matteo mazzone come all’interno di uno spartito. sostantivi, aggettivi, domande si muovono simili...
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Alla mia famiglia,
ad Alice, Marco, Alessandro e Tommaso, che
tutti imparino a dialogare con se stessi.
Ad Ernesto e Fausto.
<< Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia>>
(da “I fiumi”)
Giuseppe Ungaretti.
<<Or colui veggia
Che da tutti servito a nullo serve>>
(da “Il Giorno”, sezione “Il Vespro”)
Giuseppe Parini.
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Prefazione
L’evoluzione poetica di Mazzone si manifesta
attraverso lo sforzo che immette nei suoi versi al fine
di cercare e risolvere la non leggibilità del mondo, la
non riconoscibilità a primo acchito, ma a cui il
poeta non si rassegna cercando di investigare tramite
l’analisi del più profondo sentire. Nelle sue poesie
difatti prevalgono i temi più drammatici, quelli che
trattano insistentemente sulla vacuità e sulla morte,
sulla paura e sulla sofferenza. C’è però
contemporaneamente anche il suggerimento di un
richiamo accalorato alla vita, pulsante, in quanto lo
spasmo del proprio dolore fertilizza il bisogno di
amore e di solidarietà. Esaminando questi temi, è
possibile notare lo stupore del poeta dinanzi alla
natura, nel momento in cui vigorosamente riafferma
la sua perfetta sintonia con le cose, per cui arriva a
riconoscersi anch’egli come Ungaretti, una docile
fibra dell’universo. Le nuove poesie di Mazzone in
questo volume appaiono diverse rispetto alle
precedenti, difatti conducono il lettore a riflettere in
modo diverso sulle cose e sui loro significati
spingendolo a osservare altri confini e diverse
barriere, esortandolo però a oltrepassarli per andare
incontro a orizzonti del tutto nuovi. Nelle poesie di
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questo volume, i Dialogi, è consigliabile arginare la
semantica delle parole che suonano ritmate e
scandite come all’interno di uno spartito. Sostantivi,
aggettivi, domande si muovono simili a note
musicali e riesumano l’insegnamento di simboli
antichi e a volte sacri. Sono voci della poesia più
essenziale che provocano un grande ventaglio di
sensazioni ed esperienze come fossero stati vissuti in
un tempo distante e lontano e oltretutto gravide dello
spasimo doloroso del castigo che l’uomo subisce
vivendo. Non solo ogni verbo o aggettivo ma a volte
persino ogni lemma è come scarificato nella ricerca
poetica di Mazzone e diventa così uno dei tratti più
caratteristici e riconoscibili della sua personalità. Pur
non rinunciando a una basilare eleganza del verso,
non potrebbe del resto farlo, è dovunque percepibile
il rifiuto, di qualunque ginnastica retorica e di
solenne atmosfera. Ormai per lui, la parola deve
liberarsi di ogni inutile bordatura retorica, in modo
da poter esprimere subito il dolore dell’uomo e la
fragilità della sua esistenza. La scarnificazione della
parola è un po’ come lo scavo nella coscienza, nella
penosa spinta di raggiungere la consapevolezza della
vita che poi ineluttabilmente si rivela essere
nient’altro che il semplice dovere di vivere la nostra
sofferenza. Ecco così spiegata l’evoluzione del suo
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stile poetico. Insieme alla costante e continua
meditazione sulla morte da parte di Mazzone è
possibile avvertire, in molti suoi versi, un senso del
rapido fluire delle cose, un senso che si rivela ora
attaccamento alla vita, ora nostalgia, ora sgomento,
ora desiderio di oblio. Fondamentali nella poetica di
Mazzone sono i concetti di memoria, di innocenza e
di precarietà, che pur tornando nei suoi pensieri, non
potevano non subire modifiche in questa seconda
raccolta. La lettura di concetti come questi varia,
secondo il soggetto trattato, da poesia a poesia,
anche se per ritrovarli è necessaria però una rilettura
complessiva delle sue poesie, quanto più sistematica
possibile e alla fine mettere in rilievo interi
significati o sfumature. Si può cogliere dall’esame
dei versi del poeta Mazzone una dichiarazione di
poetica che va per contenuti dalla profondità
dell’animo umano alla considerazione dell’intima
precarietà dell’esistenza, per stilistica invece è tutta
rivolta alla perfezione del verso. Mazzone richiama
e mette in stretta relazione, quasi di causa-effetto, la
memoria e l’innocenza. L’innocenza è cercata e
trovata attraverso i suoi versi, mentre la memoria
deve essere continuamente evocata. L’individuo,
difatti, sembra avere perso ogni riferimento
umanistico e si fida unicamente dell’istinto, avendo
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ridotto la vita a semplice oggetto. Mazzone spera
allora di trovare lo stupore nell’incantesimo dei
simboli al fine di riempire il vuoto esistenziale e lo
fa ampliando la propria nomenclatura poetica,
viatico per compensare la memoria perduta. Grazie
all’opera di alcuni letterati come il Mazzone, quindi,
la memoria viene recuperata in parte attraverso il
dolore degli oggetti. Tutto allora diventa un conato
verso la vita che ancora può essere apprezzata,
l'interiorità del poeta si rivela essenziale tramite una
voluta solitudine, una vita contemplativa nei
confronti della natura a cui assegna nomi, aggettivi e
atmosfere. L'amore per la natura è trasmesso grazie
al dolore che vive in tutto il macrocosmo
esistenziale e deve essere accettato e bevuto,
nonostante il sapore amaro. Rimane solo l'arte come
consolazione per l’intelletto e la compassione come
guida per riuscire a solidarizzare gli esseri umani.
Ernesto Marchese
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Un coprofago che si eccita
a mangiarsi,
repellente umano borghese
perfetto nella sua imperfezione
gestore di un consumo
incivile
guarda passare me folle
lo guardo per distruggere
l'insensato suo senso di sazietà culturale
io non sono sazio, il mio corpo fragile
è la pena da pagare
di me vivo
il dolore si sconta pensando.
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Grasso.
Inciso sulla pelle,
secco mangime di verme.
Un dente sporco ghigna.
Lo spettacolo inizia
al piede di un uomo
esploso nel nulla.
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Nell'aria soporifera
ingenuo seguire un'età mancata.
Mentre la morgana
se ne va, spaventata dalle sirene,
legato ad una rupe è il mio orgoglio
che sale
che scende
nelle onde frantumate,
nell'ira di Poseidone che strazia la mia nave,
il mio viaggio.
Il viaggio frantuma
diciannove corde vitali
celando la mia maschera,
celando la mia psiche
rivolta all'incontrario in un torpido, veemente strazio
vocale.
Lo schiaffeggiatore sublime
(sì chiamansi) che percuote ingordo
del mio sangue rosso scuro che cola
goccia dopo goccia, servo di meschinità,
mi svuota le membra abbracciate
disseccata la pelle come la Sibilla,
nel vaso di coccio
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pronta allo spargimento lontano sulle colline Lucane.
E mi dissero di sognare,
di desiderare il futuro indesiderabile,
di impaurirmi, impaurirmi
toccando il volto freddo di mia nonna,
gelata da Lei,
la portatrice di sano socialismo.
E mi dissero di accaldarmi
correndo instabili pianure,
escoriandomi le ginocchia con la ghiaia aguzza,
tagliente
incerto il fato nefando.
Poi raggiungere una duna
di terra e, se avessi voluto, cibarmi di essa,
un pastone di detriti giù per la mia bocca,
giù, giù, nell'alto mio interno.
E mi dissero
di essere Matteo,
il maledetto arcano enigma.
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L'approdo.
Ho cercato negli abissi infernali
lungi dal mio cammino
assatanato il rivo che scorga fuoco
dove approdan le voragini cadaveriche
se stabile è l'impianto,
il libro per mano,
dimentico continuo.
Ho cercato negli spazi reconditi
i lapilli scheggianti,
i fascisti fasciati fascinosi
che nubi di vapore
turbavano la quiete inesplorata
del mai.
L'approdo fu certo
alle radici invelenite del male,
al mio essere di sopravvissuto
decisa la sorte mordace
per chi non sogna la notte,
per chi vuole il cielo limpido e stellato.
Ma si evince la necessità
di approdare lontano da qua.
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Roma.
Pulsi come un cuore
rombante di
battiti e mai
cadi in eterno letargo.
Per le vie,
San Gregorio cammina,
l’Arco trapassa.
Caldo tepore di anime,
infondono gioia negli sguardi
afrodisiaci
di ammiratori mai sazi di te.
E tu, colosso del mondo,
immobile, stante
con superbia,
verosimile in realtà
agiti braccia invisibili
che tutti raccolgono.
Io vi ascolto, sistri dorati.
Bocche pervase d’ amore.
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In un distinto
angolo dell’anima
una sottile fibra
di sogno.
Una trama di salici
che formano tendaggio
di gracili foglie.
Seguendo il canto
di gioia,
raggiungo un lago
di morte.
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Presso l'altare
violento mattatoio appeso,
con il cappio di stoppa avvolto
zampilla il rosso dell'umano
nei rivoli di pietra
annaspando l'anima,
le ginocchia non tengono,
frusta che mi frusta
assai irruente il non dolore
forse spiaggia al secondo o millesimo
di felicità,
annaspando, s'appasta la bocca
raggruma la bava bianca
e la polvere violacea argilla
sinuosa s'annida in cerca di riposo.
