michele canzoneri. opera completa 1984-2015

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Michele Canzoneri.Opera completa 1984-2015

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Testi diChiara GattiFranco Rella

Michele Canzoneri. Opera completa1984-2015

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Gruppo bancarioCredito Valtellinese

Presidente Giovanni De Censi

Amministratore Delegato Miro Fiordi

Credito Siciliano

Presidente Paolo Scarallo

Direttore Generale Saverio Continella

Fondazione Gruppo Credito Valtellinese

Presidente Angelomaria Palma

Direttore Tiziana Colombera

GalleriaCredito Siciliano

Direzione artisticaLeo GuerraCristina Quadrio Curzio

Coordinamento area Sicilia Filippo Licata

Segreteria Organizzativa Marcello Abbiati

Segreteria Amministrativa Laura GianesiniSimona Pusterla

Ricerche d’archivioPaola Bonaccorsi

Ufficio Stampa Studio EsseciSergio Campagnolo

Broker Assicurativo Global BrokerAxa Art

Montaggio Ditta Orazio CameliaFrancesco Emmanuele

La mostra è prodotta dalla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese

Michele Canzoneri. Opera completa 1984-2015

Galleria Credito Siciliano, Acireale6.VI–––11.X.2015

2015 © Per i testi, gli autori2015 © Per le immagini, Sandro Scalia2015 © Fondazione Gruppo Credito ValtellineseTutti i diritti riservati

Nessuna parte di questo libro potrà essere riprodotta o trasmessa in qualunque forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’Editore

Foto di copertina© FaisalDamasco, 2003In sovraimpressione, la parola araba PACE.

RingraziamentiCarmelo MuratoreJoselita CiaravinoMario PilloniLuigi PintacudaPiero TomaselloSergio GianfallaSimone PascaleSimona Muscuso

I direttori artisticirivolgono un particolareringraziamento aRossella Leone

ISBN 978-88-97913-32-0 Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturalie Identità Siciliana, Dipartimento Beni Culturali

e Identità Siciliana

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Paolo ScaralloPresidente Credito Siciliano S.p.A.

casuali. Avvenimenti, circostanze, situazioni che si trasformano in altrettante occasioni di elaborazioni artistiche, di sperimentazioni creative; e così, ad esempio, l’incontro con il maestro Emilio Vedova si trasforma in una irripetibile lezione di arte, o la notizia degli attentati alle “Torri gemelle” diviene drammatica ispirazione per l’ultimo ritocco all’ Apocalisse nelle vetrate del Duomo di Cefalù. Queste ed altre “coincidenze” donano ai lavori di Canzoneri qualcosa di assolutamente distintivo.Nella Galleria del Credito Siciliano di Acireale, a cura della Fondazione Gruppo Credito Valtellinese, sarà allestita dal 6 giugno all’11 ottobre, un esposizione dedicata all’opera di Michele Canzoneri. La mostra, dal titolo “Opera completa”, porterà a conoscenza del pubblico siciliano, attraverso un percorso espositivo che sembra quasi aver forma di diario, un centinaio di opere tra disegno, pittura, scultura e scenografia tutte nel segno della luce. L’allestimento comprenderà opere relative ad un periodo di tempo lungo quasi quarant’anni, che permetteranno di apprezzare un Artista siciliano di impronta internazionale.Il Credito Siciliano e il Gruppo Credito Valtellinese nel presentare questo importante evento desiderano offrire un ulteriore e concreto omaggio all’arte contemporanea siciliana, per contribuire ancora una volta all’affermazione delle diverse espressioni artistiche generate da un’Isola che da sempre è stata culla di bellezza e di cultura.

Michele Canzoneri, artista siciliano, orienta il suo percorso traendo vocazione dal suo nome “Michele”, che richiama uno dei sette arcangeli, quello fulgente e giustiziere; gli angeli infatti sono esseri permeati di luce che con le loro ali avvolgono e proteggono il destino di ogni essere umano. Partendo da questo presupposto, Canzoneri è stato definito “l’uomo che colora la luce”, per la sua costante ricerca di rappresentazioni simboliche delle variegate forme di luce che caratterizzano la sua espressività artistica.E’ negli anni sessanta che l’artista avvia ed approfondisce i suoi studi, incentrati preminentemente sulla luce e sull’utilizzo di svariati materiali. Contemporaneamente si cimenta, in un percorso culturale apparentemente alternativo ma in realtà organico, in diverse esperienze creative nel teatro musicale e in quello scenografico, allestendo opere di Mozart, Wagner, Bellini, Stravinsky, oltre che di compositori contemporanei in Teatri Internazionali.Negli anni successivi Canzoneri lavora alla realizzazione il primo Evangeliario moderno della Chiesa Italiana su incarico della Conferenza Episcopale. E’ così che la spiritualità che permea la produzione dell’artista fa il suo incontro con il tema sacro. Da questo connubio, che risulterà proficuo e duraturo, scaturisce tra l’altro l’incarico affidatogli per la realizzazione delle vetrate del Duomo di Cefalù; per creare quest’opera Canzoneri studiò attentamente il modularsi della luminosità al variare delle ore del giorno e delle stagioni e con la collaborazione del Teologo mons. Crispino Valenziano, interpretò al meglio, in sintonia con la tradizione estetica medievale, l’iconografia in cui si manifesta il mistero divino. L’Artista ha poi eseguito lavori nella Basilica di San Pio a San Giovanni Rotondo, nella Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni di Palermo e nella Cappella dello Spirito Santo nel Convento di San Francesco al Cenacolo a Gerusalemme.Michele Canzoneri si muove instancabilmente da un progetto all’altro, da un materiale all’altro, da una città all’altra, seguendo un percorso costantemente proprio e collegando tra di loro ambiti diversi. Le coincidenze sembrano costituire la costante del suo percorso artistico, anche se l’Artista non le ritiene del tutto

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Sommario

11 Le latitudini del tempo Chiara Gatti

15 Lo spazio della luce, lo spazio dell’ombra Franco Rella

19 Opera aperta Renzo Piano

21 Opere

149 Apparati

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«Per altre terre andrò, per altro mare»Konstantinos Kavafis, La città, 1910

Esiste sempre un legame stretto fra l’uomo e il suo luogo d’origine. Qualcosa che giace nell’intimo, un laccio che tiene ormeggiati alla propria terra, anche quando si intraprendono viaggi lontani o s’imboccano strade diverse. Walter Benjamin diceva che si viaggia per scoprire la propria geografia. Thomas Eliot vedeva nella dialettica fra partenza e ritorno un antidoto alla dimenticanza e il modo migliore per guardare alle nostre origini con occhi rinnovati. Voltaire, geografo emozionale (molto prima che la “geografia emozionale” diventasse un trend di successo), sosteneva che «il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi». È con questo spirito di ricerca (e con questo stupore) che Michele Canzoneri ha intrapreso, negli anni, un percorso fisico e mentale, destinato a fare un lungo giro per poi tornare indietro, alle profondità di se stesso. Il suo peregrinare fra linguaggi diversi è stato – già di per sé – un viaggio. L’attraversamento di un guado fra

tecniche differenti. Uno spostamento tattile e spaziale, un trasporto del gesto fra il territorio dell’immagine e quello della rappresentazione. Il suo muoversi con garbo fra le scenografie del teatro musicale e le grandi opere per l’architettura sacra dimostra tutta la sua indole da esploratore di generi, capace di dialogare col mondo, salvo riparare comunque nel suo studio, a trascrivere tappe passate e future di una perlustrazione ininterrotta. Anche i viaggi veri, come quelli nel vicino Oriente, dai giardini di Damasco ai monti di Giudea, lo hanno visto ogni volta rincasare con diari zeppi di appunti da rileggere, per scoprire qualcosa di nuovo su panorami inesplorati, ma pure su se stesso. Giuliana Bruno, professore ordinario di Visual and Environmental Studies ad Harvard, autrice non a caso del celebre Atlas of Emotion, l’Atlante delle emozioni, ha analizzato, nel suo saggio diventato un classico, i meccanismi di relazione fra il viaggio e l’identità delle persone; meccanismi destinati a fissarsi in immagini, intese come dipinti o fotografie, come cinema, teatro o architettura. È affascinante la sua idea che la memoria possa non essere

connessa solo al concetto del tempo, ma altresì a quello dello spazio e che, spesso, siano i luoghi – le geografie appunto! – a risvegliare una coscienza sopita, mescolando l’esperienza del nuovo a quella del vissuto e delle origini. Come se la terra nascondesse, nel sottosuolo, arterie distese fra paesi, una mappa sotterranea di connessioni e sinapsi in grado di generare riflessi automatici in chi ritrova se stesso anche lontano da casa.Non stupisce che Canzoneri abbia varcato antiche carte, fogli sparsi abbandonati nei sotterranei di un castello siciliano, documenti d’epoche passate, bolle, diplomi regi, testamenti o privilegi, con tracce di una grafia sottile, claustrale, sposata a motivi stilizzati, ispirati ai testi cuneiformi della Città Bassa di Ebla, o eleganti geometrie memori delle sculture astratte dei mihrab o, forse, dei ritmi ornamentali della moschea degli Omayyadi, ad Aleppo. Fra l’alfabeto occidentale dei suoi codici miniati e quello segnico d’altri paesi scorre una vena fluida, come il pensiero quando si fa scrittura. E non stupisce neppure il nesso che collega i suoi Konvolut, composizioni rigorose di pagine sovrapposte come

Le latitudini del tempo

Chiara Gatti

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sua necessità di seguire un percorso coerente in grado di aggiungere tappe e passaggi, in un progetto assoluto. «Io sono per il progetto» dice categorico. E aggiunge «durante il progetto sono felice». È la tensione della costruzione ad appagare la sua mente analogica. L’istinto per l’esplorazione che diventa sapere. In quest’ottica il risultato appare secondario, è l’esito concreto – pittorico, architettonico o scultoreo – di un processo mentale, della costruzione (ancora una volta) di elementi concettuali o ideali nello spazio delle idee e attraverso il tempo della loro evoluzione.Renzo Piano, commentando l’opera di Canzoneri per la chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo, ha parlato di «lontananza da un’arte come gesto», alludendo alla dimensione intellettuale del “fare”. Mentre Achille Bonito Oliva, in un suo testo del 1999, redatto in occasione di una mostra di Michele Canzoneri e Rossella Leone sugli studi per la Norma di Bellini, ha evidenziato in tutto ciò un «incrocio esplicito dello spazio e del tempo». Calcolando che Canzoneri esordì nel mondo dell’arte nel cuore degli anni settanta, in pieno boom concettuale, viene istintivo pensare a rapporti virtuosi con Lucio Fontana o Yves Klein – il cui alchemico

