com'era avvenuto, ad esempio, nelle

prime novelle dannunziane, da un'esasperazione di realismo brutale nella

descrizione di turbe fisiche o psichiche: da una crisi, cioè, vista nell'ambito

della «natura». Come avverte chiaramente il romanzo I vecchi e i giovani,

Pirandello individua una crisi storica precisa; la difficile realtà dell'Italia post-

risorgimentale, soprattutto nel Mezzogiorno. Ma la deiezione storica divi,-ne

poi incentivo ad approfondirla nel senso di ricercarvi quella umana (il sempre,

tramutando la storia in natura e destino. In tal senso non si può dare torto ai

critici secondo i quali la fermezza demistificatrice d'un falso costume di vita

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non approda in Pirandello alla costruzione, o per lo meno, al presentimento di

un altro e diverso che l'uomo può e deve costruire. Dietro la realtà attuale

alienata, Pirandello scopre l'alienazione di sempre; non indaga le cause sociali,

morali, ideologiche di una forma storica di incomunicabilità e di alienazione,

ma ne fa una tipica forma della condizione umana.

Il suo interesse si appunta così sul dibattersi dell'io, quando giunge a

coscienza del caos della realtà. In un universo e in una società inesplicabili,

tutto appare - e di fatto diventa - relativo, inessenziale; anche la persona,

ridotta a una molteplicità di atti e di gesti mutevoli, che è impossibile fissare in

una prospettiva unitaria.

Ciascuno è uno e centomila, e cioè, in pratica, nessuno. Invano cerchiamo

di sovrapporre al libero fluire della vita una «forma», una personalità che

servano a definirci, a possederci: questi fragili schemi vengono di continuo

travolti, e il nostro lo, la realtà quotidiana, sono soltanto un'apparenza

multicolore, diversa per ogni persona che ci guarda e anche per noi stessi nel

trascorrere del tempo, dello stesso istante; esse rivelano la loro reale

inconsistenza soprattutto quando il dolore, la morte o il giuoco cieco del caso

distruggono le illusioni e mettono a nudo la vita.

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Dall'ideologia al teatro

La scoperta del vuoto, del baratro continuamente in agguato sotto di noi è

la situazione centrale dei drammi pirandelliani. Ma va aggiunto che la scelta

dell'espressione teatrale non fu un fatto estrinseco: il teatro fu per Pirandello il

luogo e l'immagine della vita, la scena dove recitiamo, volta per volta,

centomila parti, simili ad attori.

Questa corrispondenza è evidente in uno dei più bei drammi di Pirandello,

i Sei personaggi in cerca d'autore, dove i personaggi, rifiutati dall'autore, gli

chiedono invano di proseguire nella sua opera creativa, di donar loro una vita

reale, piena; e, in genere, nella più importante novità strutturale del dramma

pirandelliano: il «teatro nel teatro» (o «metateatro»), che si propone

criticamente a se stesso durante lo stesso svolgimento scenico, che, cioè, si

interroga sulle ragioni e, in primo luogo, sulla realtà del proprio movimento. Il

metateatro corrisponde a quello che nell'uomo è il vedersi vivere che approda

alla coscienza d'un proprio contrasto insanabile con la vita, coincide, anzi, con

questa coscienza.

L'uomo pirandelliano

L'arte di Pirandello è caratterizzata e a volte inquinata dal prevalere del

gusto del paradosso, da un intellettualismo lucido ma capzioso. I suoi

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personaggi si dibattono, in una continua disputa con se stessi e con gli altri,

denunciano, con ironia ora appassionata ora gelida, l'artificiosità di tutte le

costruzioni spirituali, la vanità d'ogni più salda certezza. È un'ironia

dissolvente, perché, come si diceva, dietro i falsi rapporti sociali e morali non

c'è che l'incomprensibile caos primordiale.

Tuttavia, di là dalle negazioni dell'intelletto, Pirandello scopre nell'uomo

la nostalgia d'un'esistenza vera, naturale e pura. La tragedia dell'Uomo

pirandelliano è il suo essere per il nulla: il destino angoscioso di chi porta in sé

una scintilla divina (ma si tratta d'un Dio sconosciuto e inconoscibile), un'ansia

di verità e d'eternità, ma per vederla morire in un mondo futile d'apparenze.

I1 suo dramma consiste nel non riuscire a placarsi nell'insensibilità che è

propria delle cose, né, d'altra parte, a risalire dalla dispersione e dall'esilio del

relativo a una comunione con la realtà dell'essere, di cui il nostro protenderci,

nell'arte e nella vita, verso una -forma esprime il presentimento e il desiderio

vano. In questa angoscia Pirandello scopre la dignità vera dell'uomo, che lo

spinge a inchinarsi sulla sua pena con dolente pietà.

Pirandello resta così sospeso fra l'intuizione d'una natura pacificata con lo

spirito, d'uno «slancio vitale» armonico e grandioso, e un nichilismo totale

relativo alla vita dell'uomo, al problema dell'io. In questo si rivela legato alle

prospettive del Decadentismo e dell'irrazionalismo delle filosofie coeve.

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Decadentistica è anche la sua esaltazione dell'arte come creazione che

permane, nel fatale relativismo dell'io e delle cose.

Pirandello è un genio essenzialmente distruttore: rivelatore e indagatore

d'una crisi. La sua volontà di costruzione d'una vita diversa si rivela, infatti,

verso la fine della sua attività drammatica in opere come La nuova colonia,

miti sociali, piuttosto che formulazioni critiche: miti consapevoli di essere tali

e quindi della propria precarietà.

L'ispirazione profonda di Pirandello resta pertanto il contrasto, av -vertito

e sofferto come insanabile, fra esistere ed essere, fra prigionia nella banalità

quotidiana della vita associata e volontà di rapporti umani veri, fra il senso

della limitatezza dell'io e d'ansia di riconfondersi con la pienezza vitale della

natura. Questa tematica venne approfondita dalla cultura europea soprattutto

nel periodo fra le due guerre.

«L'umorismo»

Il saggio L'umorismo, in cui confluiscono saggi già pubblicati, frutto di

lezioni tenute all'Istituto Superiore di Magistero di Roma, uscì nel 1908 con la

dedica «Alla buon'anima di Mattia Pascal bibliotecario» (il romanzo è del

1904). Una seconda edizione, con l'aggiunta di parti polemiche contro un

critico severo del saggio, Benedetto Croce, apparve nel 1920, alla vigilia dei

capolavori del teatro pirandelliano.

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Nella prima parte dell'opera, che è una riflessione di poetica al centro

della produzione dell'autore, si definisce l'ispirazione umoristica, seguendone

le manifestazioni nella storia della letteratura italiana ed europea; nella

seconda, intitolata Essenza, carattere e materia dell’umorismo, si tende a

conferire a tale ispirazione un carattere privilegiato, presentandola come forma

tipica di poesia moderna.

L'umorismo viene definito come «sentimento del contrario»; una forma,

potremmo dire, del «comico» in cui s'insinua però la coscienza d'una

contraddizione intellettuale ed esistenziale irrimedíabile. Umoristici sono, ad

esempio, lo spettacolo d'una anziana signora imbellettata, che nasconde, dietro

la goffa apparenza, la volontà di piacere al marito assai più giovane: o il Renzo

manzoniano che dice «A questo mondo c'è giustizia finalmente», in una

società, come osserva amaramente e «umoristicamente» Manzoni, del tutto

pervertita.

L'umorismo nasce, insomma, col senso acuto e sofferto della

contraddizione fra apparenza e sostanza, fra volontà di essere autenticamente e

il limite costituito dall'incapacità di volere, d'una vera coerenza e sincerità con

se stessi e con gli altri: dai mille compromessi del vivere quotidiano, dalle

maschere in cui ci nascondiamo. Più in generale, esso viene pertanto a

coincidere con la coscienza sofferta di quello che, per Pirandello, è il

paradosso di fondo: il tentativo continuo e sempre insoddisfat to dell'uomo di

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chiudere in una «forma» statica, e perciò stesso tranquillizzante, l'inar restabile

e imprevedibile fluire della «vita», nell'uomo e nella realtà tutta. Questo

tentativo di «mascherare» tale contraddizione, per esorcizzarla, in un

«comico» di cui ci si possa sentire superiori, congiunta alla coscienza dello

scacco cui approda tale tentativo, conduce appunto al «sentimento del

contrario».

Quanto più procede il saggio, tanto più vi si delineano con chiarezza la

poetica e la concezione del mondo dell'autore; sì che esso si configura, alla

fine, come una chiave di lettura fondamentale dell'opera di Pirandello.

Non che, per questo, l'autore rinunci al tentativo d'una proposta ideologica

oggettiva, ché anzi, egli instaura un impegnato dialogo polemico col Croce,

mentre accetta l'idea dell'arte come libera creatività spirituale, autonoma nei

confronti della razionalità o della filosofia (donde la definizione

dell'umorismo, che è, poi, la poesia quale egli la concepisce, come sentimento

(crocianamente), anche se «del contrario»), Pirandello non rinuncia a un

contenuto e a un impegno intellettuale di fatto dominanti: a quel dibattito

razionale con se stessi e con gli altri, continuo, implacabile, che i suoi

personaggi affrontano fino al paradosso; consapevoli che esso li riduce all'assurdo,

a quella che gli altri avvertono come «pazzia», ma anche del fatto che, una volta

scoperto il nulla, il vuoto, 1' inautentico dell'esistenza, esso rimane l'unico modo

possibile per loro di «consistere», sia pure in un'individualità o «persona» sempre

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precaria. Questo scacco, d'altra parte, come suggeriscono le pagine conclusive del

saggio, coincide con la percezione profonda dell'illusione su cui si fondano la

nostra e 1'esistenza di tutti, avvertita dall'uomo «in certi momenti di silenzio

interiore», o di «vuoto strano», di «arresto del tempo e della vita».

Pirandello rifiuta, dunque, la fede idealistica nella razionalità del reale,

avvicinandosi piuttosto a una posizione esistenzialistica, che concepisce l'esistenza

umana come scissione, frattura insanabile, insidiata di continuo dall'assurdo. Alla

faticata saggezza del Croce, legata a ideali ottocenteschi e al classicismo e

umanesimo del Carducci, al suo ottimismo vitale costruttivo, Pirandello oppone la

crisi d'identità dell'uomo moderno, la sua coscienza inquieta. Egli rimase l'uomo

del paradosso, della ricerca non conclusa, che faceva discutere negli intervalli dei

suoi drammi, i «benpensanti», che li provocava, portando il teatro dalla scena alla

platea, e fuori. Egli proclamava che ciò che noi chiamiamo verità assoluta rischia

di essere impossibile; o per lo meno è tutta da verificare, ma partendo dai sempre,

a suo avviso, precari fondamenti dell'essere, del discorrere, del conoscere.

