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Marco E. L. Guidi LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI NELLA PRODUZIONE SNELLA. CONSIDERAZIONI DI UNO STORICO DEL PENSIERO ECONOMICO IN MARGINE A UNA RICERCA EMPIRICA Premessa pag. 3 1. Transplant e Fabbrica integrata: modello corporativo vs. modello contrattualistico " 4 2. Figure della comunicazione e della fiducia " 16 3. Dal taylorismo al toyotismo: alienazione e controllo " 22 4. Verso un nuovo civismo? " 29 Bibliografia " 32

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Marco E. L. Guidi

LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI NELLA PRODUZIONE SNELLA.CONSIDERAZIONI DI UNO STORICO DEL PENSIERO ECONOMICO

IN MARGINE A UNA RICERCA EMPIRICA

Premessa pag. 31. Transplant e Fabbrica integrata: modello corporativo

vs. modello contrattualistico " 42. Figure della comunicazione e della fiducia " 163. Dal taylorismo al toyotismo: alienazione e controllo " 224. Verso un nuovo civismo? " 29

Bibliografia " 32

Il contenuto di questo saggio è stato discusso nel corso di un seminario delDipartimento di Studi Sociali dell'Università di Brescia, nell'aprile 1996. Aipresenti va la mia gratitudine per i suggerimenti fornitimi. Devo molto anche alladiscussione con Carlo Carboni, e con gli altri partecipanti (G. Antonelli, G.Bergia, M. Trisi) alla ricerca sull'attuazione del just-in- time nelle fabbriche dellaVal di Sangro, da cui queste riflessioni scaturiscono. Numerosi confronti con idelegati sindacali e con i manager delle imprese studiate (v. nota 1) e con idirigenti sindacali della Cgil-Abruzzo, mi hanno infine consentito di metteremeglio a fuoco le mie idee. A tutti va la mia gratitudine.

Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella 3

Non esiste nessun manuale che parli delproblema essenziale della manutenzionedella motocicletta: tenere a quello che si fa.

R.M. Pirsig, Lo Zen e l'arte dellamanutenzione della motocicletta, p.38.

Premessa

Le riflessioni che seguono scaturiscono da un'esperienza in una certa misuraanomala: la partecipazione di uno storico del pensiero economico, lo scrivente, auna ricerca sul campo volta a studiare le condizioni di lavoro e le relazioniindustriali in alcune fabbriche della Val di Sangro (CH), nelle quali sono statiintrodotti nuovi modelli organizzativi ispirati al paradigma della produzionesnella1. La preparazione delle griglie di intervista per i dipendenti e ilmanagement, le visite in azienda e la stesura del rapporto finale mi hanno messo aconfronto con la recente letteratura economica e sociologica sul tema. Eraevidente il rischio di una simile operazione, nella misura in cui il confronto construmenti interpretativi diversi da quelli appartenenti al mio bagaglio poteva dareadito a esiti superficiali o addirittura a veri e propri malintesi. La sorpresa,tuttavia, è stata che, man mano che mi immergevo nei problemi specifici dellaricerca, cresceva in me la sensazione di sentirmi a casa mia, di trovarmi a trattarecioè con categorie e nodi problematici che appartenevano anche al mio retroterradi storico delle idee. Idee economiche, in primo luogo, ma nella loro strettaconnessione con l'alveo di questioni politiche e morali entro il quale l'economiapolitica è storicamente sorta. L'impressione era cioè che la riflessione culturale escientifica occidentale avesse già in passato affrontato, spesso altrove e ad altroproposito, molte delle questioni che, in forme inedite, si pongono oggi nei nuovimodelli organizzativi caratterizzati dalla lean production e dall'obiettivo dellaqualità totale. Né questa impressione si esauriva con il ripercorrere quel filone dianalisi economico-politica che più da vicino si era confrontato con la nascita dellavoro salariato e dell'impresa moderna, dalle riflessioni di Adam Ferguson eAdam Smith sulla divisione del lavoro e sui suoi effetti sulla condizione operaia esullo sviluppo tecnologico, ai progetti di comunità produttive basate su principisocialisti, da Owen a Fourier, ai testi di Marx sul passaggio dalla manifattura allagrande industria e sull'alienazione, ai filoni di analisi aperti rispettivamente dallateoria marshalliana del distretto industriale e da quella schumpeterianadell'imprenditore. Lo spettro degli echi tendeva piuttosto ad allargarsi, avendo

1 Le fabbriche studiate - appartenenti al settore metalmeccanico - sono la Honda Italia,

che produce motocicli da 50 a 650 cc., La Società Adriatica di Meccanica (SAM),gruppo SEM (Piaggio), che produce componentistica per automobili commissionataper il 95 per cento dalla FIAT, infine la sede italiana della SEVEL, la joint ventureFIAT-PSA (Peugeot-Citroën) che produce - nella sede della Val di Sangro -autofurgoni per i tre marchi (Ducato, Jumper, Boxer). La ricerca, commissionata daIres-Network, Fiom-Cgil Abruzzo e Camera del Lavoro di Chieti, è stata realizzatadall'Ires-Abruzzo. Cfr. Guidi (cur.) (1995).

4 Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella

come centro i due eventi più significativi del mondo moderno: il primo,l'estensione delle relazioni di mercato e il crescere dei rapporti mediati dacontratti, che spesso sostituivano relazioni fondate sulla consuetudine,sull'autorità e sul rapporto personale, ma altre volte si affiancavano ad esse informe nuove (si pensi, a puro titolo di esempio, alla mezzadria e alla fabbricapaternalistica nell'Ottocento italiano); il secondo, la nascita dello Stato moderno edelle sue articolazioni politiche e amministrative, nonché l'affermarsi delle libertàcivili e politiche e delle forme di cittadinanza a esse collegate2.

Categorie tratte da questo patrimonio di riflessioni hanno, mi sembra,funzionato nel caso della ricerca menzionata, contribuendo a mettere a fuoconumerosi problemi sul tappeto. Il presente scritto si propone di fare un passoavanti, collocando al centro dell'analisi proprio i concetti utilizzati, in modo datrattarli più sistematicamente e approfondirne il valore euristico a proposito dellenuove relazioni industriali. È chiaro che non si tratta di un tentativo di storiaretrospettiva: non si intende infatti valutare episodi di storia del pensieroeconomico dal punto di vista delle teorie contemporanee, ma fare funzionareteoricamente - anche se, in qualche misura, prendendosi alcune libertà - unpatrimonio concettuale che si è misurato con problemi di scambio e di potere oggiriemergenti, sia pure in luoghi diversi della convivenza sociale.

1. Transplant e Fabbrica Integrata: modello corporativo vs modellocontrattualistico

Vi è generale consenso sul fatto che le trasformazioni nei modelli organizzativid'impresa, in Italia come altrove, segnino il tramonto di quel paradigma taylorista-fordista che ha accompagnato la lunga fase ascendente dell'economia occidentale,dalla crisi degli anni trenta ai primi anni settanta, fase basata sulla grande impresae sul consumo di massa di beni durevoli. Qualcuno, invero, sostiene che la nuovafilosofia "giapponese"3 altro non rappresenterebbe che un perfezionamento eun'intensificazione dell'organizzazione scientifica del lavoro, con riferimento siaagli aspetti oggettivi (il riempimento delle "porosità" rimaste opacheall'organizzazione gerarchico-funzionale)4, sia a quelli soggettivi(l'interiorizzazione del "sorvegliante" da parte del lavoratore, grazie alle strategiedi "coinvolgimento")5. Ma rimane consenso sul fatto che si è entrati in un'epoca"post-fordista". Meno chiaro è invece l'emergere di un modello egemonicounivoco, dato che il retaggio del passato, difficilmente azzerabile, rende diversi i

2 Sulle forme della cittadinanza il riferimento d'obbligo è T.H. Marshall (1976).

Un'analisi interessante dei linguaggi politici moderni in questa prospettiva èHirschman (1991)

3 Il testo di riferimento è qui Ohno (1993). Per il caso della Honda, cfr. Mito (1990);Okamoto (1992).

4 Cfr. Dohse-Jürgens-Malsch (1988); J.-P. Durand, Mutations, résistances etsignifications, in Boyer-Durand (1993). Per una panoramica, cfr. Bonazzi (1993a), pp.32-35.

5 Cfr. Knights-Wilmott (1989); Sewell-Wilkinson (1991).

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connotati del nuovo nei diversi contesti. Nel caso dell'Italia, in particolare,sembrano affermarsi almeno tre tendenze: in primo luogo, l'esistenza di alcunitransplant giapponesi - il più significativo dei quali è proprio quello della HondaItalia di Atessa6 - che pone problemi inediti di adattamento e di ibridazione; insecondo luogo, la svolta verso la Fabbrica Integrata partita dalle imprese delsettore auto ruotante attorno alla galassia Fiat, provenienti da una più chedecennale esperienza di Fabbrica ad Alta Automazione7; in terzo luogo,l'adozione dell'imperativo della Qualità Totale e della produzione snella da partedi un crescente numero di PMI della Terza Italia, che comporta un processo dirazionalizzazione e di formalizzazione di un contesto produttivo basato sullaflessibilità e sulla polifunzionalità del lavoro8. E la tendenza si fa sentire non soloin altri comparti produttivi, ma anche nel settore dei servizi e in particolare neiprocessi di ristrutturazione della Pubblica Amministrazione conseguenti alrecepimento del d.l. 29/19939.

Mi pare interessante in particolare soffermarmi su alcune differenze tratransplants giapponesi e Fabbrica Integrata di concezione italiana, da meriscontrate in sede di indagine, ma il cui significato mi sembra trascendere i casistudiati. Il tema attorno a cui le strategie adottate dalle diverse imprese appaionodifferire è quello del coinvolgimento. Come noto, il coinvolgimento dei lavoratorinegli obiettivi dell'impresa, almeno per quanto riguarda la produzione, diviene unfattore strategico nella produzione snella sia per quanto riguarda la fluidità delsistema (disponibilità all'imprevisto, segnalazione guasti e difetti, finoall'interruzione della produzione), che, soprattutto, per quanto riguarda la suaevoluzione (miglioramento continuo, circoli di qualità) e l'obiettivo più generaledella Qualità Totale, che richiede senso di responsabilità e autoattivazione. Ilsuccesso della strategia di coinvolgimento dipende da molti fattori, di due deiquali mi sembra interessante in particolare discutere:

1. le relazioni sociali, formali e informali, che si instaurano all'internodell'impresa: esse dipendono da premesse sia di carattere culturale (cultura dellavoro, cultura d'impresa, cultura sindacale)10, che di carattere contrattuale(contratto integrativo di lavoro);

2. gli aspetti più immateriali legati alla comunicazione, al trattamentodell'informazione e alla fiducia, aspetti che assumono crescente importanza neinuovi modelli organizzativi grazie al decentramento decisionale e al contesto dirazionalità limitata e adattiva in cui avvengono le decisioni di produzione.

Tratterò del primo gruppo di fattori in questo paragrafo e del secondo nelsuccessivo. È su di essi che si concentrano, appunto, alcune differenze apparentidi strategia.

6 Cfr. oltre al già citato rapporto curato dal sottoscritto, Signorelli (1993).7 Cfr. Bonazzi (1993); Cersosimo (1994); Enrietti (1994); AA.VV. (1995); Cerruti

(1995), (1995a).8 Cfr. Carboni (1993).9 Cfr. Dente (1995).10 Sull'impresa come insieme di culture che interagiscono tra loro cfr. Dioguardi (1986);

Sapelli (1990).

