matteo mazzone come all’interno di uno spartito. sostantivi, aggettivi, domande si muovono simili...

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Matteo Mazzone Con prefazione di Ernesto Marchese DiALOGI

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Matteo Mazzone

Con prefazione di Ernesto Marchese

DiALOGI

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Matteo Mazzone

DIALOGI

4

Alla mia famiglia,

ad Alice, Marco, Alessandro e Tommaso, che

tutti imparino a dialogare con se stessi.

Ad Ernesto e Fausto.

<< Il mio supplizio

È quando

Non mi credo

In armonia>>

(da “I fiumi”)

Giuseppe Ungaretti.

<<Or colui veggia

Che da tutti servito a nullo serve>>

(da “Il Giorno”, sezione “Il Vespro”)

Giuseppe Parini.

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6

Prefazione

L’evoluzione poetica di Mazzone si manifesta

attraverso lo sforzo che immette nei suoi versi al fine

di cercare e risolvere la non leggibilità del mondo, la

non riconoscibilità a primo acchito, ma a cui il

poeta non si rassegna cercando di investigare tramite

l’analisi del più profondo sentire. Nelle sue poesie

difatti prevalgono i temi più drammatici, quelli che

trattano insistentemente sulla vacuità e sulla morte,

sulla paura e sulla sofferenza. C’è però

contemporaneamente anche il suggerimento di un

richiamo accalorato alla vita, pulsante, in quanto lo

spasmo del proprio dolore fertilizza il bisogno di

amore e di solidarietà. Esaminando questi temi, è

possibile notare lo stupore del poeta dinanzi alla

natura, nel momento in cui vigorosamente riafferma

la sua perfetta sintonia con le cose, per cui arriva a

riconoscersi anch’egli come Ungaretti, una docile

fibra dell’universo. Le nuove poesie di Mazzone in

questo volume appaiono diverse rispetto alle

precedenti, difatti conducono il lettore a riflettere in

modo diverso sulle cose e sui loro significati

spingendolo a osservare altri confini e diverse

barriere, esortandolo però a oltrepassarli per andare

incontro a orizzonti del tutto nuovi. Nelle poesie di

7

questo volume, i Dialogi, è consigliabile arginare la

semantica delle parole che suonano ritmate e

scandite come all’interno di uno spartito. Sostantivi,

aggettivi, domande si muovono simili a note

musicali e riesumano l’insegnamento di simboli

antichi e a volte sacri. Sono voci della poesia più

essenziale che provocano un grande ventaglio di

sensazioni ed esperienze come fossero stati vissuti in

un tempo distante e lontano e oltretutto gravide dello

spasimo doloroso del castigo che l’uomo subisce

vivendo. Non solo ogni verbo o aggettivo ma a volte

persino ogni lemma è come scarificato nella ricerca

poetica di Mazzone e diventa così uno dei tratti più

caratteristici e riconoscibili della sua personalità. Pur

non rinunciando a una basilare eleganza del verso,

non potrebbe del resto farlo, è dovunque percepibile

il rifiuto, di qualunque ginnastica retorica e di

solenne atmosfera. Ormai per lui, la parola deve

liberarsi di ogni inutile bordatura retorica, in modo

da poter esprimere subito il dolore dell’uomo e la

fragilità della sua esistenza. La scarnificazione della

parola è un po’ come lo scavo nella coscienza, nella

penosa spinta di raggiungere la consapevolezza della

vita che poi ineluttabilmente si rivela essere

nient’altro che il semplice dovere di vivere la nostra

sofferenza. Ecco così spiegata l’evoluzione del suo

8

stile poetico. Insieme alla costante e continua

meditazione sulla morte da parte di Mazzone è

possibile avvertire, in molti suoi versi, un senso del

rapido fluire delle cose, un senso che si rivela ora

attaccamento alla vita, ora nostalgia, ora sgomento,

ora desiderio di oblio. Fondamentali nella poetica di

Mazzone sono i concetti di memoria, di innocenza e

di precarietà, che pur tornando nei suoi pensieri, non

potevano non subire modifiche in questa seconda

raccolta. La lettura di concetti come questi varia,

secondo il soggetto trattato, da poesia a poesia,

anche se per ritrovarli è necessaria però una rilettura

complessiva delle sue poesie, quanto più sistematica

possibile e alla fine mettere in rilievo interi

significati o sfumature. Si può cogliere dall’esame

dei versi del poeta Mazzone una dichiarazione di

poetica che va per contenuti dalla profondità

dell’animo umano alla considerazione dell’intima

precarietà dell’esistenza, per stilistica invece è tutta

rivolta alla perfezione del verso. Mazzone richiama

e mette in stretta relazione, quasi di causa-effetto, la

memoria e l’innocenza. L’innocenza è cercata e

trovata attraverso i suoi versi, mentre la memoria

deve essere continuamente evocata. L’individuo,

difatti, sembra avere perso ogni riferimento

umanistico e si fida unicamente dell’istinto, avendo

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ridotto la vita a semplice oggetto. Mazzone spera

allora di trovare lo stupore nell’incantesimo dei

simboli al fine di riempire il vuoto esistenziale e lo

fa ampliando la propria nomenclatura poetica,

viatico per compensare la memoria perduta. Grazie

all’opera di alcuni letterati come il Mazzone, quindi,

la memoria viene recuperata in parte attraverso il

dolore degli oggetti. Tutto allora diventa un conato

verso la vita che ancora può essere apprezzata,

l'interiorità del poeta si rivela essenziale tramite una

voluta solitudine, una vita contemplativa nei

confronti della natura a cui assegna nomi, aggettivi e

atmosfere. L'amore per la natura è trasmesso grazie

al dolore che vive in tutto il macrocosmo

esistenziale e deve essere accettato e bevuto,

nonostante il sapore amaro. Rimane solo l'arte come

consolazione per l’intelletto e la compassione come

guida per riuscire a solidarizzare gli esseri umani.

Ernesto Marchese

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Dialogi

†††† †††††† †††††† †††††† †††††† †††††† ††††

11

Un coprofago che si eccita

a mangiarsi,

repellente umano borghese

perfetto nella sua imperfezione

gestore di un consumo

incivile

guarda passare me folle

lo guardo per distruggere

l'insensato suo senso di sazietà culturale

io non sono sazio, il mio corpo fragile

è la pena da pagare

di me vivo

il dolore si sconta pensando.

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Grasso.

Inciso sulla pelle,

secco mangime di verme.

Un dente sporco ghigna.

Lo spettacolo inizia

al piede di un uomo

esploso nel nulla.

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Nell'aria soporifera

ingenuo seguire un'età mancata.

Mentre la morgana

se ne va, spaventata dalle sirene,

legato ad una rupe è il mio orgoglio

che sale

che scende

nelle onde frantumate,

nell'ira di Poseidone che strazia la mia nave,

il mio viaggio.

Il viaggio frantuma

diciannove corde vitali

celando la mia maschera,

celando la mia psiche

rivolta all'incontrario in un torpido, veemente strazio

vocale.

Lo schiaffeggiatore sublime

(sì chiamansi) che percuote ingordo

del mio sangue rosso scuro che cola

goccia dopo goccia, servo di meschinità,

mi svuota le membra abbracciate

disseccata la pelle come la Sibilla,

nel vaso di coccio

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pronta allo spargimento lontano sulle colline Lucane.

E mi dissero di sognare,

di desiderare il futuro indesiderabile,

di impaurirmi, impaurirmi

toccando il volto freddo di mia nonna,

gelata da Lei,

la portatrice di sano socialismo.

E mi dissero di accaldarmi

correndo instabili pianure,

escoriandomi le ginocchia con la ghiaia aguzza,

tagliente

incerto il fato nefando.

Poi raggiungere una duna

di terra e, se avessi voluto, cibarmi di essa,

un pastone di detriti giù per la mia bocca,

giù, giù, nell'alto mio interno.

E mi dissero

di essere Matteo,

il maledetto arcano enigma.

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L'approdo.

Ho cercato negli abissi infernali

lungi dal mio cammino

assatanato il rivo che scorga fuoco

dove approdan le voragini cadaveriche

se stabile è l'impianto,

il libro per mano,

dimentico continuo.

Ho cercato negli spazi reconditi

i lapilli scheggianti,

i fascisti fasciati fascinosi

che nubi di vapore

turbavano la quiete inesplorata

del mai.

L'approdo fu certo

alle radici invelenite del male,

al mio essere di sopravvissuto

decisa la sorte mordace

per chi non sogna la notte,

per chi vuole il cielo limpido e stellato.

Ma si evince la necessità

di approdare lontano da qua.

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Roma.

Pulsi come un cuore

rombante di

battiti e mai

cadi in eterno letargo.

Per le vie,

San Gregorio cammina,

l’Arco trapassa.

Caldo tepore di anime,

infondono gioia negli sguardi

afrodisiaci

di ammiratori mai sazi di te.

E tu, colosso del mondo,

immobile, stante

con superbia,

verosimile in realtà

agiti braccia invisibili

che tutti raccolgono.

Io vi ascolto, sistri dorati.

Bocche pervase d’ amore.

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In un distinto

angolo dell’anima

una sottile fibra

di sogno.

Una trama di salici

che formano tendaggio

di gracili foglie.

Seguendo il canto

di gioia,

raggiungo un lago

di morte.