La rappresentazione umoristica

In questa parte del saggio Pirandello si sforza di definire quel particolar

modo di considerare il mondo che costituisce la materia e la ragione

dell'umorismo.

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I1 definizione si attiene al campo fenomenologico: non indica cause, ma

descrive i modi d'un manifestarsi. La difficoltà maggiore consiste nel

giustificare il carattere riflessivo che pare connaturato al tipo suddetto

d'espressione. Esso, infatti, non è un semplice avvertimento del contrario, come

il comico, ma un sentimento del contrario, ispirato da una riflessione, che, di per

sé, sembrerebbe dover rimanere estranea al processo di produzione artistica. Ma

essa, dice Pirandello, non è tanto una riflessione cosciente, quanto una

proiezione dell'attività fantastica: uno sdoppiamento che si ha nell'atto stesso

della concezione; è, insomma, un modo alternativo di vedere il mondo.

Nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non

resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio

in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza,

spassionandosene; ne scompone 1'immagine; da questa analisi però, da questa

scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e

che io difatti chiamo il sentimento del contrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli tinti, tutti unti non si sa di quale orribile

manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a

ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia

rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente,

arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del

contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella

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vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo,

ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata

così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé ]'amore del

marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima,

perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo

avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario

mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza

tra il comico e l'umoristico.

Abbiamo detto che, ordinariamente, nella concezione d'un'opera d'arte, la

riflessione è quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il

sentimento si rimira. Volendo seguitar quest' immagine, si potrebbe dire che, nella

concezione umoristica, la riflessione è, sì, come uno specchio, ma d'acqua, in cui la

fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza: il friggere

dell'acqua è il riso che suscita l'umorista: il vapore che n'esala è la fantasia spesso

un po' fumosa dell'opera umoristica.

Riassumendo: l'umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato

dalla speciale attività della riflessione che non si cela, che non diventa, come

ordinariamente nell'arte, una forma di sentimento, ma il suo contrario, pur

seguendo passo passo il sentimento come l'ombra segue il corpo. L'artista

ordinario bada al corpo solamente: l'umorista bada al corpo e all'ombra, e

talvolta più all'ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest'ombra, come

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essa ora s'allunghi ed ora s'intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto

non la calcola e non se ne cura.

I r o m a n z i d i P i r a n d e l l o

L'esclusa, scritto nel '93, uscito a puntate nel 1901 su «La Tribuna» e poi

in volume nel 1908, fu il primo romanzo pubblicato da Pirandello. Sullo

sfondo d'una società gravata da un pesante conformismo e da pregiudizi

inveterati si svolge la vicenda della protagonista, Marta che, accusata,

innocente, di tradimento dal marito e scacciata, si vede respingere dalla società

ogni possibilità di lavoro, di libera sistemazione. Ma gli stessi pregiudizi che

la condannano la «salvano». Dopo che ella avrà veramente avuto una relazione

con un altro, il marito, per opportunismo, la riprende con sé: esclusa mentre

era innocente, non lo sarà più ora che potrebbe essere considerata, secondo la

morale comune, «colpevole».

Nel 1902 uscì Il turno (scritto nel '92) di impegno minore e risolto in

forme comico-macchiettistiche. Per avere in moglie la bella Stellina, Pepè

dovrà aspettare il suo turno, che verrà dopo la separazione o la morte di altri

due legíttimi mariti.

Queste due prime prove sono ancora incerte; vicine al Verismo, anche se

la singolarità dei casi, sottolineati, soprattutto nel primo romanzo, da un

umorismo amaro, e la visione, in entrambi, della realtà quotidiana e della

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morale comune portate all'assurdo dallo stesso conformismo su cui si fondano,

fanno presentire il Pirandello maggiore.

L'autore giunge a uno dei vertici della propria attività narrativa con il

primo capolavoro, Il fu Mattia Pascal (1904), che tratteremo a parte, come un

discorso a parte verrà dedicato a Quaderni di Serafino Gubbio operatore

(1915/16-1925) e a Uno, nessuno e centomila (1925 a puntate; 1926 in volume).

Restano due romanzi non privi d'importanza, Suo marito (1911), divenuto poi

Giustino Roncella nato Boggrolo (così intitolato nell'edizione postuma curata

dal figlio Stefano nel 1941) e I vecchi e i giovani (1913). Nel primo si parla del

difficile rapporto fra Giustino, che vive come ombra della moglie Silvia,

scrittrice di successo, cercando in ogni modo di amministrarne la fama a

rischio di rovinarne la vita, e Silvia, che tenta invano di essere se stessa, fra il

conformismo del marito e quello del mondo. Nel secondo, che è uno dei

capolavori della letteratura meridionalistica, è presentata la difficile vicenda

del Mezzogiorno fra crollo del Regno Borbonico e nascita faticosa, spesso

contraddittoria, del nuovo stato unitario. L'azione si svolge in Sicilia, al tempo

dei Fasci siciliani, e si conclude con la scorata consapevolezza dei «giovani»

dell'assenza di ideali, d'ogni guida spirituale.

« I I f u M a t t i a P a s c a l »

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Mattia Pascal, che dopo una vita scioperata ha sposato Romílda, è costretto a

vivere in casa della suocera, donna difficile, e, orinai rovinato

economicamente, a fare il bibliotecario nell'assai poco frequentata biblioteca

del paese. Stanco d'una vita grama, fugge di casa e giunge a Montecarlo, dove

una forte vincita al giuoco lo pone in condizione di vivere agiatamente per il

resto dei suoi giorni. Ma mentre sta per ritornare a casa legge su un giornale

che al suo paese, è stato ritrovato il cadavere d'un suicida riconosciuto, da sua

moglie e da sua suocera, come il suo. Morto per lo stato civile, Mattia assume

un altro nome, Adriano Meis, si dedica ai viaggi, fino a che, desiderando un

momento di tranquillità, si stabilisce a Roma presso una pensione privata. Ma

qui il caso comincia a giocargli le sue beffe: il non avere più un'identità

pubblica non gli consente di sposare Adriana, di cui s'è innamorato, né di

denunciare chi lo deruba, né di sostenere in duello il proprio onore: egli, cioè,

si rende conto di non esistere più socialmente. Simula pertanto un suicidio, e

scompare da Roma, per ritornare a Miragno, alla vita di prima. Ma qui scopre

che Romilda si è sposata e ha avuto una bambina: che il suo ritorno alla vita è

divenuto per tutti un imprevisto insopportabile, perché minaccia di far crollare

equilibri ricostruiti. Decide pertanto di lasciare la moglie alla sua nuova

famiglia, non fa valere il suo diritto di rientrare in società, ritorna nella

biblioteca, va ogni giorno a portare fiori sulla propria tomba.

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La vicenda è, come si vede, largamente paradossale; tanto che l'autore si

preoccupò di offrire la documentazione di casi analoghi realmente avvenuti,

concludendo che la vita è capace di inverosimiglianze e che a volte «copia»

dall'arte i suoi «romanzi». Ma importa soprattutto osservare, come ha fatto un

critico, che si ha qui un rovesciamento della convenzione riconosciuta dal

Verismo; che, cioè, quanto veniva narrato fosse - o potesse essere - vero. Nel

romanzo, infatti, si narra come vera una vicenda che fa di tutto per parere falsa

o almeno poco verosimile. Si può aggiungere che questo procedimento tende a

confondere i confini fra vero e falso, fra la realtà e l'illusione: a destabi lizzare,

insomma, le forme consuete di percezione e di giudizio con cui crediamo di

conoscere la realtà, anzi di costruirla. La stessa insicurezza riguarda quella che

appare una certezza immediata: l'unità e coerenza della propria persona. I casi

del romanzo mettono continuamente in crisi l'identità del protagonista, che,

prima, la smarrisce in una morte presunta, poi sceglie questa condizione di

non-essere imposta dal caso, poi non riesce più a rientrare nella realtà. Esiste,

alla fine, ma in una dimensione che ignora il progetto e la speranza; e,

soprattutto, esiste in quanto è stato (Il fu Mattia Pascal) una «forma» che gli

altri gli imposero un tempo. Paradossalmente, la sua liberazione avvie ne

proprio quando egli rifiuta questa forma, cerca dì essere padrone della sua vita;

ma per riconoscere che la libertà dalla menzogna sociale confina col non

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essere, con 1'«identità sospesa», com'è stato detto, con cui si conclude la sua

avventura.

Con questo romanzo Pirandello instaura il proprio mondo più originale, quello

che giunse al culmine più tardi nei drammi; e «inventa» la crisi del

personaggio, collocandosi nella letteratura europea della crisi della personalità

che contraddistingue opere fondamentali del Novecento, da Svevo a Joyce a

Kafca a Musil. Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa l'altro, è intitolato

un altro romanzo pirandelliano che sembra essere il prosieguo del Pascal e

vanno letti l'uno in controluce dell'altro (si tralasciano qui alcuni passi dove il

protagonista parla della biblioteca abbandonata e caotica nella quale vive, con la

compagnia di don Egidio Pellegrinotto, occupato nell'impossibile lavoro di

mettervi ordine). II tema è l'identità sospesa d'un personaggio che non può più

avere la certezza elementare di dire che si chiama Mattia Pascal, ma che

continua a dire io, a essere consapevole di avere avuto una storia, che anzi, si

accinge, come controvoglia e spinto da don Peliegrinotto, a narrarla,

consapevole della dissolvenza perpetua che è il limbo in cui vive: in un presente

senza tempo, senza speranza e senza rimpianti. Fatalità? O non piuttosto libera

scelta, dopo che la doppia morte - quella infertagli dal Caso e quella voluta - gli

hanno consentito di «vedersi vivere», di divenir consapevole del continuo

penetrare del nulla nell'esistenza? Certo quei libri abbandonati gli dicono

qualcosa: anche la storia invecchia, finisce nel tanfo, nella muffa, nel

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vecchiume. Ma questo non dovrebbe comportare anche la fitte, la morte dei

romanzo?

Il romanzo incomincia, dunque, negandosi, parallelamente alla negazione dell'io

e della vita (o storia) e alla negazione del personaggio (morto non una, ma due

volte). La scrittura si disloca su un'assenza, non può essere che testimonianza di

questa. Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era

questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta

qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al

punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle

spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:

- Io mi chiamo

Mattia Pascal. -

Grazie, caro. Questo

lo so. - E ti par

poco?

Il teatro

L'opera teatrale di Pirandello cominciò a essere raccolta, dal 1918, in volumi col

titolo «Maschere nude», rimasto poi definitivo. Se ne dà qui l'elenco completo,

secondo l'anno della prima rappresentazione delle singole commedie, avvertendo

che qualche volta la pubblicazione precede l'esecuzione teatrale. La data prescelta,

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tuttavia, è quella che segna la divulgazione effettiva dei testi, ossia l'impatto, a

volte negativo, quasi sempre caratterizzato da discussioni, e, comunque sia, non

pacifico, col pubblico. Questo dibattito era, d'altronde, voluto e implicito nei testi.