6 Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella

Da un lato le imprese giapponesi - e in forma più articolata i transplantsoccidentali - insistono sull'identificazione del singolo lavoratore con il collettivorappresentato in prima istanza dal team e in seconda istanza dall'insiemedell'impresa. Contribuiscono alla creazione di questo clima sia fattori simbolici(dall'eguaglianza nel vestire, al cappellino, ai parties e ai benefits aziendali,all'uso massiccio di slogan e cartelloni recanti le parole d'ordine dell'azienda, finoall'inchino, agli inni e all'alzabandiera), sia il rifiuto di codificare rigorosamente icompiti del singolo, insistendo invece - anche per quanto riguarda l'attribuzionedegli incentivi - sulle performances del collettivo (team) e su un clima di dialogocontinuo e disteso, sia infine (in verità, sembra, più in Giappone che qui da noi)un'importante serie di garanzie materiali di lungo periodo, legate per esempio aipercorsi di carriera e alla certezza dell'impiego. In questo caso, il coinvolgimentonella produzione diventa naturalmente una delle componenti di un più generalesenso di appartenenza e di un'identificazione del singolo con l'impresa. Potremmodefinire questo modello di relazioni industriali come corporativo.

Dall'altro lato, le imprese ispirate al modello autoctono di Fabbrica Integratainsistono invece sui vantaggi reciproci di uno scambio in larga misura codificatodal contratto aziendale con appositi meccanismi "premiali" (incentivi), anche se ivincoli tecnici legati al modello organizzativo (organizzazione per processoanziché per prodotto, lavoro a isole, rotazione delle mansioni e polivalenza,riduzione del rapporto indiretti/diretti) suggeriscono di applicare tali incentivi alivello di gruppo (team, aree produttive) anziché di singoli dipendenti, comeavveniva invece nei contratti di cottimo tradizionali. Naturalmente non tutto puòessere rigorosamente fissato contrattualmente. Tuttavia anche a livello informalecontinua a funzionare "l'ideologia economica"11 dello scambio, di volta in voltarealizzato tra suggerimenti, e miglioramenti di produttività o qualitativi, da unlato, e vantaggi di vario genere per i lavoratori (ambiente di lavoro, pause,riconoscimento di professionalità acquisite, miglioramento del dialogo ecc.),dall'altro. In questo caso, dunque, il coinvolgimento è la conseguenza di unoscambio e si realizza solo se è percepito un reciproco vantaggio. Viceversa cessaal punto in cui il vantaggio non appare compensare lo sforzo. Potremmo definirequesto modello come contrattualista.

Verrebbe spontaneo a questo punto andare oltre la coppiacorporativo/contrattualista e classificare i due modelli secondo la coppiaconcettuale, più forte, olismo/individualismo. Al modello contrattualista siapplicherebbero così i cardini del "calcolo dei piaceri e delle pene" codificati dallatradizione filosofica utilitaristica e divenuti il nucleo centrale della teoria dellescelte di ascendenza marginalista. A quello corporativo, invece, siapplicherebbero prevalentemente le categorie dell'economica antica12, oaddirittura quelle delle società primitive cui ci ha avvezzi l'antropologia

11 Dumont (1984).12 Il riferimento è qui non solo a classici come l'Economico di Senofonte e l'Economia

dello pseudo-Aristotele, ma anche a tradizioni più moderne che ne hanno ripreso icanoni, sempre inquadrandoli all'interno della ripartizione aristotelica della filosofiapratica in morale, economica e politica: dall'Hasväterliteratur all'economica italiana,alla letteratura de re rustica. Cfr. Frigo (1985), (1995); Bianchini (1990).

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moderna13. Vi è stato infatti chi, a quest'ultimo proposito, ha tentato di definire icomportamenti degli attori all'interno del modello giapponese con le categoriedell'economia del dono e della reciprocità, preso evidentemente dalla difficoltà diinterpretare un genere nuovo di scambio, che rompe con la tradizione tayloristicadella rigida codificazione e parcellizzazione delle mansioni e lascia spazi aperti auna collaborazione potenzialmente senza limiti. Una simile definizione ha avuto,tra gli altri, il vantaggio di sottolineare - con evidenti intenti normativi -l'importanza della generosità non tanto nel "dono" operaio, ma del "controdono"padronale, che non può limitarsi a una rimunerazione salariale, ma deveestendersi alle garanzie immateriali e di lungo periodo di cui si è già fattocenno14. Tuttavia non crediamo che le categorie antropologiche siano le più adattea cogliere la natura specifica del fenomeno in oggetto, almeno per quanto riguardale traduzioni occidentali del modello giapponese. Dalla nostra esperienza, infatti,emerge una tendenza, dal lato dei lavoratori, a selezionare gli elementi costitutividel paradigma originario, scartando quelli più tipicamente identificanti (inchino,parties, slogan) e accogliendo invece di buon grado quelli che accresconol'eguaglianza (dall'appiattimento delle gerarchie alla tuta indistinta per operai emanager) e la possibilità di dialogo (libera circolazione dei delegati sindacali,presenza del management e dei tecnici nei reparti, circoli di qualità ecc.). Si puòleggere, dietro questa procedura selettiva, la chiara intenzione di conservarel'autonomia individuale e la separatezza delle parti sociali, che accettano ora - incambio di precise garanzie - di fare evolvere il terreno del confronto dallaconflittualità (che pure in determinate circostanze risorge) all'interazione sullecose e sui problemi: dalla soluzione exit alla soluzione voice, in sostanza15. Cisembra in altre parole di cogliere in queste tendenze i segni di una cultura dellavoro e delle relazioni sindacali che fondamentalmente non rompe con latradizione italiana ed europea, ma coglie nei nuovi modelli organizzativipossibilità inedite di affermazione della soggettività operaia anche nelle sueistanze collettive e rivendicative. Non pare invece all'orizzonte il passaggio direttoda una realtà, quella tayloristica, nella quale era riconoscibile la "differenza"operaia rispetto a un padronato autoritario, ad una realtà totalitaria nella quale sidomanda una loyalty incondizionata di ascendenze, di nuovo, arcaiche16.

Una considerazione a parte merita invece l'applicabilità a certi modelli ditransplant o di Fabbrica Integrata di categorie derivanti dall'economica classica.Si tratterebbe in questo caso di utilizzare, per comprendere i fenomeni in corso,non tanto le categorie delle economie primitive, quanto quelle usate dalla storiadella cultura occidentale per definire i rapporti sociali nelle economie tradizionali(precapitalistiche) europee, dall'antichità fin dentro l'epoca moderna. Occorre a talfine sforzarsi di capire se, dietro la disposizione a collaborare dimostrata da variesempi di successo nell'applicazione dei nuovi modelli organizzativi, si possa

13 Cfr. Polanyi (1980).14 Cfr. Bonazzi (1993), pp. 140-41. La riflessione di Bonazzi parte dalla nozione di

"scambio parziale di dono", enunciata da Akerloff (1970) nel contesto della sua teoriadei "contratti impliciti".

15 Hirschman (1982)16 Cfr e contra Revelli (1995).

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leggere il persistere - o in taluni casi il riemergere carsico - di culture economicheche, nella peculiare storia del capitalismo italiano, sono sopravvissute e si sonoadattate all'avvento dell'industrializzazione, alla modernizzazione delle campagnee allo sviluppo dei mercati e delle città. Culture economiche fondate sullacentralità del nucleo familiare e sul ruolo morale, distributore e regolatore del"padre di famiglia", sia esso il contadino nei confronti del proprio nucleofamiliare allargato e dei propri lavoranti, il proprietario fondiario nei confronti deipropri contadini o il padrone della fabbrica paternalistica nei confronti delle suemaestranze. Culture economiche radicate in una concezione inegualitaria,gerarchica e sostanzialmente conservatrice dei rapporti sociali (anche quandoaccetta il terreno della modernizzazione economica), nella quale si innestano fortivalori localistici, una ripulsa per gli stili di vita della grande città (vista comecorrotta) e un recepimento distorto dell'economia di mercato e delle sue regole (ilrecepimento è come noto avvenuto infatti attraverso i modelli di consumo anzichéattraverso la sottomissione alla disciplina del mercato). La teorizzazione delleforme di economia tradizionale da cui derivano queste appendici moderne -l'oikos antico, "l'ordine trinitario" feudale, la proprietà aristocratica moderna - èstata in prevalenza affidata alla filosofia di ceppo aristotelico17, e recenti studihanno indicato la fecondità di ricorrere a questa tradizione filosofica per megliocomprendere anche alcuni segmenti dell'ideologia economica prevalente nell'Italiasette-ottocentesca18. Il problema è vedere se l'accettazione di un clima di fabbricabasato sul coinvolgimento può in taluni casi rispondere a "sopravvivenze" diquesta cultura. L'ipotesi è da mettere in connessione con le scelte dilocalizzazione dei transplants e delle Fabbriche Integrate di nuova concezione(greenfield), scelte che, come noto, si sono orientate - in realtà già nei primi anniottanta - verso contesti rurali del Mezzogiorno, caratterizzati dalla lontananza dagrandi centri urbani e da un bacino di forza-lavoro gravitante in un'area i cuispostamenti interni sono contenuti in 30-60 minuti19. La strategia, come è noto,oltre a rispondere all'obiettivo di sfruttare gli incentivi legati all'interventostraordinario, ha avuto una ragion d'essere essenzialmente negativa: evitare cioè laconflittualità ormai radicata nella cultura sindacale della metropoli tayloristica.Ma non è da escludere che, soprattutto laddove si è scelto un modelloorganizzativo di tipo più "olistico" (ma non solo), il successo organizzativo nondipenda in parte anche da fattori culturali localistici (riprodotti su scala ridottaall'interno della fabbrica), solidaristico-familistici (vicinanza culturale tralavoratori e quadri intermedi) e clientelari (assunzioni "di favore" promossedirettamente dalla direzione aziendale o con la mediazione dei potentati locali),fattori che rafforzano il "senso di appartenenza" e garantiscono l'accettazionedell'ordine dato. La questione è tale da non consentire, a questo livellocongetturale, facili risposte, anche se la sensazione dell'intervistatore, nelleindagini sul campo, è che questi elementi in parte esistano. Tuttavia le tendenze a

17 Cfr. Capitani (1974); Le Goff (1977); (1987); Langholm (1983); Baeck (1995).18 Cfr. Augello-Bianchini-Guidi (1996), in particolare i saggi di Morato, Maccabelli,

Righelli-Vercesi, Guidi e Bianchini, compresi in questo volume. Cfr. inoltre Augello-Guidi (1996).

19 Cfr. Cersosimo (1994).

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selezionare l'accettazione delle strategie di coinvolgimento sulla base di valoriegualitaristici, di cui si diceva sopra, per esempio, non solo la dicono lunga sullapenetrazione anche in questi contesti di una cultura solidaristica di tipo piùmoderno ("di classe", basata su rapporti di forza), ma ci richiamano anche ainterrogarci su come la cultura paternalistica e gerarchica tradizionale sia statasempre recepita "dalla parte dei vinti"20.

Anche i modelli più tipicamente contrattualistici, tuttavia, sfuggono aun'analisi eccessivamente spostata sui valori individualistico-edonistici, perragioni speculari a quello poc'anzi evocate. Almeno nei casi in cui questi modellisi affermano con successo, emerge in effetti da parte operaia (e non solo) unatendenza a non misurare con la bilancia - e tanto meno con le curve diindifferenza - i vantaggi e gli svantaggi del coinvolgimento. È chiaro soprattutto ilrifiuto di valutare i guadagni in termini di semplici incentivi salariali. Vi è invecela consapevolezza delle opportunità immateriali e di lungo periodo che la nuovaorganizzazione del lavoro può offrire: dall'eliminazione della parcellizzazione edelle forme più dure di alienazione, all'acquisizione di conoscenze eprofessionalità e di un migliore ambiente di lavoro, alla possibilità, in prospettiva,di contare di più nelle decisioni strategiche dell'impresa. Queste attitudinicorrispondono cioè, quando si realizzano, a un'evoluzione della cultura dellacontrattazione collettiva, piuttosto che a un calcolo individuale costi-benefici.Dalla parte della dirigenza, se emergono talvolta sia tendenze a rompere questacultura in senso più individualistico (i premi per un'idea, i tentativi di bypassare lacontrattazione collettiva), sia tendenze a concepire lo "scambio" in termini piùmarcatamente mercantili, si verificano tuttavia anche episodi di maggioreconsapevolezza dell'importanza di costruire un clima di coinvolgimento rispettosodelle culture del lavoro e sindacali presenti tra i dipendenti, per esempio con lapiena accettazione delle RSU e del sindacato confederale territoriale quali parti incausa indispensabili del processo di trasformazione. Si tratta in questo caso di unadifferenza importante rispetto al modello giapponese, nel quale, come noto,l'affermazione della produzione snella ha seguito la sconfitta dei sindacati rossidegli anni cinquanta e la loro sostituzione con più docili sindacati aziendali"gialli"21.