Presso l'altare del sacrifizio
ecco la libazione di Bacco,
l'oblazione del mio corpo assuefatto
ed insensibile
alla morte.
E Bacco: portate del vino,
si dimentichi il corpo di essere quel che è.
Uno straccio civile.
Astante il pubblico,
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Un minuto di silenzio,
non più arte e sabbia.
Non ti preoccupare del mondo,
esso va,
la ridente prateria
ma vieni qua, vieni là
mi spezzi ma spazi
nel gioco,
il polpo coi tentacoli
che sprigiona quel nero di seppia.
Stai aspettando qualcuno?
Ed io a lei: “mi riconosci?
Prova a toccare la mia mano,
lisciala
lisciala, basso è l'odio
alta marea e navi tra scogli
non impaurirti,
non più arte e sabbia,
non più me, né te".
Giudice, giudice
afflitto, ah implacabile,
universale lo sgomento.
21
Un triste felice,
un felice triste. Ma quando... sarà il tempo
di cosa penserò.
Verrà il giorno,
l'adorabile ora del Nulla.
Il nulla è accettabile guarigione
per la inutile
sofferenza vivificatrice.
22
Nessuna rosa barocca
mi è tormento d'amore.
Il viso che bacio
sotto nasconde il suo teschio cavo,
losca la pelle è membrana
impermeabile alle emozioni.
Nel mio giardino ho colto la rosa rossa
recisa che muore:
se la deposito sulla tua pietra si riavrà.
Accarezzata dal vento del ricordo
incessante strazio la visita,
l'ingresso oltretomba
a pagamento de’ vivi,
delineata la schiera delle anime dantesche:
< che saetta previsa vien più lenta >.
Nel dissidio del mai
si acquieta la gioia,
nell'algida acqua stantia del pozzo
che rispecchia il tuo grido.
Quando tramonterà il dì
il tuo patetico sì
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mi dirà ancora una volta: amami.
E se nel letto mi vergogno,
il fuoco del camino natalizio mi arderà
bruciando il mio corpo di Didone.
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Oggi ti ho scritto,
pagina bianca mia.
Oggi ho scritto
su di te
pezzi di me.
Parlavo ad un cieco
che provava
a leggere.
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Il buono e il cattivo tempo
quell'involucro multiforme
multi-spaziale
che morde la vita,
testimone verace ed insulso
come la macchia sul vetro sporco
o nella precisa stanza il quadro storto
quel bitume di giudea che paralizza
l'involucro osseo
e la rende secca, squamosa
gozzoviglia prelibata ai vermi,
essi giurarono fedeltà,
alleanza col corpo
non abbandono come la specie umana
che si avvantaggia a creare il paradiso
dove non potrà esistere.
Quella stessa specie umana
vincolata all'inganno perpetuo
che solo infiniti mondi
distoglieranno un dì.
Ma se la ricerca della vittoria ti sgomenta,
mio fratello
se afferrarti per i capelli senza calmarti
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Quel tronco che mi guarda,
io seduto sulla punta di una barca.
L'acqua fa rumore e
mi distoglie dai dolori, dai pianti.
Quel tronco che mi guarda,
che è solo,
simile a me, freddo,
lisciato dalla salsedine marina.
Eroso, tumefatto, forse un pino?
Forse un ontano, un magnificente pioppo.
Tra le mie labbra un sibilo
la parola, vana,
si mescola allo iodio,
se ne va, lontana, libera, mite.
Non esce, il cuore impietrito.
Psiche ed anima dove sono?
Intonano grida di strappo,
lacerato strappo, ferita immune a
risarcire,
briciole sbriciolate di corpo in eccesso.
Tomba cadaverica, quel legno
è il legno della tomba che ospita
un po' di me.
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La ballata dello stolto.
Ma dimmi, caro uomo,
definisciti, ti prego.
Nel mio tempio non ho tempo
di capirti, (forse non voglio)
renderai il mio compito
più lesto svelandomi il tuo segreto.
Stolto, dimmi stolto
cosa intendi per vita
se ostentare la tua mediocrità
celata in una non-morte,
se ostentare la tua regalità
con passo lento e tardiva
nello scoprire il tuo
volto, maschera, volto,
se uno ne hai,
un semplice teschio
ricoperto di pelle.
Mi piacerebbe amarti, distoglierti
dal sussurro lento delle ore,
portarti con me, nel mio mondo
a decifrare la vita,
quella che non vivi,
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a immaginare di essere morto,
colla rete longobarda in fronte
per meglio trattenerti.
Stolto, dimmi mio amico
se nell'amicizia credi
se mai ti domandi chi sei,
sorgendo la notte dal mare
e se non rimani
atterrito dalla pesantezza del cielo
quel cielo che un domani
sarà la tua dimora.
Volente o nolente fischierai la tromba della guerra, ti
spegnerai nel tuo sangue freddo irrigidito,
se mai avrai vissuto,
se mai sarai esistito.
La ballata dello stolto
non è una canzone
ma la chiara percezione
di un mondo distorto.
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Appiè del precipizio
mi è dolce la mano smeraldina
che carezza il mio volto rigato
che tace il brivido lassù,
gemente il canneto e la mia eco
sprofonda nell'immenso spazio
che separa la caduta
nei secoli dei secoli,
lo stagno stagnante
con la verga che batte
il confine del nulla.
Il rintocco virulento,
il glauco corpo di
valore teurgico
impossessato sacrilego.
Mi è dolce la mano smeraldina
che mi spinge
in un vuoto migliore.
32
Non datela vinta
a me, poeta,
solo,
emarginato,
i miei piccoli occhi marroni
che si socchiudono
alla luce del sole.
Non datela vinta
a noi, cultura,
esempio dei
benpensanti,
conoscitori di menti storiche,
i nostri occhi si aprono
al libro polveroso.
Non datela vinta
a voi, uomini,
anime girovaghe
nelle strade del tempo,
i vostri occhi
colorati si chiudono
alla Paura.
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Il vento
porta via la mia mente.
La ritrovo
impigliata ad
un ramo di glicine.
Gocciola di
amari ricordi,
intrappolati
al perché
di un’esistenza.
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Un sorso di mandragola
e mi abbandonerò al tuo seno,
il mio demone che macera
dogmi dorati.
Aggiungi uno strato,
che sia terra fina, Amore,
aggiungi uno strato di fredda coltrice,
che vermi e germogli mi ricoprano.
Il giacinto bianco
è la mia anima che profuma l'etereo.
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Testamento.
Le nere mani pedanti
mi distruggono le corde vocali,
mi stritolano.
E’ pronta la cassa?
Lucida, lucidatela,
lucidissima, senza macchie di opaco.
Sempre pronto, a qualunque ingresso,
ma voglio in basso a destra
i miei libri,
mi serve quel bastone
per sorreggermi.
Welalla leiala
Welalla leialala.
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Avvicinati a me,
ti prego, my dear friend.
Vedi come cade la sabbia
dalle fessure
della mia mano,
tra le nocche rugose,
sopra le unghie scheggiate
si ferma a patina poltiglia?
Vedi come il vento
sfuma la polvere
nell’aria?
E quando io guardo
quei due occhi marroni
asciugo le lacrime
che cadono, conficcate come spine
assaporandole
sulle mia labbra.
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[Rifacimento] Testamento 2.1
La mia Musa ho voglia di baciare,
si estende nell'aria.
Quando il vento mi disperderà
e la cenere diverrà come polvere sui mobili
potrò contemplarmi.
Non è detto che il corpo si vanifichi,
non è detto che l'anima resista
alle pene del distacco.
Ma tu, o vivo, o vegeto,
sfacelo di società
non recarti alla mia lapide,
pensami
abbandonami nel piacevole ondeggiare
ritmico
lasciami volare nel mio centro
all'oblio mancato.
La speranza è che tu,
mia Musa, mi vorrai amare e solo così
suonerò la mia cetra ora appesa al salice.
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Non mi togliere
il sorriso.
Ad esempio del
re beato,
buffone mascherato
da serio.
Lasciami
un'intima vergogna
per custodire
il mio segreto.
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In un volto stroncato da rughe
salate di vecchiaia
un marciume stantio di esistenza.
Muori, vecchio
muori ora relitto umano
è solo pietas quella che provo.
Cammini come un fantasma
dalla nube di Enea reso invisibile,
assomigli alla pioggia
che picchietta sulle foglie.
Si scianca il verde ramo.
Cosa ancora ciabatti in Terra?
Ti aspetto come un padre.
Tuo padre ti aspetta.
Improvviseremo la vita
che ci ha lasciati privi del domani.
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Arrivata al capolinea,
scendi tu, scendo anch'io. Ma dove?
La mia donna sussurra parole
che sento distanti, la roccia
sul letto, coperta di raso
immensa bellezza
che di un viatico tanto inatteso
sfoga il laico presagio.
Senza benedizione, dio non è del nostro
mondo.
Accennommi la servetta colla gerbera
gialla
sul marrone lucido stonava
l’abbinamento,
ma i fiori
non si detestano, come gli umani,
quei bipedi inveleniti dal profitto
spugnosi organi, strumenti preziosi
dell’egoismo,
che ti lascio morire, oh mia donna
perché t'amai come il cielo,
che ti lascio morire, oh mio cuore
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Avrò avuto così
tanta fede
prima di nascere.