Se, infatti, Pirandello ha, da un lato, applicato sovente e sistematicamente l'artificio

del «teatro nel teatro», ossia del teatro che discute se stesso, proprio sulla scena,

nella struttura stessa dei singoli testi, dall'altro ha abolito la distanza non soltanto

fra palcoscenico e platea (cosa, appunto, necessaria alla suddetta discussione), ma

fra palcoscenico e vita. Nascono di qui le innovazioni strutturali - si potrebbe

anche chiamarle sceniche - che hanno profondamente influito sul teatro mondiale

post-pirandelliano. Si pensi, ad esempio, a una situazione teatralmente «esplosiva»

come quella dei Sei personaggi: creature d'una mente lasciate incompiute, e

tuttavia vive più degli attori fra cui piovono. Questi tentano di rappresentare il loro

dramma, ma vengono ripudiati dal «personaggi», che infine rivivono la loro storia

di sempre, in un palcoscenico che si confonde con la vita, ma con quella dell'arte,

più vera della vita. Così, d'improvviso balza fuori dal nulla Madama Pace, un

personaggio evocato dalla mente degli altri. E tuttavia c'è un dolore vero, che

giunge all'angoscia, un bambino che si suicida. Vero? Falso? Non lo sappiamo,

perché cala la tela. La paradossalítà delle situazioni si riflette spesso in quella delle

soluzioni sceniche (si leggano, per esempio, I Giganti della montagna), preparate

dalle splendide didascalie teatrali di Pirandello. Ma dalla violenza che i casi

esercitano su quello che chiamiamo comunemente il reale, nascerà, in seguito, a

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livello mondiale, il teatro dell'assurdo. Pirandello ha, cioè, denunciato e spinto a tal

punto all'assurdo il mondo (e il giuoco) dell'apparenza, da infrangere ogni forma di

rappresentazione teatrale di tipo realistico tradizionale. Quando vediamo, per

esempio, in Strano interludio di O'Neill, i personaggi che, sulla scena, si im-

mobilizzano, a tratti, per esprimere, con voce assente, i loro intimi pensieri, quelli

che non comunicano agli altri, non possiamo non pensare a Pirandello. E lo stesso

vale per molti dei procedimenti più arditi del teatro contemporaneo. Comunque sia,

ancora negli anni quaranta, una rappresentazione di un dramma pirandelliano era

contraddistinta da accese dispute, negli intervalli e alla fine, fra gli spettatori; la

rappresentazione durava di là da se stessa, entrava nella comune vicenda dei giorni.

Il pubblico, insomma, reagiva su se stesso, diveniva attore, da spettatore, era

chiamato a prendere posizione. L'esecuzione dei drammi pirandelliani tendeva

dunque a configurarsi come un evento, che la semplice lettura dei testi può soltanto

in parte riprodurre. Per questa ragione si preferisce pausare l'elenco che segue,

come si diceva, sulla cronologia teatrale.

1910: La morsa (scritta nel 1898), Il dovere del medico, Cecè; 1915: La

ragione degli altri (col titolo Se non così): 1916: Pensaci Giacornino!, Liólà (in

dialetto siciliano, in italiano nel '28); 1917: Così o (.se vi pare), Il piacere

dell'onestà, II berretto a sonagli, La giara; 1918: Il gioco delle parti, Ma non è

una cosa seria, La paiente; 1919: Tutto per bene, Come prima, 1921: Sei

personaggi in cerca d'autore; 1922: Enrico IV, All'uscita; 1923: L'altro figlio,

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L'uomo dal fiore ili bocca; 1924: Ciascuno a suo modo;1925: Sagra del Signore

della nave; 1928: La nuova colonia, Lazzaro; 1929; Questa sera si recita a

soggetto, 1932; altre.

L'uomo dal fiore in bocca

Questo atto unico (1923) corrisponde strettamente a una novella, che riprodurremo,

in parte, alla fine. È un colloquio fra un uomo che si sa condannato a morire fra

breve, e per questo medita sulla vita con urgenza appassionata, e uno come tanti,

che vive un'esistenza convenzionale, senza porsi il problema della morte. Sul piano

formale sarebbe più esatto parlare di monologo; tuttavia l'Avventore, con le sue

poche battute, coi suoi discorsi di sempre, il suo smarrimento davanti a ogni

minimo accenno che incrini le sue futili certezze, contribuisce a creare uno spazio

e un tempo, teatrali ed esistenziali insieme. Le sue battute, infatti, scandiscono il

discorso lucido e paradossale, nella sua disperazione, dell'Uomo dal fiore in bocca,

ne rivelano, loro malgrado, per contrasto, la dimensione inventiva e

anticonformistica.

Altri elementi teatrali contribuiscono a questo effetto: le didascalie, in primo

luogo, che spaziano il discorso su misure sceniche: lo squallido caffè, spontaneo

emblema della transitoríetà del vivere (è luogo di passaggio, come la stazione

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vicina), e anche della miseria del quotidiano, con la sua musichetta che ormai

nessuno ascolta. Si aggiungano l'ora di notte, emblema di tenebra e solitudine, e il

suono del mandolino che è anche voce della vita affascinante e assurda. E si

notino, infine, le pause, che scandiscono, come gesti drammatici, la meditazione

sofferta del protagonista. Egli, attraverso la dura lezione della malattia mortale, ha

compreso la vanità assoluta della vita, delle sue convenzioni, e sente tuttavia che,

fuori del relativismo di queste forme sociali, c'è soltanto il vuoto, il nulla della

morte, e, prima, una solitudine senza conforto.

1. II testo teatrale

Si vedranno in fonda gli alberi d'un viale, con le lampade elettriche che traspari-

ranno di tra le foglie, Ai due lati, le ultime case di una via che immette in quel

viale. Nelle case a sinistra sarà un misero Caffè notturno con tavolini e seggiole

sul marciapiedi. Davanti alle case di destra, un lampione acceso. Allo spigolo

dell'ultima casa a sinistra, che farà cantone sul viale, un fanale anch'esso accesa.

Sarà passata da poco la mezzanotte. S'udrà da lontano il suono titillante d'un

mandolino.

Al levarsi della tela, l'Uomo dal fiore in bocca, seduto a uno dei tavolini,

osserverà a lungo in silenzio l'Avventore pacifico che, al tavolino accanto,

succhierà con un cannuccio di paglia uno sciroppo di menta.'

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L'uomo dal fiore. Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è...' Ha perduto

il treno?

L'avventare. Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare

davanti.

L'uomo dal fiore. Poteva corrergli dietro!

L'avventare. Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti

quegli impicci di pacchi, pacchetti, pacchettíni... Più carico d'un somaro! Ma le

donne - commissioni... commissioni... - non la finiscono più! Tre minuti, creda,

appena sceso di vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita; due

pacchetti per ogni dito.

L'uomo dal fiore. Doveva esser bello! Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati

nella vettura.

L'avventore. E mia moglie? Ah sì! E le mie fígliuole? E tutte le loro amiche?

L'uomo dal fiore. Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.

L'avventore. Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeg-

giatura!

L'uomo dal fiore. Ma sì che lo so. Appunto perché lo so.

Tre note sono qui particolarmente incisive: il caffè squallido, immagine della vita

di sempre, come il signore che succhia la sua menta; il mandolino lontano,

trillare, cioè carezzevole, simbolo del fascino che esercita l'assurda vita; e il

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silenzio, sia quello impassibile delle cose, sia quello, reso in un'ansia febbrile, del

protagonista.

L'Avventore impersona la banalità della vita quotidiana vissuta distrattamente

dagli uomini comuni, tuttavia guardata con nostalgia dall' uomo che si sa

condannato a morire.

Le pause che interrompono frequente mente il discorso dell' uomo sono i

momenti in cui più intenso riaffiora il pensiero della morte, che egli tenta di

obliare in quel suo conversare vertiginoso, nel suo attaccarsi agli aspetti più

insignificanti dell' esistenza.

Sei personaggi in cerca d'autore

La commedia, scritta, rappresentata e pubblicata nel 192 1 e uscita poi in

edizione definitiva un'importante prefazione nel 1925, è uno dei capolavori del

teatro pirandelliano, anche dal punto di vista tecnico-strutturale. per il rifiuto

polemico della scena convenzionale e 1'eliminazione dello spazio teatrale

come spazio distinto da quello della realtà.

La trama è la seguente: Una compagnia di attori sta provando Il gioco delle

parti di Pirandello; irrompono d'improvviso sul palcoscenico sei persone, Sono

in realtà, dei personaggi, nati dalla mente dell’autore che dopo averli creati, li

ha rifiutati. cioè, non ha dato loro ragion d’essere ossia quella pienezza

d'esistenza che si potrebbe realizzare soltanto nella struttura organica d'un

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dramma concluso, in cui le loro singole vicende e la loro stessa interiorità

potrebbero acquistare, nella reciproca correlazione, significato e valore

universali. Per questo i personaggi chiedono ora di rivivere davanti al

Capocomico ed agli attori la loro storia, nella speranza che egli prenda il posto

dell'autore e li fissi per sempre in una forma definitiva. Appassionatamente

presentano ciascuno il proprio dramma, soverchiandosi a vicenda, e cercando

ciascuno di svolgerlo secondo il proprio punto di vista rigidamente soggettivo,

chiusi a ogni possibilità di dialogo vero fra loro, di incontro, di reciproca

comprensione; e in tal modo riflettono in forma surreale e affascinante il tema

di fondo del teatro e, soprattutto, della concezione pirandelliana della vita.

La loro storia di desolata miseria morale si viene tuttavia delineando ed

esasperando in alcune scene e gesti conclusivi. Il Padre induce la Madre ad

andarsene con un altro uomo poiché aveva avuto anche un figlio con costui,

capace, secondo la sua psicologia tortuosa, di comprenderla e amarla meglio di

lui. Dalla nuova unione nascono tre figli: la figliastra dunque , il Ragazzo, la

bambina Anni dopo, il Padre troverà la figliastra ancora in lutto per la morte

del proprio padre, in una casa d'appuntamenti, e solo l'intervento della Madre

troncherà sul nascere lo squallido rapporto. Si ricostituisce così la famiglia, su

una base di reciproco rancore, di vergogna e d'incomprensione, che condurrà

alla tragedia: la Bambina, lasciata incustodita durante una delle tante scenate

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domestiche, annega in una vasca, il ragazzo si uccide, non potendo vivere in

quella perversa atmosfera d'odio.

Terminata la rappresentazione, che è stata, in realtà, l'unico modo di vivere a

loro concesso, sempre uguale e immutabile come un destino, i personaggi se ne

vanno, mentre gli attori fuggono terrorizzati per la morte dei due ragazzi dopo

aver tentato precedentemente, invano di rappresentare la loro parte, e il

Capocomico riconosce la propria incapacità di realizzare il dramma.