International Klein Blue ci riporta al blu “spaziale” dei vetri acrilici – ma, soprattutto, con Sol LeWitt e le sue teorie sul primato del progetto, oltre, naturalmente, al polacco (francese d’adozione) Roman Opalka, autore di un’unica opera rituale elaborata incessantemente per quarantasei anni, volta a indagare i temi dell’infinito e dello scorrere inesorabile delle stagioni.Davanti ai Diari di Canzoneri e ai libri d’artista, frutto dei progetti per le scenografie; davanti agli studi inesausti per le vetrate del Duomo normanno di Cefalù; davanti alle sculture ottenute colando pigmenti, giorno per giorno, rivoli bianchi e neri, a intermittenza; oppure, davanti alla scultura emblematica Tutti i giorni, tutte le notti, omaggio poetico a una dedizione ininterrotta, si coglie il desiderio profondo di documentare questo corso delle idee, un work in progress cadenzato dal ritmo dei pensieri. «Il diario è un’opera finita – afferma – poi c’è la scena, c’è lo spettacolo; ma il diario è ciò che resta per scandire il tempo». Con grande rigore formale, ogni dettaglio edifica un’opera d’arte totale. Dove proprio tempo e spazio si avvicendano in una catena di riferimenti, citazioni, ricordi. L’uno dipende dall’altro e, insieme,

sono vettori di sapienza, misuratori dell’esperienza, destinati a generare forme dal loro incontro. Come fossero coordinate polari. Come se il tempo fluisse su assi cartesiani. Come se fosse scandito per latitudini. «La storia non è che la geografia nel tempo, così come la geografia non è che la storia nello spazio» dichiarava il pensatore (e geografo!) anarchico Elisée Reclus. Ecco dunque che, lungo le latitudini del tempo, Canzoneri ha dipanato la sua storia. Le sue storie. Con una vena narrativa che spiega l’amore per il teatro e la scenografia, così come la capacità di svolgere racconti in opere consequenziali, dalle pagine dei “capitoli” alle “biblioteche”, dai “diari di viaggio” ai cicli complessi per le vetrate dei luoghi sacri. La materia in tutto questo è un veicolo attivo. Henry Moore ribadiva che «il materiale può prendere parte alla formazione di un’idea». Ma l’idea – s’intuisce – vive di vita autonoma finché l’artista, per mezzo del progetto, non la affida al mestiere delle mani. Giuliana Bruno definirebbe, a tal proposito, quello di Canzoneri «uno spostamento dall’ottico all’aptico», da ciò che gli occhi vedono a quello che il tatto riconosce. La luce che diventa vetro, l’oriente che diventa inchiostro,

l’architettura che diventa terra. Come nella serie lirica dei “corpi”, le piante del Duomo di Cefalù affiorate sotto strati di colore cinerino, sinopie di mura perimetrali che hanno lasciato impresse nella carta antica le proprie impronte, le fondamenta della loro origine normanna. O come nelle scatole d’argento che conservano sabbia di fiume, colore del tufo o dell’ardesia, su cui Canzoneri ha inciso, di nuovo, i profili del “suo” Duomo, orchestrando tracce in fegato di zolfo sulla superficie dell’argento e lasciando depositare la rena, creando impronte fossili, mappe di un edificio inghiottito dalla terra. Già, la terra. Quella «pasta immaginaria», per citare Bachelard, che porta nel suo ventre le radici stesse del tempo e dello spazio, del percorso circolare della vita, la partenza e l’arrivo ai vertici del viaggio. Terra attraversata da mappe, planisfero dal moto perpetuo nella successione costante dei giorni. Che, per Canzoneri, si traduce nel simbolo archetipico del cerchio, motivo dinamico del passaggio fra la dimensione della contingenza e quella dell’assoluto, dal mirino di un obiettivo al disco di Atlante, sigillo di una nuova alleanza fra la geografia dei luoghi e la storia dell’uomo.

gli strati della terra, ai papier-maché, i grumi di papiro, rotoli di cartapesta che custodivano testi documentari nella Grecia classica. I colori, poi, tradiscono, più che altrove, questa osmosi geografica. La carta dei manoscritti ha lo stesso tono del deserto e delle rovine monumentali di Palmira. I profili di Bosra, la città nera di basalto, sembrano riemergere nella ricerca di Canzoneri laddove i suoi racconti inseguono le sfumature dell’ombra e dell’inquietudine. Penso proprio ai Diari, ma persino agli acquerelli lividi per I dialoghi delle Carmelitane di Poulenc, o addirittura alla pozza colata d’argento nei disegni per le scene della Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla, un baratro tetro come la notte, scavato nel cotone puro del foglio. Nel ciclo recente dei Capitoli, alcuni brani, attraversati da onde, linee simili ai pendii di una montagna o da nuvole di vapori grigi come la cenere o come il fumo, pigmenti naturali sulle stesse pagine antiche, ricordano i colori sordi della pietra vulcanica nella cittadella romana al sud della Siria. Affascina vedere come l’acquerello diluito nasconda e poi restituisca le parole d’altri tempi che già abitavano queste carte fragili. È la reazione dei sali di ferro contenuti negli inchiostri

al passaggio dell’acqua che li porta ad affiorare sul verso, candidi negativi di se stessi. Apparizioni. Un effetto trasparenza che appartiene a Canzoneri da sempre, alla sua esperienza decennale con la luce e col vetro; e che, anche nelle carte – i diari per la vetrata della Didaché, per esempio – ritorna fra le righe, così come nelle piccole sculture, i trittici in vetro, resina, pigmenti e foglia d’oro dove i colori toccano apici di fulgore. Qui, di nuovo, la geografia emozionale si percepisce a pelle. Il rosso, il bianco, l’oro, sono colori simbolici, comuni a tradizioni diverse: al mondo delle icone bizantine e all’iconografia cristiana dei santi, ai cieli turchini nelle Bibbie ebraiche del XIII secolo e, più indietro, all’antichissima cultura mesopotamica, al periodo dell’apogeo di Mari, del suo palazzo reale e di un tesoro sigillato da un’aquila di lapislazzuli con testa e coda ricoperte di foglie d’oro. Il blu oltremare delle sculture dedicate da Canzoneri a Palmira o a Babilonia – libri aperti in vetro soffiato e acrilico – rievoca un passato lontano e certi piccoli flaconi per unguenti, in cristallo traslucido blu cobalto con smalti bianchi, gialli e dorati, emersi dai siti archeologici di Damasco. Bella la similitudine avanzata da Joselita

Ciaravino nella sua introduzione al catalogo La pietra di Damasco, in cui si paragonano i filamenti del vetro soffiato, le trame e le fibre chiuse nelle “pietre” di Canzoneri, ai mattoni di fango, d’argilla e paglia, dei muri di Ebla e del Giardino del mondo. I luoghi, insomma, nella ricerca di Canzoneri, coesistono e condividono fra loro i propri umori, i propri colori, la propria materia. «Al di là di ogni idea di mescolanza di terra e di acqua, nel regno dell’immaginazione materiale pare si possa affermare l’esistenza di un vero e proprio archetipo di pasta immaginaria» scriveva Bachelard, il fisico e filosofo francese, autore delle teorie sulle materie, così vicine al lavoro di Canzoneri. Che, dal canto suo, ama parlare di materia e anche di geografie quando sottolinea il suo «rispetto per i luoghi», la necessità di conoscerli per comprenderli, abitandoli, vivendoli giorno per giorno. E si capisce allora l’importanza dei diari. Uno strumento di costruzione della conoscenza. La pratica quotidiana di appuntare riflessioni, studi, dettagli, ipotesi, rivela fra le pagine – quelle antiche, come pure quelle nuove e intonse di cotone morbido, rosate come la pietra calcarea (per tornare ai colori...) di Palermo e delle mura di palazzo Chiaramonte – la

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Cenere sulla manica di un vecchio. È ciò che resta delle rose bruciate.Polvere sospesa nell’aria Segna il posto ove fu una storiaRespiriamo polvere: era una casa.

Così scrive Eliot nei Quattro quartetti. Lo spazio dove fu una casa e, dentro la casa, una storia, è la polvere che, impalpabile una quasi nulla, o l’immagine del nulla stesso, si muove intorno a noi. È vero che Eliot ha concluso i Quattro quartetti dicendo:Non cesseremo di esplorare.E alla fine dell’esplorazione Saremo al punto di partenza.Sapremo il luogo per la prima volta.Ma quale luogo? Alla fine? Vale a dire, quando saremo fuori da qualsiasi luogo nella morte? Che valgono allora le carte, le mappe, le piante che disegniamo con accanita, amorosa e talvolta disperata applicazione? Non sono destinate anch’esse, prima di arrivare al luogo dell’origine, ovvero all’assenza di luogo, a polverizzarsi e svanire come quella storia e quella casa in cui essa è stata un tempo vissuta?Agostino, dopo aver attraversato i terribili “meandri” della memoria, vale a dire il labirinto del tempo soggettivo, si

interroga nell’XI libro delle Confessioni sul tempo in generale: “Che cosa è il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so; se devo rispondere a qualcuno che me lo chiede non lo so”. Agostino interroga il tempo per sapere. La conclusione della sua ricerca è però la certezza di non sapere che cosa sia il tempo per sapere. La conclusione della sua ricerca è però la certezza di non sapere che cosa sia il tempo: quando misuro il tempo, egli dice, in realtà misuro una mia sensazione soggettiva, e dunque sono risospinto al tempo soggettivo, ai meandri della memoria, là dove il mio tempo trova spazio dentro di me.Spazio. La parola è stata pronunciata. E finalmente ci pare di essere su un terreno più solido. Non ha detto Descartes che lo spazio è un’estensione, e che il corpo è anch’esso un’estensione che si muove dentro, o meglio lungo una estensione? Perché allora Heidegger nei Seminari di Zollikon ha affermato che “il corpo occupa uno spazio”, per poi chiedersi subito dopo: “Esso è delimitato rispetto allo spazio? Dove corrono i confini del corpo? Dove termina il corpo?”. Dunque non c’è un dentro e non c’è un fuori, non c’è un al di qua o un oltre. L’estensione non ha

limiti, non ha confini, e una estensione interminata non risolve i problemi; ne apre di nuovi, tormentosi. Che cosa è lo spazio? E se non possiamo dare ad esso una misura, come figurarlo allora?Lo spazio, dice Platone nel Timeo, non dobbiamo chiamarlo né terra, né fuoco né acqua […]. Ma dicendo che è una specie invisibile e informe, che tutto in sé riceve e che partecipa in modo oscuro e non facile a comprendersi all’intellegibile”. Platone, poche righe dopo, aggiunge che questa specie, quella dello spazio, “che serve da sede a tutte le cose che hanno nascimento, si può apprendere solo per mezzo di un ragionamento bastardo e non accompagnato da sensazione”. Dunque, secondo Platone, dello spazio non abbiamo sensazione alcuna. Possiamo pensarlo solo con un ragionamento bastardo, quasi come quello che si fa in sogno. Tutto vi ha sede, ma esso non è percepibile. Camminiamo in esso, ma non possiamo averne immagine o figura. Le nostre mappe misurano l’informe, svaniscono. Ci muoviamo nella vertigine.Aristotele nella Fisica propone un colpo di mano per liberarsi di questo paradosso platonico. Rinvia anche

Lo spazio della luce, lo spazio dell’ombra

Franco Rella

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surrettiziamente a dottrine non scritte”, in cui Platone avrebbe spiegato quello che non ha spiegato in migliaia di pagine di dialoghi, e nel Timeo in particolare. Qual è il ragionamento di Aristotele? Spazio luogo e sito sono la stessa cosa, dunque con una conseguenza che non consegue nulla “materia e spazialità sono la stessa cosa”. Lo spazio la chora di Platone, da questo momento diventerà hule, materia, con conseguenze che si riverbereranno su tutta la cultura dell’occidente.Damascio è stato un estremo epigono di Platone. C’è in lui una voluttà di naufragio, di nulla, di buio. Di nulla si può dire alcunché: fabbrichiamo finzioni delirando abbondantemente su ciò che non conosciamo”. Il suo scolaro Simpatico si applica al Commento della Fisica aristotelica. In esso leggiamo che Proclo avrebbe affermato che “lo spazio è la luce più sottile”. La frase è enigmatica, ma si illumina se la poniamo nel contesto del tentativo di Proclo, l’ultimo grande neoplatonico dell’antichità, di strappare lo spazio le cose nello spazio alla materia in cui Aristotele l’aveva confitto. La luce, scrive Proclo, “avvolge le cose immerse nella materia” e le trascina in alto: dallo spazio corporeo allo spazio autentico. Ma in Proclo, in Sull’Arte ieratica dei

pagani, c’è una sfida ulteriore. Se uno fosse in grado di cogliere con l’udito l’attrito che un girasole crea con l’atmosfera volgendosi verso la luce del sole, allora, forse avrebbe, potremmo aggiungere noi, la percezione dello spazio autentico.Ma noi questa percezione l’abbiamo avuta. Una notte ti sei svegliato o ti sei svegliata in un letto dentro il buio. Non sapevi nulla: né dov’eri né chi eri. Un rumore, sottile come l’attrito di un girasole nell’atmosfera, un respiro, appena un alito, ha illuminato nella tua mente il corpo che giaceva accanto al tuo. L’hai visto: hai potuto riconoscere nel buio la sua posizione, il colore dei suoi capelli, le lentiggini sparse sul suo petto. Hai potuto, a questo punto, misurare lo spazio che occupava accanto a esso. Un altro rumore ha illuminato l’invisibile stanza da bagno, e hai potuto riconoscere la porta che dava accesso ad esso, e la distanza tra te e quella porta. I tuoi capelli si sono mossi per un alito d’aria, e hai potuto riconoscere l’interstizio lasciato aperto nella finestra e nelle tapparelle attraverso il quale entrava la notte di fuori. Hai pensato alla frase di Proclo, che non sei riuscito a ritrovare nei suoi scritti. La luce è spazio, ma anche un rumore, un suono, un alito, un gemito è luce e