La questione del contratto di lavoro implicante l'obiettivo del coinvolgimento edella disponibilità all'imprevisto merita uno di quegli approfondimenti storico-teorici di cui si parlava all'inizio. Vi è in effetti qualcosa, in questi nuovi rapporti

20 La questione si connette a quella della tradizionale "astuzia" contadina, consistente nel

tentativo di occultare al proprietario vantaggi produttivi acquisiti o nel profittare sia disituazioni di incertezza nei patti, sia delle stesse regole della solidarietà paternalistica.Cfr Poni (1982). Un tale retroterra culturale, talvolta impropriamente definito con iltermine (peggiorativo) di "individualismo" sembrerebbe più anticipare il tipicocomportamento dell'operaio taylorista - la gelosa protezione delle "zone d'ombra" dinon-lavoro - che lo sforzo cooperativo del coinvolgimento. Quest'ultimo apparedunque come una rivoluzione culturale non facile da acquisire anche in contesti ruralitradizionali.

21 Cfr. Ohno (1993), pp. 17-19; Revelli (1993), pp. xli-xlii; Boyer-Durand (1993), pp.159-61.

10 Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella

di lavoro, che sfugge sia all'applicabilità stretta di una logica contrattuale, basatacioè su un rigido concetto di "giustizia commutativa" (concetto di derivazioneanche in questo caso aristotelica22, ma divenuto centrale nella tradizionegiusnaturalista, da Grozio23 fino ad Adam Smith24, ed implicante l'eguaglianza invalore dei beni e dei servizi scambiati), sia a una lettura in termini di dono e direciprocità. In effetti, la posta in gioco in questi contratti appartiene pienamenteall'orizzonte culturale moderno25.

Può essere utile avvicinare il problema da un angolo visuale comparativo. Si èsostenuto che, in Giappone, il kaizen (miglioramento continuo) è di solito inseritotra i doveri del lavoratore fissati dal contratto26. Comprendere che cosa questosignifichi esattamente nella cultura giapponese fuoriesce dal nostro ambito27.Tuttavia, nella nostra cultura occidentale, il problema può difficilmente esseredefinito in termini così semplificati: la tradizione scolastica, ripresa da quella deldiritto naturale, ha infatti codificato una distinzione - pertinente rispetto alproblema che stiamo analizzando - tra quelli che vengono chiamati diritti e doveri"perfetti" e invece i diritti e doveri "imperfetti"28. I primi possono essereesattamente definiti in tutti i loro dettagli e corrispondono dunque a compiti (esoprattutto interdizioni) determinati. Nei termini della teoria economicacontemporanea, potremmo dire che, salvo asimmetrie informative ed altrifenomeni legati all'incertezza, essi possono essere oggetto di contratti completi.Perciò, la loro applicazione può essere sottomessa a un apparato di tipogenericamente sanzionatorio (multe, riparazioni, rottura di contratti,licenziamento, fino a sanzioni penali). I diritti e i corrispondenti doveri imperfetti,invece, non possono essere esattamente definiti e circoscritti, in quantopresuppongono atti graduabili e differenziabili, la cui misura dipende dallavolontà del soggetto. Per esempio, mentre in uno scambio di beni, ammesso ilconsenso delle parti sul criterio di misura del valore, posso dire di avere un dirittoperfetto a ricevere l'equivalente del bene da me ceduto, nel rapporto genitori-figliposso dire che esiste un diritto dei secondi a essere educati ed assistiti congenerosità, ma la misura di questa generosità, o le forme in cui essa si esplica, perquanto possano essere sottomesse a "soglie minime", non hanno limiti determinatidal lato del massimo29. Questo è appunto un diritto imperfetto. Ovviamente, i

22 Aristotele (1986), V, 6-7.23 Grozio (1752), I, I, viii.24 Smith (1991), pp. 368-70.25 Più da vicino semmai, sebbene in maniera insufficiente, le sue caratteristiche sono

state colte sia dalla teoria dei "contratti impliciti" che da quella dei "salari diefficienza". Cfr. Akerloff (1970), Shapiro-Stiglitz (1984).

26 Okamoto (1992), p. 15.27 Ma cfr. Morishima (1987).28 La questione viene discussa anche da Smith. Cfr. Haakonssen (1981); Pesciarelli

(1988). Trova inoltre una riformulazione in termini utilitaristii anche in Bentham. Cfr.Fagiani (1989); Guidi (1991).

29 L'esempio più significativo di questi diritti, naturalmente, è quello che concerne i dirittidi cittadinanza sociale, già intuito sia da Smith, nell'ambito della sua teoria dellapolice, che da Bentham, nell'ambito della sua teoria dello Stato amministrativo.

Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella 11

diritti imperfetti non possono essere definiti da un contratto completo, giacché lanatura non determinabile ex ante dello sforzo che sarà effettivamente erogatocomporta di per sé incertezza, asimmetrie informative e possibili situazioni dirischio morale, e comunque elevati costi di monitoraggio. Per tali ragioni, unapparato di tipo sanzionatorio è inadeguato a promuovere il rispetto di questidoveri, per i quali si può ricorrere o in generale a valori condivisi di tipo morale,professionale o politico, oppure, più frequentemente, a un apparato di tipo"premiale" (incentivi, ricompense, premi ecc.), basato su una procedura"consequenzialista", che cioè premia lo sforzo in base a determinati risultatifacilmente misurabili (per esempio, l'aumento di produttività, o la riduzione delrapporto lavoratori indiretti/diretti)30. È infatti costitutivamente impossibile, peresempio nei contratti di lavoro che qui ci interessano, indicare esattamente i criteridell'eventuale inadempienza contrattuale, anche se si possono fissare delle soglieminime analoghe a quelle suggerite dalla teoria dei salari di efficienza, al di sottodelle quali scattano penalità o comunque non si applicano premi.

Il coinvolgimento, il kaizen, la disponibilità, in particolare, possono essereutilmente inquadrate entro la categoria dei doveri imperfetti. Il vantaggio dileggerli attraverso questa chiave è duplice. Da un lato essa permette di individuarele ragioni della difficoltà di inquadrare questi rapporti entro le categorie dellateoria economica, anche all'interno delle ipotesi istituzionaliste e convenzionalistesui contratti impliciti. Dall'altro, molto meglio della nozione di "dono generoso" odi "scambio parziale di dono", essa permette di inquadrare questi nuovi dovericontrattuali all'interno di un orizzonte culturale di tipo più moderno eindividualistico, quale si pensa possa funzionare nella percezione dei soggettiinteressati: giacché l'attesa - nel loro caso - non è quella di una fusione olistica estatica degli interessi, ma quella di un riconoscimento individualistico e dinamicodei meriti. È interessante osservare, a questo proposito, che la nozione di dirittoimperfetto, se evoca l’attesa del riconoscimento di un entitlement in qualchemodo «guadagnato sul campo», tuttavia - a differenza della nozione gemella didiritto perfetto - sposta l’attenzione dalla rigida sanzione di principi(eventualmente inalienabili), alla più elastica valutazione delle conseguenze degliatti. La scelta dei criteri per premiare i meriti può così diventare oggetto di unadiscussione pubblica e di una negoziazione i cui esiti possono essereeventualmente ridiscussi col mutare delle circostanze.

Quest'ultima considerazione evoca il problema del soggetto cui spetta la sceltadei criteri, prima, e l’erogazione degli incentivi, poi. Per discutere la questionepuò essere utile riportarci a un'altra coppia concettuale già parzialmente evocata:

Ammesso - come oggi è ammesso - che esistano diritti dei malati, dei poveri, deigiovani, all'assistenza dello Stato (sociale), non può essere prescritta univocamente lamisura di questa assistenza, al contrario di come può essere invece prescritto il dirittoalla proprietà o alla sicurezza della persona. Cfr. Pesciarelli (1988), cap. 6.

30 Come noto, tuttavia, anche la misurazione delle conseguenze, più facile di quelladell'"impegno" soggettivo, è sottoposta ad alcuni limiti, noti in letteratura come"problemi di agenzia": è spesso difficile misurare il contributo autonomamenteapportato da ciascun team o divisione, distinguendolo dai risultati dovuti a esternalitàpositive determinate dalla cooperazione di altri teams o divisioni.

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quella che distingue la "giustizia commutativa" dalla "giustizia distributiva". Laprima consiste, come si è detto, nello stabilire (o ristabilire, secondo la nozioneparallela di "giustizia riparatrice")31 l'eguaglianza degli scambiati, mentre laprima, per riprendere ancora una volta la definizione aristotelica, consiste nel"dare a ciascuno il suo". È evidente che il riconoscimento dei diritti e doveriperfetti sottostà in larga misura alle regole della giustizia commutativa, mentre lavalutazione dei diritti e dei doveri imperfetti può essere compiuta adeguatamentesolo in sede di giustizia distributiva. Questa presuppone un soggetto che perqualche ragione (autorità paterna, potere assoluto, mandato rappresentativo, ruolomanageriale) accentra risorse scarse e le alloca tra un certo numero di destinatariin base a una regola ritenuta giusta non in quanto rispetta un semplice criterio dieguaglianza, ma in quanto tiene conto delle differenze tra le diverse persone eattribuisce misure diverse a ciascuno in modo da governare queste differenze. Inuna società arcaica, come quella cui pensa Aristotele, l'attività di distribuzione (ilnomos) tende a confermare o ristabilire la posizione sociale di ciascuno in unordine gerarchico e inegualitario; in una società moderna, e in particolarenell'organizzazione capitalistica, il criterio prevalente è quello del merito, mentrele parole d'ordine del socialismo delle origini evocano, come noto, il criterio delbisogno ("da ciascuno secondo i suoi meriti, a ciascuno secondo i suoi bisogni").La distribuzione di premi e ricompense è dunque una delle poste in gioconell'esercizio della giustizia distributiva, la forma più tipica dell'orizzontemoderno.

L'avere affrontato mediante queste categorie la questione del coinvolgimentonon è peregrina. Esse mostrano infatti che il "rapporto salariale" tende ad esseresempre meno identificabile con il terreno dello scambio di equivalenti, nel quale,per ricordare l'ironia marxiana, "regnano libertà, eguaglianza, proprietà eBentham"32, e non tanto per il "rovesciamento del diritto di appropriazione"33 chegenera lo sfruttamento, ma perché il manager datore di lavoro tende ad essereposto in una posizione, per così dire, pseudo-politica, o comunque nella posizionedi un'autorità centrale responsabile di compiti distributivi: non è bensì né sovranoassoluto né depositario di un mandato rappresentativo, giacché cura gli interessidella propria azienda e della sua base proprietaria, ma non può limitarsi ascambiare linearmente salario contro prestazione. Ciò non significa nemmeno, osignifica sempre meno, che egli esercita semplicemente dentro l'organizzazioneun'autorità di comando che si sostituisce allo scambio di mercato, secondo l'ormaicanonica bipartizione di Chandler e Williamson, a sua volta basata sui contributipionieristici di Coase34. Il punto è che, come per un'autorità politica (o morale), ledecisioni del manager diventano oggetto di valutazioni di giustizia distributiva, el'erogazione di doveri imperfetti da parte dei lavoratori diviene funzione dellapercezione del rispetto di criteri condivisi (ma non determinabili una volta pertutte, come è nel caso di incentivi e ricompense) di giustizia. In una parola,

31 Aristotele (1986), V, 7.32 Marx (1975), L. I, p. 212.33 Marx (1968-71), vol. II, p. 76.34 Coase (1937); Williamson (1981); Chandler (1981); Daems (1980). Per una critica di

questa impostazione cfr. Sapelli (1990), Introduzione.