Due temi si intrecciano inscindibilmente nella commedia: quello realistico (la

vicenda di passione e incomprensione, di alienazione e incomunicabilità che

s'è vista) e quello simbolico, relativo all'arcano meccanismo della creazione

artistica. Come avverte l'autore, í sei personaggi esprimono infatti il più

profondo travaglio del suo spirito e della sua ispirazione, e cioè «l'inganno

della comprensione reciproca fondato irrîmediabilmente sulla vuota astrazione

delle parole; la molteplice personalità d'ognuno secondo tutte le possibilità

d'essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto imma-

nente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa

immutabile»; ed esprimono anche, nel loro drammatico dibattersi, il «caos

organico e naturale» su cui deve affermarsi la volontà ordinatrice dell'artist a,

mezzo di cui si serve la natura per continuare più alta la sua opera di

creazione, per passare dal disordine della contingenza alla forma pura e

assoluta dell'arte. I protagonisti anelano, appunto, a essere forma, a essere,

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cioè, fissi, immutabili, eterni come tutti i personaggi poetici, più reali, in

sostanza, degli uomini, che, invece, hanno una forma sempre parziale e

provvisoria, di continuo contraddetta e dissolta dal flusso vitale che si vive in

loro, cieco e inesplicabile.

Ma il fallimento dei sei personaggi riconduce il dramma non tanto alla

celebrazione dell'assoluto dell'arte quanto all'espressione tragica della

condizione umana, dell'impossibilità della persona di essere autenticamente.

Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) Il nuovo teatro

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2) La novella come scorcio di vita

3) L’Inetto.

4) Cosa si intende per surreale.

5) Cosa si intende per coscienza.

VII UNITA’: Conflitto umano e letteratura.

Prerequisiti:

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- Conoscenza del tessuto storico politico riguardante l’Italia del primo

dopoguerra.

- Conoscenza degli aspetti letterari peculiari della prima metà del Novecento.

- Conoscenza delle nuove tecniche di trasmissione e comunicazione sia nel

campo letterario che sociale.

Obiettivi

- Acquisizione del nuovo concetto di uomo che si confronta con il proprio

destino.

- Acquisizione del concetto di precarietà della vita.

- Acquisizione della tematica della morte come condizione reale e convivente

con la vita stessa dell’uomo.

Si studieranno:

- Prospetto storico della civiltà italiana tra le due guerre mondiali.

- Ungaretti.

- Montale.

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Giuseppe Ungaretti

Nato ad Alessandria d'Egitto, da genitori lucchesi nel 1888, compì gli studi alla

Sorbona, a Parigi, ove si educò nel clima del Simbolismo francese e della

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filosofia intuizionistica di Bergson. Ritornato in Italia, entrò in contatto con

«Lacerba», dove pubblicò alcune delle sue prime poesie, e con «La Voce»; e fu

poi interventista e volontario nella prima guerra mondiale. Visse ancora a

Parigi, come corrispondente del «Popolo d'Italia», il giornale fondato da

Mussolini, e addetto all'ufficio stampa dell'Ambasciata italiana, quindi, nel

1921, si trasferì a Roma dove lavorò presso il Ministero degli esteri, e fu amico

di Mussolini che, nel '23, scrisse la prefazione alla seconda edizione d'un suo

libro di versi, Il porto sepolto. Nel '30 accettò la cattedra di Lingua e letteratura

italiana nell'Università di San Paolo del Brasile, dove perdette il figlio

Antonietto, accoratamente rievocato nella raccolta Il dolore. Nel '42, rientrato in

Italia, ottenne «per chiara fama» la cattedra di Letteratura italiana

contemporanea all'Università di Roma, e la conservò, dopo avere subito,

all'indomani della Liberazione, un procedimento di epurazione per i suoi

rapporti col Fascismo, fino al collocamento fuori ruolo per limiti d'età nel 'S8.

Morì a Milano nel '70.

La sua prima raccolta, Il porto sepolto (1916), confluita poi, con l'aggiunta di

altre liriche, in Allegria di naufragi (1919), lo rivelò poeta nuovo, iniziatore

della «poesia pura». Le due raccolte, con correzioni e nuove liriche (altre,

invece, ne verranno tolte e confluiranno, più tardi, nelle Poesie disperse) sono il

fondamento del libro L'allegria (1931). Seguirono Sentimento del tempo (1933 ),

Il dolore (1947), La terra promessa (1950), Un grido e paesaggi (1952), Il

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taccuino del vecchio (19G0), Dialogo (1958). Notevoli furono le traduzioni da

Gòngora, Mallarmé, Shakespeare, Racine, e altri; e gli interventi in prosa, fra i

quali ricordiamo i volumi Il povero nella città (1949) e Il deserto e dopo (1951).

Con L'allegria e il Sentimento del tempo Ungaretti risolveva in forma

originalissima i tentativi di rinnovamento delle poetiche del primo Novecento e

diventava uno dei riconosciuti maestri della poesia contemporanea.

Ungaretti concepisce la poesia come conoscenza della realtà autentica,

ritrovamento d'una primigenia purezza e innocenza dell'io. Per attingerla il

poeta aderisce alla crisi del suo tempo, alla irrequietezza problematica di esso,

se ne fa sentimento e testimonianza, per poi risalire a un'intuizione totale della

condizione umana. Ma, conformemente alla persuasione decadentistica

dell'impossibilità di raggiungere la verità per via razionale e la conseguente

rinuncia a ogni dibattito filosofico o d'idee, tenta di cogliere per via analogica le

intuizioni germinali dell'essere e le esprime in un linguaggio allusivi , dove la

parola singola, liberata da ogni falsificazione indotta dal convenzionalismo o

dall'abitudine diventa espressione d'una condizione elementare della persona. In

tal senso Ungaretti intitolò il complesso della sua opera «Vita di un uomo»,

alludendo a un' autobiografia non soggettiva o episodica, ma esemplare: a

un'idea fondamentale dell'uomo rivelata dalla testimonianza poetica.

Fu dunque, la sua, una poetica della parola, scavata nell'interiorità; d'una parola

vita nel senso che nel ritrovarla assume, per lui, il valore d'una presa di

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coscienza assoluta di verità conseguita attraverso un'illuminazione che attingeva

ogni volta la realtà profonda dell'io. La poesia diventava fondazione privilegiata

dell'umano.

Il configurarsi di questo messaggio doveva colloborare una risillabazione del

verso, isolando la parola e approfondendone la misura ritmica, fonica,

semantica. Attraverso, infatti, l'analogia, d'origine simbolistica - una

similitudine privata d'ogni referente logico-concettuale, un coesistere di cose

apparentemente lontane, ma unificate nella coerenza unitaria che le lega alla

coscienza dell'uomo - il poeta, per Ungaretti, ricrea una fase originaria del

linguaggio: quel dare un nome alle cose che fondò la presenza umana nel

mondo.

Questa è la primitività o «innocenza» che la poesia ungarettiana intende

conseguire, con una creazione di miti esemplari. «S'è cercato - disse il poeta

parlando della sua opera - di scegliere quella analogia che fosse il più possibile

illuminazione favolosa; nell'ordine della psicologia s'è dato soffio a quella

sfumatura propensa a parere fantasma o mito; nell'ordine visivo s'è cercato di

scoprire la combinazione d'oggetti che meglio evocasse una divinazione

metafisica». Il poeta ha, cioè, cercato, di là dalla crisi della civiltà

contemporanea, una presenza più autentica e consapevole dell'uomo nel mondo.

Lo spiritualismo di Ungaretti, avverso alla false mitologie superumanistiche ed

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estetizzanti, si è infine risolto in un approdo religioso, implicito già all'inizio nel

suo rispetto dell'uomo e della sua pena.

Svolgimenti della poesia ungarettiana

Dopo avere fissato alcune direttive di fondo della poetica di Ungaretti, converrà

soffermarsi brevemente sul fatto che il suo discorso venne via via modificandosi

dall'Allegria al Sentimento del tempo al Dolore alla Terra promessa, nella

ricerca, sempre, d'una testimonianza integrale.

La ricerca dell'autenticità assoluta della parola provocò un'ampia messe di

varianti delle singole liriche nelle successive edizioni delle raccolte. Vi furono

anche poesie non ripubblicate, che, nel 1945, un critico, Giuseppe De Robertis

raccolse, insieme con quelle apparse su riviste e mai in volume, col titolo di

Poesie disperse.

I momenti più importanti - anche sul piano storico-letterario - del cammino

ungarettiano possono essere individuati nella formazione a Parigi, nella prima

collaborazione alla rivista «Lacerba» (1915), poi nella pubblicazione del Porto

sepolto, propiziato anche dalla fondamentale esperienza della guerra, e, infine,

nell'abbandono dello sperimentalismo d'avanguardia che coincide col

Sentimento del tempo.

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Si cercherà di seguire questa evoluzione nella presentazione delle singole

raccolte. Qui ci soffermiamo sugli inizi della sperimentazione ungarettiana,

antecedente al Porto sepolto e alla complessa vicenda editoriale dell'Allegria.

Fondamentale, nella formazione ungarettiana, fu il primo soggiorno parigino, a

ridosso della prima guerra mondiale, con la conoscenza dei testi simbolisti e

postsimbolisti, 1'amicizia con Apollinaire e pittori d'avanguardia quali Picasso,

Brayue, De Chirico,Boccioni. A Parigi Ungaretti incontrò anche letterati

italiani, da Marinetti a Soffici a Palazzeschí a Papini, e da questo incontro

maturò la sua collaborazione a «Lacerba»: le poesie pubblicate nel 1915, nelle

quali egli fa, si può dire, í conti con Palazzeschi e col Futurismo, accogliendone

istanze e suggestioni, ma con uno svolgimento sin da allora originale, evidente

nonostante il forte carattere sperimentale di queste liriche e certi loro accenti

parodistici.

Dopo i1 primo, fondamentale approdo del Porto sepolto, lo sperimentalismo

ungarettiano è rivolto alla correzione dei propri testi, a una sempre maggiore

concentrazione espressiva, a una totale «essenzialità» che divengono un mito: la

volontà di ritrovare una significazione totale nella parola, di fare di ciascuna di

esse una re-invenzione del linguaggio e della vita.

Un esempio è la lirica Ineffabile. Rispetto alle poesie del Porto sepolto, è

evidente un più spericolato sperimentalismo, inteso alla fondazione di nuovi

parametri di sensibilità, di immaginazione, rappresentazione. Sembra però

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superato anche il discorso simbolista, proprio nella simultaneità di

sensazione/espressione così totale che il simbolo non fa a tempo a formarsi, ma si

accampa come idea (o immagine) nuova della realtà, come un atteggiarsi diverso

di essa nella percezione e nella conoscenza. La casa, cioè, non è simbolo, ma

realtà della memoria, suo concreto consistere nell'attimo dell'intuizione poetica.