dunque è anche spazio. Hai richiamato le parole terribili di Eliot, e le hai corrette mentalmente. Cercheremo, non cesseremo di cercare e alla fine lo spazio che troveremo sarà lo spazio in cui siamo. Non alla fine, ma ora, con la nostra vita e la nostra morte.Ti sei rimesso a scrivere o a disegnare. Ti sei messo comunque a tracciare una mappa di questi tuo spazio, e hai scoperto, mentre la tracciavi, che mille spazi diversi abitavano il tuo, e lo rendevano continuamente mutevole. Non indicibile o impensabile è il tuo spazio: è plurale, attraversato da mille soglie e da mille confini, questo lo rende così arduo. Questo ti costringe ogni volta a ricominciare da capo, perché qualsiasi mappa tu possa tracciare non è mai quella definitiva, non è mai l’ultima. Hai scoperto, tracciando quelle linee, vedendole apparire e corrodersi e trasformarsi e qualche volta quasi sparire, che dentro di te c’era lo spazio della preghiera, dell’amore, dell’orgoglio e dell’eccesso. Hai capito che in questo spazio così mobile da essere quasi intransitabile tu vuoi abitare, perché qui non solo è il tuo luogo ma è anche il tuo tempo. Hai capito che la luce può farsi, come aveva capito anche Proust, più opaca del buio, e che il buio può diventare

luminoso e popolato di immagini. Hai capito quanto Proclo, per salvare Platone, si sia reso remoto alla vertigine che si apre sulla sua pagina, come in una mappa che disegna per esempio una Cattedrale e che in realtà ti porta in un cuore di tenebra. O di luce. Chi può dirlo? Lo spazio che stai esplorando è lo spazio della tua anima, e, come ha detto Eraclito, “per quanto tu possa viaggiare non potrai scoprire i limiti dell’anima, anche percorrendo tutte le vie, tanto profondo è il logos che le è proprio”. Viaggio disperato questo? No. È un viaggio straordinario, perché si tratta di esplorare, come ha detto Pindaro, le vie del possibile.Allora tracciare le mappe, misurare lo spazio, la sua luce sottile o la sua ombra, in definitiva è esplorare le vie del possibile. Di ciò che è stato, di cui non sappiamo ancora cosa avrebbe potuto, essere. Di ciò che è, di cui non sappiamo ciò che può essere. Di ciò che verrà, di cui ancora non sappiamo cosa potrà essere. Il poeta, lo scrittore, il pittore dovrebbero farsi agrimensori del possibile. Era la professione di K. nel Castello di Kafka. Non conosco una professione più avventurosa, arrischiata, e, al tempo stesso, stupenda.

alle pagine precedentiCorpo, 1997tecnica mista su carta antica intelatacm 210 x 125(particolare)

Studio per Babilonia (ciclo di vetrate “Apocalisse”, Duomo di Cefalù), 2001tecnica mista su carta ev.cm 70 x 50 (particolare)

pagina seguenteStudio CanzoneriTavolo di lavoro Didaché

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Conosco Michele da quando ha iniziato il suo lavoro a S. Giovanni Rotondo per la vetrata “Didaché”.

Avevo visitato alcune sue opere - il suo lavoro per la cattedrale di Cefalù in particolare - ma è stato Crispino Valenziano a farci incotrare sul cantiere della chiesa di S. Pio.

Michele è una persona gentile e paziente. E ostinata. Ma di un’ostinazione gioiosa e mai arrogante.

In questo suo modo di essere e di fare arte trovo ci sia tanto in comune con il mestiere dell’architetto: il “provare e riprovare”, l’infinita meticolosa pazienza della sua tecnica tutta particolare (“eroica” la definirà più avanti Anna Li Vigni nel suo bel testo), la profonda

lontananza da un’arte come semplice gesto, la ricerca lenta e faticosa senza sotterfugi o facili scorciatoie.

E poi il senso magnifico della luce e del colore.

Forse è per questo che lavorare assieme è stato così facile.

La sua Porta per la Cappella dell’Eucarestia è un’altra tessera prezionsa nell’opera aperta che è ancora questa grande chiesa.

Per questo dono desidero ringraziarlo.

Opere per la cappella dell’eucaristia, Edizioni P. Pio, San Giovanni Rotondo 2008.(*) testo tratto da una lettera a Michele Canzoneri datata 7 ottobre 2008

Operaaperta

Renzo Piano*

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Cefalù

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Navata centrale del Duomo Cefalù

Trasfigurazione, 2001vetro acrilico, vetro soffiato, pigmenti e resinecm 362 x 112Foto Ezio Ferreri

Giudizio finale, 1999vetro acrilico, vetro soffiato, pigmenti e resinecm 500 x 273Foto Ezio Ferreri

pagina precedenteDuomo di Cefalù, montaggio dell’ultima vetrata dell’esamerone, 1990Foto Carla de Gregorio

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pagina precedentecollocazione di una vetrata navata lateraleFoto Luciano Morini

Il sole e la luna, 1988vetro acrilico, vetro soffiato, pigmenti e resinecm 310 x 120Foto Luciano Morini

interno Duomo di Cefalù con vetrata GiudizioFoto Ezio Ferreri

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Siria

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Diario di viaggio, Atlante, 2003tecnica mista su carta anticacm 64x62

Siria, luglio 2003tecnica mista su carta anticacm 42 x 32

pagina precedenteParticolare insegna di treno nell’antica stazione di Damasco, 2003Foto Rossella Leone

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Diario di viaggio, Damasco, 15 luglio 2003tecnica mista su carta anticacm 42 x 32

Diario di viaggio, Aleppo (Cittadella), 14 luglio 2003tecnica mista su carta anticacm 42 x 32

Diario di viaggio, Ebla, 14 luglio 2003tecnica mista su carta anticacm 42 x 32

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Diario di viaggio, Bosra, 18 luglio 2003tecnica mista su carta anticacm 42 x 32

Diario di viaggio, Palmira, 25 luglio 2003tecnica mista su carta anticacm 42 x 32

Michele Canzoneri in una soffieria a Damasco durante il suo workshop all’Accademia di Belle Arti, 2003Foto FAISAL

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Tutti i giorni, 2004vetro soffiato, vetro acrilico, resina e pigmenticm 52 x 117 x 3

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Babilonia, 2004vetro soffiato, vetro acrilico,resina e pigmenticm 77 x 87 x 3

Palmira, 2004vetro soffiato, vetro acrilico, resina e pigmenticm 88 x 76 x 3,5

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38

San Giovanni Rotondo

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Studi Porta delle vergini savie e le stolte, 2006-08tecnica mista su carta anticacm 290 x 172

a destra: particolare

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43

Didaché, 2004acquerello e inchiostro su carta anticacm 32 x 63

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44

Teca contenitore dei fogli del diario di lavoro per la costruzione della vetrata Didaché, 2004-06vetro soffiato, vetro acrilico, pigmenti e resinecm 53 x 38 x 4

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4746

Pianta della cappella, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

Interni della chiesa con ingresso alla cappella, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

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48 49

Studio elementi vetrata, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

Studio tralcio di vite antica, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

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50 51

Pane spezzato, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

Sterlizia, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

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52 53

Trebbiatura, vendemmia, fermentazione, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

Calice-costato, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

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5554

Studio calice, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

Calice e venature, 2004-06tecnica mista su carta antica, cm 32 x 21

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57

Disegno vetri per Didaché,inchiostri su carta antica, cm 32 x 63

pagina seguenteVetrata Didaché, 2004-06,vetro soffiato, vetro acrilico, pigmenti, resine, acciaiocm 300 x1000 x 5 (particolare)

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Rosso scarlattoRosso porpora

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60

Rosso scarlatto, 2008(particolare)tempera su carta ev.cm 44 x 32

Rosso porpora, 2008tempera su carta ev.cm 44 x 32

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62

Konvolut

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64 65

Archivio di studio, 1994-2010tecnica mista su carta anticacm 132 x 92

Konvolut, 1994-2010tecnica mista su carta anticacm 132 x 96

pagina seguenteMichele Canzoneri durantel’allestimento della scenografiaper Suor Angelica di G. Puccini,Teatro alla Scala, Milano, 1983Foto Lelli&Masotti

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Teatro

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6968

Tema di Maria (quadro II), 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64

Fuga e mistero (quadro V), 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64 max

Ballata per un organetto pazzo, 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64 max

Diario di lavoro per la scenografia dell’opera Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla, Teatro Massimo Palermo, 1999

69

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7170

Fuga e mistero (quadro V), 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64 max

Poema valzer (quadro VI), 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64 max

Studio impianto mobile, 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64 max

71

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Tangabile (quadro XIV), 1999tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64 max

Buenos Aires, 1999,tecnica mista su carta ev,cm 45 x 64.

73

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74 75

Modello in scala della prima scena di “Norma”, 1999vetro acrilico, vetro soffiato, pigmenti e resinecm 22, 5 x 41, 5 x 4

Albero, 1998,tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64

Diario di lavoro per la scenografia dell’opera Norma di V. Bellini co-prodotta dal Teatro Massimo Bellini di Catania, dal Landestheater di Salisburgo e dal Teatro de la Maestranza di Siviglia, 1999-2004

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76 77

Casa Norma, 1998tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64

Il tempio dei druidi, 1998tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64

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78 79

Sequenza scene, 1998tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64

Arco di fuoco, 1998tecnica mista su carta ev.cm 45 x 64

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80

Bozzetto prima scena dal diario di lavoroper “Il Marinaio”, 2001di Angelo Russo su testo di Fernando Pessoaacquerello su carta ev.cm 49 x 70

Bozzetto prima scena dal diario di lavoroper “Il Marinaio” (particolare), 2001di Angelo Russo su testo di Fernando Pessoaacquerello su carta ev.cm 49 x 70

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Bozzetto prima scena (dal diario di lavoro per “Sette Canzoni”), 2001di Gian Francesco Malipieroacquerello su carta ev.cm 49 x 70

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8584

Michele Canzoneri durante l’allestimento della scenografia per l’opera Dialogues des carmelitès diF. Poulenc, StaatsOper di Stoccarda, 2011Foto Luigi Pintacuda.

Bozzetto del tappeto per la prima scena dell’opera Dialogues des carmelitès, 2010collage, cm 40 x 65

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8786

Bozzetto per quinte, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto per impianto scenico, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Diario di lavoro per la scenografia dell’opera Dialogues des carmelitès di F. Poulenc, StaatsOper Stoccarda, 2010

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88

Bozzetto con ombra della croce, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto per proiezione su croce sospesa, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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90 91

Bozzetto con l’agonia della prima Priora, 2010tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto per frattura croce, 2010tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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92 93

Bozzetto per le 15 carmelitane sotto la croce sospesa, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto con interno del convento, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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Bozzetto per immagine da proiettare sulla croce sospesa, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto per “Ghigliottina”, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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Bozzetto del Guanto su tavolo-sangue, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto per tavolo – sangue, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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Bozzetto con suore ghigliottinate, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto con rivoluzionari e folla, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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100 101

Bozzetto con scena durante l’esecuzione, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

Bozzetto dell’esecuzione suore, 2010 tecnica mista su carta anticacm 22 x 32

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Parigi 1794. Foto di scena dell’opera Dialogues des Carmélites, StaatsOper Stoccarda 2011

Rosso scarlatto, rosso porpora, 2010otto sculture, vetro soffiato, vetro acrilico, resine, pigmenti, acciaio, cm 40 x 250 x 100

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Gerusalemme

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Tabor 2, 2009vetro soffiato, vetro acrilico, pigmenticm 55 x 39 x 1

Tabor 3, 2009vetro soffiato, vetro acrilico, pigmenticm 55 x 39 x 1

Pagina precedenteGerusalemme, monte Siona sinistra la cupola del CenacoloFoto Enrique Bermejo.