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diviene funzione del consenso o, come diceva Bentham, dell'"abitudine (odisposizione) a obbedire", compagna di viaggio indispensabile delcoinvolgimento (disposizione all'autoattivazione, o autonomazione, per riprendereOhno)35.

La questione diventa allora: quale genere di "premio" è adatto almantenimento di questa disposizione? Questa questione, i cui risvolti normativisono evidenti, si associa tuttavia a un'altra di carattere più squisitamenteinterpretativo: date le culture del lavoro e le culture sindacali presenti nelle aree enelle imprese interessate da trasformazioni in direzione della produzione snella,secondo quali parametri (o valori) viene percepito il rispetto della giustiziadistributiva? La risposta non può essere naturalmente univoca, tuttavia gli autoriclassici della letteratura premialistica, da Bentham a Melchiorre Gioia36, ciavvertono - più dei loro emuli moderni (penso agli economisti, in particolare neo-istituzionalisti) - della complessità dei fattori che entrano in gioco quando siintende sollecitare l'esercizio di virtù "supererogatorie": fattori materiali, o"pecuniari", ma anche fattori simbolici (legati alla vanità o al più moderatodesiderio dell'approvazione altrui), e soprattutto considerazioni di potere.Quest'ultimo può essere inteso certamente come l'illimitato desiderio primordialedi sottomettere i propri simili di Hobbes, ma può anche essere inteso comedesiderio di partecipazione attiva al controllo dei processi nei quali si è coinvolti,o ancora come desiderio di autonomia, di auto-valorizzazione, di accrescimentodelle proprie competenze e professionalità. Non necessariamente, dunque, ildesiderio di potere, inteso in questo senso, è contro gli altri o a spese degli altri:può essere un desiderio di pari dignità e di compartecipazione. È tuttavia,certamente, un desiderio che, per essere soddisfatto, implica redistribuzione anchedi questa risorsa. La terza via tra un premialismo simbolico, che cural'identificazione del singolo con il tutto, e un premialismo economico, che stimolale passioni individualistiche e acquisitive, è dunque una distribuzione di spazi dipotere e di autonomia dei lavoratori. Naturalmente anche questa distribuzione puòessere compiuta individualmente (creando cioè discriminazioni, premiando i"fedeli", i non sindacalizzati ecc.), ma anche collettivamente e in formaistituzionalizzate (creando "diritti" collettivi di partecipazione e controllo, come ildiritto obbligatorio di consultazione o l'istituzione di commissioni miste diverifica). La sensazione è che sia proprio su quest'ultimo genere di distribuzionedel potere che si concentra oggi, nella cultura operaia impegnata ad accettare inuovi modelli organizzativi, il senso della giustizia distributiva. Della visionehobbesiana, forse, questo desiderio di potere inteso come autonomia conserva unelemento: il carattere tendenzialmente illimitato, non determinabile a priori. Sitratta di un elemento che è più insito nel modello del coinvolgimento di quantonon lo fosse in altri, e la ragione risiede sempre nella natura "imperfetta" dei

35 Ohno (1993), p. 7. Per la nozione benthamiana di "habit of obedience" o "disposition

to obey" cfr. Hart (1982).36 Bentham (1811); Gioia (1833). Cfr. Facchi (1994). Un richiamo alla necessità di

interrogare questi classici nell'ambito della moderna teoria dell'organizzazioneindustriale è in Dioguardi (1995), p. 123. Per una storia delle teoriedell'organizzazione, cfr. Fabris (1980); Dioguardi (1990).

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doveri richiesti ai lavoratori: se indeterminata - e sempre spostata in avanti - deveessere l'autoattivazione per il miglioramento continuo e il buon funzionamentodella produzione snella, parimenti indeterminata e suscettibile di avanzamenti nonpuò che essere la gestione dei "premi" che questi meriti si guadagnano.

Il punto discriminante della questione risiede infatti in un duplice elemento: daun lato la fragilità di un "tubo di cristallo", per riprendere la definizione diBonazzi, costruito tutto sulla disponibilità soggettiva a collaborare; dall'altro, ilfatto che l'obiettivo è un miglioramento incessantemente crescente dellaproduttività del sistema e della qualità dei prodotti. Il sistema cioè fallisce nonsolo se viene meno la collaborazione, ma anche se si collabora poco. In questocontesto, qualunque risorsa disponibile per gli incentivi, essendo per sua naturalimitata, è insufficiente da sola a reggere lo sforzo. Occorre dunque impiegare unmix di risorse quanto più possibile variegato. D'altra parte proprio le risorse"pecuniarie" e simboliche presentano precisi limiti in questo contesto. Gliincentivi monetari, prediletti dai modelli contrattualistici, presentano infattinumerosi controindicazioni. In primo luogo, la letteratura economica hasottolineato, come si è detto, la difficoltà di individuare una regola per ladistribuzione degli incentivi che risolva i cosiddetti "problemi di agenzia"; manon è tanto questo il punto che qui ci interessa, dato che esso riguarda piùl'efficienza che l'efficacia degli incentivi, ai fini degli obiettivi dell'impresa. Lascarsa efficacia degli incentivi monetari è invece determinata dal fatto che essi,proprio per la loro natura di immediato do ut des (o meglio: do ut facias)37 e perla loro utilità marginale decrescente, possono più rapidamente di altri bruciare ladisponibilità ad un "generoso" e crescente coinvolgimento. Tra la logica del do utfacias (logica di scambio limitato) e quella del coinvolgimento (logica dicooperazione illimitata) esiste un'asimmetria non appianabile e produttrice ditensioni. Insistere dunque su questa logica significa andare incontro o a uneccesso di stress e di successiva delusione, o a forme di resistenza passiva ocomunque di coinvolgimento subottimale. Gli incentivi simbolici, da parte loro,prediletti invece dai modelli corporativi, contengono il rischio opposto: quello dicreare l'equivoco di un contesto comunitario al quale si può dare molto, ma dalquale si può pretendere sempre di più, con la conseguenza che le situazionicongiunturali di difficoltà e in generale i vincoli di scarsità possono essererisentiti come "tradimenti" delle attese, dando luogo ai tipici casi di"surriscaldamento affettivo" caratteristici dei contesti familiari e comunitari.Paradossalmente gli esiti possono essere più conflittuali o, viceversa produttivi dianomia.

Solo la redistribuzione collettiva anche di quote di potere all'internodell'impresa può allora garantire nel lungo periodo il perdurare del modello,giacché, tra l'altro, essa ha il vantaggio di stabilire una simmetria tracoinvolgimento (nella produzione) e partecipazione (alle decisioni), pursalvaguardando l'autonomia delle parti. Il lavoratore che sa che la sua parola contaè anche più disposto a cooperare per gli obiettivi dell'impresa. In un primo tempo,quello attuale, è probabile che questa operazione di redistribuzione si esaurisca

37 Sui contratti di do ut facias un riferimento classico è Blackstone (1778), L. II, cap.

XXX.

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nell'officina, cioè nelle decisioni relative alla produzione giornaliera, alla suaorganizzazione e al suo andamento. Già a questo livello sono molte le difficoltàda superare: da quella dei quadri ad accettare l'appiattimento gerarchico e la finedi una logica top down, alla capacità del management di ascoltare e accettare unadose sufficiente di suggerimenti provenienti dal basso, all'efficacia dei circoli diqualità, all'incontro tra la cultura e gli specialismi dei tecnici e quella deglioperativi. E la lista potrebbe continuare. Ma è probabile che il gusto e il desideriodi contare, acquisito dai lavoratori a questo livello, ponga un giorno il problema diun passo in avanti, che non può non andare nella direzione di un qualche diritto dientrare nel merito delle decisioni strategiche dell'impresa (rapporti con il mercato,investimenti, politiche di assunzioni ecc.): la direzione, cioè, dellacodeterminazione tipica del modello tedesco di relazioni industriali. Il problemasarà costituito, a questo livello, dalla disponibilità della proprietà e della direzionedell'impresa ad accettare questa logica, giacché, indubbiamente, essa restringe imargini di discrezionalità e di autonomia che sono essenziali per la profittabilitàdell'impresa. Comunque sia, il rifiuto di entrare in questa logica non sarebbesenza conseguenze proprio sui fattori strategici del modello della produzionesnella e della qualità totale. Non andare avanti significherebbe inevitabilmentefare un salto indietro verso le impasses dell'ultima fase del taylorismo: in uncontesto di mercato che, prevedibilmente, non consentirebbe questo ritorno.

È opportuno forse, a questo punto, riflettere meglio sul genere di "democrazia"che è possibile raggiungere all'interno della fabbrica con produzione snella. Primadi farlo, tuttavia, occorre approfondire alcuni aspetti "immateriali" caratteristicidei nuovi modelli organizzativi.

2. Figure della comunicazione e della fiducia

È stata da molti sottolineata l'importanza rivestita dalla comunicazione - sottoforma di discussione, messaggi scritti e dati elaborati - nei nuovi modelliorganizzativi. Il tipo di attività che tende sempre più a prevalere nella fabbricamoderna è il trattamento e la comunicazione di informazioni, tanto che, come hasostenuto qualcuno, si potrebbe dire che siamo di fronte a un processo di"impiegatizzazione" di tutti i lavoratori, indipendentemente dalle mansioni svolte.Il lavoro di trasformazione è invece sempre più affidato alle macchine e ai sistemiautomatici 38. Della parola, nelle sue varie forme, del dialogo e della trasmissionedi informazioni vi è infatti bisogno a tutti i livelli della lean production: dalsuggerimento (miglioramento continuo), alla segnalazione di guasti,disfunzionalità organizzative e situazioni di disagio soggettivo, allemicrodecisioni da prendere nella squadra o tra squadre - fino al blocco della lineain caso di difettosità (andon) -, alla trasmissione degli ordini da valle a monte (chesia realizzata con strumenti poveri di tecnologia come il kanban o il carrello,ovvero con strumenti più ricchi come gli elaboratori elettronici collegati in rete),all'interpretazione dei diagrammi all'interno delle isole di lavoro, ai circoli di

38 Rieser (1992), p. 187.

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qualità, alla formazione continua, fino a giungere agli aspetti più "orwelliani" - icartelli contenenti gli slogan dell'impresa - e a quelli più "democratici":l'istituzionalizzazione dei rapporti tra dirigenza e sindacato interno ed esternoall'impresa. Ma non si tratta solo di quantità di informazioni: il punto è che essesono più egualmente distribuite tra i diversi soggetti e che tendono a circolare ilpiù possibile orizzontalmente anziché verticalmente, e bottom up anziché topdown, come nei meccanismi di trasmissione del comando per via gerarchico-funzionale nel modello tayloristico (meccanismo comando-verifica). Tutto questoè noto a chi opera in queste realtà e a chi le ha studiate, anche se è giusto ricordareche non sempre il quadro idillico tracciato corrisponde alla realtà. Si può dire chevi è una chiara tendenza in questo senso, i cui caratteri inediti e le cui potenzialitànon devono sfuggire.