Nelle liriche ungarettiane spesso sembrano emergere inclinazioni marinettiane,

vicine alle sue “parole in libertà”, se non che non si ha la trascrizione sensibile, -

impressionistica dell'oggetto, ma un'intensificazione patetica e conoscitiva di

questa.

Più agevole è ritrovare un'altra tematica futurista, quella della «simultaneità». Si

osservi, infatti, nei suoi componimenti la complementarità e coincidenza di tempi

(presente e passato attualizzato dalla memoria, notte e giorno, con la loro

successione ravvicinata come cose /oggetti, anch'essi assunti in una coscienza

scavata nel presente).

«L'allegria»

L'«allegria» che dà il titolo al libro fin dall'edizione del 1919 (Allegria di

naufragi; dove “naufragi” allude al fatto che «tutto è travolto, soffocato,

consumato dal tempo»), è, spiega il poeta, «1'esultanza che l'attimo,

avvenendo, dà perché fuggitivo, attimo ché soltanto amore può strappare al

tempo, l'amore più forte che non possa essere la morte. È il punto dal quale

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scatta quest'esultanza di un attimo, quell'allegria, che quale fonte non avrà mai

se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare». E, dunque, un

sottrarre la vita alla fuga e al declino del tempo: un presentimento dell'eter nità

nell'attimo, in cui la poesia diviene scoperta e coscienza elementare dell'essere.

Ungaretti, con questa definizione, non intendeva configurare una filosofia, ma

una «esperienza concreta, compiuta sin dall'infanzia ad Alessandria e che la

guerra 19141918 doveva fomentare, inasprire, approfondire, coronare».

Alessandria è presente in alcune dense liriche del libro, come memoria del

primo affacciarsi alla natura e alla vita - il sole, il deserto, la favola d'un

antico porto sepolto, i turbamenti e lo slancio dell'adolescenza, le prime

amicizie -; e permarrà anche in seguito come memoria della fondazione d'una

struttura conoscitiva ed esistenziale. Ma l'allegria come «volontà di vivere

nonostante tutto» trova la sua forma esemplare nella condizione alienata della

vita nelle trincee della Grande Guerra: realtà, e, insieme, simbolo della

precarietà dell'uomo e della sua storia. La scoperta di Ungaretti è il suo

divenire «uomo di pena» come gli altri e con gli altri: nel ritrovarsi con tutti i

soldati nella brama di resistenza alla morte, in una solidarietà (o amore) che è

rivolta contro la guerra: quella presente e, nel contempo, quella da sempre

connaturata all'esistere. All'annullamento imposto dalla guerra l'uomo oppone

l'opaca ma sicura resistenza del proprio «tempo», che è passione e desiderio

di autenticità o «innocenza», intonando la propria sulla vitalità cosmica.

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Accogliendo lo sperimentalismo espressivo d'una generazione - dai

crepuscolari ai futuristi ai vociani - Ungaretti cerca una nuova «innocenza»

anche nella parola. L'orígínale rapporto che egli stabilisce, oltre che col

mondo, anche, e prima di tutto, col linguaggio, costituisce l'aspetto più

originale del libro e la sua importanza nella storia ~ della poesia novecentesca.

Il nuovo stile abolisce ogni compiacimento eloquente, ogni intellettualismo,

ogni costruzione complessa del periodo e del pensiero.

La sintassi e la metrica vengono frante per lasciare emergere la parola come

evocazione pura, invenzione del mondo umano; la sillabazione rallentata

prende il posto delle cadenze metriche tradizionali, isolando una singola

parola, a volte una semplice proposizione come «di», e creandole intorno una

vibrazione di canto, un nuovo spazio e un nuovo tempo, un senso totale di

verità. Il sogno è quello di un linguaggio aurorale, edenico, come edenico è il

desiderio del poeta di «sentirsi in armonia», di ritornare a essere una , «docile

fibra dell'universo».

Chiuso, com'egli afferma, tra cose mortali, nel dramma della guerra, che è

figura dell'inautenticità del vivere contemporaneo, dell'attuale alienazione

dell'uomo, Ungaretti non propone soluzioni, ma il rigore d'una testimonianza:

1'«allegria», appunto, dell'armonia presentita e ritrovata nell'attimo breve

della poesia, fra l'uomo e la realtà. Il costruirsi della sua lirica su versicoli

brevi e intensi, su parole scavate nel profondo, appare una sorta di

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reinvenzione, nella poesia e nel linguaggio, della verità della perso na. Poesia

diviene così un discendere in se stessi fino a ritrovare quel grumo nascosto,

irriducibile, ineffabile, di essere e parola; fino, cioè, a quel punto in cui il

flusso universo della vita si fa coscienza individua, e cioè parola, fondatrice

della realtà umana, epifania o rivelazione, sempre fatalmente parziale, della

vita profonda della coscienza e, insieme, dell'universo.

La poesia ritrova, e rinnova, il linguaggio, è il rituale manifestarsi d'un mito

delle origini: è, idealmente, la prima parola detta dall'uomo, il suo ritrovarsi,

definirsi e costruirsi nel linguaggio. «Onore degli uomini, santo /

linguaggio», scriveva in quel tempi Paul Valéry; e «Vita d'un uomo» ha

intitolato Ungaretti la raccolta definitiva delle sue poesie, non nel senso

biografico o autobiografico corrente, ma come espressione dei momenti

essenziali dell'esperienza umana.

Nasce di qui la concisione, anzi la sintesi verti ginosa delle poesie di Ungarettí,

quel loro prescindere dalla forma narrativa o esplicativa d'idee o di sentimenti

da persuadere. La sua poesia non intende esprimere dei contenuti, ma fondare

delle consapevolezze attraverso l'atto del dire. Diciamo «atto» per la teatralità

del dettato ungarettiano, coi suoi frequenti deíttici, e tenendo presente il fatto

che questa poesia intende essere presa di coscienza e costruzione dell'umano

sull'oscuro e germinante caos dell'essere; un dialogo con la propria coscienza

222

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segreta. La verginità della parola comporta l'autenticità ritrovata del 1'io che la

scopre e la pronuncia.

Come s'è accennato, la raccolta si venne costituendo in un ampio giro d'anni.

Ungaretti pubblicò dapprima Il porto sepolto (1916): un'opera organica,

composta d'un gruppo di poesie che resteranno nella posteriore raccolta, spesso

senza varianti, ripubblicata, come libro a sé stante, nel 1923. Nel '19 apparve

Allegria di naufragí, una raccolta di tutte le poesie composte sino ad allora,

meno organica del Porto, ma píìt ampiamente divulgata e quindi entrata più

incisivamente nella cultura poetica di quegli anni. Il titolo L'allegría compare

nell'edizione del 1931; seguirono le edizioni del '36 (Edizioni di Novissima,

Roma), poi del '42 (Milano, Mondadori), tutte con varianti, e altre, fino a

quella definitiva del 1969 (Mondadori, Milano).

In un discorso premesso a una scelta delle sue liriche, Ungaretti definisce le

ragioni storiche e spirituali della rivoluzione da lui portata nel linguaggio, nella

metrica, nelle consuetudini espressive della nostra lirica. Fu una rivolta morale

contro i falsi miti e le pose dannunziane e la turgida retorica del Futurismo. “Ci

ripugnava fino alle radici del sangue, il Decadentismo, quella scuola i cui

maestri, e í ridicoli epigoni, si consideravano come gli ultimi superstiti d'una

società da esaltare, come la stessa vita, con atteggiamenti neroniani”. Ci si

renda ben conto di questo: era giusto che allora i giovani sentissero che il

discorso fosse da riprendere dalle radici, e che tutto fosse da ricuperare. “I

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Futuristi in un certo senso avrebbero potuto non ingannarsi se non avessero

rivolto l'attenzione ai mezzi forniti all'uomo dal suo progresso scientifico, in -

vece che alla coscienza dell'uomo che quei mezzi avrebbe dovuto moralmente

dominare. S'ingannavano soprattutto perché avevano fatto proprie le più as -

surde illusioni derivate dal Decadentismo, immaginando che dalla guerra e

dalla distruzione potesse scaturire qualche forza e qualche dignità. Così

immaginarono che anche la lingua fosse da mandare in rovina, per restituirle

qualche attività e qualche gloria1. [...]”.

Ungaretti lega questa poetica nuova all'esperienza della guerra ' 15-' 18, da lui

vissuta come combattente, che gli fece cogliere la vita nella sua essenzialità

d'amore e dolore, di angoscia della morte e di bisogno di ritrovare una fraternità

umana.

Sentimento del tempo

Si è parlato, per questa raccolta del 1933 (poi '36 e '42), sia d'una forma di

sensibilità barocca (ispirata, per ammissione del poeta stesso, da paesaggio

romano) sia d'un neoclassicismo che succederebbe all'espressionismo

dell'Allegria. In entrambi i casi, si tratta d'una distensione della poesia

ungarettiana entro forme garantite dalla tradizione, in coerenza con la

1

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«restaurazione» che si venne operando in Italia, a partire all'incirca dagli anni

venti, dopo l'acceso sperimentalismo delle avanguardie.

Il rinnovamento è riscontrabile sul piano contenutistico e su quello formale.

Per quel che riguarda il primo aspetto, appare mutata la posizione dell'uomo di

fronte al mondo. Il poeta - come ha avvertito il Contini - non appare più

«appiattito sul mero fatto e rischio dell'esistere» (il senso della vita e della

morte vissuto, in guerra, nella puntualità e «ricapitolazione» dell'attimo, in

scelte perentorie), ma vive una tensione fra «innocenza» e passione, fra

«obbedienza alla labilità temporale» del suo essere uomo nel tempo e ansia di

valori perenni. Sul piano formale, il senso di questa conflittualità distesa in

una continuata vicenda dell'ío, trova riscontro in un ritorno alla tradizione

petrarchesco-leopardiana, individuata da Ungaretti in acuti saggi critici.

Questo comporta un ricomporsi del sillabato franto dei versicoli in misure

metriche consacrate (l'endecasillabo, il settenario), nella maggiore complessità

sintattica (sottolineata dalla comparsa della punteggiatura), che tende a

ricondurre la testimonianza scarnificata e gestuale (in senso drammatico)

dell'Allegria alla continuità del discorso, del dibattito interiore. Ma più spesso

la continuità è quella del canto o dell'«inno». Inni è intitolata una sezione della

raccolta, la quinta: ma vale la pena di ricordare, nell'ordine, le altre: Prime; La

fine di Crono; Sogni e accorda; Leggende; La morte meditata; L'amore, perché

danno un'idea del contenuto profondo del libro: la ricerca nel tempo di valori o

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significati che ne oltrepassino la precarietà, senza rinnegarla, accettando la

condizione umana: l'essere, come già il poeta aveva avvertito nell'Allegria,

«chiuso fra cose mortali» e bramoso, insieme, di eternità.