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Presso l'altare

violento mattatoio appeso,

con il cappio di stoppa avvolto

zampilla il rosso dell'umano

nei rivoli di pietra

annaspando l'anima,

le ginocchia non tengono,

frusta che mi frusta

assai irruente il non dolore

forse spiaggia al secondo o millesimo

di felicità,

annaspando, s'appasta la bocca

raggruma la bava bianca

e la polvere violacea argilla

sinuosa s'annida in cerca di riposo.

Presso l'altare del sacrifizio

ecco la libazione di Bacco,

l'oblazione del mio corpo assuefatto

ed insensibile

alla morte.

E Bacco: portate del vino,

si dimentichi il corpo di essere quel che è.

Uno straccio civile.

Astante il pubblico,

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putridume tecnologico-borghese

che riprende la scena.

Ma non c'è machete atto

allo spopolamento.

20

Un minuto di silenzio,

non più arte e sabbia.

Non ti preoccupare del mondo,

esso va,

la ridente prateria

ma vieni qua, vieni là

mi spezzi ma spazi

nel gioco,

il polpo coi tentacoli

che sprigiona quel nero di seppia.

Stai aspettando qualcuno?

Ed io a lei: “mi riconosci?

Prova a toccare la mia mano,

lisciala

lisciala, basso è l'odio

alta marea e navi tra scogli

non impaurirti,

non più arte e sabbia,

non più me, né te".

Giudice, giudice

afflitto, ah implacabile,

universale lo sgomento.

21

Un triste felice,

un felice triste. Ma quando... sarà il tempo

di cosa penserò.

Verrà il giorno,

l'adorabile ora del Nulla.

Il nulla è accettabile guarigione

per la inutile

sofferenza vivificatrice.

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Nessuna rosa barocca

mi è tormento d'amore.

Il viso che bacio

sotto nasconde il suo teschio cavo,

losca la pelle è membrana

impermeabile alle emozioni.

Nel mio giardino ho colto la rosa rossa

recisa che muore:

se la deposito sulla tua pietra si riavrà.

Accarezzata dal vento del ricordo

incessante strazio la visita,

l'ingresso oltretomba

a pagamento de’ vivi,

delineata la schiera delle anime dantesche:

< che saetta previsa vien più lenta >.

Nel dissidio del mai

si acquieta la gioia,

nell'algida acqua stantia del pozzo

che rispecchia il tuo grido.

Quando tramonterà il dì

il tuo patetico sì

23

mi dirà ancora una volta: amami.

E se nel letto mi vergogno,

il fuoco del camino natalizio mi arderà

bruciando il mio corpo di Didone.

24

Oggi ti ho scritto,

pagina bianca mia.

Oggi ho scritto

su di te

pezzi di me.

Parlavo ad un cieco

che provava

a leggere.

25

Il buono e il cattivo tempo

quell'involucro multiforme

multi-spaziale

che morde la vita,

testimone verace ed insulso

come la macchia sul vetro sporco

o nella precisa stanza il quadro storto

quel bitume di giudea che paralizza

l'involucro osseo

e la rende secca, squamosa

gozzoviglia prelibata ai vermi,

essi giurarono fedeltà,

alleanza col corpo

non abbandono come la specie umana

che si avvantaggia a creare il paradiso

dove non potrà esistere.

Quella stessa specie umana

vincolata all'inganno perpetuo

che solo infiniti mondi

distoglieranno un dì.

Ma se la ricerca della vittoria ti sgomenta,

mio fratello

se afferrarti per i capelli senza calmarti

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ti è masochismo piacevole.

Quando il Sole scenderà?

27

Quel tronco che mi guarda,

io seduto sulla punta di una barca.

L'acqua fa rumore e

mi distoglie dai dolori, dai pianti.

Quel tronco che mi guarda,

che è solo,

simile a me, freddo,

lisciato dalla salsedine marina.

Eroso, tumefatto, forse un pino?

Forse un ontano, un magnificente pioppo.

Tra le mie labbra un sibilo

la parola, vana,

si mescola allo iodio,

se ne va, lontana, libera, mite.

Non esce, il cuore impietrito.

Psiche ed anima dove sono?

Intonano grida di strappo,

lacerato strappo, ferita immune a

risarcire,

briciole sbriciolate di corpo in eccesso.

Tomba cadaverica, quel legno

è il legno della tomba che ospita

un po' di me.

28

Mi dissolvo

nei cerchi

dell'aria.

29

La ballata dello stolto.

Ma dimmi, caro uomo,

definisciti, ti prego.

Nel mio tempio non ho tempo

di capirti, (forse non voglio)

renderai il mio compito

più lesto svelandomi il tuo segreto.

Stolto, dimmi stolto

cosa intendi per vita

se ostentare la tua mediocrità

celata in una non-morte,

se ostentare la tua regalità

con passo lento e tardiva

nello scoprire il tuo

volto, maschera, volto,

se uno ne hai,

un semplice teschio

ricoperto di pelle.

Mi piacerebbe amarti, distoglierti

dal sussurro lento delle ore,

portarti con me, nel mio mondo

a decifrare la vita,

quella che non vivi,

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a immaginare di essere morto,

colla rete longobarda in fronte

per meglio trattenerti.

Stolto, dimmi mio amico

se nell'amicizia credi

se mai ti domandi chi sei,

sorgendo la notte dal mare

e se non rimani

atterrito dalla pesantezza del cielo

quel cielo che un domani

sarà la tua dimora.

Volente o nolente fischierai la tromba della guerra, ti

spegnerai nel tuo sangue freddo irrigidito,

se mai avrai vissuto,

se mai sarai esistito.

La ballata dello stolto

non è una canzone

ma la chiara percezione

di un mondo distorto.

31

Appiè del precipizio

mi è dolce la mano smeraldina

che carezza il mio volto rigato

che tace il brivido lassù,

gemente il canneto e la mia eco

sprofonda nell'immenso spazio

che separa la caduta

nei secoli dei secoli,

lo stagno stagnante

con la verga che batte

il confine del nulla.

Il rintocco virulento,

il glauco corpo di

valore teurgico

impossessato sacrilego.

Mi è dolce la mano smeraldina

che mi spinge

in un vuoto migliore.

32

Non datela vinta

a me, poeta,

solo,

emarginato,

i miei piccoli occhi marroni

che si socchiudono

alla luce del sole.

Non datela vinta

a noi, cultura,

esempio dei

benpensanti,

conoscitori di menti storiche,

i nostri occhi si aprono

al libro polveroso.

Non datela vinta

a voi, uomini,

anime girovaghe

nelle strade del tempo,

i vostri occhi

colorati si chiudono

alla Paura.

33

Il vento

porta via la mia mente.

La ritrovo

impigliata ad

un ramo di glicine.

Gocciola di

amari ricordi,

intrappolati

al perché

di un’esistenza.

34

Un sorso di mandragola

e mi abbandonerò al tuo seno,

il mio demone che macera

dogmi dorati.

Aggiungi uno strato,

che sia terra fina, Amore,

aggiungi uno strato di fredda coltrice,

che vermi e germogli mi ricoprano.

Il giacinto bianco

è la mia anima che profuma l'etereo.

35

Testamento.

Le nere mani pedanti

mi distruggono le corde vocali,

mi stritolano.

E’ pronta la cassa?

Lucida, lucidatela,

lucidissima, senza macchie di opaco.

Sempre pronto, a qualunque ingresso,

ma voglio in basso a destra

i miei libri,

mi serve quel bastone

per sorreggermi.

Welalla leiala

Welalla leialala.

36

Avvicinati a me,

ti prego, my dear friend.

Vedi come cade la sabbia

dalle fessure

della mia mano,

tra le nocche rugose,

sopra le unghie scheggiate

si ferma a patina poltiglia?

Vedi come il vento

sfuma la polvere

nell’aria?

E quando io guardo

quei due occhi marroni

asciugo le lacrime

che cadono, conficcate come spine

assaporandole

sulle mia labbra.

37

[Rifacimento] Testamento 2.1

La mia Musa ho voglia di baciare,

si estende nell'aria.

Quando il vento mi disperderà

e la cenere diverrà come polvere sui mobili

potrò contemplarmi.

Non è detto che il corpo si vanifichi,

non è detto che l'anima resista

alle pene del distacco.

Ma tu, o vivo, o vegeto,

sfacelo di società

non recarti alla mia lapide,

pensami

abbandonami nel piacevole ondeggiare

ritmico

lasciami volare nel mio centro

all'oblio mancato.

La speranza è che tu,

mia Musa, mi vorrai amare e solo così

suonerò la mia cetra ora appesa al salice.

38

Non mi togliere

il sorriso.

Ad esempio del

re beato,

buffone mascherato

da serio.

Lasciami

un'intima vergogna

per custodire

il mio segreto.

39

In un volto stroncato da rughe

salate di vecchiaia

un marciume stantio di esistenza.

Muori, vecchio

muori ora relitto umano

è solo pietas quella che provo.

Cammini come un fantasma

dalla nube di Enea reso invisibile,

assomigli alla pioggia

che picchietta sulle foglie.

Si scianca il verde ramo.

Cosa ancora ciabatti in Terra?

Ti aspetto come un padre.

Tuo padre ti aspetta.

Improvviseremo la vita

che ci ha lasciati privi del domani.

40

Arrivata al capolinea,

scendi tu, scendo anch'io. Ma dove?

La mia donna sussurra parole

che sento distanti, la roccia

sul letto, coperta di raso

immensa bellezza

che di un viatico tanto inatteso

sfoga il laico presagio.

Senza benedizione, dio non è del nostro

mondo.