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pagina precedenteVetrata della” Lavanda dei piedi”, cappella del “Cenacolo”, convento di San Francesco sul monte Sion a Gerusalemme, 2014

Vetrata “Maria con gli apostoli”, cappella del “Cenacolo”, convento di San Francesco sul monte Sion a Gerusalemme, 2014 Foto Enrique Bermejo.

Diario di lavoromaggio 2012Analisi spaziale della cappella, capp. del “Cenacolo”, conv. S. Francesco sul Monte Sion, Gerusalemmeinchiostro su carta ev.cm 22 x 64

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Studio composizione elementi ambone7 luglio, 26 settembre 2012inchiostro su carta ev.cm 22 x 64 max

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Studi assonometrici distribuzione vetrate31 agosto 2012tecnica mista su carta ev. e anticacm 22 x 64 max

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Studio planimetrico dei vari punti di vista per la percezione dei poli liturgici e testo iscrizione del Crocifisso di Santo Spirito di Michelangelo10 ottobre 2012inchiostri e acquarello su carta ev.cm 22 x 64 max

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Piano iconografico temi vetrate ottobre 2012inchiostri su carta ev.cm 22 x 64

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dicembre 2012Deserto di Giudaacquarello su carta ev.cm 22 x 64

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Vetrata “Lavanda dei piedi”8 gennaio 2013inchiostri su carta ev., cm 44 x 64

Vetrata “Apostoli con Maria” 12 febbraio 2013inchiostri su carta ev., cm 32 x 44

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Gerusalemme, studio timbro per Gazainchiostrro su carta ev.settembre-ottobre 2013cm 22 x 64

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Prova colore per Gaza,2014vetro acrilico e pigmenticm 15 x 30

pagina seguenteStudio timbro per Gazainchiostro su carta ev.cm 22 x 32

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126 127

Matrice timbro 1, 2014fotopolimero, cm 44 x 44 x 1

Matrice timbro 2, 2014fotopolimero, cm 44 x 44 x 1

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Timbro 1, 2014–2015vetro soffiato, polimeri, resine, pigmenti, metallocm 44 x 44 x 15

pagina precedenteProva di stampa matrice 1 timbro

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Page 67: Michele Canzoneri. Opera completa 1984-2015

Timbro 1, 2014–2015vetro soffiato, polimeri, resine, pigmenti, metallocm 44 x 44 x 15

Timbro 2, 2014–2015vetro soffiato, polimeri, resine, pigmenti, metallocm 44 x 44 x 15

131130

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Gaza, biblioteca, 2014vetro soffiato, vetro acrilicopigmenti e acciaiocm 210 x 126 x 4

a destra: particolare

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Tutti i giorni, tutte le notti, 2014vetro acrilico, vetro soffiato, pigmenticm 70 x 110 x 12

Trittico, 2003-2014vetro soffiato, resina, pigmenti, foglia d’orocm 17 x 74 x 9

134 135

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Trittico, 2003-2014vetro soffiato, resina, pigmenti, foglia d’orocm 17 x 74 x 9

Trittico, 2003-2014vetro soffiato, resina, pigmenti, foglia d’orocm 17 x 74 x 9

136

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Sette capitoli

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140 141

Capitolo 1, 2014tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

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142 143

Capitolo 2, 2014tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

Capitolo 3, 2014tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

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Capitolo 4, 2014tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

Capitolo 5, 2014tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

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Capitolo 7, 2015tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

pagina seguenteMichele Canzoneri costruisce una delle sculture per la scenografia del Parsifal di R. Wagner Teatro Comunale, Bologna, 1978Foto Ettore Magno

Capitolo 6, 2014tecnica mista su carta anticacm 130 x 125

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Apparati

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incarico della Conferenza Episcopale Italiana. Ecco che quella sorta di misticismo o, più sem-plicemente, di spiritualità che permea la pro-duzione dell’artista, incontra il tema del sacro.Sarà un incontro duraturo, se già a partire dal 1985 si arricchirà dell’imponente commissione delle vetrate per il Duomo di Cefalù: un ingaggio davvero impegnativo, che ristabilisce l’antico contatto tra l’artista e la committenza e che Canzoneri svolge nella naturalezza dell’abbrac-cio tra sacro e laicità. Nei fogli e nelle miniatu-re che accom pagnano le 269 pagine dell’Evan-geliario – un tema ricon ducibile alla tradizione tra il VI e il XV secolo – così come nelle ve-trate che cominciano a essere progettate, scor-giamo il segno persistente dell’artista che mai si smenti sce: v’è una continuità latente dello stile di Canzoneri ora nella traccia, ora nella linea concisa, ora nella pennellata, là dove si libera la grandezza della luce considerata come elemento in sé. Le pagine miniate dell’Evan-geliario sfug gono alla tradizione del figurativo, leggono il sacro del testo evangelico secondo il nuovo linguaggio.Le vetrate del Duomo di Cefalù sono opera che dialoga con la luce, che vive dell’onda di luce stessa, in sin tonia con la tradizione estetica me-dioevale che fa del la vetrata il luogo in cui si manifesta il mistero divino. Dall’evento epifani-co, catturato dal colore del foglio dei bozzetti preparatori, alla luce che abita lo spazio dell’ar-chitettura, il percorso di Canzoneri avanza con velocità alla ricerca di un linguaggio sempre più evocativo. Per realizzare tale opera l’artista studia attentamente il mo dularsi della lumino-sità al variare delle ore del giorno e delle stagio-ni, studia le diversità con cui la cattedrale lascia filtrare il chiarore diurno al proprio interno: e d’al tra parte il duomo di Cefalù è stato edificato proprio per celebrare l’evento di luce per ec-cellenza, quello della trasfigurazione. Le prime trentadue vetrate, nella nava ta centrale e nel-le due laterali, si inaugurano nel 1990: l’intera cattedrale appare immersa in un mistico teatro della luce e ogni passaggio di nuvola muta i co-lori di ac qua, di cielo e di fuoco che le vetrate propagano al loro interno. Sulle alte finestre della navata centrale vi sono le quattordici for-me dell’Esamerone: il Caos, la Luce, il Giorno e la Notte, il Cielo, le Acque, Terra e Mare, Piante, Stel-

le, Sole e Luna, Pesci, Uccelli, Animali della terra, Uomo e Donna, il Giardino dell’Eden. L’intero pro-getto si articola in diverse sezioni: nelle navate laterali sono gli Atti degli Apostoli; nel transetto è l’Apocalisse di Giovanni; nell’abside la Trasfigu-razione; nella con trofacciata è il Giudizio finale. Nel 2001, in occasione dell’installazione delle prime otto vetrate dedicate al Libro di Giovan-ni, l’artista ha allestito presso Palazzo Riso di Palermo la mostra Apocalisse rendendo visibili le ultime vetrate prima della loro definitiva col-locazione nel Duomo. Ma non è solo in questa già gravosa creazione che si ci menta l’energia dell’artista: nell’estate dello stesso anno si inaugura, infatti, negli spa-zi delle Case Di Lorenzo a Gibellina, la mostra Il viaggio dell’Avvoltoio. L’avvoltoio è uccello in-quietante, misterioso nel suo aleggiare oscuro e sinistro: compare nei cieli di Canzoneri per esprimere angosce e turbamenti, ma anche per liberare da essi, lasciandoli volare via. Si tratta di un ciclo di pitture su carta d’erbario antico, dedicate appunto all’avvoltoio. Nel 1992 si realizza, negli spazi della cripta del-la Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni di Palermo, la mostra Il muro del tempo, il viag-gio di Ruggero II nel mediterraneo 1131. Non è la prima volta che Canzoneri si confronta con la scrittura, con antiche civiltà, né tan to meno con il tema del viaggio. Si tratta di una sorta di corredo cartaceo – costituito dalla impossi-bile deci frazione di cinque testi antichi salva-ti da un naufragio della memoria – dedicato alla figura di Ruggero II, il re normanno di cui la leggenda narra che volle l’edificazio ne del tempio di Cefalù come ringraziamento al signo re per uno scampato naufragio. Il tema del naufragio diventa dominante: è la metafo-ra di ogni esistere, del vagare tra i mari degli eventi e dell’approdare in terre di salvezza. Il corredo si compone della verga, dei dischi di ceramica – in cui l’artista cerca di racchiude-re il mare con le sue insidie – delle zavorre e dei resti di un graffito prodotto da un marinaio prigioniero nelle segrete del Palazzo Reale che, proprio negli spazi adiacenti la crip ta, ha volu-to incidere sui muri la traccia di un vascello. I materiali si fanno preziosi, nuovi, segnano il converge re dell’esistere nelle tracce dell’arte. La figura miste riosa del recluso, la nave regale

che avanza tra i flutti, sono ombre che perdono nella trasfigurazione artistica ogni consistenza temporale. Il destino della storia è il naufragio nell’oblio della memoria, ma l’arte può evita-re che il naufragio si avveri. Come annota Do-minique Grandmont, «per Michele Canzoneri l’arte è un’archeo logia del futuro o allo stato libero. Non ha spiegazioni da fornire se non se stessa, poiché, al contrario della vita, la morte è reversibile, la sua verità ci precede».Del 1992 sono la mostra realizzata a Milano presso la Galleria Maestri Incisori, Argento, e la realizzazione di una stanza, intitolata Linea d’ombra, per l’Atelier sul mare di Antonio Presti a Castel di Tusa. Nella prima, il metallo – simbolo della purifica-zione dell’anima, ma anche della trasmutazio-ne, del femmi neo e della luna – è l’elemento chiave, dalla cui sugge stione nascono fogli rac-colti in lastre metalliche, quasi a comporre un libro nascosto. Dalla visione della Pietra Nera egizia, nel Museo Archeologico di Palermo, nasce il desiderio di riferirsi a quella scrittura misteriosa che su di lei si scorge e di evocare il suo nero primordiale tramite le variazioni dell’argento. Nella seconda l’artista, catturato dalla Linea d’ombra di Joseph Conrad, trasforma l’ambiente destinato all’abi tazione in uno spazio che dia-loga con la distesa del mare antistante, fino a ricreare all’interno della camera la condizione del viaggio. Conrad è stato l’ispiratore per ec-

cellenza, con le sue storie di naufragi, di tempe-ste, le leggende hanno accompagnato spesso la vita dello scrittore. Il cliente che sceglie di dor-mire nella stanza n. 205 è invitato a oltrepassare la propria linea d’ombra per cercare la creativi-tà che è dentro di sé. Sia Conrad che il re Rug-gero hanno oltrepassato la loro linea d’ombra: il primo accettando la sua ultima sfida in mare, il secondo edificando il Duomo di Cefalù dopo la sua salvezza da un naufragio ottenuta con la preghiera. Ecco cosa deve cercare il fruitore: la sua salvezza intraprendendo il viag gio dell’ar-te. Canzoneri ha scelto questo spazio proprio per la sua perfetta collocazione in direzione del mare, lungo la linea che porta a Cefalù, città dove l’artista in quel periodo stava realizzando le vetrate per il Duomo. Dal 1996 al 1998, in qualità di consulente del Comune di Palermo, Canzoneri è incaricato di coordinare la tra sformazione degli ex stabi-limenti Ducrot (Palermo) nei nuovi Cantieri Culturali alla Zisa, curandone la destina zione a spazi dedicati ad attività culturali.Ulteriore riflessione sulla luce e sulla sua capa-cità di plasmare lo spazio dell’architettura fino a disegnarne la planimetria è Lo spazio è la luce più sottile, una mostra che evoca una frase del filosofo Proclo e che viene rea lizzata nel 1999 presso Palazzo Steri di Palermo con una presen-tazione di Franco Rella. Sulle tracce di una sorta di ossessione, quella della variazione delle gra-dazioni della luce all’interno della Cattedrale di Cefalù, e sem pre dietro la preziosissima guida del teologo Crispino Valenziano, Canzoneri si dedica a una riflessione sullo spazio e sulla luce, affrontando il tema della planimetria. La frase del filosofo greco Proclo (V sec. d. C.) lo spazio non è altro che la luce più sottile può essere letta come traccia tematica che attraversa l’intero la-voro dell’arti sta. Se la luce, nel suo rapportarsi con l’ombra, è stato il vero materiale adoperato da Canzoneri lungo tutto il suo percorso, sul-la scia del suggerimento di Proclo egli elabora una nuova riflessione sulla luce che crea e pla-sma lo spazio, anche quello dell’architettura. Sempre in quell’anno l’artista si cimenta anche con le scenografie per Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla, per il Teatro Massimo di Paler-mo, e con le sce nografie per la Norma di Bellini, per il Teatro Massimo Bellini di Catania, copro-