Ne risulta un senso della poesia come rivelazione dell'uomo a se stesso

connessa, ora, a una ritrovata, anche se difficile, religiosità cristiana, che

induce Ungaretti a ricercare, dietro le occasioni dell'esistere, un puro modello

dell'essere e dell'accadere: delle ragioni che diano un senso al perire fatale

della contingenza. La soluzione proposta dalla poesia è la fondazione lirica di

«emblemi eterni» (si legga Memoria di 'Ofelia d'Alba), di «nomi» che siano

«evocazioni pure», e riducano gli oggetti a miti o essenze di là dal loro

consistere fugace, quasi un preludio, vissuto nel tempo, dell'assoluto o

oltretempo. Tali sono l'isola della poesia, la ripresa di figure mitologiche le

Sirene come emblemi della condizione umana, la personificazione, anch'essa

mitologica, dell'Estate come violenza e vocazione di autodistruzione

dell'impulso vitale, il Tempo, la Noia, visti come assoluti, Fuori

dell'immediata vicenda biografica. Ancora una volta, come nell'Allegria, anche

se in forma diversa, più legata alla continuità dei giorni, Ungaretti punta sul

valore orfico, e cioè rivelatore, della poesia.

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Page 227: Manuale Di Letteratura Italiana 800 in POI

Eugenio Montale

Nacque a Genova, nel 1896, da agiata famiglia borghese. I suoi studi letterari,

attestati oggi dalla pubblicazione postuma, nel 1983, del Quaderno di quattro

anni (I917), non furono sostenuti da una carriera scolastica adeguata (si

diplomò in ragioneria, pensando di collaborare alla conduzione della ditta

paterna, studiò, per breve tempo, da baritono), ma piuttosto da letture personali

e da contatti che venne via via sviluppando con letterati della sua città, a

cominciare da Camillo Sbarbaro. Più tardi un amico di Trieste, Roberto Bazlen,

lo mise in relazione con Italo Svevo - di cui Montale fu il primo critico italiano

a comprendere l'importanza e il valore -, con Umberto Saba e altri. Dopo essere

stato al fronte, nel '17, cercò un lavoro fisso; ma continuò a occuparsi

prevalentemente di letteratura. Nel '25, divenuto collaboratore della rivista degli

intellettuali antifascisti «Il Barettí», ebbe nel suo fondatore, Piero Gobetti,

l'editore della sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia, e sempre in quell'anno

aderì al «Manifesto» degli intellettuali antifascisti, promosso da Benedetto

Croce. Nel '27, ottenuto finalmente un impiego presso una casa editrice, si

trasferì a Firenze, dove prese parte attiva alla vita intellettuale della città,

collaborò a riviste importanti, quali «Solarla» e «La fiera letteraria», e conobbe

scrittori quali Vittorini, Gadda, Quasimodo, Piovene, Bonsanti e il poeta

americano Ezra Pounci. Quest'ultimo incontro fu particolarmente significativo,

per il vivo interesse manifestato da Montale, allora e in seguito, per la

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letteratura anglosassone, da Keats a Browning a Ilopkins a T.S. Eliot. Nominato

direttore della biblioteca del Gabinetto Vieusseux di Firenze nel 1929, fu

licenziato nel dicembre del '38 per il suo antifascismo, e andò incontro a serie

difficoltà economiche cui sopperì collaborando a riviste e con traduzioni (una

scelta ne verrà pubblicata nel Quaderno di traduzioni del 1975). Nel 1939 uscì

la sua seconda raccolta, Le occasioni, che consolidò la sua immagine di guida

riconosciuta della nuova poesia italiana. Aveva frattanto conosciuto Drusilla

Tanzi, che più tardi sposò, e l'italianista americana Irma Brandeis, ispiratrice -

sotto il nome di Clizia - d'un settore importante della sua poesia. Nel 1943 uscì

in Svizzera Finrsterre, una nuova raccolta che fu il primo nucleo della

successiva, La bufera e altro (1956). Dopo un breve intervallo di politica

militante nel Partito d'Azione, Montale divenne collaboratore del «Corriere

della sera» (1947) e si stabilì l'anno dopo a Milano, dove morì nel 1981, avendo

prima ottenuto la nomina a senatore a vita e, nel '75, il Premio Nobel per la

letteratura. La sua attività di giornalista fu successivamente raccolta in diversi

volumi. Nel '76 aveva visto la luce un libro di prose liriche e narrative, La

Farfalla di Dinard (arricchito nelle edizioni successive del '60 e del '69).

Un ampio settore della poesia montaliana, superiore, quantitativamente, alle

raccolte finora citate, anche se meno incisivo nella storia letteraria dell'epoca, è

compreso nei libri usciti negli anni sessanta e settanta: Satura (1966 e '70),

Diario del '71 e del’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977). La figura

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del poeta appare mutata in un contesto storico-culturale anch'esso cambiato,

sempre meno disposto, in una civiltà di massa che appare a Montale estranea a

concepire la poesia come valore culturale e civile. In queste liriche Montale si

presenta come prigioniero del tempo e della storia, difensore accanito, ma

povero di speranza, dei motori dell'individualítà, dell'intelligenza, della

cultura; un moralista aspro e irriducibile, che ripercorre il suo cammino

poetico in una prospettiva demistificata e delusa.

Nel 1980 uscì l'edizione critica di tutte le sue poesie a cura di Gianfranco

Contini (uno dei filologi e critici più acuti del nostro tempo e uno dei primi

interpreti di Montale) e di Rosanna Bettarini. L'edizione comprende anche

poesie inedite fino allora. Altri inediti sono usciti ora nel Diario postumo

(1991), e altri ne usciranno fra qualche anno, secondo un programma stabilito

dal poeta.

Tematiche ideologiche

Ha scritto Montale di non avere mai pensato a «una poesia filosofica che

diffonde idee», e che il poeta ricerca «una verità puntuale, non una verità

generale»: ossia una verità del proprio io, connessa a quella degli altri, ma

pensata e vissuta in modo unico e irripetibile.

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Nell'Intervista immaginaria Montale ha indicato alcune letture filosofiche

rimaste per lui fondamentali. Fra di esse interessano soprattutto Schestov,

come attestazione d'una tendenza esistenzialistica, e, per il loro antí-

positivismo, Bergson e Boutroux. Montale affermò di aver guardato con

interesse il «contingentismo» di quest'ultitno.

Nasce almeno in parte di qui la prospettiva montaliana d'una natura - e d'una

realtà in genere - non interpretabili in base a leggi razionali, ma costantemente

aperte alla casualità, e dunque anche, ma paradossalmente, al «miracolo»,

ossia all'evento imprevisto e liberatore, guida al superamento della catena di

ore, fatti, gesti, sempre uguali e inautentici che rendono la vita ferma come un

destino. Ma fin dall'inizio questa libertà appare al poeta del tutto sporadica.

Più evidente è una sorta di determinismo che non è più quello positivistico di

presunte, ferree leggi di natura, ma è congiunto alla scoperta dell'assenza di

significato d'ogni esperienza, anzi, dell'esistenza, avvolta nella falsità del

convenzionalismo sociale e priva d'ogni illuminazione trascendente.

È questo il punto di partenza della meditazione montaliana, fin da quando, in

Ossi di seppia, gli pareva di «vivere sotto una campana di vetro», in un

distacco, cioè, totale dalla vera essenza della realtà, e vagheggiava una parola

che fosse, insieme, poesia e verità, ritrovamento del «punto morto del mondo»,

dell'«anello che non tiene»; fuga, dunque, dalla legge deterministica che grava

sulla vita, sulla conoscenza dell'uomo e sul linguaggio comune, e «fine

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dell'inganno del mondo come rappresentazione», ossia come sequenza di

forme, atti, gesti, parole vacui e assurdi.

Il punto di partenza della «filosofia» montaliana è pertanto la rivelazione,

affidata a una delle sue prime liriche (Meriggiare pallido e assorto), in quella

egli si rappresenta come amara coscienza, quasi spersonalizzata, del continuo

agitarsi senza significato della vita dell'io e del cosmo. Questa si presenta,

conclusivamente, come una muraglia con, in cima, cocci aguzzi di bottiglia,

che impediscono di valicarla, di ritrovare, di là da essa, un significato che la

giustifichi.

Si è parlato, raccogliendo un altro spunto dell'intervistaa, di leopardismo

montaliano, per questa immagine della natura-vita compatta e concatenata, ma

incongruente e priva di senso. E un leopardismo recuperato in una dimensione

novecentesca di crisi dei valori e dell'io. Vivere è, per Montale, perdersi in una

trama di gesti vani, dietro í quali sta il nulla. La realtà si frange in una

sequenza di atti sconnessi, insignificanti, che rendono arduo e quasi

impossibile il colloquio con l'altro (uomini, Dio) e con se stessi. Persino

l'individualità appare sospesa sull'orlo del nulla incombente perché anche il

ricordo, nel quale l'uomo ricerca una continuità della propria vita, una storia

che fondi la persona, si deforma, diventa cenere d'un mondo spento, sommerso

dal tempo, che passa e si vanifica. In questa prospettiva scompare anche la

possibilità di protesta eroica di Leopardi, cui subentra l'appello alla «decenza»,

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alla fermezza con cui l'uomo deve prendere coscienza del proprio destino,

senza astratti eroismi, ma anche «senza viltà».

Il pessimismo montaliano può senza dubbio essere connesso al travaglio

conoscitivi-esistenziale dell'Europa all'indomani d'un conflitto atroce, e poi

negli anni che vedono la preparazione e lo svolgimento del secondo, e più

atroce; e, infine, fra la guerra fredda, i terrori atomici e, subito dopo, la palude

consumistica. Di questa crisi radicale di civiltà, soprattutto fra le due guerre,

Montale è stato uno dei testimoni più lucidi.

Con profonda onestà intellettuale, egli ha limitato il valore etico-politico della

sua poesia, anche se, soprattutto a partire dalle Occasioni, ben s'avverte in essa

la denuncia d'una disgregazione di valori e una volontà umile ma risoluta di

resistenza, di non conformismo, che diviene strada a un sentimento di dignità

dell'uomo e di rispetto del suo destino - ma anche del destino di tutta la cultura

- in un'età di dittature. È nata di qui la figura del poeta e dell'intellettuale

prigioniero non domato della storia e dei falsi miti di massa, che troviamo

effigiato alla fine di I a bufera, con la concomitante idea della poesia come

superstite dignità in un tempo di degradazione.

La poesia di Montale ha voluto così essere non soltanto la denuncia d'una

realtà alienata, ma anche l'affermazione d'una resistenza, d'una speranza

«avara», com'eglí dice, ma tuttavia intatta: un bagliore «tenue» ma invitto,

anche se destinato a morire, forse, col mondo minacciato di distruzione.