Accennommi la servetta colla gerbera

gialla

sul marrone lucido stonava

l’abbinamento,

ma i fiori

non si detestano, come gli umani,

quei bipedi inveleniti dal profitto

spugnosi organi, strumenti preziosi

dell’egoismo,

che ti lascio morire, oh mia donna

perché t'amai come il cielo,

che ti lascio morire, oh mio cuore

41

perché t'affissi colle spine.

42

La polvere

del tuo odore

che si posa

sulla mie pelle.

Taci,

cuore stanco.

43

Avrò avuto così

tanta fede

prima di nascere.

Ed ora non ne ho più.

Non vedo volto di

dio in nessuno.

Sofferenza e gioia

si aggirano e tutti si sentono soli.

L’umanità

è senza religione:

si muore al cenno di un capo.

Chi balbetta

nella bambagia,

chi parla

nella povertà,

chi zittisce

per disperazione.

Questa è l’unica fede.

44

Con un accento

tutto nostro,

tutto magico,

ci chiamiamo.

Ed il suono

svanisce

nell’ombra

dimenticata.

La mia mano

pende

come quella di un morto

dal letto

disfatto

e lo sguardo onirico

nel vuoto

si immerge.

Ci sono ora.

Domani forse.

Indietro mai.

45

Chi mi getta

addosso

frecce spigolose,

sassi aguzzi,

schegge di pietra?

Sei tu, amore mio.

Tu vuoi che

scriva, vero?

Una collina blu,

un prato rosso,

un cielo giallo.

Tu scorri dentro me

come l’Alfeo

di un famoso palazzo

inglese.

Sei la Poesia

della mia vita.

46

Nella clessidra

del tempo,

goccia dopo goccia,

defluisce il mio sangue.

Non mi rimane che

rovesciarla e

fissarla.

Ed aspettare di ricomporre

l’inutile integrità

delle mie ore.

47

Mi racconto

con momenti

di pace.

Raccolgo un’innocua

violetta.

48

Ho visitato

con gambe

pesanti

la via del ritorno.

Ed effimero

il fuoco

divampava

tra gli sterpi secchi

del campo di Cerere.

Un lupo

mi indugiava a

continuare la corsa.

49

Sul monte di maggio

come è eterna la vita degli alberi.

a discapito dei matti

che vagano nei beati manicomi

dimenticati,

la scuola dei poeti

si impara là ad essere pazzi.

Sul monte di maggio

come è corta la vita degli angeli,

le margherite irridono con acribia

le gole d'acqua

esacerbando il marcio dell'inverno

candido.

••••••••

(Ucciderei per il silenzio degli altri

se solo potessi parlare,

ogni volta che penso a te)

••••••••

La forza della solitudine,

mi fumo il sigaro inadempiente

sul monte di maggio,

laggiù la masnada dei mortali

50

povere anime!

Non disperate,

soffrite.

Sodomizzate malvagie creature

la vostra condizione di nullità,

chi si tiene compagnia non è solo

pure la polvere è più felice di me

ma chi cerca l'altro,

teme se stesso.

51

Ad un passo da qui, Roma

ti ho vicina

nel tuo giardino proibito dove

la mia metamorfosi comincia.

Non si abbarbica il silenzio nella

tua mattina solitaria,

lisciando la rugiada sui sampietrini

stona la nota steccata

ma di che virtù siam fatti?

Se poi ragiono alla pietra

con le polveri mute

non mentire al tuo ricordo.

In quella tua lussuosa trama di strade

il saltimbanco di Sant'Ambrogio

a cui dono la moneta

ossigena l'aria già tersa

e una luce di calore purifica questo

intriso animo parassita.

Mio cuore,

Roma, Amor che disintegri ogni pensiero

rendendomi girovago stupito

52

e volgo lo sguardo

ora là, ora qua nell'immensità

in cui mi immergi.

Ma comanda l'ira, comanda l'impegno

di scriverti, di immaginarti casta

come l'eunuco evirato,

innocente.

53

Cospargere il velo

di me, in me, per me.

E ciricì e ciricì e ciricì.

L'incomunicabilità.

54

Si vola

in cerca

del più.

55

Non torna più il miracolo

nel mio soliloquio di pena,

acciaccate le braccia,

fumosi schemi d'argilla,

in quella mia notte di magica ammirazione.

Imbevuto il panno del sudario

vola alta la mente

che acceca, tumultuoso abisso

inverecondo il sentimento

di me lasciato ad invecchiare sulla poltrona panna.

Incenerita, brattata la seconda follia

che della prima è effetto

immorale gesto di occultamento

conoscere ciò che è nascosto

privare il vivo di vita.

Immaginato il soffice, supplice

uomo ai segni della ri-virilità

addormenta la dirompente artemisia

con cui sbarbo la siepe

e mi dissolvo libero nelle fluttuanti vegetazioni.

Ahimè, spirito mio

continua a gettare fiato al vento burrascoso.

56

Infinita nudità,

sono il giocoliere

dei miei pezzi,

che non vogliono amore

accenno disgraziato

della moralista postmoderna.

57

Chi sei,

uomo?

Sei un cigno che

nuota in acque

ghiacciate?

I cigni sono belli,

nobili animali,

che nascondono

sotto una coltre bianca

un corpo di

ossa e sangue.

E ti illudono

d’aspetto superbo,

magniloquente

più d’una parola.

Siamo cigni

e non uomini.

58

Perché piangi?

Non sfregiare un viso

così puro,

e togli quest’aria

singhiozzante.

Sai, il silenzio ignora l’essere.

Non ho voglia

di approdare

dove i fiori non crescono,

dove i giorni

sono ore eterne intramontabili.

Questo è il mio silenzio.

Quello di un poeta

che ribolle ardente

è solo una scusa

per convertirti

al sublime dissenso

di emozioni.

Ti porgo la mia mano

così insieme cammineremo

59

Di chi son

quegli ondosi boccoli

di bionda seta

che deviano con grazia

al sibilo del vento?

E due sfere cristalline

che si confondono

con il sereno del cielo

quando nessuna nuvola

lo inquieta?

Giammai si spegneranno

nel cuore di un poeta.

La secchezza della pelle,

l’assiduo tormento della vita

ci distruggeranno

un così bel tempo .

Accarezzeremo

le nostre mani rugose

e forse moriremo per i ricordi passati.

60

Il distacco.

Mi sono assuefatto,

la creazione divide il distacco,

lamenta la innaturale natura

e tu non pensi, e tu non vivi.

Dichiarato è lo stato di natalità

nel mondo intonso, pre-confezionato,

l'involucro in cui è incartato,

la lacerazione - metafora dell'individuo -

che si distacca banale la banalità

agli occhi del non-vedente,

del mendico deteriorato

ad immaginarsi la terra: pura.

Follia erasmiana, senza dubbio,

già, già, senza dubbio. Non comprendi?

Dis-orgoglio, in-cessante di qua, di là

ma la libagione della ragione

nella quale si crogiola

cuoce a fuoco lento il tuo liricismo,

come un fuco non lavora, non agisce

ma feconda con sesso,

è allevato, nutrito con ciò

che potrebbe produrre.

61

Il distacco esordisce

tra uomo e realtà, tra fuco ed alveolare:

entrambi esistono

in ciò che non vorrebbero.

62

Paura.

Del mondo o delle cose?

Mi sussurri parole lusinghiere

e mi baci.

Poi mi fai addormentare

e cado supino,

mi violenti con i tuoi pensieri.

Mi domini come un asino

carico di legna

e mi schiaffeggi

con la tua coscienza.

63

Proteso in avanti sull’acqua

(forse anche l’oceano

un giorno si prosciugherà)

ascolto i richiami

della natura.

Ad occhi chiusi vedo

come il mondo sia una

lunga lingua di luce.

Scrivo una lettera

con i sensi d’amore

a te che

più non respiri con me.

64

Le mie dita

sfiorano

un viso stanco.

Una colomba tra

gli ulivi

geme

per avermi

incontrato.

65

Che tregenda di diavoli,

Satana li ha sverginati.

La bandiera sventola

sulla torre.

Ha forse vinto la guerra?

Contempla soddisfatto

i morti?

Ridono i carnefici.

Impassibili al rosso loro nettare.

La loro sete

si placa con le lacrime di chi

pianse il fu.

66

E se alzo i miei occhi

verso il blu?

Come divento leggero,

forse troppa pioggia

offusca i miei

lineamenti.

Caro angelo, la tua

pacca d’amore

mi percuote di un

fervente brivido.

Ci appoggiamo

all’inferriata,

sul precipizio del volo.

Mi scovo

tra le nuvole

del cielo.

67

Sono a Roma ed il sole cocente

mi avvampa le membra.

Voi che mi guardate,

alti e possenti, vi spingete come schegge verdi,

gotiche parigine, verso il cielo immacolato.

E Nettuno con il tridente mi giudica,

mi sfida con severi occhi

mentre la dea soggiace al Pincio

stanca ed ammaliata

dal suo stesso fascino.

Ai piedi dell’Obelisco flaminio,

di questa Urbe il cui profumo diventa il mio respiro.

Laggiù un vortice

di bambini si eleva a grida

nell’aria sbranata dalla brezza leggera,

laggiù il barbaro straniero

che non sa essere italiano.

Voi, i miei pini!

Mi allontano è passato questo ricordo,

la nube romana.

Vi lascio nella vostra storta beltà,

consapevole fugacità della mia.