Ma non è sufficiente parlare di comunicazione. La maggior parte degli scambidi informazione sopra ricordati, infatti, implicano discussione in vista di unadecisione, rientrano dunque propriamente nell'ambito di quella che gli aristotelici,antichi e moderni, chiamano la praxis39. Più in generale la parola scambiataimplica un'attività di persuasione. Quest'ultima, a sua volta, richiede, da un lato,l'apprendimento delle regole dell'arte del persuadere (la retorica nella suaaccezione classica), dall'altro la fissazione di una serie di condizioni materiali e ditacite convenzioni o regole del gioco, all'interno delle quali la conversazione sia"civile" e fruttuosa, e possibilmente termini con l'accordo e con la deliberazione.Siamo condotti qui, non artificiosamente, nel cuore di una delle questioni chehanno maggiormente appassionato la cultura europea moderna, potremmo dire daErasmo in poi. O meglio, questa questione entra di diritto in un luogo che finorale era rimasto largamente impermeabile: la fabbrica. Dalla civilitas erasmiana alCortegiano di Baldassar Castiglione, al Galateo di Giovanni Della Casa40, finoalle discussioni della milanese Accademia dei Pugni confluite nel "Caffè", il temadella "civile conversazione" è infatti stato associato all'addolcimento dei costumie alla sostituzione di rapporti dominati dalle passioni violente, dall'affermazionedel potere e della vanità, con rapporti fondati invece sulle passioni calme, suldesiderio dell'approvazione altrui, cui corrisponde appunto quello di persuadere.Tra le premesse di questa evoluzione dei costumi, fondamentale per lacostruzione di una società policée o "delle buone maniere"41, sono stati via viaindividuate sia regole di carattere convenzionale e culturale (i vari "galatei",appunto), sia presupposti di carattere più sostanziale, il più importante dei quali èuna condizione di eguaglianza e di pari dignità tra i partecipanti allaconversazione. Non è casuale che nell'orizzonte sociale dell'epoca moderna, lasocietà delle buone maniere e la civile conversazione siano apparse prerogativadell'aristocrazia42 o al più, nei paesi di più antica tradizione commerciale, comel'Olanda43, delle frange più ricche della borghesia.

39 Cfr. Baccelli (1991).40 Revel (1986).41 Elias (1988).42 Guidi (1993a).43 Schama (1990).

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È noto che, anche per Adam Smith, il desiderio di persuadere appare come unodei moventi basilari dell'agire, anzi, come una delle tendenze originarie (cioè nonulteriormente analizzabili) dell'animo umano. Come si è detto, Smith non hainventato il tema, ma lo ha ereditato dalla tradizione umanistica e dei Lumi. Lasua genialità è consistita però non solo nell'universalizzare questo movente, manel farlo transitare dal salotto e dall'accademia (cioè dall'ambito delle relazioni tra"pari"), al mercato e - più in generale - al contratto. La conversazione e lapersuasione non sono il mercato o il contratto, e la propensione a persuadere noncoincide con la propensione a scambiare. Tuttavia l'una è la necessaria premessadell'altra, giacché un commercio stabile e non di rapina è possibile solo laddoveesiste una "situazione di comunicazione" che gli individui sono interessati amantenere corretta, regolata e civile per una ragione più generale: il desiderio diessere approvati dagli altri e, soprattutto, dallo spettatore imparziale che è inciascuno di noi44. In questo senso il commercio contribuisce all'addolcimento deicostumi (il grande tema montesquieviano)45, tanto quanto la civilitas contribuisceall'affermarsi di una società commerciale.

Se si sono evocati questi episodi della storia delle idee, è perché pongonoquestioni che si ritrovano oggi al centro delle nuove relazioni di lavoro, econtribuiscono a portarne alla luce i vari aspetti. Il passaggio dal meccanismocomando-rendiconto al primato della parola condivisa e discussa porta infatti iprerequisiti e le conseguenze della "civiltà delle buone maniere" anche all'internodella fabbrica e del contratto di lavoro. I mutamenti antropologici che questaevoluzione può determinare non sono di poco momento. Ma soprattutto questo"nuovo modo" mette meglio in luce la natura dei rapporti sforzo-ricompensa dicui si è sopra parlato. Da un lato, infatti, la disponibilità all'imprevisto e alcoinvolgimento diviene funzione dell'instaurazione di un clima di confronto nelquale la parola appaia efficace. La discussione diviene il modo in cui vengonomessi sul tavolo i problemi e negoziati i compiti e le soluzioni. Occorre pertantoche nasca un "nuovo galateo"46, ma anche che esso venga istituzionalizzato, cioèaccettato e praticato da entrambe le parti. Anche il successo di consensi attornoalle strategie egualitarie e di appiattimento gerarchico rivela il bisogno di stabilireuna di quelle precondizioni del dialogo che la tradizione ha sottolineato:l'esistenza di un grado sufficiente di "prossimità" tra le parti che dia a ciascunaeguali chances di successo nello sforzo di persuasione, evitando le tentazioni dicortocircuiti autoritari. Da questo punto di vista, le tendenze a svuotare dicontenuto figure innovative come i team leaders o capi UTE (concepitioriginariamente come primi inter pares), riavvicinandoli ai vecchi tipi del capo-squadra o reparto (superiore gerarchico e terminale di ordini provenienti dall'alto)- tendenze lamentate in alcune realtà dell'universo Fiat - rivelano la difficoltà diaccettare fino in fondo la logica del coinvolgimento. Dall'altro lato, è indubbio

44 Fiori (1992).45 Hirschman (1979).46 Non è casuale che a un momento importante di trasformazione e razionalizzazione

dell'apparato amministrativo moderno, come quello verificatosi durante l'epocanapoleonica, sia corrisposto il bisogno di formulare un Nuovo galateo. Questo è iltitolo di un'operetta di Melchiorre Gioia.

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che il processo aperto con la instaurazione di una "civile conversazione" puòessere rappresentato come una spirale difficilmente circoscrivibile a compiti dimera gestione efficace dei processi. L'attività volta a persuadere implicanecessariamente alternative tra cui è necessario addivenire a una decisione.Implica quindi necessariamente la liberazione di un senso critico -originariamente nel senso di kritein, scegliere, appunto - e quindi sviluppaintelligenza dei processi e dei fenomeni e sposta in avanti i confini dell'osservaree del discutere, e quindi del contrattare e del persuadere. L'opzione voice divieneletteralmente onnipervadente e strategica e la propensione ad analizzare e criticarediviene desiderio di contare a livelli sempre più decisivi nelle decisionidell'impresa.

Si viene a creare così, nell'universo del lavoro, una sorta di "opinionepubblica" che sottopone a stretto e maturo controllo l'attività di chi dirigel'impresa. Se la fabbrica integrata è forse un "tubo" trasparente come ilpanopticon benthamiano, essa è però anche un panopticon rovesciato, nel quale iruoli del sorvegliante e del sorvegliato, del principale e dell'agente, tendono ainvertirsi. Il "centro" è osservato e costantemente valutato dalla "periferia" e dallavalutazione dipende la performance che quest'ultima decide di erogare. Diviene inquesto contesto decisivo un altro fattore immateriale legato alla comunicazione: lafiducia. Anche a questo tema la cultura occidentale moderna ha riservato un postocentrale. Schematizzando, potremmo distinguere due filoni di riflessione, aseconda che la fiducia sia considerata nel suo aspetto "verticale" o nel suo aspetto"orizzontale". Nel primo senso essa diviene un fattore essenziale di tutte lerelazioni di potere, ed è quindi stata analizzata dalla filosofia politica. Nelsecondo senso essa riguarda le relazioni di commercio - nel senso più esteso deltermine - ed è quindi stata approfondita dall'economia politica.

La nozione verticale di fiducia è legata al problema del consenso intorno a chiesercita l'autorità, indipendentemente dalla forma politica che questa assume. Èun requisito dell'esercizio del potere perché garantisce la disposizione a obbediredei sudditi. Ovviamente, nei regimi rappresentativi la cessazione della fiducia puòtradursi nella bocciatura elettorale dei rappresentanti prescelti. Ma anche neiregimi più illiberali la rottura del clima di fiducia può determinare fenomeni dideterioramento e di crisi politica, fino a esplosioni violente che rovesciano ilpotere. Infine, nel mondo moderno, l'esistenza e l'inesistenza della fiduciadiventano sempre più una funzione dell'esercizio dell'opinione pubblica, che,come sottolinea Bentham, diviene una sorta di tribunale che osserva, analizza,valuta e sanziona l'agire di coloro che detengono il potere. Ora, tanto coloro,come Diderot, che hanno analizzato la questione al fine di criticare l'esercizio diuna sovranità assoluta, che coloro che, come Burke47, hanno contrapposto le virtùdi un regime politico che evolve lentamente mantenendo intatta la coesionesociale ai guasti delle ideologie contrattualistiche e rivoluzionarie, hanno tuttaviaposto l'accento sulla fragilità della fiducia politica: la cura del suo mantenimentodiviene essenziale non solo per il mantenimento delle relazioni di potere, maanche per il buon funzionamento della vita sociale e delle attività economiche.

47 Burke (1791).

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Sul piano "orizzontale", la fiducia è diretta conseguenza dello stabilimento diuna "società commerciale" nella quale vengono condivise un certo numero diregole del gioco. La fiducia è dunque condizione essenziale di un commerciostabile, ma soprattutto dei contratti che implicano asimmetrie informative,incompletezza, rischio e incertezza. Più che sui contratti di lavoro, l'attenzionedegli economisti sette-ottocenteschi si concentra a questo proposito sul mercatodella moneta e sul sistema creditizio. Il tema è per esempio evocato da Turgot eda Bentham, nel tentativo di spiegare sia i diversi tassi di interesse che vengonopraticati sul mercato a seconda della "classe di rischio" della clientela, chefenomeni di razionamento del credito. Infine Bentham, nel manoscritto Sur lesprix (1801), tenta di analizzare il fenomeno del panico finanziario che conduce altracollo del sistema creditizio. Due aspetti vengono comunque sottolineati daquesti dibattiti: da un lato il nesso tra fiducia e reputazione, dall'altro - di nuovo -la fragilità della fiducia anche nelle relazioni di mercato.

Il rapporto di lavoro quale viene configurandosi nei nuovi modelliorganizzativi produce trasformazioni profonde nelle figure della fiducia. Non sitratta semplicemente, anche in questo caso, di una crescita generica di importanzadi questo fattore immateriale nelle relazioni basate sulla discussione e sullapersuasione, ma di un mutamento di significato e di una moltiplicazione delledirezioni che i rapporti di fiducia assumono. Il sistema taylorista era difattistrutturalmente basato sulla non-fiducia. Come noto proprio la convinzione che ilavoratori, lasciati a loro stessi, avrebbero utilizzato ogni espediente per ridurre lafatica, portò Taylor a insistere sulla esatta determinazione delle mansioni e sullaloro parcellizzazione48. La fiducia era dunque presente in questo modello innegativo, era una conseguenza stretta dell'ipotesi (per quanto implicita) diasimmetrie informative nel contratto di lavoro, ed aveva orientamento top down,nel senso che costituiva un sentimento del datore di lavoro nei confronti dei propridipendenti. Per i lavoratori, invece, che dovevano solo obbedire e pensare il menopossibile49, simili raffinatezze psicologiche erano del tutto fuori luogo. Se inquesto modello la fiducia è dunque solo un problema relativo al contratto, quindiè una fiducia di tipo economico, nel modello della fabbrica snella, invece, lafiducia tende ad assumere sia connotati economici che politici. Intanto perché nonriguarda solo le valutazioni del management nei confronti dei dipendenti, maanche, viceversa, le valutazioni dei dipendenti nei confronti della "capacità diascolto", da un lato, e della "giustizia distributiva", dall'altro, nell'agire delmanagement. Si moltiplicano dunque le direzioni e nasce una fiducia di tipo"politico". In secondo luogo, la fiducia viene a legarsi alla discussione e allacritica, quindi al formarsi di un'opinione pubblica interna che svolge una funzionedi controllo. Infine, dalla rottura del clima di fiducia, deriva la rottura del "tubo dicristallo" e quindi il fallimento del modello. A livello economico, la fiduciacontinua a funzionare nei processi di "scambio" negoziato che avvengono, peresempio, tra eliminazione di zone d'ombra e incrementi salariali o"ufficializzazione" delle pause o altri generi di "premio". Anche in questo caso siha tuttavia un'evoluzione, nel senso che la fiducia è un'attitudine di entrambe le

48 Taylor (1967); Ford (1925).49 Taylor (1967).

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parti nella transazione, ed è al contempo fiducia nei soggetti che scambiano efiducia nel rispetto delle regole del gioco.