Ed ora non ne ho più.
Non vedo volto di
dio in nessuno.
Sofferenza e gioia
si aggirano e tutti si sentono soli.
L’umanità
è senza religione:
si muore al cenno di un capo.
Chi balbetta
nella bambagia,
chi parla
nella povertà,
chi zittisce
per disperazione.
Questa è l’unica fede.
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Con un accento
tutto nostro,
tutto magico,
ci chiamiamo.
Ed il suono
svanisce
nell’ombra
dimenticata.
La mia mano
pende
come quella di un morto
dal letto
disfatto
e lo sguardo onirico
nel vuoto
si immerge.
Ci sono ora.
Domani forse.
Indietro mai.
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Chi mi getta
addosso
frecce spigolose,
sassi aguzzi,
schegge di pietra?
Sei tu, amore mio.
Tu vuoi che
scriva, vero?
Una collina blu,
un prato rosso,
un cielo giallo.
Tu scorri dentro me
come l’Alfeo
di un famoso palazzo
inglese.
Sei la Poesia
della mia vita.
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Nella clessidra
del tempo,
goccia dopo goccia,
defluisce il mio sangue.
Non mi rimane che
rovesciarla e
fissarla.
Ed aspettare di ricomporre
l’inutile integrità
delle mie ore.
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Ho visitato
con gambe
pesanti
la via del ritorno.
Ed effimero
il fuoco
divampava
tra gli sterpi secchi
del campo di Cerere.
Un lupo
mi indugiava a
continuare la corsa.
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Sul monte di maggio
come è eterna la vita degli alberi.
a discapito dei matti
che vagano nei beati manicomi
dimenticati,
la scuola dei poeti
si impara là ad essere pazzi.
Sul monte di maggio
come è corta la vita degli angeli,
le margherite irridono con acribia
le gole d'acqua
esacerbando il marcio dell'inverno
candido.
••••••••
(Ucciderei per il silenzio degli altri
se solo potessi parlare,
ogni volta che penso a te)
••••••••
La forza della solitudine,
mi fumo il sigaro inadempiente
sul monte di maggio,
laggiù la masnada dei mortali
50
povere anime!
Non disperate,
soffrite.
Sodomizzate malvagie creature
la vostra condizione di nullità,
chi si tiene compagnia non è solo
pure la polvere è più felice di me
ma chi cerca l'altro,
teme se stesso.
51
Ad un passo da qui, Roma
ti ho vicina
nel tuo giardino proibito dove
la mia metamorfosi comincia.
Non si abbarbica il silenzio nella
tua mattina solitaria,
lisciando la rugiada sui sampietrini
stona la nota steccata
ma di che virtù siam fatti?
Se poi ragiono alla pietra
con le polveri mute
non mentire al tuo ricordo.
In quella tua lussuosa trama di strade
il saltimbanco di Sant'Ambrogio
a cui dono la moneta
ossigena l'aria già tersa
e una luce di calore purifica questo
intriso animo parassita.
Mio cuore,
Roma, Amor che disintegri ogni pensiero
rendendomi girovago stupito
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e volgo lo sguardo
ora là, ora qua nell'immensità
in cui mi immergi.
Ma comanda l'ira, comanda l'impegno
di scriverti, di immaginarti casta
come l'eunuco evirato,
innocente.
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Non torna più il miracolo
nel mio soliloquio di pena,
acciaccate le braccia,
fumosi schemi d'argilla,
in quella mia notte di magica ammirazione.
Imbevuto il panno del sudario
vola alta la mente
che acceca, tumultuoso abisso
inverecondo il sentimento
di me lasciato ad invecchiare sulla poltrona panna.
Incenerita, brattata la seconda follia
che della prima è effetto
immorale gesto di occultamento
conoscere ciò che è nascosto
privare il vivo di vita.
Immaginato il soffice, supplice
uomo ai segni della ri-virilità
addormenta la dirompente artemisia
con cui sbarbo la siepe
e mi dissolvo libero nelle fluttuanti vegetazioni.
Ahimè, spirito mio
continua a gettare fiato al vento burrascoso.
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Infinita nudità,
sono il giocoliere
dei miei pezzi,
che non vogliono amore
accenno disgraziato
della moralista postmoderna.
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Chi sei,
uomo?
Sei un cigno che
nuota in acque
ghiacciate?
I cigni sono belli,
nobili animali,
che nascondono
sotto una coltre bianca
un corpo di
ossa e sangue.
E ti illudono
d’aspetto superbo,
magniloquente
più d’una parola.
Siamo cigni
e non uomini.
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Perché piangi?
Non sfregiare un viso
così puro,
e togli quest’aria
singhiozzante.
Sai, il silenzio ignora l’essere.
Non ho voglia
di approdare
dove i fiori non crescono,
dove i giorni
sono ore eterne intramontabili.
Questo è il mio silenzio.
Quello di un poeta
che ribolle ardente
è solo una scusa
per convertirti
al sublime dissenso
di emozioni.
Ti porgo la mia mano
così insieme cammineremo
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Di chi son
quegli ondosi boccoli
di bionda seta
che deviano con grazia
al sibilo del vento?
E due sfere cristalline
che si confondono
con il sereno del cielo
quando nessuna nuvola
lo inquieta?
Giammai si spegneranno
nel cuore di un poeta.
La secchezza della pelle,
l’assiduo tormento della vita
ci distruggeranno
un così bel tempo .
Accarezzeremo
le nostre mani rugose
e forse moriremo per i ricordi passati.
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Il distacco.
Mi sono assuefatto,
la creazione divide il distacco,
lamenta la innaturale natura
e tu non pensi, e tu non vivi.
Dichiarato è lo stato di natalità
nel mondo intonso, pre-confezionato,
l'involucro in cui è incartato,
la lacerazione - metafora dell'individuo -
che si distacca banale la banalità
agli occhi del non-vedente,
del mendico deteriorato
ad immaginarsi la terra: pura.
Follia erasmiana, senza dubbio,
già, già, senza dubbio. Non comprendi?
Dis-orgoglio, in-cessante di qua, di là
ma la libagione della ragione
nella quale si crogiola
cuoce a fuoco lento il tuo liricismo,
come un fuco non lavora, non agisce
ma feconda con sesso,
è allevato, nutrito con ciò
che potrebbe produrre.
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Il distacco esordisce
tra uomo e realtà, tra fuco ed alveolare:
entrambi esistono
in ciò che non vorrebbero.
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Paura.
Del mondo o delle cose?
Mi sussurri parole lusinghiere
e mi baci.
Poi mi fai addormentare
e cado supino,
mi violenti con i tuoi pensieri.
Mi domini come un asino
carico di legna
e mi schiaffeggi
con la tua coscienza.
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Proteso in avanti sull’acqua
(forse anche l’oceano
un giorno si prosciugherà)
ascolto i richiami
della natura.
Ad occhi chiusi vedo
come il mondo sia una
lunga lingua di luce.
Scrivo una lettera
con i sensi d’amore
a te che
più non respiri con me.
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Che tregenda di diavoli,
Satana li ha sverginati.
La bandiera sventola
sulla torre.
Ha forse vinto la guerra?
Contempla soddisfatto
i morti?
Ridono i carnefici.
Impassibili al rosso loro nettare.
La loro sete
si placa con le lacrime di chi
pianse il fu.
66
E se alzo i miei occhi
verso il blu?
Come divento leggero,
forse troppa pioggia
offusca i miei
lineamenti.
Caro angelo, la tua
pacca d’amore
mi percuote di un
fervente brivido.
Ci appoggiamo
all’inferriata,
sul precipizio del volo.
Mi scovo
tra le nuvole
del cielo.
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Sono a Roma ed il sole cocente
mi avvampa le membra.
Voi che mi guardate,
alti e possenti, vi spingete come schegge verdi,
gotiche parigine, verso il cielo immacolato.
E Nettuno con il tridente mi giudica,
mi sfida con severi occhi
mentre la dea soggiace al Pincio
stanca ed ammaliata
dal suo stesso fascino.
Ai piedi dell’Obelisco flaminio,
di questa Urbe il cui profumo diventa il mio respiro.
Laggiù un vortice
di bambini si eleva a grida
nell’aria sbranata dalla brezza leggera,
laggiù il barbaro straniero
che non sa essere italiano.
Voi, i miei pini!
Mi allontano è passato questo ricordo,
la nube romana.
Vi lascio nella vostra storta beltà,
consapevole fugacità della mia.
68
Nel viale oscuro
il vento freddo
ti sbava addosso brividi di morte
ed il mandorlo ebraico
si schiude, tra i rami contorti
emana il putrefatto odore
mentre fumo dalla terra
si esala, torpido, violento.
Un acuto di strega
che esce dalla crepa di una roccia
e la borragine gialla ospita
piccole lucciole scintillanti
un lupo che sogghigna, lontano,
al male incarnato.
Dei liquidambra cadono le foglie,
il tronco si squama
simile a pelle di una carcassa imputridita.
Tutto è desolazione,
introspezione dell’animo,
un virulento, patetico languore.
69
È la crisi del mio tempo.