68

Nel viale oscuro

il vento freddo

ti sbava addosso brividi di morte

ed il mandorlo ebraico

si schiude, tra i rami contorti

emana il putrefatto odore

mentre fumo dalla terra

si esala, torpido, violento.

Un acuto di strega

che esce dalla crepa di una roccia

e la borragine gialla ospita

piccole lucciole scintillanti

un lupo che sogghigna, lontano,

al male incarnato.

Dei liquidambra cadono le foglie,

il tronco si squama

simile a pelle di una carcassa imputridita.

Tutto è desolazione,

introspezione dell’animo,

un virulento, patetico languore.

69

È la crisi del mio tempo.

A cosa pensi?

Ridi per nulla,

piangi per tutto.

Tu, mon lecteur,

ti adagi nelle tue pubblicità.

Non ti chiedi il perché,

il come di una tua vita.

Continui a pascolare

tra mandrie di simili ed il consumo

di una morte sempre

troppo vicina non ti tormenta.

Automi di etnie diverse,

ma sempre automi.

Il gelso le sue more matura

ma tu non puoi sentirne la dolcezza.

70

Ronzare lo sguardo aspettando la tua ora.

È tempo del tempo che scriva, io so

che scriva, io no, non voglio lasciarti.

Mi frusti di sadomaso piacere

ma avviene che la luce rossa,

silente sguardo furtivo,

la noce schiacciata

è metafora di me stesso.

Sindrome di malato: questo è il verdetto.

Malato, perché penso

tu sano, perché innocuo,

crumiro di società.

Se nel dubbio, Amore, fummo fuoco

se nel dubbio, mio Odio,

lacerasti la fantasia,

le brulle colline afose

se la Luna ancora canta di me,

non è stanca del mio pianto,

se l'acquitrino delle lacrime

sarà nutrimento per il salice,

giungerò alla soglia

umana sbavando la mia malattia.

71

Stimato lettore,

non creder

di capire leggendo attentamente

parole

accostate in silenzio.

Se scruti

l’alone di mistero,

fallo tuo e spiegati

come la tua vita

sia un’inutile

impressione

di natura.

Seleziona tratti,

custodisci termini,

ascolta suoni di parole

che tu mai

scriverai.

Aiutati

a dimenticare

chi sei.

72

D’un fogno

fitto e scheggiante

il mio volto

è trapassato da parte a parte.

Pare il bianco cinese

caduto dalle nuvole plumbee

trasversale

all’uomo in sé prigioniero.

Ed il presente del presente

è presente del passato,

presente del futuro.

Niente cambia, tutto scorre,

involucri di pelli gettati

in pasto al fato.

73

Mi sfuggi, mi temi e

mi domandi se ti sono fedele.

Che rimanga un segreto,

gli uomini non lo sanno.

Il re ha la sua mandorla

ma tu dagli inferi non resusciti.

Chi sei? Ahhh, specie di donna!

Mi baci il collo

ed un brivido d’amore

raggiunge il proibito.

Il re ha la sua mandorla,

ma tu dagli inferi non resusciti.

74

Seduto su uno sporco gradino

chiedi elemosina,

scarpe eleganti di avvocati e di dottori ti

scorrono di fronte,

respiri il profumo di nuovo

che emanano.

Lotti per un pezzo di pane

e lisci il tuo pulcioso amico di vita.

Non mi muovo di pietà,

né di carità. Ma ti penso.

Se esiste un dio, non ti far salvare.

Io ti do voce,

in fondo tu sei simile a me,

un emarginato da

spocchiosi talenti bruciati.

Il triestino proferì il futuro di un poeta

quando nel suo Borgo

si dipingeva il viso con altrui facce.

Ti ho visto camminare

come me, mano nella mano,

verso l’assoluto.

75

Inno alla vita.

Il mandorlo ebraico sboccia arso

dal tepore primaverile,

mentre

dal pergolato il glicine strozza

con forza i pali su cui

si sorregge

ed una cascata di pigne viola

inebria l’aria

d’estenuante profumo.

Che fai, mio bambino?

Ti difendi dalle farfalle

festanti, giochi e cadi,

ti rialzi nel verde ardente,

inconsapevole

della fatica ch’è il vivere.

Come due soli

s’accendono d’un intenso blu

i tuoi occhi

che guardano il cielo

cristallino e l’iride

risplende tra i limoni

appena colti.

76

O Marco!

Il tuo nome nasconde lotta,

la vita è piacevole lotta

seppur il suo senso

si inabissi nell’oblio.

Una macchia di sereno

nel buio del nulla.

Una stella lucente

nel manto vestito d’oscuro.

La mamma ti bacia

il suo calore,

riscalda il tuo collo.

Ma tu non fermarla,

tu non ostacolarla,

ma gridale, gridale

parole d’amore ed abbracciala.

Formerete il vecchio e il nuovo,

il passato e il presente,

la storia e il ricordo.

La vita è piacevole lotta

77

seppur il suo senso

si inabissi nell’oblio.

Fa’ che il suo segreto

intimo rimanga affascinante,

per sempre.

78

Si perpetua

il mio infinito

lamento.

Creatura viscida

di arcani presentimenti

in cupidigia svelati

dall’eterno singhiozzo

dei morti.

79

L’inferno si districa

tra le stelle nel cielo.

Se esiste il paradiso

non certo è umano.

Abbraccio uomini

sperando in reciproco amore.

Quando guardo i loro occhi

mi sembra il Paradiso cercato.

L’imperituro sentimento

di fedeltà passato di mano in mano.

80

Sei in cucina che ciottoli.

Anche senza vederti

mi paio tranquillo

nelle mie

agitate ore.

Racconto un favola

al mio cuore

e lo inganno

imbevendolo di

torpido silenzio.

Guardando fuori dal cielo,

una saetta di luce mozza l’olivo.

81

Tu fosti bella, innocente,

se solo potessi parlare, Roma

non ti sarò Catilina, non ti sarò straniero

se posando il mio freddo piede

sulla tua calda coltrice, se male ti farà,

il mio passo ora svelto

ora calmo apriti e divorami.

Vulnerasti meum cor

la spada del ponte mi trafisse lo sguardo,

il sentire la gioia,

la mesta complice della vita

che scansa l'ostacolo

che invenduti mondi esplora

caduti in disuso quotidiano.

Se solo tu potessi abbracciarmi

come una donna fascinosa,

prorompente passione

dal tuo ventre circolare

esonda,

esonda amore

al mio tardo arrivo.

Solitudine che mi farà suo

a ricordo di te che non mi lasci.

82

Sontuosa l'edera

sbriciola una colonna

rossa d'argilla.

Al soffio d'un uomo,

un pino accasciato

e il soffuso ondeggiare

d’ un' altalena

rugginosa cigolante

echeggia nell'aria

sguainata dall'acino

spremuto.

Come esseri,

sdraiati a terra.

83

Non voglio che questa

parola nel mio silenzio:

il tuo nome.

Si staglia

tra muschi e licheni,

negli alberi innocenti

nel perpetuo agire del sole.

Abbandonato nel mio orto,

di riflesso eccitante

il linguaggio si fa delirante

per un millesimo di felicità.

Nostalgia è il tuo nome

insignificante natura

nell’animo di colui che

si attaccò alla negletta speranza.

84

Oramai i tuoi occhi

parlano la lingua dei muti,

gelidi, lacrimosi specchi.

Lasciano intravedere di là,

quel mondo violento,

di bianche inferriate

sopra le quali

tante teste fracassate, impilate,

che guardano nel vuoto,

assomiglianti a lattine

che risuonano di ferreo rintocco.

Troppo tardi ho smesso di pronunciare il tuo nome,

le mie labbra sono chiuse al tuo ricordo

che assaporo con la mente,

me e te, poi te e me

nei campi di erba medica violacea

tra i frassini che zufolano.

Ti ricordi lo svasso maggiore

dal variopinto manto?

Che nuota solingo in cerca di una lei:

procreare è l'ordine,

soddisfare è il comando.

85

O le creste d'amaranto,

le nappe di sambuco

nere a simbolo del tuo cranio cavo

oramai i tuoi occhi

parlano la lingua dei muti,

gelidi, lacrimosi specchi.

E continuo a chiamarti, qua,

tra i viscidi uomini vivi.

86

Nell’imminenza dei miei diciannov’anni.

Sono qui che scruto il mio dintorno.

Pieno o vuoto.

Un cuore d’amore pervaso.

Un singulto di male

tormenta senza cura.

Nel mio silenzio

anche tu piangi

e la gola s’affolla di neri macigni.

Per sempre perduto, sempre è perduto

l’attimo ingenuo torpore di me.

Un Marco o un’Alice

non fanno differenza.

Ma assopiscono

una lenta decadenza.

Perché mai

si rattristano i miei occhi?

Arcano quesito,

in tempi postmoderni.

Mi nutro di pensiero

e di arte.

L’amore non mi vuole

se non tramandato.

87

Nell’imminenza dei miei diciannov’anni

mi accuccio nel mio antro.

Non mi cambio, né mi temo,

non mi amo, né mi odio.

Mi adoro, divino dilemma.

Nell’imminenza dei miei diciannov’anni

mi bacio in solitudine.

E grondante di sudore per estrema viltà

mi applico alla vita.

88

Trucidato per aver detto verità.

Non temo la gogna

vergogna, vergogna

a chi nasconde di essere quel che è.

Ma la storia è questo:

offuscare l’evento,

obliare la realtà

nella cospicua ingente

saggezza dei morti.