Diventa essenziale, a questo punto, assumere la variabile della fiducia comeuna variabile strategica, e ciò comporta che coloro che intraprendono la direzionedella produzione snella assumano con convinzione e correttezza un'otticalungimirante, di lungo periodo. Siamo così ricondotti al problema dell'evoluzionedelle relazioni industriali che deve accompagnare queste trasformazioniorganizzative. Ma prima occorre evidenziare un altro elemento, anch'essoriguardante la prospettiva del tempo lungo: il mantenimento di un clima di fiducianon può basarsi su scambi limitati, per quanto generosi essi siano. Cioè, dallalogica del do ut facias occorre passare a un clima di lavoro nel quale esistanogaranzie di stabilità dell'impiego, di carriera, di miglioramento dellaprofessionalità e dell'ambiente di lavoro. Le difficoltà di garantire questecondizioni di "credibilità" sono ben note, non solo perché i mercati di sostituzionenei quali le imprese europee oggi si collocano non garantiscono la stabilità neltempo dai flussi produttivi dell'impresa e rendono poco probabili espansioni delladomanda, ma anche perché la collaborazione al miglioramento continuo,accrescendo tra l'altro anche la produttività del lavoro, contiene un elemento dicontraddizione interna: si potrebbe dire che al lavoratore viene richiesto dicooperare alla riduzione della base occupazionale della propria impresa. Anche daquesto punto di vista, dunque, si ritorna alla necessità del coinvolgimento deilavoratori nelle decisioni "politiche" (strategiche) dell'impresa.

Assodata dunque la necessità di interrogarsi sulla possibile evoluzione dellerelazioni industriali verso forme di codeterminazione, occorre indagare la natura ei limiti che esse possono assumere. Sarebbe fuori luogo fornire in questa sedeindicazioni specifiche sui meccanismi di condivisione del potere auspicabili.Tuttavia è possibile, ancora una volta, analizzare alcuni aspetti del problema daun angolo visuale teorico.

Per ragioni già introdotte - e in particolare per il fatto che l'obiettivodell'impresa è l'ottimizzazione di una variabile economica (massimizzazione delprofitto, minimizzazione dei costi o altro) essenzialmente a vantaggio deiproprietari del capitale50 - è impossibile applicare alle relazioni tra lavoratori edirezione dell'impresa il paradigma politico. Il contratto di lavoro non è uncontratto sociale che istituisce un'autorità destinata a rappresentare gli interessidei governati e a meritare la loro fiducia, nella misura in cui difende e promuovequesti interessi. O meglio, l'interesse dei lavoratori è rispettato con l'adempimentodelle norme contrattuali in materia salariale e affini, non con l'assicurazione diun'autorità che garantisce il governo nell'interesse dei governati. L'autorità èsemmai necessaria ai vertici dell'impresa, per garantirsi la cooperazione deilavoratori.

Abbiamo visto tuttavia che la prospettiva del coinvolgimento richiede fiducia econsenso, e questi requisiti possono essere assicurati solo laddove i lavoratorimaturano il convincimento che l'impresa, pur curando il proprio profitto, nonpersegue questo obiettivo in contrasto con la giustizia distributiva e l'interesse di

50 Ovviamente si dà qui per scontata una soluzione del problema non secondario della

conciliazione tra obiettivi del management e obiettivi della proprietà.

Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella 21

lungo periodo dei suoi dipendenti. Per queste stesse ragioni, essi sviluppanomeccanismi di controllo sull'agire della direzione di impresa, o meglio richiedonol'istituzionalizzazione di una serie di meccanismi di controllo e garanzia chevengono a configurare rapporti di tipo pseudo-politico. L'essenza della pratica delsuggerimento potrebbe in effetti essere vista - estensivamente - come il limitegenerale della partecipazione dei lavoratori al governo dell'impresa: i dipendentipropongono, il management approva e decide. Nella storia politica europea,questa prospettiva ricorda alcuni meccanismi presenti nei regimi liberali(costituzionali), ma non necessariamente democratici51, in particolare la libertà diparola, il diritto di petizione e l'esistenza di poteri consultivi. Sembra pertanto chel'aumento del controllo e della partecipazione dei lavoratori alle decisionistrategiche dell'impresa possa andare proprio nella direzionedell'istituzionalizzazione della civile conversazione e dell'opinione pubblica,accettata come componente normale, regolata e irrinunciabile delle relazioni diimpresa e del successo dell'organizzazione.

Normale non significa tuttavia necessariamente "equilibratrice". Al contrario,la funzione principale dell'opinione pubblica è quella critica, dunque portatrice disquilibrio. La discussione, per quanto regolata e civile, tende a mettere indiscussione gli assetti esistenti e tende anche a "spostare in avanti" gli equilibrisociali e le prospettive economiche dell'impresa. Dal punto di vista delmanagement e della proprietà, accettare la civile conversazione come elementonormale dell'impresa significa dunque, certamente, accettare un vincoloaggiuntivo, ma significa forse anche riconoscere che è da questo dialogo che puòemergere uno dei requisiti essenziali del successo: l'innovazione. Il modello dellaproduzione snella, infatti, tende a spostare o allargare il soggetto dell'innovazionedall'imprenditore eroico delle origini e dalla burocrazia degli uffici tecnici del"capitalismo trustificato" a un soggetto collettivo e negoziale, che reclama dirittima suggerisce anche spinte in avanti nell'interesse tanto dei "governanti"(profitto), quanto dei "governati" (occupazione, incrementi salariali,professionalizzazione ecc.).

3. Dal taylorismo al toyotismo: alienazione e controllo

Le riflessioni svolte in questo paragrafo riguardano le trasformazioni indottedai nuovi modelli organizzativi nell'attitudine dei lavoratori nei confronti delprocesso lavorativo. Queste trasformazioni rappresentano sovente vere e proprieinversioni di tendenza rispetto allo scientific management tayloristico.Quest'ultimo, infatti, concepiva il lavoratore come un soggetto essenzialmenteostile, interessato - secondo una concezione fatta propria anche dalla teoriaeconomica neoclassica, attraverso la funzione dell'offerta di lavoro -essenzialmente a minimizzare lo sforzo e il tempo di lavoro effettivo. Lasoluzione proposta da Taylor consisteva dunque nello scomporre la produzione inmodo tale da attribuire a ciascun lavoratore una funzione quanto più possibilesemplice, determinata e limitata, pertanto facilmente misurabile (in termini di

51 Bobbio (1991).

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tempo, col cronometro) e monitorabile. Il lavoratore tipico dell'organizzazionetayloristica era dunque l'operaio semplice, privo di qualificazione e diprofessionalità specifica. Questi era il destinatario di una catena di comando e diverifica top down. Nello svolgere le sue funzioni doveva pensare il menopossibile e limitarsi a eseguire quanto richiestogli. La consapevolezza e laconoscenza scientifica del processo produttivo era totalmente confidata almanagement e allo staff di tecnici. Questi ultimi avevano una concezionetipicamente "ingegneristica" e "sinottica" del sistema produttivo, che dovevaessere pianificato secondo una logica ottimizzatrice volta a minimizzare i tempi dilavorazione del prodotto (l'one best way)52.

Tralasciando le ragioni (legate essenzialmente a un quadro macroeconomicocaratterizzato dall'incertezza) che hanno portato alla crisi del taylorismo,possiamo concentrarci sui più rilevanti cambiamenti introdotti dal modello dellaproduzione snella: vi è in primo luogo un'indubbia riduzione dellaparcellizzazione del processo lavorativo. Quest'ultimo non è più organizzatosecondo una catena "per prodotto" nella quale ciascuno svolge sempre la stessamansione ripetitiva, ma secondo "isole" di lavorazione responsabili di un interoprocesso (o fase di processo) produttivo. In essa una squadra (team) di lavoratoriè responsabile della elaborazione di un prodotto (o componente) finito, del qualedeve essere certificata non solo la conformità alle richieste provenienti dallesquadre a valle di essa, ma anche la qualità del prodotto. Ciascun lavoratore ruotatra le varie mansioni necessarie alla lavorazione del prodotto, e una appositaformazione professionale è spesso prevista proprio per consentire l'acquisizionedelle varie competenze necessarie. La stessa disposizione dei macchinari (peresempio con una struttura ad U) è predisposta in modo da facilitare la rotazionedelle mansioni e la consapevolezza dell'intero processo produttivo affidato allasquadra. Il lavoratore "polifunzionale" è anche responsabile di interventi di primamanutenzione sul macchinario. Egli inoltre ha il diritto/dovere di segnalaremalfunzionamenti sia all'interno della squadra che nei flussi di ordinazioni esemilavorati tra le squadre, fino alla possibilità di bloccare la produzioneattivando appositi segnali luminosi (andon) e richiedendo l'intervento di tecnici.Vi è dunque, nel complesso, un'importante riacquisizione di professionalità,competenza tecnica e consapevolezza dei processi rispetto all'organizzazionetayloristica, cui si accompagna una responsabilizzazione al fine del buonandamento dell'insieme della produzione.

Tutto questo non costituisce che la conseguenza di una nuova concezione delprocesso produttivo, legata al prevalere di un diverso modello di razionalità: nonpiù sinottica e pianificatrice, ma limitata e adattiva53, l'unica capace di misurarsicon un mercato volubile ed esigente quale quello che è tipico delle societàindustriali avanzate. Il controllo dell'incertezza deve avvenire per approssimazionisuccessive e richiede la cooperazione di tutte le conoscenze parziali. Il lavoratorepassa allora da destinatario di informazioni-comando a fonte di informazioni e asoggetto partecipe alle decisioni indispensabili per la realizzazione degli obiettivi

52 Fabris (1980), Dioguardi (1990).53 E' d'obbligo qui il riferimento a Henry Simon, cfr. Simon (1985).

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della produzione54. Un analogo mutamento di filosofia è richiesto dall'obiettivodella Qualità Totale, per il quale è impensabile che possano funzionare rapportibasati su una pianificazione centrale e sull'autorità.

Una simile "rivoluzione" nell'organizzazione della produzione non poteva nonsuscitare interrogativi, in particolare per quanto riguarda la condizione operaiaall'interno della fabbrica. Ci si è domandati se essa rappresenti un progresso o unpeggioramento, se cioè la direzione intrapresa conduca a una situazione totalitarianella quale viene negata ogni "differenza" operaia, ogni sentimento cioè diestraneità o di opposizione rispetto agli obiettivi dell'impresa (del capitale),oppure a una situazione più aperta e contraddittoria, ricca di pericoli ma anche dipotenzialità sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro che per lo sviluppodella professionalità e di forme di coscienza più avanzata e ricca da parte deilavoratori. Queste opposte attitudini sono state di recente riproposte dal volumecurato da R. Rossanda e B. Trentin, Appuntamenti di fine secolo55, incarnaterispettivamente dall'intervento di M. Revelli e dalle considerazioni di Trentinstesso. Per il primo il passaggio dal taylorismo al "toyotismo" comporta la perditadi quella contrapposizione che la relazione di autorità rendeva evidente nellacoscienza dell'operaio-massa, a favore di una interiorizzazione del punto di vistadel capitale, dalla quale risulta sia un accrescimento dello sfruttamento che unsostanziale mantenimento, se non una sublimazione, dell'alienazione. Per ilsecondo, invece, la riacquisizione di coscienza dei processi e di professionalità daparte dei lavoratori, pur avvenendo all'interno di immutati rapporti sociali diproduzione, può offrire potenzialità importanti sia dal punto di vista sindacale cheda quello politico, a patto che sia accompagnata da una elaborazione strategicanon subalterna alle logiche del capitale. Una visione analogamente aperta è quellaproposta da V. Rieser, il quale ritiene che, se i nuovi modelli organizzativi nongarantiscono certo il superamento dell'alienazione capitalistica del lavoro, essipermettono tuttavia una ripresa di controllo sui processi produttivi che ne riducegli effetti più devastanti56.