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È vero che la lirica montaliana non si è mai aperta a un messaggio

immediatamente politico, ma è anche vero che ne ha fondato le premesse nella

coscienza, approdando, di là dalla storia, all'utopia, che permane come lievito

di essa, anche se non riesce a configurare un'azione concreta.

Va presa in questo senso la figura femminile che ha molteplici nomi e

incarnazioni nella sua opera (Annetta, Arletta, Clizia, la Volpe, ecc.), ma

indica pur sempre una resistenza al male del vivere nell'amore come ricerca di

salvazione. Questa figura, sotto il nome prevalente di Clizia, a partire dalle

ultime liriche delle Occasioni, appare come un Angelo sceso in terra a

riportarvi la vita e la speranza, a restaurare i valori negati.

Montale ha affermato che, anche quando parlava dell'ultimo conflitto,

alludeva, in realtà, non al particolare evento storico, ma alla lotta eterna del

Bene e del Male, a una situazione «metafisica» dell'uomo. Possiamo dargli

ragione e torto insieme. Ragione in quanto la sua problematica è sempre

universale, legata, cioè, a un'idea generale dell'uomo e della vita; torto perché

questa visione si sostanzia di una specifica situazione storica e culturale.

Comunque sia, la figura femminile e l'amore che essa ispira ritornano a essere,

come nella poesia antica (si pensi alla Beatrice di Dante), vicenda personale e,

insieme, emblema della vita profonda dell'animo, della sua ricerca di

partecipazione alla realtà vera dell'essere, oltre la limitatezza e l'inautenticità

dell'esistenza in un mondo pervertito dal male. Di contro all'assurdo della

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storia e della vita associata che si svolgono ormai senza più luce di valori,

l'amore e la speranza d'una vita più alta confluiscono nel mito della poesia, che

è consapevolezza del destino umano, ma anche volontà di riaf fermazione della

dignità dell'uomo, riscattato dalla violenza brutale della storia.

Aspetti poetici

Montale assorbì originariamente e con acuto senso critico la tradizione poetica

coeva, da Pascoli e D'Annunzio ai Crepuscolari. Del primo riprese soprattutto

l'esigenza d'un «parlato» avverso all'enfasi; quanto a D'Annunzio, se certe

cadenze naturalistiche di Ossi di seppia hanno pensare alla più nuova poesia di

Alcyone, si può dire che Montale lo abbia «attraversato», respingendone i temi

superumanistico-eroici e la fastosa eloquenza.

Accanto a questi, altri poeti ebbero influenza su di lui: i Crepuscolari e

Palazzeschi, prima di tutto, per la loro demistificazione dell'«aureola» del poeta, e

Sbarbaro, attraverso la cui confessione era possibile un recupero «moderno» di

Leopardi.

Come s'è visto, la forza della poesia di Montale non sta in un'orgogliosa

costruzione del mondo sull'onda d'un messaggio aristocratico, ma nel pathos e

nella dignità della testimonianza d'una condizione umana diseredata. Ne risulta una

volontà di realismo che spiega l'incontro con Dante: la scelta del linguaggio delle

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cose, immerse nella vicenda - e magari nella «bufera» - del divenire, piuttosto che

di quello dei puri emblemi della tradizione petrarchesca.

Ne consegue un linguaggio poetico originale, aspro, e, come s'è detto con riferi-

mento al Dante delle liriche per una Donna-pietra, «petroso», come l'implacabile

realtà dell'esistere. La negazione e l'assenza, il mondo caotico e privo di

significato, il vivere come male, o, per usare un'espressione leopardiana, come

«solido nulla» - miti di fondo della poesia montaliana -, appaiono come rappresi in

un paesaggio scabro e riarso, in oggetti nei quali la vita appare inaridita, e che per

questo diventano trascrizione metaforica dell'aridità interiore conseguente alla

scoperta della vanità del vivere.

Pur senza rinnegare totalmente la lezione del Simbolismo francese e di Mallarmé

(antecedente privilegiato della poesia di Ungaretti e, più tardi, degli Ermetici),

Montale in parte riprese e in parte sviluppò l'idea del «correlativo oggettivo» di

T.S. Eliot: d'una poesia nella quale d'emozione fosse totalmente calata nell'oggetto,

la cui presenza diveniva «occasione» d'una riscoperta del mondo. Questo, se da un

lato evitava il pericolo di un'incontrollata effusione romantica del sentimento, lo

rafforzava, dall'altro, col peso di un'oggettività, d'una dimensione conoscitiva

universale. La poesia diventava così «ínguaríbilmente semantica», era fondazione

d'un significato.

Il confronto costante con la vita configura lo stile montaliano come una

drammatizzazione dei gesti elementari dell'essere, del conoscere, del sentire, che

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spesso - soprattutto nella tematica relativa a Clízia - non ignora l'allegoria, la quale

è, a ben vedere, coscienza d'una dimensione doppia e non conciliata del mondo. Ne

deriva una frequente oscurità che è quasi sempre frutto di concentrazione

espressiva, ma anche sforzo dell'intelligenza di penetrare una realtà incoerente,

sospesa sull'assurdo. La poesia montaliana diviene così una vasta parabola del

destino umano: di quello, secondo il poeta, di sempre e di quello di un'età storica

tormentata.

Farfalla di Dinard

Una “visitazione”, una rivelazione improvvisa, la poesia: un dono riservato a

pochi. Questo ci dice, da un lato, l'apologo montaliano, che, per tale aspetto, non

è certo innovatore nei confronti delle poetiche simboliste e post-simboliste. Ma

montaliano è quel comparare la poesia a una farfalla fragile, quel farla balenare

fra essere e non essere, quell'assenza d'ogni orgoglio di «sacerdote

dell'invisibile», quel ritrovarla in un caffè, fra le forme trite dell'esistenza.

Altrove, alla fine dl La bufera (Piccolo testamento, /1 sogno del prigioniero), la

poesia diventerà “!traccia madre perlacea di lumaca”, o “smeriglio di vetro

calpestato”, o iride “su orizzonti di ragnatele”: un bagliore lievissimo riscattato

faticosamente da una vita priva dl senso, dalla volgarità ímperante. Sempre sarà

«decenza», dignità superstite di valori calpestati e pur vivi.

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Il volume che prende il titolo da questa prosa lirico-narrativa, uscì nel 1956, e

comprendeva brevi racconti apparsi sul «Corriere della sera» e sul «Corriere

d'informazione». Nel 1960 e nel 1969 fu ampliato fino a comprendere 50 prose.

«Le occasioni»

Questa seconda raccolta uscì nel 1939, con poesie scritte dopo il 1928 edite

solo in parte su riviste, e, nell'opuscolo intitolato La casa dei doganieri e altri

versi (1931), pubblicato in Occasione della vincita d'un premío letterario con la

poesia così intitolata. La seconda edizione (1940) fissò in 53 il numero delle

liriche.

Il libro, avverte Montale, era fondato sulla poetica, già tuttavia presente negli

Ossi, secondo la quale si doveva esprimere l'oggetto e tacere 1'occasione-spinta,

secondo una personale interpretazione dell'idea del «correlativo oggettivo» del

poeta latino americano Eliot.

Ritrovare i valori radicati nell'oggetto, in una realtà che conferisse loro carattere

universale, non solo si trattava di valori, bensì anche delle elementari scoperte

del vivere.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) La condizione dell’uomo nella morsa della guerra.

2) La miseria dell’essere umano di fronte al destino.

3) La consapevolezza della precarietà della vita umana.

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VIII UNITA’: Letteratura e contemporaneità.

Prerequisiti:

- Capacità critico-valutativa

- Conoscenza degli aspetti più salienti delle correnti letterarie dei primi del

Novecento.

Obiettivi:

- Acquisizione della nuova tendenza letteraria del surreale.

- Acquisizione del concetto di realtà e mistero.

- Acquisizione del senso dell’ignoto.

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Si studieranno i seguenti argomenti:

- Ermetismo.

- Neorealismo.

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L'Ermetismo

Fra i primi anni trenta e i primissimi anni quaranta si svolge il movimento

letterario che prese il nome di Ermetismo dal saggio d'un critico avverso,

Francesco Flora, La poesia ermetica (1936). Il termine, usato prima in senso

negativo, per criticare una poesia caratterizzata da una voluta oscurità provocata

soprattutto da un procedimento analogico esasperato, divenne poi corrente, e

denotò sia un carattere di poesia iniziatica, riservata a pochi eletti (l'Ermetismo

era stata una pratica magico-misterica dell'antichità, connessa al culto di Ermes

Trismegisto), sia la ricerca d'una nuova frontiera della poesia, concepita come

rivelazione. L'oscurità divenne così la manifestazione necessaria d'una

penetrazione nuova della realtà. Questo, nell'intenzione dei suoi cultori, che

raggiunsero, nonostante le differenze personali, una certa compattezza di intenti

e di linguaggio, ebbero i loro critici (spesso anche poeti) e le loro riviste,

costituirono un gruppo culturale organico, di larga diffusione, e certo fra i

protagonisti della cultura di quegli anni.

Il centro di irradiazione fu Firenze, dove la tradizione delle riviste del primo

Novecento era continuata da «Solaria», «Frontespiiío», «Letteratura», «Il

Bargello», «Prospettive», favorevoli alla nuova poetica, e altre, fra le quali

«Primato», legata al Fascismo. L'organo ufficiale fu «Campo di Marte», diretta

da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini (poeta il primo, prosatore, come si vedrà, il

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secondo, che però scriveva in questi anni prose intimistiche). I poeti più

importanti furono, oltre a quelli del gruppo fiorentino (Mario Luzi, Mero

Bigongiari, Alessandro Parronchi), Sergio Solmi, Alfonso Gat to, Leonardo

Sinísgalli, Libero De Libero, Vittorio Sereni, Sandro Penna, Salvatore

Quasimodo, il più celebre allora e negli anni immediatamente seguenti. Fra i

critici basta qui ricordare Carlo Bo, uno dei riconosciuti teorici del movimento,

e Luciano Anceschi, che con l'antologia Lirici nuovi, del 1942, stabiliva un

bilancio di esso.

Gli Ermetici propugnavano, secondo l'indicazione di Bo, una letteratura come

vita, una poesia che fosse, com'essi proclamarono, una sorta di «ontologia» o

«teologia»: una rivelazione integrale dell'umano, colto in una dimensione non

storica, ma assoluta, conseguita attraverso un distacco totale dal contingente.

Venivano così a proclamare l'identità fra poesia e umanità profonda, a fare della

poesia un'entità, un modello assoluto di vita, fuori del tempo. Sulla scia di

Ungaretti (quello soprattutto di Sentimento del tempo) e di Montale,

vagheggiarono il ritrovamento, attraverso l'esercizio poetico, dell'innocenza

originaria dell'animo e della parola. Non avvertirono, però, come questi poeti,

l'urgenza di riscattare la poesia dal rischio di vanificazione cui sembrava

condurla una storia avversa e mal riducibile a una forma di umanesimo; ma la

concepirono come un'intuizione-rivelazione che proveniva da una zona remota

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dell'essere, comunicabile, come il Verbo divino, soltanto per enigmi e analogie

fuggevoli.