Non li piangere, mai

non calare lacrime salate

che contribuiscono

a marcire un corpo

già putredine.

Non renderti livellatore

pacifista di anime

e gioca con quel poco

d’intelletto che hai,

distingui e discerni

la libertà.

89

Al canto del popolo

vanagloria festiva.

Di cosa?

Semplice esempio di idioti

girovaghi.

Un ammasso di uomini

riluttanti di facoltà mentale.

Ed il mio io sfaccettato,

ci sarà tempo per ricomporlo

(se il vuoto mi costringerà)

ci sarà tempo

per essere un esempio di vita?

Non ti avvicini a chi ha bisogno,

non vuoi il contatto col sudicio

tuo ego perbenista!

La madre delle notti,

la luna madreperlacea domina,

dormiamo nei letti assetati,

caldi di un freddo esteriore,

e chi a far festa in locali

amalgamati all’oscuro delle nubi,

e chi a baciarsi teneramente

90

negli antri dei non-luoghi

ma per chi dorme sul catrame

di polvere, non c’è salvezza?

Dimenticato dall’io, dall’’io mio

dimenticato dall’io ho, dall’io sono.

Diversi da chi? Da chi diversi?

Un vociferare di diritti!

Sproloquio gettonato,

inutile morale moralista,

per far sembrare pulita

la nostra persona.

Di sudici ammassi siamo,

come il catrame su cui dormono

le nostre coscienze.

91

Che vedo?

Una nuvola scorre in cielo

e si dipana insieme alle altre.

Siamo in ritardo, figli miei,

siamo in ritardo ad apprezzare

l’innocenza del non pensare.

Non pensare, mai sforzare,

non osare, mai provare,

non rifare, mai sognare.

Siamo in ritardo, figli miei

siamo in ritardo a non amare

il bello dell’altrui.

Non amare, mai baciare,

non carezzare, mai volare,

non guardare, mai parlare.

Queste sono realtà riflessive.

Ma a che giova l’individuo?

Un gigante tra la folla:

tutti uguali a se stessi,

tutti intatti, all’ombra del cielo.

Siamo in ritardo uomini miei,

siamo in ritardo a volere.

92

Un buio ci ricopre, uomini,

nel buio siamo ciechi,

non distinguiamo diversità.

Forse vivo, forse muoio.

Forse piove, forse è sole.

Chi lo sa, fino in fondo?

Chi lo sa, davvero ora?

Il mio pensiero s’attanaglia

allo studiare l’uomo ferino

tutto eguale, tutto specchio

di un riflesso solo mondiale.

Ma non mi resta

ogni momento per

decidere che cosa siamo.

Solo una voce, non altro sento

la voce intima dell’umano.

Ed il mio dialogo

con il silenzio

si fa notare

a sparger incenso.

93

Intristito dalla pena.

Un lago nel cuore.

Arrampicarmi ai giorni è scomodo.

Una via di luce

forse illuminerà

il giocondo volto della felicità.

94

Andate a chiederlo ai morti,

ormai cineree sembianze della terra.

Andate a chiederlo ai vivi,

immagini festanti nel nulla che investe.

Andate a chiederlo agli angeli,

morgane fluttuanti

al di là dell’Aldilà.

Nel paradiso chi si nasconde

è figlio del proprio tempo.

L’inferno è la generazione

dei degenerati.

Le nostre metà non si uniranno

ai monsoni algidi agitati dal senno triviale.

95

Sono il faro per molti.

E sono la lampada fulminata

per me stesso.

A chi mi conosce

non svelo novità.

Aspetto il giorno

del mio riflesso.

96

Ad un amico viziato di vita.

E se scelgo la via sbagliata?

Ma la cultura è dei padroni

e noi siamo solo servi patetici.

Ti ho nel cuore come

una pagina bianca. Ma non t'odio

seppur mi eviti da lontano.

Il vento della Libia trasporta calore e sabbia.

Ti sbricioli nei ricordi

e la carrucola va su e giù

in un monotono andirivieni.

Mi piovi addosso come la fronda bagnata

che si scrolla l'acqua.

E suoni, e canti notturni

di nostalgiche serate,

Tu ed Io e un libro

e poi ancora Io e Tu e il solito libro

ad insegnarci come si muore.

Come si muore? Amare è restare

nel sordo scempio dei vivi.

Come si muore.

Al soffio di un no.

97

Al fischio del padrone

come saette s'alzano

le orecchie

non aspetta gioia alcuna

nel rispondermi

con gli occhi lucidi,

con quell'iride marrone che mi domanda

"Mi ami?".

Il vate già visse come me

tale passione

ma forse non bastano gli anni

a dividere due poeti tanto diversi.

Poi arriva di rincorsa ma non teme la vita.

Si accascia su di me, ed il muso tedesco

non ha pudore nel baciarmi.

98

Se ne sta andando, il ricordo.

Il centro di emozioni,

quel trasumanar ed organizzar pasoliniano.

L'eterno rifacimento stoico

è pura follia,

è pura allucinazione come i funghi di cui si

cibano i cinghiali.

Il ricordo

è l'anima delle mie emozioni,

come patelle agli scogli

e non giunge onda alcuna infrantasi

a staccare il mio ricordo.

Voi tre. Noi quattro.

In cima al monte, che mi sento librare,

(da bravo, saluta Pascoli)

tonfare nel vuoto, l'aria che deforma

ed atterrare sul fuoco dirompente

della realtà mondana:

il mondo dei mortali.

La solitudine non la concedo

a chi non sa goderla

sfruttando ogni minuto per il pensiero.

sebbene sia male:

99

esso fa volare e voi non siete bravi.

La Res dei poeti è il Ricordo

(troppo facile chiosarlo)

La Res degli uomini è la nostalgia,

la paura di non essere in/il futuro.

Ma il carro dei monatti, chi lo ferma?

I sudici monatti ci raccoglieranno,

mi sono rasato la barba, lavato.

Maledetta sala d'aspetto! E' pazzia, pura follia.

Ma voi tre, noi quattro,

ci seguiamo, ci amiamo per l'eterno

diabolico infinito,

spazio, tempo incontenibili, incontrol-labili

labili i contorni distinguo, lontani anni luce.

Il ricordo è la mia salvezza.

100

Sono qua, mia Proserpina,

tuo marito mi ha voluto.

Non in quella melassa di

uomini infuocati,

voglio solo

una scrivania di pietra lavica

e qualche foglio.

La mia Donna fedele.

Un cantuccio meno abbiente,

né troni né imperi.

Solo occhi, mai ciechi,

che scrutano il fuori e il dentro

dei mie pensieri.

101

Mi è greve il prossimo ignorante

che tormenta la mia mente.

Un ritorno di folclore,

una danza di nudi corpi che

si estendono sul mare d'estate.

Baciato dal sole irruente come la canicola

(le onde più non si infrangono)

gli occhi si perdono

nella valle d'acqua

e più non sento me stesso.

Al ramo di salice del rabdomante

la mia anima si piega verso la felicità.

Ma la troverà. Ben presto.

Il confuso eterno languore

non potrà evitare la luce.

Che luce? Quella di mia madre?

La vecchiezza inestinguibile o il sogno onirico?

Già da tempo fu memore

la stella che mi guarda,

nei continui singhiozzi di lacrime.

102

Sui granelli di sabbia, sdraiato

dormirò nella notte sola.

C’è troppa pioggia,

per tutti, c’è troppa nebbia per me.

Io amo e canto.

La carezza di un angelo che mi sfiora.

Tu.

Nella mia capanna di paglia

penserò all’immediato sussulto

di Ulisse e le Sirene

mi chiameranno da lontano.

In compagnia di un fedele

cuore della mia vita,

insieme a qualche taglio

di focaccia appena sfornata

e chissà quale ricordo.

Qualche donna sporadica,

qua e là.

E sui granelli di sabbia, sdraiato

morirò in silenzio.

103

La messa

La messa è finita: andate in pace.

Sentore di presenza

là, nell'angolo in disparte,

che volteggia la bandiera del teschio

che la svastica sanscrita è il sole

ma non si conosceva

l' enorme carica di male

nell'aria assaporata:

essa ancora emana il fumo, il getto di lacrime

che imperversa come pioggia,

che si infiltra sulla terra,

mentre le ciocche

di capelli rasate nel mucchio in disparte

volavano con soffio del vento.

Madre, Padre, mastino, ufficiale, forno.

Madri, Padri, mastini, ufficiali, forni.

Spirito Santo: il figlio prese l'ostia, la spezzò

la diede ai suoi discepoli e disse.

Le grida del mondo di oggi

104

il secondo millennio tecnologico, suvvia

il bambino che piange

non si è deterso il viso col sangue.

Volendo l'impotenza umana

salvare l'insalvabile

sbava la bocca alla pubblicità del ricordo

per avere coscienza meno sporca.

Scappando dalla chiesa: anche questa è andata.

Il giorno dopo la sequenza è la stessa,

in virtù di un meschinità moralistica

nel dire Ho Partecipato.

Il Baldo: sibi cagat addossum.

La messa è finita: andate in pace.

105

Si è stanchi più si è

in discesa.

Ciao ciao, fondo marino.

Deglutisco acqua amara

mentre la barca naviga.

Naviga naviga, la barcarola

non si infrange sugli scogli

dalle patelle ricoperti.

Una donna nuda prende il sole

non pensa: è innocente, pura.

È pura l’innocenza.