Un chiarimento preliminare appare necessario a questo proposito: molti degliequivoci nascono dalla mancata distinzione tra quelli che Marx chiamava"processo lavorativo" e "processo di valorizzazione"57. Non vi è dubbio che, dalsecondo punto di vista, la rivoluzione organizzativa non è affatto "rivoluzionaria"socialmente, ma è stata attuata proprio nella misura in cui appariva come la piùadeguata a garantire la profittabilità dell'impresa nelle attuali condizioni dimercato. Dal punto di vista economico, la produzione snella è dunque senzadubbio un metodo per "sfruttare" il lavoro quanto e forse più di prima. Inparticolare, l'organizzazione per processo e la responsabilizzazione dei lavoratorieliminano quelle "zone d'ombra" (di non-lavoro) che erano gelosamente difese dailavoratori nell'organizzazione tayloristica. Si lavora, dunque, più intensamente.L'intero sistema inoltre è più produttivo grazie all'eliminazione dell'accumulo di

54 Rieser (1992), pp. 106-11.55 Rossanda-Trentin (1995). Ma vedi anche le diverse posizioni di Durand e Boyer in

Boyer-Durand (1993).56 Rieser (1992).57 Marx (1980).

24 Lavoro e relazioni industriali nella produzione snella

scorte a monte, a valle e nelle fasi intermedie del processo, che è una conseguenzadella rinuncia a una gestione pianificatrice basata sull'imperativo di noninterrompere mai il flusso produttivo. Non vi è dubbio, infine, chel'intensificazione della produzione che ne risulta produce spesso fenomeni distress; è singolare tuttavia che alcune rilevazioni empiriche abbiano mostratocome, nella coscienza di molti lavoratori, lo "sfruttamento" sia identificatopiuttosto con il passato tayloristico che con le attuali condizioni di lavoro.

Si può naturalmente dedurre da quest'ultimo fatto che vi è nella coscienzaoperaia una preoccupante interiorizzazione del punto di vista del profitto, quindiuna sublimazione dell'alienazione capitalistica. Guardando però alla natura delprocesso lavorativo, è possibile raggiungere conclusioni più sfumate. Nelle operepiù mature di Marx, dal Manoscritto del 1861-1863 al Capitale, la questionedell'alienazione viene messa in relazione proprio all'evoluzione del processolavorativo nell'epoca capitalistica. La prima fase dell'affermazione del nuovomodo di produzione è caratterizzata dalla "sussunzione formale" del lavoro alcapitale. È la fase del passaggio dal Verlagsystem alla manifattura: in quest'ultimaavviene una prima trasformazione della produzione artigianale precapitalistica: allavoratore che utilizza strumenti di produzione semplici è ancora affidata laproduzione; tuttavia, grazie alla divisione del lavoro, a ciascuno viene affidato uncompito sempre più parcellizzato. La conseguenza è che il lavoratore viene aperdere la consapevolezza dell'intero processo produttivo, ancora possibile, siapure a un livello rudimentale, nella produzione artigianale. È quello che AdamFerguson paventava come l'"ilotismo" crescente dei lavoratori58, e che per Marxrappresenta un processo storicamente necessario nello sviluppo delle forzeproduttive, ma al costo di privare il lavoro di quelle caratteristiche di creatività econsapevolezza che ne fanno una forma ricca di attività. Con il passaggio dallamanifattura alla grande industria, poi, si verifica quella che Marx definisce la"sussunzione reale" del lavoro al capitale. L'operaio diviene qui sempliceappendice della macchina e del sistema di macchine, al cui controllo è adibito:invece di utilizzare gli strumenti per la produzione di beni, lo strumento lo utilizzaper realizzare i fini della produzione capitalistica: la produzione di valore e dicapitale a mezzo di lavoro astratto. Questa inversione tra cose e soggetti e tramezzi e fini è la base stessa dell'alienazione. Il lavoro diviene semplice,dequalificato, indifferenziato, privo cioè di qualunque peculiarità professionale edi qualunque consapevolezza e creatività. È ripetitivo e sentito come un'attivitàpriva di interesse (come un "travaglio", una fatica), eccetto quello di procurare,col salario, i mezzi di sussistenza. Alla forma dello sfruttamento capitalistico dellavoro salariato corrisponde qui dunque pienamente l'organizzazione del processolavorativo. In esso, infine, si realizza la definitiva specializzazione tra lavoratori,destinati unicamente a funzioni esecutive e ripetitive, e "filosofi", categoria nellaquale Smith includeva anche i tecnici e gli scienziati che conoscono e sviluppanole tecnologie produttive. Il sapere applicato alla produzione si sviluppaenormemente e diviene propriamente scientifico, promuovendo un'enormeprogresso delle forze produttive, ma si sviluppa in maniera antagonistica,

58 Ferguson (1966) p. 186; Marx (1975), L. I, p. 433.

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determinando il sorgere di quella che Balibar ha definito la "differenzaintellettuale"59.

È indubbio che il taylorismo può essere visto come la fase estrema della"sussunzione reale" e della "differenza intellettuale". Il punto è come può essereinterpretata la svolta verso la produzione snella, alla luce di questa evoluzione. Ilparziale recupero di consapevolezza e controllo sui processi produttivi da partedei lavoratori può essere considerato come l'avvio di una ricucitura degli aspettipiù alienanti del lavoro in condizioni capitalistiche di produzione, o invece comeuna sostanziale conferma del ruolo subalterno delle funzioni operative, per giuntacon una diminuzione soggettiva di visibilità? Una coppia concettuale elaborata daBoyer e Durand può servire a porre la questione nella giusta luce: la coppia segni-senso. Anche nel "post-fordismo", essi sostengono, permane pressoché intatta la"differenza intellettuale", giacché il lavoratore, pur recuperando una dimensionesoggettiva del lavoro, opera soltanto su segni (il kanban, i grafici affissi neitabelloni presenti nelle isole di lavoro ecc.), mentre la comprensione e ladirezione del senso della produzione rimane affidata ai tecnici di livello superioree al management. I sistemi di macchine complesse, al cui controllo gli operairestano sostanzialmente adibiti, incorporano conoscenze scientifiche chesfuggono completamente alla loro consapevolezza e al loro controllo60. AncheOhno, per parte sua senza alcun intento critico, insiste a questo proposito sullanetta distinzione tra "cervello" (la direzione dell'impresa) e "sistema nervosoinvolontario" (gli operai)61. La presenza di questi limiti e di questi antagonisminella appropriazione e nella divisione delle conoscenze è indubbia ed è quindiindubbio il permanere del carattere alienato del lavoro salariato. Tuttavia dueordini di considerazioni tendono a dare una visione più articolata dell'evoluzionein corso.

In primo luogo, nei nuovi modelli organizzativi è presente anche una parzialericonquista di senso da parte dei lavoratori: la produzione di un prodotto finitoall'interno del team e la certificazione di qualità comportano una consapevolezzasviluppata delle sue caratteristiche. L'intervento di prima manutenzione,analogamente, comporta una certa conoscenza del funzionamento delmacchinario. In alcuni casi, proprio per questo, i lavoratori vengono coinvoltinelle fasi di progettazione e sviluppo dei nuovi prodotti. Infine la pratica delsuggerimento, il miglioramento continuo e i circoli di qualità comportano uninterscambio di informazioni che accresce nei lavoratori la consapevolezza delsignificato della produzione. Anzi, è proprio il recupero di consapevolezza epolifunzionalità a permettere una loro partecipazione attiva a questo processo. Ilavoratori - proprio perché meno parcellizzati - partecipano dunque almeno aquella parte dell'innovazione che viene definita "incrementale", e che AdamSmith riconosceva erroneamente come uno dei portati di una divisione del lavoromolto avanzata. D'altra parte l'innovazione che richiede conoscenze scientifichespecialistiche rimane una prerogativa dei tecnici che operano nei dipartimenti diricerca e sviluppo, anche se nelle fasi preliminari e nell'ultima fase applicativa

59 Balibar (1994); Baccelli (1991), cap. 2.60 Boyer-Durand (1993), pp. 144-4561 Ohno (1993), pp. 67-69.

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essi possono tenere conto degli stimoli e dei suggerimenti di coloro che sono poidestinati a produrre concretamente i nuovi prodotti o a lavorare con i nuoviprocedimenti.

In secondo luogo, la produzione snella, in quanto basata sull'accettazione di unorizzonte di incertezza e di razionalità limitata, comporta anche unriavvicinamento in senso opposto tra la cultura del lavoro dei tecnici e deimanager e quella degli operai. Nel modello tayloristico esistevano almeno treculture separate: 1. quella ingegneristica, "orientata alla produzione", dunquerivolta verso l'interno dell'impresa, e basata su una razionalità sinottica estrumentale (essa rappresentava esattamente il punto di vista della sussunzionereale, nel senso che tutti gli elementi della produzione, compresi i lavoratori,erano concepiti come vincoli tecnici in vista dell'ottimizzazione degli obiettiviproduttivi); 2. quella delle funzioni commerciali e legali - e in generale di tutti isettori in relazione con l'ambiente esterno all'impresa, dunque "orientati almercato" - basata invece su una razionalità limitata e adattiva; 3. quella puramenteesecutiva dei lavoratori, destinataria di una catena di comando e di sorveglianza ecaratterizzata da un'attitudine difensiva e potenzialmente conflittuale. La sintesitra queste culture era affidata in sostanza all'imprenditore62. Nel modello dellaproduzione snella, invece, la razionalità adattiva e market oriented viene estesa atutte le funzioni e le informazioni provenienti dai livelli operativi divengonoessenziali sia per controllare i processi che per compiere le scelte di produzione,di tecnologia e di investimento. La ricerca della qualità del prodotto e dellafluidità e flessibilità dei flussi produttivi "tesi" non può più fare a meno diinterrogarsi sulla congruenza tra le scelte produttive e le attitudini soggettive eprofessionali dei soggetti destinati a implementarle. Diventa dunque strategiconon considerare più il lavoratore come un semplice strumento (se recalcitrante, dadisciplinare), ma come il soggetto del "fare" da cui scaturiscono i risultatidell'impresa. Di nuovo, diventa strategico il confronto, il dialogo che si instauratra i diversi livelli, pur nel permanere di una "differenza intellettuale" tra di essi.In un certo senso, viene meno tendenzialmente l'idea che l'attività lavorativa siaun mero strumento - quando non un mero vincolo - di una concezioneintegralmente scientifica della produzione (l'one best way), per essere di nuovoapprezzata come attività intelligente, "vivificatrice", come "industria" e come"arte". La scienza stessa, in quanto applicata alla tecnica e all'organizzazione,torna ad assumere un carattere più "artistico" e sperimentale e a puntare sullerisorse umane. Infine, i detentori della scienza, i tecnici, sono in un certo sensocostretti a condividere, cioè a comunicare e "redistribuire", le loro conoscenze,che perdono dunque il loro carattere interamente antagonistico: la "differenzaintellettuale" non è dunque più il segno di una separatezza e che sanziona unadiseguaglianza, ma la comunicazione tra diversi (diversamente specializzati)attraverso il discorso; può divenire, se applicata conseguentemente, "cultura delladifferenza"63. L'applicazione della scienza alla produzione, dunque, con la crisidel paradigma ingegneristico e ottimizzatore, perde alcuni dei suoi connotati più

62 Sapelli (1990).63 Cfr. Irigaray (1992).

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alienanti e antagonistici, che erano la più tipica incarnazione della "sussunzionereale".