Michele Canzoneri è nato a Palermo nel 1944. Da sempre affascinato dalle trasparenze e dal-le opacità del fenomeno della luce, dà inizio intorno agli anni ’70 al proprio percorso ar-tistico con l’invenzione dei GAV (gabraster + aria + vetro). Il confronto con la tradizione artistica del vetro soffiato – alla “Fucina degli angeli del maestro vetraio Egidio Costantini a Venezia – unito al desiderio di sperimentare le possibilità espressive del le resine e dei mate-riali trasparenti, portano l’artista a concepire questi grandi oggetti luminosi: all’interno di contenitori in materiale refrattario, dalla for-ma di semi sfera o di cubo o di prisma, forme di vetro soffiato ora piene ora vuote si mescolano a colate dell’elemento resinoso colorato, il ga-braster. Al di sotto dei corpi ven gono installate fonti luminose: ciò fa sì che i GAV si trasformi-no in oggetti che trattengono la luce al proprio interno, colorandola delle iridescenze delle so-stanze trasparenti.Ai GAV sono dedicate le mostre tenutesi, tra il 1972 e il 1974, al Palazzo dei Diamanti di Fer-rara, nei centri Montedison di Milano, Londra, New York, alla Galleria Rotta di Genova, alla Galleria Bergamini di Milano. In questi anni l’esperienza dei corpi luminosi, all’interno dei quali la liquidità diventa il punto di incontro e di fu sione dei vari materiali, si arricchisce an-che di uno stu dio sempre più articolato sulla dinamica del percepire. I GAV diventano, infat-ti, vere e proprie “isole sensoriali”, corpi cataliz-zatori delle percezioni suscitate in chi guar da, come succede in occasione della mostra Loka te-nutasi nel 1975 a Palermo. Nell’oscurità rischia-rata da ventotto semisfere luminose, lo spet-tatore è guidato in un percorso di scoperta e potenziamento delle proprie facoltà percettive. Lo studio dei testi sacri e l’avvicinamento a un orizzonte culturale interiorizzato come quello evoca to dall’oriente, portano Canzoneri verso un fare artistico il cui senso diventa elusivo, frammentario, volutamente giocato nell’altale-na del visibile e dell’invisibile; un fare artistico al contempo prezioso, che vive dell’incontro con i materiali e con le forme. È così che la car-ta an tica diventa il supporto per disegni filifor-mi, intrecciati, minuti, uniti quasi in un intenso tracciato simbolico. Nel corso di tale processo, l’opera d’arte corrisponde a un rituale comples-

so, che si compone di fasi preparatorie – come i bagni di colore a cui si sottopongono i fogli – che rappresentano l’iniziazione della carta alla ricezione della linea del disegno. Tra il 1976 e il 1977, dopo il decisivo incontro con l’orientalista Giuseppe Tucci, Canzoneri lavora al ciclo del Bardo Thödol, il Libro Tibe-tano della grande libera zione. È la volta di un materiale, la carta, impregnato di colore e di tempo, sfondo da cui i segni sembrano lenta-mente riemergere, per acquistare in superficie valore di carattere esoterico. La tensione verso il mate rico, che porta l’artista alle più diverse sperimentazioni e tecniche, si unisce al richia-mo dell’antico, al desiderio di un sotterraneo dialogo che Canzoneri sempre intrat terrà con ciò che aleggia nella nostra memoria. Si tratta di sette fogli preziosi, la cui trama notturna e stel-lare coincide con la reminiscenza interiore del simbolo nu merico: sette superfici d’acqua dove galleggiano, come relitti di un naufragio, fram-menti sospesi di una memo ria oscura. L’insidia del tempo, ovvero l’ansia che turba la coscienza dell’artista fino all’ossessione: la paura an tica che egli nega e che pure continua a smarrirlo.Sarà il teatro musicale a indicargli una via per aggira re l’insidia. Nel teatro l’opera vive solo nello spazio dell’evento, non è logorata dalla stabilità e dalla durata, ogni sera rinasce e ogni sera si spegne, non esiste al di fuori della mac-china che crea la sua epifania e la sua illusione, resta inattaccabile dal tempo per il fatto stes so che con il tempo coincide. In questi anni Can-zoneri condurrà dunque un’intensa attività di scenografo re alizzando, in un certo senso alla lettera, la profezia di Adolphe Appia sul protago-nismo della luce nella rap presentazione.Ricavando direttamente dalla luce colore e for-ma, l’ar tista dà immagine a quei testi che la sua melanconi ca spiritualità privilegia: la Novelletta di Bussotti, per il Maggio Musicale fiorentino; il Blaubart di Togni alla Fenice di Venezia nel 1977; il Parsifal di Wagner per il Teatro Comu-nale di Bologna nel 1978; l’Elegia per gio vani amanti di Henze; la Mavra di Strawinsky; la Pan-tea di Malipiero per il Teatro Regio di Torino; la Clemenza di Tito di Mozart per il Teatro Massimo di Palermo nel 1981; la Saga della primavera di Strawinsky per il Teatro San Carlo di Napoli nel 1982; la Suor Angelica di Puccini per il Teatro

alla Scala di Milano, nel 1982. In quegli anni Canzoneri si muove per l’Italia, realizzando scenografie che dicono dell’immediata conti-nuità tra i suoi interes si. La scena del teatro è il luogo nel quale la luce folgora l’evento, luogo nel quale si rivela ancora una volta la fascina-zione della luce. Da questa prende vita la for-ma dell’arte, il segno della superficie cartacea è adesso ri cettacolo dell’azione teatrale.Il tema della luce ritorna anche nella prima scultura trasparente come la vetrata, realizza-ta nel 1979, per la casa-museo di Rosario La Duca a Palermo. L’intento non è più quello di lasciare che il ve tro condensi in sé il fascio lu-minoso, come succedeva con l’aiuto della luce artificiale nei GAV, ma di lasciare che la luce si propaghi naturalmente attraverso una la stra spessa di vetro.L’artista si muove infaticabilmente da un pro-getto all’al tro, da un materiale all’altro, da una città all’altra, se guendo un itinerario sempre più personale che coniuga ambiti diversi.Dal 1984 al 1987 Canzoneri lavora alla realiz-zazione dell’Evangeliario delle chiese d’Italia, su

Biografia

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dotta con il Landestheater di Salisburgo; per le scene di Norma, rappresentata an che a Siviglia, Tokio, Tel Aviv, Salisburgo, Hosaka e San Pietro-burgo, l’artista ha ricevuto nel 2001 il premio Abbiati della critica musicale italiana per la mi-gliore scenografia dell’anno. Nel 2001 è stata allestita, presso Palazzo Riso a Palermo, la mostra Apocalisse. Studi e vetrate per il Duomo di Cefalù di Michele Canzoneri, in occa-sione della quale sono stati esposti non solo i bozzetti preparatori e i diari di lavoro relativi alle vetrate sull’Apocalisse, ma anche le prime otto vetrate dedicate al Libro di Giovanni, vi-sibili così a scala d’uomo, prima della loro in-stallazione defi nitiva nel Duomo, avvenuta nel dicembre dello stesso anno.Nel luglio del 2003 l’artista è stato invitato dal Ministro alla cultura della Repubblica Siriana a svolgere un wor kshop presso gli Istituti d’Ar-te di Damasco e Aleppo. Dall’incontro con la

cultura orientale nasce la mostra La pietra di Damasco. Diario di viaggio di Michele Canzoneri, presentata nel 2004 presso il Loggiato San Bar-tolomeo di Palermo. Il viaggio in terra siriana ha por tato l’artista verso una nuova esperien-za di studio, ver so nuove ricerche: i suoi occhi hanno potuto osservare una luce diversa, un pa-esaggio nuovo e da esplorare. La prima tappa del viaggio è iniziata da Aleppo, con tinuando verso Damasco, Bosra, Palmira ed Ebla. Le cit-tà, i colori, le decorazioni, le forme, la scrittura sono elementi che gli occhi dell’artista hanno catturato e che le sue mani hanno trasportato su fogli di carta antica del ’700 e dell’800: par-ticolarmente affascinante la trasfor mazione dei conci di pietra e paglia per l’edificazione delle case in forme trasparenti fatte di vetro e di vetro acrilico. L’insieme dei fogli è diventato il mezzo attraver so il quale misurare la visione di città e deserti, attraver so cui mettere a punto una sorta di trasfigurazione dei luoghi. Dai fogli emergo-no segni, lasciando che la grafia occidentale e quella orientale si intreccino.Dopo le vetrate realizzate per il Duomo nor-manno di Cefalù, Michele Canzoneri è chia-mato ad attendere a una nuova committenza all’interno, questa volta, di una chiesa con-temporanea. Il primo ottobre del 2006 vie ne inaugurata, nella Cappella dell’Eucaristia della nuova chiesa di San Pio di San Giovanni Ro-tondo, progettata da Renzo Piano, la grande vetrata Didaché, che il teolo go Valenziano ha voluto ispirata alla dottrina dei Dodici Aposto-li. Nella Cappella dell’Eucaristia Canzoneri ha realizzato la grande vetrata Didaché che si com-pone di sette lastre per un totale di dieci metri di lunghez za per tre di altezza. Inaugurata il primo ottobre 2006, quest’opera ha impegnato l’artista per ben due anni. Contemporaneamen-te all’inaugurazione, all’interno della chiesa, è stata allestita una mostra dei progetti prelimi-nari che hanno portato alla realizzazione della ve trata, affiancati da alcuni bozzetti in vetro, da un video documentario sui vari passaggi creativi e da un sugge stivo diario di lavoro realizzato su antichi fogli dipinti. L’esperienza della riflessione artistica su temi sacri è continuata con la produzione di due grandi vetrate per la chiesa luterana di Eitorf in Germania.

E ancora, su indicazione dello stesso Renzo Pia-no, nel 2008, Canzoneri porta a compimento, dopo due anni di lavoro, la creazione del por-tale d’accesso della Cappella dell’Eucaristia. La Porta delle Vergini savie e delle Vergini stolte, ispirata a una parabola evangelica presente nel Vange-lo di Matteo, può considerarsi come una sum-ma dello stile e delle tematiche caratteristiche dell’arte di Canzoneri: il perenne gioco di luce e di ombra, che mira a solidificare la luce nella corposità delle forme di vetro, la drammaticità della tensione tra le forme, la destrezza nell’or-ganizzare la composizione raccontano, in un lin guaggio sublimemente astratto, tutta la pro-fondità del discorso cristiano.Nel 2009, un libro d’arte di Canzoneri compo-sto da una teca in resina e vetro e contenente i bozzetti preparatori per le vetrate dell’Apocalis-se, è stato acquisito dalla Biblioteca Apostolica Vaticana ed è tuttora conservato nel Gabinetto delle Stampe Antiche.L’’ultima sua personale, Michele Canzoneri Konvolut Biblioteca Infinita alle Fabbriche Chia-ramontane di Agrigento, presenta lavori inediti dove la sua ricerca con e sulla carta antica e la scrittura, si collega all’attualità del fare scrittura legate alle recenti scoperte di testi antichi.Nel 2011 debutta alla StaatsOper di Stuttgart con le scene per Dialogues des carmelitès di Fran-cis Poulenc con la regia di Thomas Bishoff e i costumi di Rossella Leone. In contemporanea, il Teatro di Stoccarda organizza un convegno e una mostra sul rapporto tra arte e scena teatra-le, con studiosi italiani e stranieri esperti del set-tore, e una mostra personale si inaugura presso la Galerie dell’Haus der Katolischen Kirche.L’artista ha fatto parte inoltre dell’Ufficio Litur-gico Nazionale ed ha partecipato ai lavori per l’elaborazione delle norme per la progettazio-ne di nuove chiese.Dopo due anni di lavoro, 2012/14, Canzoneri, ha completato l’intervento di ampliamento e rifacimento globale della cappella dello Spirito Santo, nel convento di San Francesco al Cena-colo a Gerusalemme, per la quale ha anche rea-lizzato l’altare, l’ambone, la sede presidenziale, le porte e le vetrate.