È puro il mare calmo.

Si muove come i girasoli che seguono la stella

e qualche freccia di Cupido il marinaio

le lancia: forse ha voglia d’amore.

Hanno sete di corpi,

carni sudate dalla calura.

In un bagno al largo

si disintegra un sogno.

Si è stanchi più si è in discesa.

106

Come mi chiamo?

Matteo. Matteo.

Non c’è altro come me,

chi mi somiglia si odia.

Non mi cerco,

se non nell’istante mio intimo,

profanando la mia anima,

se ad un teschio rassomiglia,

cava d’oblio.

In quanti gli sguardi rivelati

che s’impiantano dentro

(la lumaca che mangia la lattuga

è come il ricordo che erode)

ma di rimpianti non si esiste.

Mostrami, mostrami, Matteo

guidami scattante verso il fuoco

del guaio.

Sei già stato lì,

Alessandro, Grecia, tre.

107

für Paul Celan (X 1920- † 1970)

Pietra.

Fredda. Inerpicata la radice.

Pietra. Simbolo e foresta.

Cerchi in dissolvenza

di fumi umani.

Il faggio schianta, grigia squama.

Uccide i suoi figli.

Dilaga. Dilaga. S’impregna di

rugiada rifiutata dal Sole.

Pietra

Pietra, ietra,

etra

a.

108

Mi spengo lentamente.

Lo studio assedia

la ricerca di un senso.

Ma la sedia sta ferma e

la lampada non s’accende:

mi immagino così il mio avvenire,

in indistinta foschia

nel mare che nuoto, le onde che

mi carezzano, tra il frastuono

semplice di una mente lucida,

gli occhi che

sputano sangue, lapilli, poi sangue.

Porgi l’altra guancia

seppur frustrata, dolente

la carne rossa sofferente.

Schiaffi e schiaffi, poi schiaffi

di piacere, se solo tu sei felice.

109

Mi muori tra le mani. Pozze di sangue gli occhi contorti. Eppure ho visto dell'acqua in quei due cristalli blu. Nella bara della mente riposi l'aquila alta che vola rupestre con artigli velenosi. Mi specchio con te, felice io muoio se mi copri il volto con

i tuoi semi di Novembre.

110

Si contorce la madama.

Altisonante di lievi egocentrismi la matassa si dipana a svuotare il mistero. Mistero. Sei tu il saggio che gode nel suo tempio? Mistero. Un tuo arduo singhiozzo brilla nel cielo.

111

Al tiglio il vento chiude i suoi mille occhi gialli. Che piange linfa rossa da lassù. Tutto s'abbraccia arcuato e strilla. Si accuccia la mia donna se paura non ha del tempo che erode. È tempo del tempo che inaridisce. Nel tuo ventre il seme della Paura. Strilla se vuoi liberarti, mio emblema. Intraprendere la via verso l'esterno rivo d'acqua salata. Un'anguilla di mare che striscia schifata e beve la Luna specchiata. Scavo, scava la mia donna velata la terra con le mani per preparare il letto nuziale. Inerte polvere di sassi, la carne non più s'affievolisce.

112

Che un tappeto di nuvole

mi rapisca?

Scendi sulla terra,

sono qui che t'aspetto

nella bambagia affollata di corpi.

Mi salverò cavalcandoti

ma tu aprirai la botola

sotto di me.

Nel vortice infecondo

annegheremo nel mondo

così distante da un pianeta all'altro

nella foschia che separa

il sogno dal reale.

113

Con l'acqua dei miei occhi

io lavo quel che resta.

Nell'harem prediletto

qualche vergine borbotta d'amore

ma da eunuco entro

per non rovinare il desiderio.

Con l'acqua dei miei occhi

io semino in profondità.

Se è siccità

il sale acido ha colpa

ma non il petto d'ansia fremente.

Solo un sogno

che i libri mi bacino

ed io amerò più delle tue labbra.

Quando scendo i gradini nel buio

assorto

meditabondo

non ho luce

che nelle lacrime dei miei occhi.

114

É notte.

I ragazzi amano là fuori

e niente distoglie

questa pacata aria.

Schiocchi di labbra e fumo di sigarette,

non vi basta vivere.

Non vi basta possedervi

se vi avete,

trascinare nel buio profondo

un'emozione tardiva.

Non vi basta sopravvivere al tempo

che decima coscienze per

una smania di gioventù.

La pietra è fredda.

Siete giovani sofferenti,

uomini ancora da svezzare.

Costruite morgane, ora e subito

nell'impiego sordo dei genitori.

Raccogliete e non seminate.

Vivete ma non esistete.

115

Un cieco che odora l'aria

cercando di non dimenticare.

La bella di notte sboccia

a sé attrae le lucciole;

dall'entroterra la nebbia

che si alza, nebulosa densa

di acquitrino fangoso.

D'oro le spie tra l'erba accasciata

se non ora quando?

Quando dormire ed amare

nel fervente caldo della passione?

La strada di porfido

si scaglia pian piano,

tra le venature ciuffi verdi crescono.

Cammino insieme al cieco

che non sa dove andare.

116

Un rantolo... stai per finire?

Stai per finire una vita?

Mi spiace non aiutarti,

non salvarti dalla condanna di essere vivo.

Una volta dopo lunghi anni,

una volta dopo lunghi tempi

sarò sul confine d'inizio

come il termine della vetta.

E si tratterà bene la civetta,

che ci richiamerà allorquando

d'un desiderio comune mossi

andremo verso la libertà.

Staremo stretti, abbracciati,

come quando ci amammo disinteressati.

L'aria ci alza, con piacere

una volta dopo lunghi anni.

117

Non mi mente

l'orizzonte che vedo.

È un dio quello lassù?

<<quindi ho messo le mani in tasca

ed ho sputato sulla tavola…

buon appetito, amore mio>>

Il vino bianco fa troppi scherzi.

118

Eravamo.

Negli occhi che guardano al solleone

tra un fico sbucciato

e lo zucchero sulle labbra

che accende la fame,

le gambe sdraiate sul prato.

Semplice, sottile

il motivo sinfonico delle ore

vuote, piene,

vuote, piene.

****

Siamo.

Si, amo?

Il tuo vestito, le tue gambe.

la canzone stupida

rimbomba lo stramazzo del mercato:

Qui da me signore, ce l'ho io quel che cerca.

Cosa mi vendi, se non

oggetto, cosa, oggetto.

119

Non mi sento

tranquillo nel buio profondo.

Tra gli spettri della mia camera

che urlano a squarciagola

macabri soffi caldi

e sibili vellutati di morte.

Mi carezzano d'improvviso

il cuore si fa più rapido

ed un scoppio di paura chiude i miei occhi.

La coscienza si libera, lontana, epurata

da urla mai gridate, da no mai detti,

da imposizioni mai avute.

In un affannoso silenzio

mi ansima il respiro dello

spettro peggiore:

"Io ti ho prigioniero".

Sono un prigioniero.

E a me stesso cosa racconto?

Chiú chiú un pavido presagio

dalla serratura dei miei pensieri.

120

Mi annulla l'identità.

Ah, quel pervaso negletto gioco

chiamato Pensiero.

Si dice che valga nei normali,

se sottili come aguzze

le lame della razionalità

bucheranno un cuore ferrigno.

Mi sai di sgualdrina, Mente

che spieghi il tuo avvenire

che vanifichi il tuo ricordo.

Mi arrovella su questioni

che mi sollevano dai Vivi.

I Morti?

Non hanno pensiero.

Insondabili, silenziosi

più non appartengono a noi.

Solo noi apparteniamo loro.

121

Quella ossessione ossessiva

ossessionante.

È la livella di Totò,

che ci fa giacere in eterno.

Sto arrivando! Sta arrivando!

me medesimo non ascolto

per paura o vigliaccheria.

Non importa chi sono,

sta arrivando, sta arrivando!

Che mi siedo, sono stanco.

Me medesimo malinconico

truffato, turlupinato, morto.

Me medesimo agitato,

troncato, frustrato, scippato.

È la livella di Totò. Silenziosa,

donna pacioccona, ricco il seno.

È la donna, quella donna,

quella femmina (mala) quella...

Quella ossessione ossessiva ossessionante

di cui non aver paura.

Mi muoio.

122

Settant'anni di differenza

e lo stesso spirito.

Una zappa, canovaccio per il sudore

e terra da smuovere,

vorticosa truculenta madre.

Se fatica sarà all'imbrunire della sera

con le mani nodose

ad un bastone appoggiate

se fatica sarà la parola balbuziente

gli occhi lucidi di ricordi,

le canizie latenti

se fatica sarà un domani

tempestoso, incerta la barca,

un nipote a cui narrare

la strana Italia postbellica.

Preferisco zappare

cogliere la spiga del grano dorato

come i raggi caldi del sole

che lo fanno maturare.

Mai è tardi per sporcarsi.

Mai è tardi per faticare.

Mai è tardi per amare.

123

Mi dispiace non esser d'aiuto

ai vivi (ci sarà mai una vita?) se la frasca di pino si infiammi a rogo sulla terra nera bruciata. Nel mondo così è ma la legge del più forte s' infrange alla minima lacrima versata in ricordo di remoti rimpianti recisi Tra vent'anni sarò uomo, tra vent'anni sarà diverso. Tra vent'anni sarà. Se io sarò.

124

Sentite condoglianze, mondo.

È il canto del flauto

che rapisce questo mondo

la zona di confine tra realtà e Realtà,

dove non c'è verità.