A cosa pensi?
Ridi per nulla,
piangi per tutto.
Tu, mon lecteur,
ti adagi nelle tue pubblicità.
Non ti chiedi il perché,
il come di una tua vita.
Continui a pascolare
tra mandrie di simili ed il consumo
di una morte sempre
troppo vicina non ti tormenta.
Automi di etnie diverse,
ma sempre automi.
Il gelso le sue more matura
ma tu non puoi sentirne la dolcezza.
70
Ronzare lo sguardo aspettando la tua ora.
È tempo del tempo che scriva, io so
che scriva, io no, non voglio lasciarti.
Mi frusti di sadomaso piacere
ma avviene che la luce rossa,
silente sguardo furtivo,
la noce schiacciata
è metafora di me stesso.
Sindrome di malato: questo è il verdetto.
Malato, perché penso
tu sano, perché innocuo,
crumiro di società.
Se nel dubbio, Amore, fummo fuoco
se nel dubbio, mio Odio,
lacerasti la fantasia,
le brulle colline afose
se la Luna ancora canta di me,
non è stanca del mio pianto,
se l'acquitrino delle lacrime
sarà nutrimento per il salice,
giungerò alla soglia
umana sbavando la mia malattia.
71
Stimato lettore,
non creder
di capire leggendo attentamente
parole
accostate in silenzio.
Se scruti
l’alone di mistero,
fallo tuo e spiegati
come la tua vita
sia un’inutile
impressione
di natura.
Seleziona tratti,
custodisci termini,
ascolta suoni di parole
che tu mai
scriverai.
Aiutati
a dimenticare
chi sei.
72
D’un fogno
fitto e scheggiante
il mio volto
è trapassato da parte a parte.
Pare il bianco cinese
caduto dalle nuvole plumbee
trasversale
all’uomo in sé prigioniero.
Ed il presente del presente
è presente del passato,
presente del futuro.
Niente cambia, tutto scorre,
involucri di pelli gettati
in pasto al fato.
73
Mi sfuggi, mi temi e
mi domandi se ti sono fedele.
Che rimanga un segreto,
gli uomini non lo sanno.
Il re ha la sua mandorla
ma tu dagli inferi non resusciti.
Chi sei? Ahhh, specie di donna!
Mi baci il collo
ed un brivido d’amore
raggiunge il proibito.
Il re ha la sua mandorla,
ma tu dagli inferi non resusciti.
74
Seduto su uno sporco gradino
chiedi elemosina,
scarpe eleganti di avvocati e di dottori ti
scorrono di fronte,
respiri il profumo di nuovo
che emanano.
Lotti per un pezzo di pane
e lisci il tuo pulcioso amico di vita.
Non mi muovo di pietà,
né di carità. Ma ti penso.
Se esiste un dio, non ti far salvare.
Io ti do voce,
in fondo tu sei simile a me,
un emarginato da
spocchiosi talenti bruciati.
Il triestino proferì il futuro di un poeta
quando nel suo Borgo
si dipingeva il viso con altrui facce.
Ti ho visto camminare
come me, mano nella mano,
verso l’assoluto.
75
Inno alla vita.
Il mandorlo ebraico sboccia arso
dal tepore primaverile,
mentre
dal pergolato il glicine strozza
con forza i pali su cui
si sorregge
ed una cascata di pigne viola
inebria l’aria
d’estenuante profumo.
Che fai, mio bambino?
Ti difendi dalle farfalle
festanti, giochi e cadi,
ti rialzi nel verde ardente,
inconsapevole
della fatica ch’è il vivere.
Come due soli
s’accendono d’un intenso blu
i tuoi occhi
che guardano il cielo
cristallino e l’iride
risplende tra i limoni
appena colti.
76
O Marco!
Il tuo nome nasconde lotta,
la vita è piacevole lotta
seppur il suo senso
si inabissi nell’oblio.
Una macchia di sereno
nel buio del nulla.
Una stella lucente
nel manto vestito d’oscuro.
La mamma ti bacia
il suo calore,
riscalda il tuo collo.
Ma tu non fermarla,
tu non ostacolarla,
ma gridale, gridale
parole d’amore ed abbracciala.
Formerete il vecchio e il nuovo,
il passato e il presente,
la storia e il ricordo.
La vita è piacevole lotta
77
seppur il suo senso
si inabissi nell’oblio.
Fa’ che il suo segreto
intimo rimanga affascinante,
per sempre.
78
Si perpetua
il mio infinito
lamento.
Creatura viscida
di arcani presentimenti
in cupidigia svelati
dall’eterno singhiozzo
dei morti.
79
L’inferno si districa
tra le stelle nel cielo.
Se esiste il paradiso
non certo è umano.
Abbraccio uomini
sperando in reciproco amore.
Quando guardo i loro occhi
mi sembra il Paradiso cercato.
L’imperituro sentimento
di fedeltà passato di mano in mano.
80
Sei in cucina che ciottoli.
Anche senza vederti
mi paio tranquillo
nelle mie
agitate ore.
Racconto un favola
al mio cuore
e lo inganno
imbevendolo di
torpido silenzio.
Guardando fuori dal cielo,
una saetta di luce mozza l’olivo.
81
Tu fosti bella, innocente,
se solo potessi parlare, Roma
non ti sarò Catilina, non ti sarò straniero
se posando il mio freddo piede
sulla tua calda coltrice, se male ti farà,
il mio passo ora svelto
ora calmo apriti e divorami.
Vulnerasti meum cor
la spada del ponte mi trafisse lo sguardo,
il sentire la gioia,
la mesta complice della vita
che scansa l'ostacolo
che invenduti mondi esplora
caduti in disuso quotidiano.
Se solo tu potessi abbracciarmi
come una donna fascinosa,
prorompente passione
dal tuo ventre circolare
esonda,
esonda amore
al mio tardo arrivo.
Solitudine che mi farà suo
a ricordo di te che non mi lasci.
82
Sontuosa l'edera
sbriciola una colonna
rossa d'argilla.
Al soffio d'un uomo,
un pino accasciato
e il soffuso ondeggiare
d’ un' altalena
rugginosa cigolante
echeggia nell'aria
sguainata dall'acino
spremuto.
Come esseri,
sdraiati a terra.
83
Non voglio che questa
parola nel mio silenzio:
il tuo nome.
Si staglia
tra muschi e licheni,
negli alberi innocenti
nel perpetuo agire del sole.
Abbandonato nel mio orto,
di riflesso eccitante
il linguaggio si fa delirante
per un millesimo di felicità.
Nostalgia è il tuo nome
insignificante natura
nell’animo di colui che
si attaccò alla negletta speranza.
84
Oramai i tuoi occhi
parlano la lingua dei muti,
gelidi, lacrimosi specchi.
Lasciano intravedere di là,
quel mondo violento,
di bianche inferriate
sopra le quali
tante teste fracassate, impilate,
che guardano nel vuoto,
assomiglianti a lattine
che risuonano di ferreo rintocco.
Troppo tardi ho smesso di pronunciare il tuo nome,
le mie labbra sono chiuse al tuo ricordo
che assaporo con la mente,
me e te, poi te e me
nei campi di erba medica violacea
tra i frassini che zufolano.
Ti ricordi lo svasso maggiore
dal variopinto manto?
Che nuota solingo in cerca di una lei:
procreare è l'ordine,
soddisfare è il comando.
85
O le creste d'amaranto,
le nappe di sambuco
nere a simbolo del tuo cranio cavo
oramai i tuoi occhi
parlano la lingua dei muti,
gelidi, lacrimosi specchi.
E continuo a chiamarti, qua,
tra i viscidi uomini vivi.
86
Nell’imminenza dei miei diciannov’anni.
Sono qui che scruto il mio dintorno.
Pieno o vuoto.
Un cuore d’amore pervaso.
Un singulto di male
tormenta senza cura.
Nel mio silenzio
anche tu piangi
e la gola s’affolla di neri macigni.
Per sempre perduto, sempre è perduto
l’attimo ingenuo torpore di me.
Un Marco o un’Alice
non fanno differenza.
Ma assopiscono
una lenta decadenza.
Perché mai
si rattristano i miei occhi?
Arcano quesito,
in tempi postmoderni.
Mi nutro di pensiero
e di arte.
L’amore non mi vuole
se non tramandato.
87
Nell’imminenza dei miei diciannov’anni
mi accuccio nel mio antro.
Non mi cambio, né mi temo,
non mi amo, né mi odio.
Mi adoro, divino dilemma.
Nell’imminenza dei miei diciannov’anni
mi bacio in solitudine.
E grondante di sudore per estrema viltà
mi applico alla vita.
88
Trucidato per aver detto verità.
Non temo la gogna
vergogna, vergogna
a chi nasconde di essere quel che è.
Ma la storia è questo:
offuscare l’evento,
obliare la realtà
nella cospicua ingente
saggezza dei morti.
Non li piangere, mai
non calare lacrime salate
che contribuiscono
a marcire un corpo
già putredine.
Non renderti livellatore
pacifista di anime
e gioca con quel poco
d’intelletto che hai,
distingui e discerni
la libertà.
89
Al canto del popolo
vanagloria festiva.
Di cosa?
Semplice esempio di idioti
girovaghi.
Un ammasso di uomini
riluttanti di facoltà mentale.