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bandonato per liberare invece l’essenza sovra-na e sublime dell’estrema volontà creativa wa-gneriana. Oppure le metamorfosi alate cui ven-gono piegate le materie plastiche in Blaubart di Camillo Togni, che è il più puro asceta, ferrato di rigore tecnico, che annoveri l’Avanguardia italiana (possiamo dirlo tout court un classico della modernità). O ancora, per Canzoneri, l’espressionismo malipieriano di Pantea, stretto all’osso del genialissimo monodramma mitico appunto per la magrezza sublimata dei segni visuali.Ho solo indicato, qui, i contatti di Canzoneri con la Musica e con il Teatro. Egli non insegue certo scenografie di “mestiere”. È soltanto con certi testi che il suo animus, la sua melanconica (di fondo) spiritualità può misurarsi (v’è for-se il mosaicismo siculo-bizantino all’origine, nell’imo culturale?). Soltanto certi ambienti drammatici, infine, certi autori, muovono il suo accostamento. È in questa sfera che ho po-tuto cogliere nella realtà della collaborazione teatrale la sua “poetica”, i suoi valori. Ho cre-duto con ragioni legittime di percepirli dove li sentivo agganciati ai fenomeni d’arte della mia vita.

Testo inedito, scritto per le scenografie del teatro mu-sicale di M. Canzoneri.

FRANCESCO PENNISIRoma, 8 dicembre 1995

caro Michele,ho impiegato tre mesi meno due giorni per decifrare la tua “pittoricissima” e coerente cal-ligrafia. L’invito a fantasticare sulla bella pianta e a fissare un tracciato, un percorso di suoni o di cose tra le absidi e le colonne è certo affasci-nante. L’unico problema sono io, che dal mo-mento in cui ho scritto l’ultima nota del Tristan (si parva licet …) non ho avuto forza e voglia o capacità o intrepidezza o baldanza o ispira-zione o immaginazione o fantasia o iniziativa o fisima o utopia o immagine o ossessione o elucubrazione o riflessione o baleno o folgo-re o idea. E il mio tavolo da lavoro e il leggio del mio pianoforte si sono riempiti di polvere sempre più spessa. Ciò significa che ho eluso il problema dello scrivere musica, che anche

se non tradito, rimandato a tempi migliori gli impegni – Così, se vorrai esser gentile con me, ti prego di avere pazienza e di collocare in un indistinto tempo futuro la mia partecipazione alle belle e prestigiose tue iniziative. Meliore requirimus. Rallegramenti per la mostra che sarà stata splendida com’è ovvio.

Affettuosamente Francesco

Saluti cari a Rossella

P.S. Tengo in bella evidenza l’organico strumentale di “si-cura disponibilità”

GILLO DORFLESMilano 11/02/03

Caro Michele,naturalmente avrei dovuto subito ringraziarti per il bel volume (davvero affascinante) sulla tua Apocalisse. Ma – appunto – intendevo far-lo a Palermo non prevedendo che non ti avrei riconosciuto a prima vista! Forse perché era passato parecchio tempo – forse perché avevi una “folta chioma”- rispetto a prima, fatto sta che sono stato preso di sprovvisto e poi mi è dispiaciuto di non poterti parlare prima della fine del convegno. Impossibile giudicare il tuo lavoro sulle riproduzioni ma tutti gli schizzi e le prove preparatorie mi sembrano ammirevo-li. Rimane il fatto che a me non convince mai l’immissione di certa contemp. in antichi e so-lenni monumenti come il discorso di C. Comunque, spero ci sia presto un’occasione per trovarci insieme (riconoscendoci!) a Paler-mo e soprattutto per poter andare a Cefalù e ammirare le tue vetrate.

un abbraccio da Gillo

SYLVANO BUSSOTTICostretta al buio, per manifestarsi, l’arte di Canzoneri non comprende essenza di colore — esitando colpevolmente a lungo, prima di decidermi a segnalarne qui, come al mio so-lito, la particolare musicalità, impossibilitato, prima dal bianco e nero a dirne ogni fiamma, quindi anche dall’insensibile forma di prosa, qui necessaria, a restituirne le incandescenze

infinite, mi decido ora egualmente, e alle bre-vi frasi ed a un dettaglio riprodotto in nero; unicamente per non tardarne più almeno una consapevole allusione; — e avrei potuto sce-gliere, di Canzoneri, nella progettazione gra-fica, quei fogli innocentemente leonardeschi noti e pubblicati di già. M’accontenterò invece di riferirne l’estremo pensiero, il «program-ma» appunto, che dovrebbe dare a riflettere ai musicisti. Egli cola materie sintetiche come blocchi trasparenti e luminescenti, più esatta-mente che di luce si penetrano e rinviano; indi le larve vetrose sono infrante ed ogni forma tagliata in frammenti politi posa nello spazio; avanti, a mezzo lignei bastoncini, veniva insi-nuato il colore nelle masse ancor molli di luce solida. Ma Canzoneri utopico illude già oggi queste sue schegge monumentali di sole verso l’applicazione urbana; Palermo sognata nelle sue luci solide per esempio (che è la sua città; e così sì comprende il naturale ondeggiare di un Prometeo: dal sud verso la cattura del sole) ci ricorda le idee di Klein per un’architettura di climi colorati, soltanto; case dalle pareti in-visibili come l’aria, velate soltanto del famoso azzurro. E Canzoneri vede la città nelle sue luci palpabili: avrà il suono e le voci di musiche che io penso? Ma penso alla città extraurbana, in-dicibile, con sue luci e mie musiche, e sorrido: città del sole.

Tratto dalla rivista “Discoteca”, Milano, ottobre 1969.

CANZONERI A SEGNOSylvano Bussotti

La luce traspare nei fogli. Carta vecchia. Forse occasionalmente capitata in mano a Michele (che donandomene alcuni fogli mi darà occa-sione per scriverci un’opera intera) ma fatta propria in maniera fiabesca.Il segno, minuscolo e preciso, per Canzoneri ebbe origini progettuali; visti così, in bell’ordi-ne, sezionati o riassunti, quali GAV del passato prossimo apparivano razionali e traslucidi; ne comprendevi facilmente il filosofico schema e la spinta concettuale appariva in primo piano. Ma poi la luce, nelle sculture, invadendone le radicali trasparenze, creava quel cangiante tripudio barocco, l’accesa fornace meridio-nale per cui anche alla scomparsa dei colori, nessun monocromo vero poté sopraffarne gli smalti.In tempi più vicini Canzoneri prendeva a dise-gnare con intenzione del tutto autonoma dai progetti passati. Togliendo colore alle sculture, progressivamente ne insinua tra le righe di an-tichi manoscritti dove il bruciato della seppia, i ricami del tarlo e le voragini delle tarme sotto la scolorina di un secolo scorso, tessono i pen-tagrammi virtuali della partitura. Infatti è dagli anni cinquanta (e prima) ad oggi che la scrit-tura musicale si prodiga nelle invenzioni pitto-grafiche più arrischiate; in tal senso le pagine di Michele sono, appunto, pagine di partitura; o meglio, lo sarebbero se poco poco un occhio musicale avesse la pazienza di scorrerne adagio il tracciato sensibile. Eseguirle, nel senso corrente, pratico, del con-cetto, varrebbe offenderne il misterico assunto. In comune con la musica, di fatto, hanno, quel-le immagini, un carattere di sovranità riserva-ta; e riservata alla più segreta delle iniziazioni: quella intellettuale. Ciò non diciamo per al-lontanarne la lettura, al contrario si pensa che attragga per l’appunto quanto qui appaia inco-noscibile con lo scibile o l’occhio; è all’udito, soprattutto se udito interiore, che ci si volge. Mentre un suono irreale persiste, accalora e ri-sponde alla luce.

Canzoneri, catalogo mostra, Loggia del Giulio Roma-no, Mantova, 1972.

YOSHIE YOSHIDAThank you for your letter. I would be most hap-py if you would use my essay in your book. Please send my pamplhlets about your work that you may, they would be most interesting to me.Sincerely yours

4 – Feb 1984Yoshie Yoshida

GIANANDREA GAVAZZENIBergamo Porta Dipinta 5

5 dicembre 1984Caro Canzoneri,soltanto oggi sono riuscito a scrivere la nota per lei. Sono stato frastornato da tante cose. Se non le andasse butti pur via senza riguardi, e si rivolga a chi può farla senza di me… Ciò che ho scritto, è schietto; e nasce dall’espe-rienza diretta della sua Arte.Buon lavoro, cordialissimi saluti ed auguri.

Gianandrea Gavazzeni

Faccia correggere Lei, per favore, attentamente la bozza.

PER MICHELE CANZONERIGianandrea Gavazzeni

La grazia materica e luministica di Michele Canzoneri mi giunse, dal palcoscenico all’or-chestra, mentre andavamo componendo, con Sylvano Bussotti regista, La Clemenza di Tito di Mozart - per l’Ente del Massimo di Palermo - nell’ambiente neopompeiano del Politeama. Poco per volta, attraverso i “tempi” delle pro-ve sceniche e musicali, si configurava un’idea di spettacolo multiplo, fedele alle forme mo-zartiane, al ritmo drammatico, eppure nuo-vissimo, cangiante, articolato nelle snodature architettoniche della visione. La fantasia figu-rativa e l’esigenza legata al discorso operistico venivano grado a grado delineandosi come se le idee nascessero lì per lì durante il procedere delle prove, mentre gli eventi visuali erano stati tutti predisposti e calcolati secondo le intuizio-ni consapevoli di Canzoneri e la coscienza mu-sicale di Bussotti, che ha per base registica sem-pre la devozione, anzi l’amore, agli spiriti del Musicista creatore: da Mozart appunto, sino a Verdi e a Puccini. Ed ebbi modo di sperimen-

tarlo nella Fanciulla del West del Maggio Musica-le Fiorentino 1976, e poi nel Simon Boccanegra torinese, nella Clemenza di Tito, e nel Trittico pucciniano alla Scala nel 1983, dove ancora Canzoneri diede immagine alla Suor Angelica.Così, il farsi, il crescere scenografico per La Clemenza di Tito, veniva incontro alla mia per-cezione dell’opera che non seguiva gli schemi prefabbricati dei musicologi “mozartiani” se-condo i quali nella Clemenza ci si troverebbe a un Mozart che guarda all’indietro, che restaura l’opera seria settecentesca insieme prefigurando il Neoclassicismo. Preannuncio neoclassico sì, ma calato nei turbamenti di quel momento sti-listico, di quei sussulti provocati dalla temperie biografica, da tutta la dialetticità di una cultu-ra in movimento, in progress, che soprattutto in Mozart arriva agli anni ultimi: Don Giovan-ni e Flauto Magico: le ultime tre Sinfonie e gli ultimi Concerti per pianoforte e orchestra. Mi andavano dunque benissimo, nell’officina di Canzoneri, i frammenti archeologici reinven-tati, messi assieme a pezzi, ascesi della fantasia luministica realizzata con colori veri, viventi, non con trucchi di apparecchiature teatrali: luci di incendio, di frane, di pietre ruinanti, di accumulazioni ottiche guardate attraverso le retine di tramonti occidentali. Tramonti e crol-li di mondi culturali e civili, poesia delle rovine (non poussiniane) sulle quali la veggenza in-conscia di Mozart scaricava le bellezze formali, gli incanti della perfezione sonora, senza sape-re che stava annunciando le grandi agonie dei due secoli a venire. Mozart anticipava la fine di un’idea dell’uomo e forse del mondo. E perfet-tamente, nell’operazione di Canzoneri, legava-no i segni, le figure, gli emblemi degli arazzi, le fulminazioni fiammee di una storia tutta di testa. Metastasio, trascinandosi il famulo al guinzaglio, tenendo testa a Mozart, aizzava le miscele antinomiche dello spettacolo, mesco-lando nel testo dei recitativi l’archetipa dico-tomia e insieme l’elisione tra il livello epico e quello “comico”.Per tutto questo, e per la vicinanza laboriosa e sagace degli amici del Teatro Massimo, il pe-riodo del Tito palermitano fu per me di alacre appagamento.Le materie escogitate da Canzoneri, toccate dalla grazia, assunte a un dono, filtrano nella

musica scacciandone la materialità; si fanno spirito lirico trasmigrante nella categoria del “religioso”. Lo vediamo per il Parsifal realizzato da Canzoneri a Bologna, dove l’erotomistici-smo dell’accoppiata Richard-Cosima viene ab-