Ahimè, la fratellanza

è umanità quando il bacio si posa

su nuove guance,

la conoscenza è coscienza servile

del tuo mostrare,

impavida, edulcorata e audace

frammentazione.

Faccio condoglianze al mondo.

La fistola del vecchio pastore mi chiama

affinché io scappi,

tu con me, lei con te;

mio fratello, questo è un grido?

Grido per disperazione. Il Mondo.

Cos'è? Nel Mondo.

C'è spazio nel mio letto per te.

125

Presto, domani a lavoro.

C'è spazio nel mio letto,

ma il sogno già è sfuggito:

il sene pastore è sfumato,

ma fedifraga la siringa di Pan

ammalierà ancora

chi la seguirà.

126

[Rifacimento 1.3 testamento]

attenzione malati!

Ma qua, in verità

che serve la sporadica persistenza

quell'infelice lesione

nel cambiare

testamento

non acida è la mia donna

che sogno una notte lontana

se vana, mortale

l'immagine a sua somiglianza,

nascosta tra le lenzuola

tra i grovigli dei pensieri normali

mi accecasse gli occhi umidi

la nostalgica presenza di lei.

Soliloquio me stesso perduto

nella stanza delle follie crude.

Le albicocche, lei sa signore mio

che gusto hanno?

Aspetto l'invano

127

ma determino coll' astuzia irragionevole che

la normalità è anomala

vogliate capire i meno. I meno.

Perché siamo in meno;

io solo capisco quel che so.

È arrivata. Mi falcia e strafalcia

più pezzi, ti prego,

più briciole, ti giuro.

Ho mangiato le albicocche

ho imboccato mio nipote

se la resa non è uguale

che io divenga l'inafferrabile.

128

Mi userò ancora.

Nel mio buio, desolato respiro

che ansima, precipita al vento frigido.

Ancora mi userò, conoscendomi

scavando questa mia anima

nell'ardore di un sorriso che mai avrò.

Se la mia cenere

farà da pasto ai fiori del campo,

i guanti bianchi della morte

raccoglieranno questo mio corpo

questo escremento di umano relitto

lasciato ad imputridire all'alba del fu.

Mi consumerò lentamente

nella passione di avermi vissuto,

nell'avermi implorato di vivere,

quando il sole sorgeva

quando il sole tramontava,

rimato il soffio delle mie parole,

fremiti, solo simili a fremiti di malato gelato

libravano, planavano al tuo cuore, mio Mistero.

Mio mistero, la mia nascita

129

voluta da chi ben so

mio mistero, la mia dipartita

voluta da chi non so.

Mi consumerò sui libri, circondato da essi

e la carta sarà la mia degna compagna,

quella compagnia

dei giorni rimpianti.

Ora vedo la docile fibra

dell'universo che mi abbraccia,

ora Mandorla che vuole comporre con me,

ora Io So che confida di non essere stato amato.

Se non da me.

Ignominiosamente mi ergerò a salvatore

della mia esistenza

che Maggio primaverile mi assista

che sbocci anche il mio fiore di rosa

affinché le spine mi feriscano dolcemente.

Il dolce eterno mio restare,

il breve amaro mio ricordo.

130

Mi si accosta dolce sinfonia leggiadra

dessa mano patita

erode la pelle, scaglia dopo scaglia

allucinatamente scrivo.

Ma l'anima potrà mai decidere la vita?

Nel mistico sogno

da' la possibilità, o misero indovino,

di aggrapparmi ad

un fottuto millesimo di felicità

predici i decenni futuri,

niente violacciocche rosse

o garofani bianchi

ma il sintomo già screziato

di uno specchio frantumato

ignorante al passante

privo di ogni ragione.

Quella mano che vaga silenziosa sul corpo

conferisce estrema unzione

mummificandomi eternamente.

Ma nella tomba,

ci sarà posto per me.

131

Ma che bella

l'insensibilità di un corpo freddo

non morto

solo morto ma eterno

se l'eterno è morte

se la morte è eterno

mi voglio freddo e rigido.

La vuotezza del non pensiero

le mani consorte a preghiera

e il ribollimento putrido

poi riesumatemi

scattatemi una foto, in mezzo a tante azalee e camelie

mi piacciono rosse come l'amore che mi

contorna

mi piacciono bianche come la purezza che mi

facilita questa vita

ma la foto, di me morto.

Datela al prossimo felice

così da mostrarmela

e contemplarmi nella mia bellezza di corpo nudo.

132

Un fondo di amaro mi inquieta.

Giù nel profondo,

è un dialogo quello che ho condotto.

Se mi capirai, sarò finito

e smetterò di renderci ridicoli.

Ma mi nutro di questo:

se schiaffeggio per gioia

non lo nego.

Un fondo di amaro mi inquieta.

Irripetibile sazio lo stomaco

lexis et taxis,

irripetibile sazio il cervello

scemo, un cervello scemo.

Un fondo amaro mi inquieta,

io ti starò vicino mio lettore,

non ti abbandonerò come tu farai,

quando chiuderai questo mio libro

e tornerai alla tua vita.

Alla tua vita.

Un fondo di amaro mi inquieta.

Alla tua amara vita.

133

134

Postfazione dell’autore

1) Varie ed Eventuali.

Adesso è mio compito, dopo quello emerito ed

efficientemente esaustivo di Marchese, dare una linea

guida alla mia nuova produzione poetica.

In qualche modo cerco di ricordare, di combattere e di

immaginare nella mia poesia: non mi faccio illusioni,

mi si intenda. La "cosa" o l’ "oggetto" del mio

desiderio si afferma nella poesia come un climax

ascendente di elevata scala. I temi sono certo più

maturi, interiorizzati e canonizzati rispetto alla

decadente-dionisiaca prima raccolta: Acre Tirso era, è,

sarà un'esercitazione che quando rileggo mi suscita

ora sorriso, ora paura. Al motivo ungarettiano nella

nuova si affianca la obbligata -così sentita da me- e

continua presenza di colui che ho ribattezzato

“schiaffeggiatore sublime”, Pier Paolo Pasolini,

veggente contraddittorio, nostalgico scampolo della

vita che egli stesso amava. Si cresce, si matura. Il bel

verso si allunga, si intagliano ed eternano sulla carta

nuove emozioni e angolazioni che servono a decifrare

questa entropica realtà. Molti insignificanti appigli

reali diventano la mia “rosada”, stimoli attraverso i

quali posso comporre, dopo essermi balenate idee che

135

necessitano di rianalisi speculativa. Dunque mi siedo e

appoggio le mia braccia sulla scrivania di noce e di

cristallo, sommersa negli angoli da remoti libri e fogli

di letture più disparate: poi mi diverto. Prendo la

penna e gioco con le parole, se sono felice. Se sono

triste le torturo, le smonto, le spezzo, le ledo. Mi

dedico con fervente passione, attraverso <il pensare e

lo spensare> alfieriano alla poesia, non prima di un

inchino di dannunziana memoria. Perché bisogna

inchinarsi ad essa, alla Clizia montaliana, alla Moira

celaniana, al Bastone ungarettiano. La poesia

accompagna dove normalmente non ci dirigiamo, un

viaggio interminabile, un succinto di amore e di odio,

di speranza e di delusione, di aspro e di dolce,

nell’inconfondibile etere dei pensieri (Acre Tirso

torna) che come ragnatele ci rimbalzano, di schiena,

dall'una all'altra parte del nostro insulso esistere. Non

sempre riesco a comporre come vorrei: di frequente,

accartocciando, disintegro smisurate porzioni di fogli

scarabocchiati; non sempre riesco a strappare le parole

all'Essere. Ma mi convinco del mio Esserci, magari

aromatizzandolo con un bel bicchiere di Unicum.

136

2) La cattiva postmodernità.

Come avrete avuto modo di constatare dall’attenta

lettura, il libro si costituisce di poesie che lette

separatamente possono risultare assai pindariche,

scollegate. Ci sono degli anelli che tengono, delle

maglie ben strette, che finiscono per formare una

catena resistente, complicata e aggrovigliata. Questa

suddivisione di piani narrativi ha il preciso intento di

rendere l’idea della mia incomunicabilità col mondo.

La cattiva postmodernità. Perché complicato è il

legame che mi stringe ad esso. Dalla poesia

apertamente lirica e soggettiva a quella sliricata,

rabbiosamente mordace e civile, che vuole non tanto

denunciare e scuotere la sola idiota verità di chi è

sicuro –sul solco pasoliniano- quanto decifrare

apertamente la realtà, constatandone una situazione

apertamente paradossale in cui tutti noi siamo calati e

in cui, come marionette, quotidianamente ci

applichiamo al vivere. Il liricismo, inoltre, ha scopo

puramente riflessivo, è uno spazio di solitudine

meditativa che il poeta ritaglia a suo bisogno, a sua

scelta, contro quei tanti simulacri viventi che pur di

non accettare la solitudine, o di rimanere soli –che è

ben diverso- concludono l’inconcludibile: eventi,

sballi, stupidaggini, ed il mondo va avanti. Sono due

137

piani di analisi, quello lirico e quello civile,

volutamente adottati, che si intrecciano l’un l’altro a

creare una trama fittissima di connessioni, di

suggestioni, di sensazioni e di emozioni. Sicuramente

il tono civile, etico-morale di molte creazioni uscite

dalla penna si controbilancia, seppur in esimia e

timida parte, al disordine entropico, razionalmente e

calcolatamente confusionario, del nostro tempo. La

disgrazia del secondo millennio, ahimè quello in cui

viviamo amaramente, è data, principalmente,

dall’irrecuperabilità di ogni modello, estremizzando, a

malincuore, il titolo di un celebre e commovente

saggio di Alberto Savinio, intitolato <Fine dei

modelli>.