Ed il mio io sfaccettato,
ci sarà tempo per ricomporlo
(se il vuoto mi costringerà)
ci sarà tempo
per essere un esempio di vita?
Non ti avvicini a chi ha bisogno,
non vuoi il contatto col sudicio
tuo ego perbenista!
La madre delle notti,
la luna madreperlacea domina,
dormiamo nei letti assetati,
caldi di un freddo esteriore,
e chi a far festa in locali
amalgamati all’oscuro delle nubi,
e chi a baciarsi teneramente
90
negli antri dei non-luoghi
ma per chi dorme sul catrame
di polvere, non c’è salvezza?
Dimenticato dall’io, dall’’io mio
dimenticato dall’io ho, dall’io sono.
Diversi da chi? Da chi diversi?
Un vociferare di diritti!
Sproloquio gettonato,
inutile morale moralista,
per far sembrare pulita
la nostra persona.
Di sudici ammassi siamo,
come il catrame su cui dormono
le nostre coscienze.
91
Che vedo?
Una nuvola scorre in cielo
e si dipana insieme alle altre.
Siamo in ritardo, figli miei,
siamo in ritardo ad apprezzare
l’innocenza del non pensare.
Non pensare, mai sforzare,
non osare, mai provare,
non rifare, mai sognare.
Siamo in ritardo, figli miei
siamo in ritardo a non amare
il bello dell’altrui.
Non amare, mai baciare,
non carezzare, mai volare,
non guardare, mai parlare.
Queste sono realtà riflessive.
Ma a che giova l’individuo?
Un gigante tra la folla:
tutti uguali a se stessi,
tutti intatti, all’ombra del cielo.
Siamo in ritardo uomini miei,
siamo in ritardo a volere.
92
Un buio ci ricopre, uomini,
nel buio siamo ciechi,
non distinguiamo diversità.
Forse vivo, forse muoio.
Forse piove, forse è sole.
Chi lo sa, fino in fondo?
Chi lo sa, davvero ora?
Il mio pensiero s’attanaglia
allo studiare l’uomo ferino
tutto eguale, tutto specchio
di un riflesso solo mondiale.
Ma non mi resta
ogni momento per
decidere che cosa siamo.
Solo una voce, non altro sento
la voce intima dell’umano.
Ed il mio dialogo
con il silenzio
si fa notare
a sparger incenso.
93
Intristito dalla pena.
Un lago nel cuore.
Arrampicarmi ai giorni è scomodo.
Una via di luce
forse illuminerà
il giocondo volto della felicità.
94
Andate a chiederlo ai morti,
ormai cineree sembianze della terra.
Andate a chiederlo ai vivi,
immagini festanti nel nulla che investe.
Andate a chiederlo agli angeli,
morgane fluttuanti
al di là dell’Aldilà.
Nel paradiso chi si nasconde
è figlio del proprio tempo.
L’inferno è la generazione
dei degenerati.
Le nostre metà non si uniranno
ai monsoni algidi agitati dal senno triviale.
95
Sono il faro per molti.
E sono la lampada fulminata
per me stesso.
A chi mi conosce
non svelo novità.
Aspetto il giorno
del mio riflesso.
96
Ad un amico viziato di vita.
E se scelgo la via sbagliata?
Ma la cultura è dei padroni
e noi siamo solo servi patetici.
Ti ho nel cuore come
una pagina bianca. Ma non t'odio
seppur mi eviti da lontano.
Il vento della Libia trasporta calore e sabbia.
Ti sbricioli nei ricordi
e la carrucola va su e giù
in un monotono andirivieni.
Mi piovi addosso come la fronda bagnata
che si scrolla l'acqua.
E suoni, e canti notturni
di nostalgiche serate,
Tu ed Io e un libro
e poi ancora Io e Tu e il solito libro
ad insegnarci come si muore.
Come si muore? Amare è restare
nel sordo scempio dei vivi.
Come si muore.
Al soffio di un no.
97
Al fischio del padrone
come saette s'alzano
le orecchie
non aspetta gioia alcuna
nel rispondermi
con gli occhi lucidi,
con quell'iride marrone che mi domanda
"Mi ami?".
Il vate già visse come me
tale passione
ma forse non bastano gli anni
a dividere due poeti tanto diversi.
Poi arriva di rincorsa ma non teme la vita.
Si accascia su di me, ed il muso tedesco
non ha pudore nel baciarmi.
98
Se ne sta andando, il ricordo.
Il centro di emozioni,
quel trasumanar ed organizzar pasoliniano.
L'eterno rifacimento stoico
è pura follia,
è pura allucinazione come i funghi di cui si
cibano i cinghiali.
Il ricordo
è l'anima delle mie emozioni,
come patelle agli scogli
e non giunge onda alcuna infrantasi
a staccare il mio ricordo.
Voi tre. Noi quattro.
In cima al monte, che mi sento librare,
(da bravo, saluta Pascoli)
tonfare nel vuoto, l'aria che deforma
ed atterrare sul fuoco dirompente
della realtà mondana:
il mondo dei mortali.
La solitudine non la concedo
a chi non sa goderla
sfruttando ogni minuto per il pensiero.
sebbene sia male:
99
esso fa volare e voi non siete bravi.
La Res dei poeti è il Ricordo
(troppo facile chiosarlo)
La Res degli uomini è la nostalgia,
la paura di non essere in/il futuro.
Ma il carro dei monatti, chi lo ferma?
I sudici monatti ci raccoglieranno,
mi sono rasato la barba, lavato.
Maledetta sala d'aspetto! E' pazzia, pura follia.
Ma voi tre, noi quattro,
ci seguiamo, ci amiamo per l'eterno
diabolico infinito,
spazio, tempo incontenibili, incontrol-labili
labili i contorni distinguo, lontani anni luce.
Il ricordo è la mia salvezza.
100
Sono qua, mia Proserpina,
tuo marito mi ha voluto.
Non in quella melassa di
uomini infuocati,
voglio solo
una scrivania di pietra lavica
e qualche foglio.
La mia Donna fedele.
Un cantuccio meno abbiente,
né troni né imperi.
Solo occhi, mai ciechi,
che scrutano il fuori e il dentro
dei mie pensieri.
101
Mi è greve il prossimo ignorante
che tormenta la mia mente.
Un ritorno di folclore,
una danza di nudi corpi che
si estendono sul mare d'estate.
Baciato dal sole irruente come la canicola
(le onde più non si infrangono)
gli occhi si perdono
nella valle d'acqua
e più non sento me stesso.
Al ramo di salice del rabdomante
la mia anima si piega verso la felicità.
Ma la troverà. Ben presto.
Il confuso eterno languore
non potrà evitare la luce.
Che luce? Quella di mia madre?
La vecchiezza inestinguibile o il sogno onirico?
Già da tempo fu memore
la stella che mi guarda,
nei continui singhiozzi di lacrime.
102
Sui granelli di sabbia, sdraiato
dormirò nella notte sola.
C’è troppa pioggia,
per tutti, c’è troppa nebbia per me.
Io amo e canto.
La carezza di un angelo che mi sfiora.
Tu.
Nella mia capanna di paglia
penserò all’immediato sussulto
di Ulisse e le Sirene
mi chiameranno da lontano.
In compagnia di un fedele
cuore della mia vita,
insieme a qualche taglio
di focaccia appena sfornata
e chissà quale ricordo.
Qualche donna sporadica,
qua e là.
E sui granelli di sabbia, sdraiato
morirò in silenzio.
103
La messa
La messa è finita: andate in pace.
Sentore di presenza
là, nell'angolo in disparte,
che volteggia la bandiera del teschio
che la svastica sanscrita è il sole
ma non si conosceva
l' enorme carica di male
nell'aria assaporata:
essa ancora emana il fumo, il getto di lacrime
che imperversa come pioggia,
che si infiltra sulla terra,
mentre le ciocche
di capelli rasate nel mucchio in disparte
volavano con soffio del vento.
Madre, Padre, mastino, ufficiale, forno.
Madri, Padri, mastini, ufficiali, forni.
Spirito Santo: il figlio prese l'ostia, la spezzò
la diede ai suoi discepoli e disse.
Le grida del mondo di oggi
104
il secondo millennio tecnologico, suvvia
il bambino che piange
non si è deterso il viso col sangue.
Volendo l'impotenza umana
salvare l'insalvabile
sbava la bocca alla pubblicità del ricordo
per avere coscienza meno sporca.
Scappando dalla chiesa: anche questa è andata.
Il giorno dopo la sequenza è la stessa,
in virtù di un meschinità moralistica
nel dire Ho Partecipato.
Il Baldo: sibi cagat addossum.
La messa è finita: andate in pace.
105
Si è stanchi più si è
in discesa.
Ciao ciao, fondo marino.
Deglutisco acqua amara
mentre la barca naviga.
Naviga naviga, la barcarola
non si infrange sugli scogli
dalle patelle ricoperti.
Una donna nuda prende il sole
non pensa: è innocente, pura.
È pura l’innocenza.
È puro il mare calmo.
Si muove come i girasoli che seguono la stella
e qualche freccia di Cupido il marinaio
le lancia: forse ha voglia d’amore.
Hanno sete di corpi,
carni sudate dalla calura.
In un bagno al largo
si disintegra un sogno.