Il problema posto da alcuni a questo punto è se questo riavvicinamento traculture e questa condivisione dei saperi, eliminando le conseguenze più alienantidel modo di produzione capitalistico, accrescano o riducano la coscienza criticadegli operai nei confronti del sistema economico-sociale che li impiega in quantosalariati. Revelli ed altri ritengono che i nuovi modelli organizzativi abbiano uneffetto deteriore sulla coscienza operaia, in quanto "scambiano" un recupero disoggettività sostanzialmente illusorio con la piena accettazione (interiorizzazione)della logica dell'impresa e del profitto. Viceversa, il sistema tayloristico, in quantobasato sulla logica del comando e sull'operaio-massa, rendeva evidentel'opposizione di interessi tra padronato e lavoratori. Riprendendo inoltre uno deisuggerimenti più discutibili di Gramsci, Revelli sostiene che in quel sistema,proprio perché l'operaio era costretto solo a eseguire, veniva lasciato libero di"pensare a altro" e in particolare al superamento della forma capitalistica dellaproduzione64. Anche in questo caso, tuttavia, è possibile affermare che le novitàintrodotte dalla produzione snella si qualificano per la loro ambiguità. L'esitodella subalternità alla logica del capitale è in effetti una possibilità.Responsabilizzato e coinvolto (solo parzialmente), l'operaio rischia di sentirsiassimilato a un ruolo para-manageriale: agire in nome e per conto della proprietàdell'impresa. Tuttavia questa possibilità è contraddetta dal permanere di rilevantitensioni: l'antagonismo, visibile forse più oggettivamente nel taylorismo, permanein effetti anche nei nuovi modelli organizzativi, ma diviene più immateriale esoggettivo. In negativo si presenta come stress o come insoddisfazione per i limitidel coinvolgimento; in positivo come critica e negoziazione. Inoltre, non è veroche le modalità di strutturazione del processo lavorativo facciano qui velo allapossibilità di uno sguardo critico di più ampio respiro, portato cioè sulle stessecondizioni capitalistiche di produzione. In un certo senso, anzi, la possibilità di"pensare ad altro" viene rafforzata almeno da due elementi: 1. la comunicazione,l'uso della parola e quindi la critica, come si è detto strutturalmente instabile; 2. ilfatto che il parziale rovesciamento del rapporto tra soggetto e mezzi diproduzione, per quanto limitato e per quanto non corrispondente a una realeinversione dei mezzi e dei fini (che restano la produzione di valore per il capitale,non la produzione di valori d'uso per i lavoratori), conduce il lavoratore - per laprima volta dopo l'avvento della produzione industriale - a pensare nel senso e sulsenso della produzione e a ricercare nel lavoro non più solo il mezzo di procurarsila sussistenza, ma anche la soddisfazione di capacità e di professionalità el'arricchimento delle conoscenze: l'orizzonte dell'alienazione non appare più comel'unica esperienza diretta. L'"altro" cui pensare non è più solo fuori dall'esperienzalavorativa (spostato nel futuro o idealizzato in qualche esperienza di socialismoreale), ma presente contraddittoriamente anche all'interno di essa. Questaambiguità, questo "non ancora" o "non abbastanza", può dunque anche aiutare acogliere meglio ciò che resta di alienato nei rapporti di produzione presenti, sianel processo lavorativo che nel processo di valorizzazione. In un certo senso, ilcollettivo della fabbrica integrata - che procede all'organizzazione del lavoro e

64 Revelli (1995), p. 191. Cfr. Gramsci (1975), p. 2171.

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all'innovazione per approssimazioni successive e facendo tesoro dei diversi puntidi vista, che allarga lo spazio del discorso, che avvicina le diverse culture - puòdiventare un laboratorio pacifico di sperimentazione di un altro modo di produrre:la concreta posizione delle condizioni perché, per riferirsi ancora a Marx, ilcapitalista venga avvertito come "superfetation". Forse la questione non èall'ordine del giorno, e molte altre cose, a livello micro e macroeconomico e alivello politico, devono essere "pensate" prima che il problema si ponga in questitermini. Ma resta il fatto che anche il contesto della produzione può porsi oggiconcretamente non come il terreno di una normalizzazione capitalistica, ma comeil luogo di una insoddisfazione e di un "cercare ancora".

4. Verso un nuovo civismo?

La crescita della discussione e della partecipazione, assieme allaprofessionalizzazione dei lavoratori e al parziale riacquisto di controllo suiprocessi produttivi, rappresentano un fenomeno le cui ricadute non possonolimitarsi all'ambiente d'impresa. Sarebbe al contrario miope non percepire comequesti eventi contengano rilevanti potenzialità per l'evoluzione della vita civileall'esterno dell'impresa e - prima di tutto - per il destino della democrazia politicanella nostra società. Proprio la crescita degli aspetti partecipativi e critici sia nelprocesso lavorativo che nelle relazioni industriali, infatti, può fare sì che lafabbrica o il luogo di lavoro diventino il campo di un'autoeducazione civicapermanente, un terreno di "prove di democrazia futura". Una democrazia noncostituita soltanto dal desiderio di partecipazione al governo della società - quasiche questa fosse la valvola di sfogo ai limiti della democrazia interna al luogo diproduzione - ma anzi soprattutto dalla volontà di essere presenti, con un punto divista "colto" (ricco di saperi, cioè), in tutti i livelli del controllo democratico:nell'opinione pubblica, in primo luogo, nelle associazioni e nelle comunità, insecondo luogo. La produzione snella, insomma, con i suoi imperativi dicoinvolgimento e di professionalizzazione, insegnerebbe ai lavoratori il gustodella libertà come "libertà di"65, come presenza e virtù civica66. Con unadifferenza, rispetto alla virtù del polites aristotelico e ai valori civic republican67

del gentiluomo di campagna indipendente del Settecento: che qui l'otium siricongiunge al lavoro e rinuncia forse definitivamente a identificare lo spiritopubblico con l'indipendenza dalle preoccupazioni materiali. Quanto analizzato neiparagrafi precedenti, infatti, ci autorizza a dire che proprio i luoghi di produzionesono divenuti, in virtù delle loro dinamiche evolutive interne, uno spaziocaratterizzato più dall'agire che dal lavorare e dall'operare68, o meglio chel'operare e l'agire (la praxis e la poiesis di Aristotele) si sono ricongiunti e hannodimostrato di non essere mutuamente esclusivi, come invece ritengono i filosofineo-aristotelici - in particolare Hannah Arendt. Non è cioè necessario, come

65 Cfr. Berlin (1958); Bobbio (1991).66 Sul tema di un ritorno alla civic virtue cfr. Guidi (1993).67 Pocock (1980).68 Cfr. per l'uso di questi termini, cfr. Arendt (1967).

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invece sostiene quest'ultima, ricercare lo spazio di un autentico agire democraticoal di fuori della produzione, nello spazio della comunicazione non mediata dalloscambio tra cose; al contrario l'esperienza di una produzione ricca diconsapevolezza e di comunicazione può divenire centro propulsivo di democraziaanche negli altri luoghi della società.

A ben pensarci, anzi, altro luogo nella società moderna che esprima una talepotenzialità democratica - un tale gusto per la partecipazione critica - non c'è, se siesclude forse il settore non-profit, nel quale, tuttavia, sono presenti molto spessole tipiche sovradeterminazioni del comunitarismo, dalla tendenza a considerarsi"diversi" dagli "esterni" alla sottovalutazione dei momenti di partecipazione,dialettica e controllo democratico al livello più generale della società. Tale luogodi potenziale democrazia, inoltre, ha un vantaggio importante sui tanti movimentipiù o meno single issue di cui sono piene le nostre società complesse: esso nonrappresenta certo un punto di vista universale (nel senso della marxiana "classeuniversale"), ma almeno è consapevole della centralità della produzione dellaricchezza anche e soprattutto in un modello di sviluppo ricco di contenutisoggettivi e immateriali, compatibile con l'ambiente e con la democrazia, qualequello che si richiede a una società industriale avanzata. Un movimento, dunque,consapevole del carattere neo-industriale - e non post-industriale69 - del futuro checi attende e di quello che è legittimo auspicare.

Altri elementi culturali di grande importanza che possono scaturire da questo"nuovo civismo", radicato nell'impresa snella, si connettono agli aspetti piùcaratterizzanti dei processi lavorativi in questa introdotti: da un lato l'enfasi sullacultura d'impresa, sull'incontro di diverse culture nell'impresa e sulla salvaguardiadelle identità; dall'altro il ruolo centrale assunto dalla manutenzione, strettamenteparallelo a quello della qualità, che si oppone a una cultura dello spreco,dell'obsolescenza accelerata e dell'esasperazione tecnologica fine a sé stessa. Unodegli aspetti che colpiscono di più nella lettura della "bibbia del toyotismo", èproprio l'insistenza di Ohno sulla necessità di salvaguardare anche i macchinaridatati, finché possano fornire un contributo utile, nonché sull'importanza diutilizzare strumenti semplici laddove possibile70. È possibile allora che questacultura della manutenzione, del riuso e della salvaguardia delle culture, sitrasferisca dalla fabbrica alla società, e in questa diventi cultura del recuperoedilizio e della salvaguardia ambientale71, critica degli eccessi del consumismo edi quel modernismo devastatore e diseducativo che ha caratterizzato - in Italiacome altrove e forse più di altrove - gli anni del boom industriale, edell'affermazione della decultura fordistica. L'occasione, insomma, per frenarel'azzeramento della storia di cui soffrono da almeno quarant'anni le nostre città, lenostre campagne e le nostre coste. L'occasione, infine, per venire finalmente acapo di quelle "distorsioni" di cui è stato ricco il nostro modello di sviluppo72.

Tutto questo sarà possibile, naturalmente, solo se i nuovi modelli organizzativiavranno successo e si arricchiranno costantemente di contenuto sia nel processo 69 Cfr. Sapelli (1989).70 Ohno (1993), pp. 69-71.71 Dioguardi (1995), pp. 91-95.72 Graziani (1981); Sapelli (1989).

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lavorativo che nelle relazioni industriali. Se, quindi, tale evoluzione non siscontrerà con la miopia della classe imprenditoriale e con il risorgere di unacultura punitiva e di scontro, se cioè, viceversa, si potrà incontrare con quella che,parafrasando un celebre motto dell'utilitarismo settecentesco, si potrebbechiamare una logica del "profitto ben inteso", una logica imprenditorialeilluminata e lungimirante. L'operazione, con il retaggio della storia italiana, puòessere rischiosa, tanto più per chi vi impegni tutte le sue forze. Ed ècomprensibile, quindi, il persistere di una cultura della diffidenza e del sospetto:troppi sono i casi in cui, degli imperativi del nuovo modello produttivo, si tenta didare un'interpretazione di corto respiro e tutto sommato opportunista: la galassiaFiat ne è forse uno degli esempi più ambigui. E tanti sono gli interrogativi sulfuturo dei mercati e sulla possibilità che essi offrono di stabilizzare e spingere inavanti i risultati fin qui ottenuti. Lo spirito di queste note è stato tuttavia quello dimostrare le migliori potenzialità del momento attuale, le occasioni da cogliere, icosti cui si va incontro se le si lasciano cadere. Quello che deve essere chiaro èche l'evoluzione del modello della produzione snella e la sua estensione a settoridiversi da quelli originari (servizi e Pubblica Amministrazione, in prima fila)appare come una questione centrale per il successo della democrazia politica nelfuturo delle società neoindustriali.

Solo se queste condizioni si porranno, infine, questo nuovo civismo potrebberappresentare anche il terreno di un pacifico "cercate ancora": che esso possaportare a una fuoriuscita dal capitalismo o almeno alla strada per chiudere lastoria dell'alienazione moderna e arricchire la vita sociale di contenuti più"umani". Ma forse questa prospettiva è quella che spaventa di più.

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