Il culto della bellezza, l’anti pasoliniano borghesismo

collo-ritto, silente e strisciante adempie nel possesso

dell’anche più pudica anima. È l’incomunicabilità tra i

sessi, tra gli uomini, la totale rabbia di un

disfacimento sociale a cui nessuno pone freno. Certo,

il freno è difficile da porre: la costituzione della realtà

così negativamente studiata, imboccataci dalle

pubblicità e dal bombardamento mediatico dell’ hic et

nunc ci spinge, subdolamente obbligandoci, ad

adempiere a quell’odioso carpe diem (di cui molti

nemmeno conoscono la provenienza letteraria,

tantomeno il significato); si tratta, sic et simpliciter, di

138

banalizzare ogni nostra norma comportamentale, ogni

nostro pensiero, adoperandoci a fare l’inutile quando è

necessario, ora più che mai, approdare all’utile. È un

egoismo sviscerato il nostro, che ci costringe a

difendere strenuamente quel piccolo angolo di

paradiso che presumiamo, sempre più arrogantemente,

di possedere. Niente condivisione, ma rabbia, palese

demonizzazione dell’altrui, insensata gelosia ed

invidia verso i fratelli. All’era postmoderna, quella

appena analizzata, si va ad aggiungere, secondo la mia

ricerca sociale, il recupero di un già sperimentato ma

ora sempre più latente dannunzianesimo godereccio: è

la società dello specchio, del narcisismo sfrenato,

dell’obbrobrio plastico, del piacere istintuale di

piacere al prossimo, di mostrarsi impeccabili, di

stilizzare e di stereotipare una giovinezza atemporale,

una forza sensuale infinita e perenne. La rotta è verso

il dissolvimento di ogni valore, quella irrecuperabilità

dei modelli cui sopra accennavo.

3) Dialettica uomo- mondo.

A me piace l'uomo ma oggi esso si trova ipnotizzato.

E' in uno stato di trance evanescente, non riesce a

comunicare, se non con simili, altrettanto ipnotizzati.

E' dura da ammettere e da comprendere ma in questa

139

nostra società si vive di altri e non per gli altri. Ci si

aggiudica, come ad un’asta, un po’ di effimera felicità

attraverso quella che Marc Augè definisce, in un

celeberrimo saggio, <la dittatura degli eventi>, oltre

che all’obsolescenza un po’ psicologica ed un po’

programmata delle mode, delle pubblicità che ci

bombardano ogni giorno, molto ben argomentate

dall’economista Latouche. Esse -le due obsolescenze

citate- hanno voluto obbligatoriamente insegnarci a

diventare marionette, educandoci allo spettacolo, al

preconfezionato e alla non-spontaneità; si dà la colpa

allo strutturalismo, alla fitta rete di connessioni tra noi

e gli oggetti. Sublimazione, a mio avviso, diventa la

nuova parola chiave: sublimazione della felicità nel

puro, sconsiderato, accumulatorio e, permettetemi,

disgustoso possesso dell'oggetto. Attenzione: con

oggetto non si intenda solo l'oggetto come oggetto ma

anche l'oggetto come umano. Il possesso, <<Io

possiedo>> (parte IV, v. 27 di P. P. Pasolini, da Le

Ceneri di Gramsci, Garzanti, 2010). Se davvero

viviamo calati in questa complicata atmosfera dei

nostri tempi, nella quale il nostro tempo è assorbito da

un tempo che ci fanno credere di essere quello che

veramente trascorre, dimensione meschina, quando

potremmo mai avere momenti nei quali riacquistare la

nostra identità, sentirsi docili fibre dell’universo

140

(Ungaretti) o minuscoli frazionamenti armonici colla

natura? Non sono interrogativi da poco, e nemmeno

facile è darvi risposta. Forse stiamo degenerando.

Cioè il mondo degli uomini sta degenerando.

Quell'impercettibile senso di riscatto che ognuno di

noi ha, sente di avere, si dilegua nel mare delle

consuetudini: esse si avvicendano, ci stringono in una

morsa sociale di inevitabile ed intricabile, precisa e

studiata trama. Ed è proprio quello che definisco

"ragnatela strutturalistico-sociale" ad assuefarci, ad

eliminarci con una puntigliosa precisione, una lama

affilata, tagliente, che sa dove colpire, sul nostro

essere, ovvio.

Quello che vedo intorno a me è uno spreco esagerato

della propria persona in faccende sempre più inutili.

Sveglia, basta essere imbambolati. Le faccende inutili

ci banalizzano; non dobbiamo essere né eroi né

pezzenti. Dimenticarsi della propria persona significa

anche dimenticare i valori, quei valori propedeutici

alla formazione etico-culturale e, dunque, sociale di

ognuno di noi. A me piace l'uomo, inteso sia come

sesso maschile sia femminile: l'uomo è degno di

essere tale quando non si dimentica di quel che è.

Uomo è uomo quando sa di amarsi e di amare. Ma

bisogna tornare ad esserlo, a rispettarci e a rispettare.

141

In sintesi, è quello che molto spesso io definisco il

meccanismo del culto postmoderno, meccanismo

truculento, un tritacarne indistinto in cui noi siamo

immersi fino ai capelli. Con postmoderno intendiamo

l’era della ripetitività, del già fatto, del minestrone

riscaldato, del ri-proponimento, anche e soprattutto a

livello culturale, di qualcosa precedentemente esistito

e teorizzato: basta cambiare qualche virgola, qualche

parola ed il giuoco è fatto. Storicamente si fa

coincidere la nascita di questa nuova turpe era

culturale con la caduta del muro di Berlino del 1989,

ma già col Gruppo ’63, con Sanguineti ed Eco, si

stava pian piano de-contenutizzando (scusate il

neologismo assai brutto) la cultura, la poesia come

puri e semplici giuochi intellettuali, linguistici,

amorali, dissacranti, inutili.

4) Dialogi: la seconda avventura.

Sono giunto alla seconda raccolta poetica. Il verso,

come già detto, si allunga, la denuncia pasoliniana si

fa aspra, il motivo ungarettiano è ripreso, assai

interiorizzato, come anche quello celaniano. Paul

Celan, (a cui qui dedico una poesia assai profonda,

ottemperata allo scavo interiore) Giuseppe Ungaretti

(a cui ri-dedico questo mio secondo libro) e Pier Paolo

142

Pasolini (a cui ho dedicato assidui e certosini studi)

rimangono i miei modelli: non si tratta di imitazione o

di emulazione, ma semplicemente di rianalisi, di

approfondimento impegnativo, di assimilazione

costante, nonché di reinterpretazione dei loro

insegnamenti nell’attuale epoca storica del secondo

millennio. Tutta la letteratura, in fondo, è la base per

comprenderci. Siamo figli della letteratura, siamo figli

di una cultura tra le più ricche, o meglio la più ricca,

del mondo. È inutile negarlo. A questo proposito mi

balena una frase di Calvino, ricordata dal mio

professore universitario di letteratura italiana:

"La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste

nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può

dare coi suoi mezzi specifici."

(Lezioni Americane. Sei proposte per il nuovo

millennio [1985], in Calvino, I, p. 629).

5) Ringraziamenti.

Ringraziamenti speciali vanno ai miei tre compagni di

università: la pratese eccentrica Diletta Marchetti, il

frosinoniano e collega di saggi critici Davide Pisa e la

dolce montalese Elisa Pacini. Abbraccio loro

calorosamente, mi hanno seguito, sopportato, spronato

143

e chissà, forse anche ispirato. Un grazie speciale ad

Andrea Bassani, mio illustre collega che mi ha sempre

apprezzato e appoggiato, ai miei due Cacciaguida e

maestri Ernesto Marchese, autore della prefazione

(dietro cui si cela, ma non troppo, l'adorabile

Donatella Solmi) e Fausto Ciatti, a cui devo tanto, e

per i tre anni di liceo indimenticabili e per la

dedizione e pazienza che sempre mi riserva. Pensarlo

un mio futuro collega mi riempie di gioia: mai

l’allievo supererà il maestro.

Ancora i miei zii, Marco in particolare, i miei cugini,

vicini e lontani, sottolineando la disponibilità di Luca

Bertinotti, che mi ha aiutato per la copertina e per

l'impaginazione del libro. I miei fratelli Roberto,

Claudio e Lorenzo, le mie cognate Irene, Moira e

Alice, mamma Silvana e babbo Sergio. Infine ultimi,

ma non per importanza, Marco, Alice, i fratelli romani

Alessandro e Andrea, infine Tommaso.

Ancora l’entourage dell’Associazione Culturale

<<‘9cento>> di cui sono attualmente il membro più

giovane e l’assessore alla cultura, cara amica, la bella

e dolce Elena Becheri. Non posso dimenticare le mie

piante e la mia Roma; mi riempiono sempre di gioia.

144

Il ringraziamento più grande va, ancora una volta, ad

Ungaretti (X 1888- † 1970) e ad un nuovo

protagonista, il musicista Dente.

Matteo Mazzone

(in copertina, immagine del mio paradiso lucano,

Tito. Omaggio ad Alfredo Laurino.)

Pistoia, 6 giugno 2014