Si è stanchi più si è in discesa.
106
Come mi chiamo?
Matteo. Matteo.
Non c’è altro come me,
chi mi somiglia si odia.
Non mi cerco,
se non nell’istante mio intimo,
profanando la mia anima,
se ad un teschio rassomiglia,
cava d’oblio.
In quanti gli sguardi rivelati
che s’impiantano dentro
(la lumaca che mangia la lattuga
è come il ricordo che erode)
ma di rimpianti non si esiste.
Mostrami, mostrami, Matteo
guidami scattante verso il fuoco
del guaio.
Sei già stato lì,
Alessandro, Grecia, tre.
107
für Paul Celan (X 1920- † 1970)
Pietra.
Fredda. Inerpicata la radice.
Pietra. Simbolo e foresta.
Cerchi in dissolvenza
di fumi umani.
Il faggio schianta, grigia squama.
Uccide i suoi figli.
Dilaga. Dilaga. S’impregna di
rugiada rifiutata dal Sole.
Pietra
Pietra, ietra,
etra
…
…
a.
108
Mi spengo lentamente.
Lo studio assedia
la ricerca di un senso.
Ma la sedia sta ferma e
la lampada non s’accende:
mi immagino così il mio avvenire,
in indistinta foschia
nel mare che nuoto, le onde che
mi carezzano, tra il frastuono
semplice di una mente lucida,
gli occhi che
sputano sangue, lapilli, poi sangue.
Porgi l’altra guancia
seppur frustrata, dolente
la carne rossa sofferente.
Schiaffi e schiaffi, poi schiaffi
di piacere, se solo tu sei felice.
109
Mi muori tra le mani. Pozze di sangue gli occhi contorti. Eppure ho visto dell'acqua in quei due cristalli blu. Nella bara della mente riposi l'aquila alta che vola rupestre con artigli velenosi. Mi specchio con te, felice io muoio se mi copri il volto con
i tuoi semi di Novembre.
110
Si contorce la madama.
Altisonante di lievi egocentrismi la matassa si dipana a svuotare il mistero. Mistero. Sei tu il saggio che gode nel suo tempio? Mistero. Un tuo arduo singhiozzo brilla nel cielo.
111
Al tiglio il vento chiude i suoi mille occhi gialli. Che piange linfa rossa da lassù. Tutto s'abbraccia arcuato e strilla. Si accuccia la mia donna se paura non ha del tempo che erode. È tempo del tempo che inaridisce. Nel tuo ventre il seme della Paura. Strilla se vuoi liberarti, mio emblema. Intraprendere la via verso l'esterno rivo d'acqua salata. Un'anguilla di mare che striscia schifata e beve la Luna specchiata. Scavo, scava la mia donna velata la terra con le mani per preparare il letto nuziale. Inerte polvere di sassi, la carne non più s'affievolisce.
112
Che un tappeto di nuvole
mi rapisca?
Scendi sulla terra,
sono qui che t'aspetto
nella bambagia affollata di corpi.
Mi salverò cavalcandoti
ma tu aprirai la botola
sotto di me.
Nel vortice infecondo
annegheremo nel mondo
così distante da un pianeta all'altro
nella foschia che separa
il sogno dal reale.
113
Con l'acqua dei miei occhi
io lavo quel che resta.
Nell'harem prediletto
qualche vergine borbotta d'amore
ma da eunuco entro
per non rovinare il desiderio.
Con l'acqua dei miei occhi
io semino in profondità.
Se è siccità
il sale acido ha colpa
ma non il petto d'ansia fremente.
Solo un sogno
che i libri mi bacino
ed io amerò più delle tue labbra.
Quando scendo i gradini nel buio
assorto
meditabondo
non ho luce
che nelle lacrime dei miei occhi.
114
É notte.
I ragazzi amano là fuori
e niente distoglie
questa pacata aria.
Schiocchi di labbra e fumo di sigarette,
non vi basta vivere.
Non vi basta possedervi
se vi avete,
trascinare nel buio profondo
un'emozione tardiva.
Non vi basta sopravvivere al tempo
che decima coscienze per
una smania di gioventù.
La pietra è fredda.
Siete giovani sofferenti,
uomini ancora da svezzare.
Costruite morgane, ora e subito
nell'impiego sordo dei genitori.
Raccogliete e non seminate.
Vivete ma non esistete.
115
Un cieco che odora l'aria
cercando di non dimenticare.
La bella di notte sboccia
a sé attrae le lucciole;
dall'entroterra la nebbia
che si alza, nebulosa densa
di acquitrino fangoso.
D'oro le spie tra l'erba accasciata
se non ora quando?
Quando dormire ed amare
nel fervente caldo della passione?
La strada di porfido
si scaglia pian piano,
tra le venature ciuffi verdi crescono.
Cammino insieme al cieco
che non sa dove andare.
116
Un rantolo... stai per finire?
Stai per finire una vita?
Mi spiace non aiutarti,
non salvarti dalla condanna di essere vivo.
Una volta dopo lunghi anni,
una volta dopo lunghi tempi
sarò sul confine d'inizio
come il termine della vetta.
E si tratterà bene la civetta,
che ci richiamerà allorquando
d'un desiderio comune mossi
andremo verso la libertà.
Staremo stretti, abbracciati,
come quando ci amammo disinteressati.
L'aria ci alza, con piacere
una volta dopo lunghi anni.
117
Non mi mente
l'orizzonte che vedo.
È un dio quello lassù?
<<quindi ho messo le mani in tasca
ed ho sputato sulla tavola…
buon appetito, amore mio>>
Il vino bianco fa troppi scherzi.
118
Eravamo.
Negli occhi che guardano al solleone
tra un fico sbucciato
e lo zucchero sulle labbra
che accende la fame,
le gambe sdraiate sul prato.
Semplice, sottile
il motivo sinfonico delle ore
vuote, piene,
vuote, piene.
****
Siamo.
Si, amo?
Il tuo vestito, le tue gambe.
la canzone stupida
rimbomba lo stramazzo del mercato:
Qui da me signore, ce l'ho io quel che cerca.
Cosa mi vendi, se non
oggetto, cosa, oggetto.
119
Non mi sento
tranquillo nel buio profondo.
Tra gli spettri della mia camera
che urlano a squarciagola
macabri soffi caldi
e sibili vellutati di morte.
Mi carezzano d'improvviso
il cuore si fa più rapido
ed un scoppio di paura chiude i miei occhi.
La coscienza si libera, lontana, epurata
da urla mai gridate, da no mai detti,
da imposizioni mai avute.
In un affannoso silenzio
mi ansima il respiro dello
spettro peggiore:
"Io ti ho prigioniero".
Sono un prigioniero.
E a me stesso cosa racconto?
Chiú chiú un pavido presagio
dalla serratura dei miei pensieri.
120
Mi annulla l'identità.
Ah, quel pervaso negletto gioco
chiamato Pensiero.
Si dice che valga nei normali,
se sottili come aguzze
le lame della razionalità
bucheranno un cuore ferrigno.
Mi sai di sgualdrina, Mente
che spieghi il tuo avvenire
che vanifichi il tuo ricordo.
Mi arrovella su questioni
che mi sollevano dai Vivi.
I Morti?
Non hanno pensiero.
Insondabili, silenziosi
più non appartengono a noi.
Solo noi apparteniamo loro.
121
Quella ossessione ossessiva
ossessionante.
È la livella di Totò,
che ci fa giacere in eterno.
Sto arrivando! Sta arrivando!
me medesimo non ascolto
per paura o vigliaccheria.
Non importa chi sono,
sta arrivando, sta arrivando!
Che mi siedo, sono stanco.
Me medesimo malinconico
truffato, turlupinato, morto.
Me medesimo agitato,
troncato, frustrato, scippato.
È la livella di Totò. Silenziosa,
donna pacioccona, ricco il seno.
È la donna, quella donna,
quella femmina (mala) quella...
Quella ossessione ossessiva ossessionante
di cui non aver paura.
Mi muoio.
122
Settant'anni di differenza
e lo stesso spirito.
Una zappa, canovaccio per il sudore
e terra da smuovere,
vorticosa truculenta madre.
Se fatica sarà all'imbrunire della sera
con le mani nodose
ad un bastone appoggiate
se fatica sarà la parola balbuziente
gli occhi lucidi di ricordi,
le canizie latenti
se fatica sarà un domani
tempestoso, incerta la barca,
un nipote a cui narrare
la strana Italia postbellica.
Preferisco zappare
cogliere la spiga del grano dorato
come i raggi caldi del sole
che lo fanno maturare.
Mai è tardi per sporcarsi.
Mai è tardi per faticare.
Mai è tardi per amare.
123
Mi dispiace non esser d'aiuto
ai vivi (ci sarà mai una vita?) se la frasca di pino si infiammi a rogo sulla terra nera bruciata. Nel mondo così è ma la legge del più forte s' infrange alla minima lacrima versata in ricordo di remoti rimpianti recisi Tra vent'anni sarò uomo, tra vent'anni sarà diverso. Tra vent'anni sarà. Se io sarò.
124
Sentite condoglianze, mondo.
È il canto del flauto
che rapisce questo mondo
la zona di confine tra realtà e Realtà,
dove non c'è verità.