Letteree scrittiRaccolti da Rossella Leonee redatti da Paola Bonaccorsi

Michele Canzoneri e Camillo Togni durante la costruzione della “Luna” in vetro soffiato per le scene di Blaubart. Teatro La Fenice, Venezia 1977

Franco Donatoni, partitura,1978

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interpretato questo mondo spettrale con lumi-nosità allusive che intessono una trama miste-riosa su uno sfondo di cielo notturno costellato di rifrazioni stellari; che è la sua interpretazione del grande mistero sul quale si appuntano le speranze e i terrori dell’uomo, sempre attonito di fronte alle cose o alle immagini delle quali non ha cognizione o certezza.

7 giorni del Bardo Thodol, ed. F.A.E., Palermo 1977.

LA SCRITTURA LUMINOSALuigi Rognoni

«I colori sono azioni della luce, azioni e passio-ni: ...l’occhio si forma alla luce per la luce, affin-ché la luce interna muova incontro all’esterna»Il modus operandi di Michele Canzoneri richia-ma questa massima goethiana della Farbenlebre, poiché la sua, se così si può chiamare, è una «pittura della luce». Non nel senso degli im-pressionisti, ma in una dimensione spazio- tem-porale nella quale l’elemento genetico, il Kern, è dato dalla luce ottica, reale.Non è pittura, né scultura, poiché la «scrittu-ra» di Canzoneri trascende l’apparenza mate-rica del colore e quella del volume, per orien-tate l’occhio (che, secondo Hegel, appartiene, come l’orecchio, ai «sensi teorici») nell’ele-mento fondante la percezione visiva, la luce appunto, come ritmo e come timbro, che sta in stretta relazione (e non solo analogica) con la percezione auditiva.Ma i materiali che egli usa (resine poliesteri, vetro, ecc.) non suggeriscono mai l’alea cieca, non si pongono, come in taluni informels, quale intenzionalità materica che vincola l’interiorità soggettiva al «caso» della forma (Gestalt), alie-nandola, secondo quel processo a rovescio che Husserl chiamava negative Intentionalität.In lui il contenuto soggettivo domina materia e forma e mira alle assenze che riportano ai signi-ficati originari, universali del linguaggio umano.La lettura di «un’opera» di Canzoneri implica perciò una decifrazione intersoggettiva: il se-gno si pone come reminiscenza interiore che evoca in noi i linguaggi arcaici delle origini, nei quali il segno, come simbolo, era la cosa stessa rappresentata.

La «scrittura luminosa» di Canzoneri invita alla rappresentazione; per questo è scenografica; egli trasferisce nel teatro musicale la propria ricerca interiore in un rapporto che mira a sug-gerire le intime relazioni reciproche tra azione - parola - simbolo sonoro.Parsifal, il segreto ed intimo approdo dell’ideo-logia wagneriana, doveva trovare nei materiali di Canzoneri una proposta senza precedenti, o forse la realizzazione alla lettera della profe-zia di Adolphe Appia: «La composizione sce-nografica fa da intermediaria tra la pittura e l’illuminazione; l’illuminazione, a sua volta, tra gli altri due mezzi e l’attore... La composizio-ne scenografia, inoltre, porta pregiudizio alla pittura, ma può servire efficacemente all’illu-minazione... Tra gli elementi rappresentativi, il meno necessario è dunque la pittura; è inutile provare che, prescindendo dall’attore, l’elemen-to che viene in prima linea è l’illuminazione» (la mise en scène du drame wagnérien, 1892-94). Ma mentre le proposte scenografiche di Appia (che dovevano aprire la strada a tutta la sceno-grafia wagneriana moderna) non rinunciano totalmente alla «pittura illuminata», Canzoneri

ricava direttamente dalla luce il colore e la for-ma e, all’interno di queste, il segno che si pone come simbolo. Scompare totalmente il dato figurativo (o è ridotto a semplice allusione) e tutto converge ad un centro generatore che sta in relazione diretta coi simboli verbali e con la loro risonanza musicale. Quando sorge il moti-vo della «sacra coppa», il Graal (che è connesso a quello del preannuncio del reine Tor), l’oc-chio avverte nei pannelli rigidi e simmetrici del Tempio, quasi tabulae rituali, il segno magico della scrittura simbolica: la goccia del sangue che cade nel fiore-calice frammista alla goccia d’acqua che sì tramuterà nella Fonte battesima-le, a sua volta cuore e uovo cosmico, l’«uovo del mondo», secondo l’acuta interpretazione di René Guénon. Direi anzi die tutti i simboli emergenti dalla scenografia del Parsifal (anche quelli «negativi» che si riferiscono al regno di Klingsor) sono in relazione col simbolo primor-diale, I’«uovo del mondo», che riluce nelle sue parti (separate e congiunte) nei segni sparsi, sottintesi, cangianti degli elementi scenografici dell’Atto I e II, per tramutarsi infine nel simbo-lo scoperto della Fonte battesimale: le «acque

inferiori» (il Terrestre) e le «acque superiori» (il Celeste) si ricongiungono nella purificazio-ne che Parsifal, il tumbe Klâre ha realizzato in sé e che ora ha il potere di trasmettere agli altri.Nell’intima ricerca di Canzoneri il recupero del simbolo originario e delle sue relazioni nella costellazione dei linguaggi simbolici tro-va già nella «lettura» di Bardo Thödol («Il libro tibetano dei morti») una conferma alla suc-cessiva «lettura» del Parsifal wagneriano, dove, trascendendo l’ambigua relazione cristiano-pagana, ne viene messo in rilievo il significato recondito che ha le sue radici nella genesi uni-versale delle religioni. E non è casuale che per le carte di Bardo Thödol egli usi proprio perga-mene e fogli antichi, nei quali lo scritto sotto-posto, occasionale, viene riassorbito dal segno sovrapposto che rimanda al simbolo origina-rio. Una proposta analoga viene ora avanzata da Canzoneri con le serigrafie ripensate dagli spezzati scenici del Parsifal, dove la vibrazione dinamica della luce viene sperimentata nella vibrazione statica del colore, come a congelare la scrittura del simbolo nella permanenza della luce interiore.Parsifal, pioggia e luna, catalogo della mostra, Centro d’arte Il Paladino, Palermo 1979

UN CREATORE DELICATO, SPLENDIDO, ISPIRATO DI SPAZIO-TEMPOYoshie Yoshida

Quando la insigne studiosa mia amica Keiko Kirishima, autrice di un’importante pubbli-cazione sulle maschere africane, eschimesi, dell’Oceania ed altre, mi ha parlato delle opere di Michele Canzoneri, ho pensato che bisognava far conoscere in Giappone il mon-do raffinato di questo artista. Nato a Palermo, in Sicilia, nel 1944, Canzoneri, già dagli inizi degli anni ’70, poco più che ventenne, ha pre-sentato opere significative a Milano, Roma, Ve-nezia, Palermo e altre città d’Italia. Si tratta di sculture, serigrafie, litografie e, inoltre, come è giusto per un italiano, ha creato splendide im-magini per gli scenari di opere e di concerti di Wagner, Stravinsky, Bartók e per il noto musici-sta contemporaneo Bussotti, continuando così ad imporsi all’attenzione del pubblico. Queste

BARDO THODOL Giuseppe Tucci

Il buddhismo non crede nell’esistenza dell’ani-ma né in quella di Dio; artefice e arbitra di ogni destino è la coscienza implacabile giudice di se medesima, e quindi responsabile del nostro pe-regrinare nel tempo, o autrice del nostro dis-solvimento in una indefinibile spersonalizzata luce senza contaminazione di colore; quella luce di cui la nostra coscienza è una rifran-genza remota che soggetta, nell’esistenzialità temporale, a maculazioni avventizie, tuttavia, con l’ausilio di severe riflessioni sull’uomo, sulle opere giornaliere e sul nostro rapporto con le cose e le persone, può cancellare tali maculazioni e, com’è sorte dei solitari purissimi, librarsi verso quella luce infinita, incolore, ed in essa dissolversi. Etica e meditazione sono gli strumenti necessari e certi perché si attui la li-berazione dal tempo nell’atemporale e nell’im-personale: luce = tutto – nulla.Per elette persone, purché già preparate da una costante esperienza meditativa e da assidua purificazione etica e mentale, questo salto può compiersi in un istante, l’atemporale; alla mag-gior parte degli uomini son riservate capriccio-se catene di vite, secoli di travaglio e di pene, uno svolgersi indefinito di esistenze, di morti e rinascite. Ma sulla mente e sul pensiero vigile ed attento si riflette un guizzo di luce, perché senza quel barlume il pensiero sarebbe un istin-

to, un senso come un altro, un impulso incapa-ce di scelte. Il nostro dramma o la nostra gloria è la libera scelta: nel pensiero che ci muove ed agisce in questo o in quell’altro modo, in tale nocciolo di responsabilità, è conclusa, come in una pianta nata da un seme e che dal suo seme darà vita ad una nuova pianta, la nostra sorte; perché noi pensiamo in un modo o in un altro e questa serie di pensieri depositati nella nostra mente sono il nostro io momentaneo, carico di tutte le esperienze passate e pregno delle fu-ture. Quando la morte ci coglie, il principio cosciente, come possiamo chiamare il groviglio dei nostri consapevoli pensieri, è sospeso per quarantanove giorni fra il momento della mor-te attuale e la rinascita, a meno che la conse-guita, vissuta, sofferta coscienza non ci renda maturi per il supremo salto dal tempo al non tempo, alla luce incolore di cui sopra si è det-to. Ed allora in questi quarantanove giorni la coscienza uscita dal corpo, ma vagolante presso di lui aleggia, volteggia, abbagliata, attratta o respinta da immagini luminose, sovrastata da immani cieli lattescenti, terrificata da orribili schianti e rumori e fragori e stridori e rombi di tuono. Le luci policrome che le si presentano assumeranno figure di idee o di dei, terrifici o beati, orrorosi od accoglienti, minacciosi o lusinghieri. Uno schioppettare di luci in fuo-chi d’artificio da cui emergono figure divine o demoniache che attraggono o respingono; esse appaiono e scompaiono come fantasiosi disegni tracciati sul volto, intravisti attraverso velami trasparenti; perché esse non sono; sono soltanto la proiezione della nostra mente, folle matrice di tutto ciò che vediamo.Per tali scuole elaborate nell’Asia Centrale, ispirate da idee germinate dal Buddhismo, dalle sette iraniche, da tradizioni indigene, da correnti gnostiche, di fatto siamo noi stessi che suscitiamo dal nulla l’inconsistente, irreale, fuggevole gioco di quelle immagini, ignari che ognuna di esse è proiezione del nostro incon-scio; perciò le scuole gnostiche impongono l’e-sercizio di meditazioni lunghe o complicate, in virtù delle quali noi emaniamo da noi stessi le immagini di dei o di demoni, terrori e speran-ze e abbandoni, e poi le riassorbiamo di nuo-vo nel centro del cuore per acquistare l’espe-rienza vissuta che gli dei sono figli della nostra