Se si pensa che gli anni di maggiore sviluppo del movimento coincidono con la

preparazione, in Italia e in Europa, della seconda guerra mondiale e quindi col

suo tragico svolgimento, questa posizione potrebbe apparire un rifiuto politico,

e così fu presentata, a volte, nel secondo dopoguerra. Ma certamente non si può

parlare di un’opposizione dell'Ermetismo al Fascismo, anche se si può parlare di

un'ideologia ben distinta e d'un contrasto implicito, non delineato sul piano

politica attivo. Le enigmatiche elucubrazioni verbali, la chiusura del letterato in

una «torre d’avorio», il rifiuto del contatto col pubblico, il disimpegno politica,

un'avversione alla civiltà attuale, che si rivelava tuttavia incapace di un reale

superamento.

La vagheggiata funzione incantatoria della poesia perseguita dagli Ermetici, la

rivelazione totale dell'umano, coincidente con quell' astratta idea di Poesia,

furono perseguite attraverso un'operazione diretta a creare un nuovo

linguaggio poetico. Qui soprattutto si colgono i segni di una «scuola», ossia

d'una tendenza letteraria comune. Lasciando da parte ogni concetto troppo

rigido e deterministico di «imitazione», converrà sottolineare una linea di

tendenza comune fra le liriche di Quasimodo, di Luzi, di Gatto, Sereni,

Sinisgalli. Sul piano contenutistico essi concordano, oltre che nell'idea

generale di poesia che s'è detta, nella ricerca d'una lirica spogliata di ogni

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elemento autobiografico definito, dove anche la «memoria», una parola-mito

della nuova poetica, non delinea una storia interiore concreta, ma gli inter -

mittenti baleni della vocazione nella quale soltanto trova significato la

testimonianza esistenziale del poeta. Di qui il continuo astrarre dalla realtà

corrente per affidarsi in un'altra più profonda, che è la poesia stessa: un

modello eterno che trova giustificazione e significato soltanto in se stessa.

Come ha scritto il Bonfiglioli, la poesia diviene per loro «veggenza» (una loro

parola-míto), «non come conoscenza della realtà occulta che simbolisti e

surrealisti portano alla luce per cambiare la vita, ma piuttosto come evoca-

zione e creazione di qualcosa idealmente già e da sempre esistente, che sfugge

ogni caratterizzazione»: che è soprattutto «assenza» (altra parola-mito), ossia

qualcosa di irraggiungibile e non conoscibile, vivo nel presentimento e nella

distanza.

Sul piano stilistico (ma si tenga conto del fatto che qui la parola diventa la

cosa, l'unico modo di catturare una realtà inattingibile) vi furono

procedimenti tipici come l'uso (e abuso) di frasi nominali, che è conseguenza

della rinuncia a ogni trama ragionativo-narrativa e d'un messaggio che vuole

presentarsi in una dimensione verticale, cioè per accumulo di rivelazioni

prive di concatenazione e di sviluppo. Così viene spesso abolito l'articolo,

quasi per ridurre la realtà a pure immagini di essenze o a configurare moti

interiori astratti da ogni «occasione» sentimentale o conoscitiva, ma atti a

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disporre l'animo ad accogliere il puro dono del canto. In tal modo la poesia

diveniva mito di se stessa, cantava se stessa come vertice del discorso e

dell'esperienza umana.

Non è arbitrario riscontrare, dietro la nuova sensibilità poetica, l'influsso

delle correnti irrazionalistiche del secolo, suggestioni della cultura cattolica

italiana e francese di quegli anni e un primo affacciarsi alla coscienza

letteraria dell'Esistenzialismo, con la sua denuncia del distacco incolmabile

fra esistere ed essere. Si può, comunque sia, parlare d'una forma di vago

misticismo estetico, dato che questa poesia, mentre rifiuta il grande pubblico,

o, per lo meno, lo seleziona drasticamente, chiede ai pochi eletti una

conoscenza di sé per partecipazione: una lettura anch'essa poetica o

metarazionale.

L'indugio sull'Ermetismo è qui motivato dal fatto che esso rappresentò una

delle punte della cultura di almeno una generazione. Si preferisce tuttavia

fissare, in questa parte dell'antologia, l'attenzione su alcuni soltanto dei poeti

più rappresentativi, a cominciare da Quasimodo, avvertendo che ebbero in

seguito una storia diversa. Così come l'ebbero poeti quali Luzi e Sereni, che

preferiamo considerare più avanti, cogliendoli soprattutto negli svolgimenti

che ebbero a partire dal rovesciamento di prospettive operatosi nel secondo

dopoguerra.

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IL Neorealismo

Il rinnovato interesse per la narrativa dell'immediato dopoguerra sembra nascere

dalla volontà di racconto che consegue alle esperienze tragiche, ma originali,

complesse e a volte esaltanti, vissute da un'ampia parte della popolazione italiana

fra guerra e guerra civile. Di questa volontà sono testimoni i numerosi libri di

memorie di allora, da quelli di Carlo e Primo Levi a opere come Il sergente della

neve di Mario Rigoni Stern, a tante altre, di scrittori spesso rimasti autori di un

solo libro.

La corrente narrativa di questi anni (la si può considerare conclusa fra il 1956 e i

primi anni sessanta) prese il nome di Neorealismo, precedentemente attribuito al

film Ossessione (1942) di Luchino Visconti e quindi alla nuova cinematografia di

quegli anni, da Ladri di biciclette di De Sica a Paisà di Rossellini. Ma sul piano

letterario l'antecedente immediato fu il nuovo realismo degli anni trenta, anche se

ripreso con una motivazione decisamente sociale e politica, intesa da un lato a

proporre come proprio destinatario il popolo o il proletariato, dall'altro a

contribuire alla sua presa di coscienza ideologica. Spesso, pertanto, il Neorealismo

oscillò fra populismo e volontà ideologizzante, come nel caso di Pratoliní, che con

la trilogia Metello (1955), Lo scialo (1960), Allegoria e derisione (1966),

volle abbracciare la storia italiana e cogliere il formarsi d'una coscienza di classe

nel popolo tra la fine dell'Ottocento e il 1945.

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Quanto ai «modelli» degli anni trenta, ci si rifece soprattutto al Pavese di Paesi

tuoi (1939) e al Vittorini di Conversazione in Sicilia; due autori che certo non

vanno confusi con la nuova corrente, anche se collaborarono al suo affermarsi, il

primo con Il compagno, il secondo con Uomini e noi. Altri maestri furono

Verga e gli Americani; in misura minore Moravia e Bernari.

Guerra e Resistenza, lotte contadine e operaie furono i temi prescelti, trattati con

indubbia vena pedagogica ed etico-politica, in strutture narrative compatte, lontane

dallo sperimentalismo degli anni trenta. Oltre agli autori presentati nell'antologia

(per quasi tutti, ove si eccettuino Jovine e, in parte, Pratolini, il Neorealismo fu

soltanto un episodio d'una carriera artistica più complessa), vanno ricordati almeno

Renata Viganò, autrice di L'Agnese va a morire (1949), Marcello Venturi,

Domenico Rea, Giuseppe Marotta, Michele Prisco, Anna Maria Ortese; e inoltre

Marco Pomilío e Giuseppe Berto, i cui esiti più importanti vanno cercati in

momenti successivi della loro esperienza narrativa, e Guglielmo Petroni. Il nome

di Elsa Morante può essere fatto qui piuttosto che per la sua produzione di quegli

anni (Menzogna e sortilegio, 1948; L'isola di Arturo, 1959), per un romanzo

recente (1974), La Storia, che riprende aspetti neorealistici, a cominciare dalla

vicenda (il ripercuotersi della guerra su una famiglia povera di Roma). Alla

tensione realistica di questi anni va infine ascritto il trionfo riportato da Il

Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che a sua volta attirò

l'attenzione su testi veristici ormai dimenticati come I Viceré di De Roberto o Il

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marchese di Roccaverduna di Capuana. Tuttavia il successo del Gattopardo,

cui scarsamente si addice 1'etichetta neorealistica, va collegato anche all'interesse

per i problemi del Mezzogiorno, affrontati allora non soltanto sul piano narrativo,

ma anche su quello storiografico con impegno vigoroso.

A parte, nella sezione precedente, s'è vista l'espressione fra neorealistica e speri-

mentale della narrativa di Pier Paolo Pasolini.

Se risulta abbastanza agevole indicare una cultura e un'aspirazione etico politica

complessivamente unitarie, pur con differenze ideologiche, di questi scrittori, più

difficile è chiuderli rigidamente nei limiti d'una poetica. Certo vi furono situazioni,

immagini, propensioni comuni a molti scrittori, per dir così, medi, mentre più

evidenti appaiono l'originalità, e quindi, le differenze, fra quelli che qui si

riportano e che sono i narratori più importanti del secondo dopoguerra. Oltre al

populismo di cui s'è parlato (il situare, con tecnica idealizzante, nel popolo i

valori più veri c l'eroismo pili alto) si tentò spesso una stile che arieggiasse i1

discorso indiretto libero, per esprimere 1'iniziativa mentale popolare che

diveniva elemento portante della trama. Come nel cinema vi furono gli attori

non professionisti, così vi furono scrittori d'un solo romanzo o imitatori della

maniera populistico-elementaristica (per quel che riguarda la psicologia dei

personaggi) cui s'è accennato. Ma soprattutto il Neorealismo fu una tematica:

guerra, Fascismo, Resistenza, Mezzogiorno, Risorgimento rivisitato, tentativo di

comprendere l'animo del popolo e di ripercorrere la psicologia e la cultura

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nativa, e argomenti affini; con la volontà d'una demistificazione delle false

persuasioni politiche e culturali e la denuncia della crisi della coscienza e

dell'egemonia borghesi.

Verso il 1960 si può considerare chiusa anche questa esperienza: lo vedremo

parlando d'un autore, Italo Calvino, che con un romanzo neorealistico aveva

iniziato la sua carriera di scrittore, Comunque sia, con La ragazza di Bube di

Cassola, pur d'argomento legato alla tematica partigiana (1960) e Il giardino dei

Finzi Contini di Bassani (1962), la vicenda neorealistica appare superata, non

negli argomenti, ma nello stile, nei modi del racconto. La crisi era incominciata

con Metello (1955) di Pratolini, che aveva dato origine a una disputa nell'ambito

culturale della Sinistra, come vedremo a sua luogo. Ma nuovi ideali ormai

premevano e anche nuovi modelli a livello europeo.

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Test

Si sviluppino le seguenti tematiche:

1) Cosa si intende per poesia ermetica

2) Cosa si intende per corrente surreale.

3) Quali innovazioni poetiche ha apportato la corrente surreale nel discorso

letterario.

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