Ahimè, la fratellanza
è umanità quando il bacio si posa
su nuove guance,
la conoscenza è coscienza servile
del tuo mostrare,
impavida, edulcorata e audace
frammentazione.
Faccio condoglianze al mondo.
La fistola del vecchio pastore mi chiama
affinché io scappi,
tu con me, lei con te;
mio fratello, questo è un grido?
Grido per disperazione. Il Mondo.
Cos'è? Nel Mondo.
C'è spazio nel mio letto per te.
125
Presto, domani a lavoro.
C'è spazio nel mio letto,
ma il sogno già è sfuggito:
il sene pastore è sfumato,
ma fedifraga la siringa di Pan
ammalierà ancora
chi la seguirà.
126
[Rifacimento 1.3 testamento]
attenzione malati!
Ma qua, in verità
che serve la sporadica persistenza
quell'infelice lesione
nel cambiare
testamento
non acida è la mia donna
che sogno una notte lontana
se vana, mortale
l'immagine a sua somiglianza,
nascosta tra le lenzuola
tra i grovigli dei pensieri normali
mi accecasse gli occhi umidi
la nostalgica presenza di lei.
Soliloquio me stesso perduto
nella stanza delle follie crude.
Le albicocche, lei sa signore mio
che gusto hanno?
Aspetto l'invano
127
ma determino coll' astuzia irragionevole che
la normalità è anomala
vogliate capire i meno. I meno.
Perché siamo in meno;
io solo capisco quel che so.
È arrivata. Mi falcia e strafalcia
più pezzi, ti prego,
più briciole, ti giuro.
Ho mangiato le albicocche
ho imboccato mio nipote
se la resa non è uguale
che io divenga l'inafferrabile.
128
Mi userò ancora.
Nel mio buio, desolato respiro
che ansima, precipita al vento frigido.
Ancora mi userò, conoscendomi
scavando questa mia anima
nell'ardore di un sorriso che mai avrò.
Se la mia cenere
farà da pasto ai fiori del campo,
i guanti bianchi della morte
raccoglieranno questo mio corpo
questo escremento di umano relitto
lasciato ad imputridire all'alba del fu.
Mi consumerò lentamente
nella passione di avermi vissuto,
nell'avermi implorato di vivere,
quando il sole sorgeva
quando il sole tramontava,
rimato il soffio delle mie parole,
fremiti, solo simili a fremiti di malato gelato
libravano, planavano al tuo cuore, mio Mistero.
Mio mistero, la mia nascita
129
voluta da chi ben so
mio mistero, la mia dipartita
voluta da chi non so.
Mi consumerò sui libri, circondato da essi
e la carta sarà la mia degna compagna,
quella compagnia
dei giorni rimpianti.
Ora vedo la docile fibra
dell'universo che mi abbraccia,
ora Mandorla che vuole comporre con me,
ora Io So che confida di non essere stato amato.
Se non da me.
Ignominiosamente mi ergerò a salvatore
della mia esistenza
che Maggio primaverile mi assista
che sbocci anche il mio fiore di rosa
affinché le spine mi feriscano dolcemente.
Il dolce eterno mio restare,
il breve amaro mio ricordo.
130
Mi si accosta dolce sinfonia leggiadra
dessa mano patita
erode la pelle, scaglia dopo scaglia
allucinatamente scrivo.
Ma l'anima potrà mai decidere la vita?
Nel mistico sogno
da' la possibilità, o misero indovino,
di aggrapparmi ad
un fottuto millesimo di felicità
predici i decenni futuri,
niente violacciocche rosse
o garofani bianchi
ma il sintomo già screziato
di uno specchio frantumato
ignorante al passante
privo di ogni ragione.
Quella mano che vaga silenziosa sul corpo
conferisce estrema unzione
mummificandomi eternamente.
Ma nella tomba,
ci sarà posto per me.
131
Ma che bella
l'insensibilità di un corpo freddo
non morto
solo morto ma eterno
se l'eterno è morte
se la morte è eterno
mi voglio freddo e rigido.
La vuotezza del non pensiero
le mani consorte a preghiera
e il ribollimento putrido
poi riesumatemi
scattatemi una foto, in mezzo a tante azalee e camelie
mi piacciono rosse come l'amore che mi
contorna
mi piacciono bianche come la purezza che mi
facilita questa vita
ma la foto, di me morto.
Datela al prossimo felice
così da mostrarmela
e contemplarmi nella mia bellezza di corpo nudo.
132
Un fondo di amaro mi inquieta.
Giù nel profondo,
è un dialogo quello che ho condotto.
Se mi capirai, sarò finito
e smetterò di renderci ridicoli.
Ma mi nutro di questo:
se schiaffeggio per gioia
non lo nego.
Un fondo di amaro mi inquieta.
Irripetibile sazio lo stomaco
lexis et taxis,
irripetibile sazio il cervello
scemo, un cervello scemo.
Un fondo amaro mi inquieta,
io ti starò vicino mio lettore,
non ti abbandonerò come tu farai,
quando chiuderai questo mio libro
e tornerai alla tua vita.
Alla tua vita.
Un fondo di amaro mi inquieta.
Alla tua amara vita.
134
Postfazione dell’autore
1) Varie ed Eventuali.
Adesso è mio compito, dopo quello emerito ed
efficientemente esaustivo di Marchese, dare una linea
guida alla mia nuova produzione poetica.
In qualche modo cerco di ricordare, di combattere e di
immaginare nella mia poesia: non mi faccio illusioni,
mi si intenda. La "cosa" o l’ "oggetto" del mio
desiderio si afferma nella poesia come un climax
ascendente di elevata scala. I temi sono certo più
maturi, interiorizzati e canonizzati rispetto alla
decadente-dionisiaca prima raccolta: Acre Tirso era, è,
sarà un'esercitazione che quando rileggo mi suscita
ora sorriso, ora paura. Al motivo ungarettiano nella
nuova si affianca la obbligata -così sentita da me- e
continua presenza di colui che ho ribattezzato
“schiaffeggiatore sublime”, Pier Paolo Pasolini,
veggente contraddittorio, nostalgico scampolo della
vita che egli stesso amava. Si cresce, si matura. Il bel
verso si allunga, si intagliano ed eternano sulla carta
nuove emozioni e angolazioni che servono a decifrare
questa entropica realtà. Molti insignificanti appigli
reali diventano la mia “rosada”, stimoli attraverso i
quali posso comporre, dopo essermi balenate idee che
135
necessitano di rianalisi speculativa. Dunque mi siedo e
appoggio le mia braccia sulla scrivania di noce e di
cristallo, sommersa negli angoli da remoti libri e fogli
di letture più disparate: poi mi diverto. Prendo la
penna e gioco con le parole, se sono felice. Se sono
triste le torturo, le smonto, le spezzo, le ledo. Mi
dedico con fervente passione, attraverso <il pensare e
lo spensare> alfieriano alla poesia, non prima di un
inchino di dannunziana memoria. Perché bisogna
inchinarsi ad essa, alla Clizia montaliana, alla Moira
celaniana, al Bastone ungarettiano. La poesia
accompagna dove normalmente non ci dirigiamo, un
viaggio interminabile, un succinto di amore e di odio,
di speranza e di delusione, di aspro e di dolce,
nell’inconfondibile etere dei pensieri (Acre Tirso
torna) che come ragnatele ci rimbalzano, di schiena,
dall'una all'altra parte del nostro insulso esistere. Non
sempre riesco a comporre come vorrei: di frequente,
accartocciando, disintegro smisurate porzioni di fogli
scarabocchiati; non sempre riesco a strappare le parole
all'Essere. Ma mi convinco del mio Esserci, magari
aromatizzandolo con un bel bicchiere di Unicum.
136
2) La cattiva postmodernità.
Come avrete avuto modo di constatare dall’attenta
lettura, il libro si costituisce di poesie che lette
separatamente possono risultare assai pindariche,
scollegate. Ci sono degli anelli che tengono, delle
maglie ben strette, che finiscono per formare una
catena resistente, complicata e aggrovigliata. Questa
suddivisione di piani narrativi ha il preciso intento di
rendere l’idea della mia incomunicabilità col mondo.
La cattiva postmodernità. Perché complicato è il
legame che mi stringe ad esso. Dalla poesia
apertamente lirica e soggettiva a quella sliricata,
rabbiosamente mordace e civile, che vuole non tanto
denunciare e scuotere la sola idiota verità di chi è
sicuro –sul solco pasoliniano- quanto decifrare
apertamente la realtà, constatandone una situazione
apertamente paradossale in cui tutti noi siamo calati e
in cui, come marionette, quotidianamente ci
applichiamo al vivere. Il liricismo, inoltre, ha scopo
puramente riflessivo, è uno spazio di solitudine
meditativa che il poeta ritaglia a suo bisogno, a sua
scelta, contro quei tanti simulacri viventi che pur di
non accettare la solitudine, o di rimanere soli –che è
ben diverso- concludono l’inconcludibile: eventi,
sballi, stupidaggini, ed il mondo va avanti. Sono due
137
piani di analisi, quello lirico e quello civile,
volutamente adottati, che si intrecciano l’un l’altro a
creare una trama fittissima di connessioni, di
suggestioni, di sensazioni e di emozioni. Sicuramente
il tono civile, etico-morale di molte creazioni uscite
dalla penna si controbilancia, seppur in esimia e
timida parte, al disordine entropico, razionalmente e
calcolatamente confusionario, del nostro tempo. La
disgrazia del secondo millennio, ahimè quello in cui
viviamo amaramente, è data, principalmente,
dall’irrecuperabilità di ogni modello, estremizzando, a
malincuore, il titolo di un celebre e commovente
saggio di Alberto Savinio, intitolato <Fine dei
modelli>.
Il culto della bellezza, l’anti pasoliniano borghesismo
collo-ritto, silente e strisciante adempie nel possesso
dell’anche più pudica anima. È l’incomunicabilità tra i
sessi, tra gli uomini, la totale rabbia di un
disfacimento sociale a cui nessuno pone freno. Certo,
il freno è difficile da porre: la costituzione della realtà
così negativamente studiata, imboccataci dalle
pubblicità e dal bombardamento mediatico dell’ hic et
nunc ci spinge, subdolamente obbligandoci, ad
adempiere a quell’odioso carpe diem (di cui molti
nemmeno conoscono la provenienza letteraria,
tantomeno il significato); si tratta, sic et simpliciter, di
138
banalizzare ogni nostra norma comportamentale, ogni
nostro pensiero, adoperandoci a fare l’inutile quando è
necessario, ora più che mai, approdare all’utile. È un
egoismo sviscerato il nostro, che ci costringe a
difendere strenuamente quel piccolo angolo di
paradiso che presumiamo, sempre più arrogantemente,
di possedere. Niente condivisione, ma rabbia, palese
demonizzazione dell’altrui, insensata gelosia ed
invidia verso i fratelli. All’era postmoderna, quella
appena analizzata, si va ad aggiungere, secondo la mia
ricerca sociale, il recupero di un già sperimentato ma
ora sempre più latente dannunzianesimo godereccio: è
la società dello specchio, del narcisismo sfrenato,
dell’obbrobrio plastico, del piacere istintuale di
piacere al prossimo, di mostrarsi impeccabili, di
stilizzare e di stereotipare una giovinezza atemporale,
una forza sensuale infinita e perenne. La rotta è verso
il dissolvimento di ogni valore, quella irrecuperabilità
dei modelli cui sopra accennavo.
3) Dialettica uomo- mondo.
A me piace l'uomo ma oggi esso si trova ipnotizzato.
E' in uno stato di trance evanescente, non riesce a
comunicare, se non con simili, altrettanto ipnotizzati.
E' dura da ammettere e da comprendere ma in questa
139
nostra società si vive di altri e non per gli altri. Ci si
aggiudica, come ad un’asta, un po’ di effimera felicità
attraverso quella che Marc Augè definisce, in un
celeberrimo saggio, <la dittatura degli eventi>, oltre
che all’obsolescenza un po’ psicologica ed un po’
programmata delle mode, delle pubblicità che ci
bombardano ogni giorno, molto ben argomentate
dall’economista Latouche. Esse -le due obsolescenze
citate- hanno voluto obbligatoriamente insegnarci a
diventare marionette, educandoci allo spettacolo, al
preconfezionato e alla non-spontaneità; si dà la colpa
allo strutturalismo, alla fitta rete di connessioni tra noi
e gli oggetti. Sublimazione, a mio avviso, diventa la
nuova parola chiave: sublimazione della felicità nel
puro, sconsiderato, accumulatorio e, permettetemi,
disgustoso possesso dell'oggetto. Attenzione: con
oggetto non si intenda solo l'oggetto come oggetto ma
anche l'oggetto come umano. Il possesso, <<Io
possiedo>> (parte IV, v. 27 di P. P. Pasolini, da Le
Ceneri di Gramsci, Garzanti, 2010). Se davvero
viviamo calati in questa complicata atmosfera dei
nostri tempi, nella quale il nostro tempo è assorbito da
un tempo che ci fanno credere di essere quello che
veramente trascorre, dimensione meschina, quando
potremmo mai avere momenti nei quali riacquistare la
nostra identità, sentirsi docili fibre dell’universo
140
(Ungaretti) o minuscoli frazionamenti armonici colla
natura? Non sono interrogativi da poco, e nemmeno
facile è darvi risposta. Forse stiamo degenerando.
Cioè il mondo degli uomini sta degenerando.
Quell'impercettibile senso di riscatto che ognuno di
noi ha, sente di avere, si dilegua nel mare delle
consuetudini: esse si avvicendano, ci stringono in una
morsa sociale di inevitabile ed intricabile, precisa e
studiata trama. Ed è proprio quello che definisco
"ragnatela strutturalistico-sociale" ad assuefarci, ad
eliminarci con una puntigliosa precisione, una lama
affilata, tagliente, che sa dove colpire, sul nostro
essere, ovvio.
Quello che vedo intorno a me è uno spreco esagerato
della propria persona in faccende sempre più inutili.
Sveglia, basta essere imbambolati. Le faccende inutili
ci banalizzano; non dobbiamo essere né eroi né
pezzenti. Dimenticarsi della propria persona significa
anche dimenticare i valori, quei valori propedeutici
alla formazione etico-culturale e, dunque, sociale di
ognuno di noi. A me piace l'uomo, inteso sia come
sesso maschile sia femminile: l'uomo è degno di
essere tale quando non si dimentica di quel che è.
Uomo è uomo quando sa di amarsi e di amare. Ma
bisogna tornare ad esserlo, a rispettarci e a rispettare.
141
In sintesi, è quello che molto spesso io definisco il
meccanismo del culto postmoderno, meccanismo
truculento, un tritacarne indistinto in cui noi siamo
immersi fino ai capelli. Con postmoderno intendiamo
l’era della ripetitività, del già fatto, del minestrone
riscaldato, del ri-proponimento, anche e soprattutto a
livello culturale, di qualcosa precedentemente esistito
e teorizzato: basta cambiare qualche virgola, qualche
parola ed il giuoco è fatto. Storicamente si fa
coincidere la nascita di questa nuova turpe era
culturale con la caduta del muro di Berlino del 1989,
ma già col Gruppo ’63, con Sanguineti ed Eco, si
stava pian piano de-contenutizzando (scusate il
neologismo assai brutto) la cultura, la poesia come
puri e semplici giuochi intellettuali, linguistici,
amorali, dissacranti, inutili.
4) Dialogi: la seconda avventura.
Sono giunto alla seconda raccolta poetica. Il verso,
come già detto, si allunga, la denuncia pasoliniana si
fa aspra, il motivo ungarettiano è ripreso, assai
interiorizzato, come anche quello celaniano. Paul
Celan, (a cui qui dedico una poesia assai profonda,
ottemperata allo scavo interiore) Giuseppe Ungaretti
(a cui ri-dedico questo mio secondo libro) e Pier Paolo
142
Pasolini (a cui ho dedicato assidui e certosini studi)
rimangono i miei modelli: non si tratta di imitazione o
di emulazione, ma semplicemente di rianalisi, di
approfondimento impegnativo, di assimilazione
costante, nonché di reinterpretazione dei loro
insegnamenti nell’attuale epoca storica del secondo
millennio. Tutta la letteratura, in fondo, è la base per
comprenderci. Siamo figli della letteratura, siamo figli
di una cultura tra le più ricche, o meglio la più ricca,
del mondo. È inutile negarlo. A questo proposito mi
balena una frase di Calvino, ricordata dal mio
professore universitario di letteratura italiana:
"La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste
nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può
dare coi suoi mezzi specifici."
(Lezioni Americane. Sei proposte per il nuovo
millennio [1985], in Calvino, I, p. 629).
5) Ringraziamenti.
Ringraziamenti speciali vanno ai miei tre compagni di
università: la pratese eccentrica Diletta Marchetti, il
frosinoniano e collega di saggi critici Davide Pisa e la
dolce montalese Elisa Pacini. Abbraccio loro
calorosamente, mi hanno seguito, sopportato, spronato
143
e chissà, forse anche ispirato. Un grazie speciale ad
Andrea Bassani, mio illustre collega che mi ha sempre
apprezzato e appoggiato, ai miei due Cacciaguida e
maestri Ernesto Marchese, autore della prefazione
(dietro cui si cela, ma non troppo, l'adorabile
Donatella Solmi) e Fausto Ciatti, a cui devo tanto, e
per i tre anni di liceo indimenticabili e per la
dedizione e pazienza che sempre mi riserva. Pensarlo
un mio futuro collega mi riempie di gioia: mai
l’allievo supererà il maestro.
Ancora i miei zii, Marco in particolare, i miei cugini,
vicini e lontani, sottolineando la disponibilità di Luca
Bertinotti, che mi ha aiutato per la copertina e per
l'impaginazione del libro. I miei fratelli Roberto,
Claudio e Lorenzo, le mie cognate Irene, Moira e
Alice, mamma Silvana e babbo Sergio. Infine ultimi,
ma non per importanza, Marco, Alice, i fratelli romani
Alessandro e Andrea, infine Tommaso.
Ancora l’entourage dell’Associazione Culturale
<<‘9cento>> di cui sono attualmente il membro più
giovane e l’assessore alla cultura, cara amica, la bella
e dolce Elena Becheri. Non posso dimenticare le mie
piante e la mia Roma; mi riempiono sempre di gioia.