mente, non placata dalla disciplina del nulla.Talché nel corso di quarantanove giorni è tut-ta una progressiva discesa; ogni luce o figura è un appiglio che se inteso nel suo vero essere, cioè immagine del nulla, può condurre a pro-gressive esaltazioni esoteriche; ma se non così riconosciute, scivoliamo sul fatale declivio fino all’ultima sosta, quando il principio coscien-te, uscito per sua ignoranza o inesperienza da quelle prove non sapute interpretare, è in modo inevitabile spinto verso una nuova vita: e se vedrà uomo o donna congiunti, se dovrà nascere uomo proverà gelosia nei riguardi del padre e se dovrà essere donna per la madre. Ancora, quel principio cosciente dopo erra-bondo percorso sarà proiettato verso una nuo-va esistenza, carico delle sue esperienze passa-te, ma capace di attuare nel futuro un nuovo destino. Ma il Buddha non ha detto questo: il Buddha con una disciplina etica indifferente ad ogni invito dei filosofi o dei teologi si pro-poneva di evadere dal mondo del tempo per dissolversi nell’atemporale, grande solitario co-stretto a usare la stessa lingua che parlavano i suoi discepoli; ma ogni parola aveva per lui una pregnanza che l’uomo comune non sapeva in-tendere. Perché le parole dei sommi sono come tuoni che tutto sconvolgono, ma per gli ignari o gli impreparati sono soltanto rumori; e per-ciò il solitario diventa presto l’incompreso come il Cristo, come coloro cui si rivela la assurdità

della vita e si propongono di trascenderla. Il Buddha è perentorio: la vita è dolore, il reale è lo spegnimento del totale: né cieli, né beatitudi-ne ultraterrena. Il coraggioso saldo dà ciò che è (e in realtà non è, perché è soltanto fantasio-so e doloroso sogno di un’ombra) nella sereni-tà della luce tutto – nulla. Il solitario ha superato gli illusori fantasmi di ciò che appare e non è.Il Canzoneri ha letto il Libro dei morti, ne ha dato un’esposizione pittorica che è fluttuare di colori, come un gran mare ora invernale ora estivo sulla cui mobilità le onde luminose vi-brano e si esaltano, alternanze di luccichii e di tenebre; tali alternanze esprimono l’irrequieto e il timoroso oscillare fra essere e non essere, la matrice primordiale, come al principio delle cose, un abbacino variegato, matrimonio sacro di tenebra e luce discesa nell’inconscio, dal quale in certi sogni, vaticini di morte, la vana apparenza della vita si dissolve in un’esplosio-ne caotica di fulgori e di tenebra, passaggio obbligato per attuare il dissolvimento nel tutto – nulla su cui l’insidia del tempo non ha presa, il mysterium magnum dove l’assurdo della vita, la sua nascita e il suo scomparire, la sua innocen-za ed i suoi peccati, il bene ed il male, l’affan-noso fiorire delle cose scompaiono perché non sono mai state.Il Canzoneri non poteva riprodurre le visioni o le allucinazioni che appaiono nel lungo tra-passo al principio cosciente del morto. Egli ha

Blaubart di Camillo Togni, Teatro La Fenice, Venezia 1977, regia di Francesca Siciliani, scene e costumi di Michele Canzoneri

Salvo Sciarrino, Partitura, 1978

Sylvano Bussotti, partitura, 1975

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duzione di pezzi destinati alla vendita o alla spe-culazione. Pari a quello del niello il fulgore del metallo: argento, rame e piombo scintillano sul-lo smalto nero; quel che Canzoneri offre ai no-stri occhi sono i segni di un processo. La realiz-zazione dei pezzi richiede la massima maestria, perché quello che importa è il viaggio. Ritornare a Ruggero.È chiaro, questo itinerario ideale non può esse-re percorso senza fatica. Senza lo spessore del concetto, senza l’espansione emotiva che fanno dell’arte una festa della comunicazione umana. Gli occhi ipnotizzati dell’odierno consumatore di immagini non sono nella migliore disposizio-ne per questa immersione nelle acque turbinose del mare della visione.Canzoneri ci conduce nella tempesta. Ci fa rivi-vere quel che la leggenda ha cristallizzato sullo sfondo dei contesto (politico, militare, commer-ciale) che permise a Ruggero di erigere un tem-pio di luce. Era, quella della conquista normanna, un’epoca di splendore della marineria siciliana, divenuta fulcro degli scambi commerciali tra la Cristianità e l’Oriente.Eppure, nessuna condizione umana è piena-mente stabile. Il cuore degli uomini è destinato a essere sempre soverchiato dalle passioni. In-controllabili, come il vento e le onde del mare. Neanche un re può dominarle. Shakespeare definì nettamente l’immagine della tempesta: «What care these roarers for the name of king?» (I,19). La tempesta è vita umana, turbinio di passioni, naufragio nella fugacità.La tempesta è il simbolo della prova nel viaggio. Che, a sua volta, è una successione di prove. Nel corso dei secoli, l’immagine ideale del viaggio dell’uomo, sempre all’insegna del precario, ha avuto il suo più nitido fulgore nell’Odissea. Nell’incerto vagare di Ulisse, vittima dell’ecces-so di empietà, attraverso i mari antichi di oggi e di domani.E la prova di Ulisse culmina con il ritorno. Il ri-entro a Itaca. Il rincontro con l’isola natale. Ma, infine, cos’è l’isola? Un’immagine del destino. Non solo quello di Ulisse, o del re Ruggero, quando si salvano dalla tempesta. Isola è l’im-magine del cerchio che si chiude, dell’anello che gira su se stesso. Del nuovo incontro con la felice visione onirica che brillò nei nostri occhi infantili, e che mai più rivedemmo nel corso

della nostra vita temporale. Per quanti mari pos-siamo navigare.L’isola è l’immagine della felicità, dell’utopia, la cui traccia inseguiamo senza sosta. È il mito (classico) di Atlantide o delle Isole Fortunate. Lo spazio cui diede il nome la prima utopia agli albori della modernità. Il porto verso cui naviga la nostra anima: «Notre ame est un trois- mats cher-chant son lcarie» (Baudelaire, Le voyage, 53).Rincontrare Ruggero. Canzoneri ha messo in-sieme le parti, i frammenti, e ci imbarca nella sua nave del tempo. L’itinerario dei Normanni in Sicilia. Un lampo di luce, che riduce il tem-po in mille schegge. Il ritorno all’isola ideale. Il viaggio, ripetutamente intrapreso, navigato. Come scrisse Baudelaire (Le Voyage, 17-18), «les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent\pour partir». Solo navigando senza meta, vagando unicamente in cerca della luce, superata la pro-va della tempesta, approderemo alle dolci rive dell’isola dei sogni.

Il muro del tempo, il viaggio di Ruggero nel Mediterraneo, 1131”, catalogo mostra, Cripta Cappella Palatina, ed. Agorà, Palermo, 1993.

APOCALISSEGabriella De Marco

Ciò che a mio avviso colpisce immediatamente, osservando quella complessa macchina che Mi-chele Canzoneri ha pensato e concretamente realizzato per le vetrate del duomo di Cefalù, è proprio - indipendentemente dalla qualità delle opere - il percorso di lavoro dell’artista.Affermo questo, consapevole di sacrificare spazio e commento alla pur imponente bellez-za delle vetrate, proprio perché mi preme sot-tolineare quanto anche l’arte contemporanea si nutra di una complessità, di una capacità di sfiorare continuamente registri diversi che non può più essere ignorata. Complessità dell’im-pianto che l’intero ciclo di vetrate realizzate per Cefalù esemplifica magistralmente e che traspare, come ho appena scritto, proprio at-traverso il procedere dell’artista. Un procedere che definirei “ellittico”, perché difficilmente riconducibile a facili schemi, a tracciati intuibili e, a mio avviso, assimilabile nel suo percorso di definizione dell’opera (intesa qui come l’intero ciclo di vetrate ideate per il Duomo) ad una sor-ta di navigazione a vista.A me pare, infatti, che Canzoneri non apparten-ga a quel folto gruppo di artisti il cui fare in senso tecnico si può ricondurre ad un univer-so unicamente “progettuale”: ossia a quel folto gruppo che prima ancora di iniziare un’opera

ne definisce esattamente i contorni delineando concettualmente la natura del territorio da at-traversare.Canzoneri, piuttosto, sembra inserire, assecond-are, una libertà inventiva, immaginativa che, pur non negando la complessità dell’impianto d’in-sieme, lo pone felicemente e fortunatamente, al riparo di prevedibili e inossidabili schemi. Infat-ti, appare chiaramente proprio dall’insieme dei materiali realizzati e quindi sia dalle vetrate sia dalla moltitudine di appunti, riflessioni, fogli, bozzetti, diari di lavoro e quanto altro l’artis-ta abbia “accumulato” in questo lungo arco di tempo, un percorso formale e intellettuale di notevole coerenza e continuità.Una coerenza che non va tuttavia ricondotta ad un’esatta simmetria delle parti, ad una prevedi-bile rispondenza tra ogni disegno, tra il singolo progetto e l’opera poi realizzata. Al contrario, è proprio su questa mancanza di simmetria tra il lavoro preliminare ed il prodotto finale che affiora, come dato interessante, la complessità e l’imprevedibilità del fare artistico di Michele Canzoneri.Se, infatti, come è certo, la realizzazione delle vetrate è stata la meta, è altrettanto vero che il percorso che ha condotto al conseguimento di questa sia divenuto, nel tempo, libero territorio di sperimentazione, affascinante pretesto per ri-flessioni, divagazioni su temi e aspetti importan-ti della storia dell’arte. Molte, a questo proposi-to, le pagine che si potrebbero scrivere intorno all’intervento di Canzoneri per Cefalù: dal rap-porto ineludibile, e certo non più consueto, con l’iconografia religiosa (il cui elaborato teologico spetta a Mons. Valenziano) alla riflessione cos-tante sulle ragioni della liturgia con il necessario dialogo dell’arte, nella direzione del sacro. Ra-gionamenti che hanno spinto l’artista a definire il senso del proprio lavoro per Cefalù non come arte sacra ma con maggior pertinenza arte per la liturgia. Si pensi, ancora, alla riflessione attualis-sima (ed in questo caso strettamente collegata anche ai precedenti aspetti) sullo spazio, sull’ar-chitettura e con esso sull’idea di pittura, di dec-orazione; sull’interpretazione stessa della vetra-ta e del dialogo, inevitabile, con la storia. Cos’è, infatti, una vetrata posta all’interno di un edifi-cio religioso? Il corrispondente su vetro di una parete dipinta? Una preziosa finestra colorata o,

opere, come avverte Bussotti, si possono de-finire iridescenti, cangianti come il barocco gioioso. Realizzati con gabraster (resina) aria e vetro (materia cui ha dato il nome di GAV) gli scenari, variando secondo le luci, assumono aspetti di sogno di eccezionale bellezza. Da un canto Canzoneri continua a disegnare minute immagini di poesia, talvolta nette, talvolta si-mili a gocce di sangue che scorrono sulla per-gamena, o anche come luminosità penetrate dalla grazia di un dio, che filtrino attraverso cu-muli di nuvole. Dalla metà degli anni ’70 tema frequente delle opere di Canzoneri diventa il Mandala la resurrezione dalla morte descritta 49 giorni dopo la morte dal Bardo (condizione intermedia dell’esistenza) il “libro dei morti” del Tibet, il Bardo Thödol. Penetrando a fon-do nella natura temporale e storica della perga-mena, della carta antica, del papiro, dà vita ad immagini che sono simboli, partiture grafiche, calligrafia poetica, raggiungendo un’autentica purezza di espressione. Mi ricorda quello che scrisse una volta il critico Takiguchi Shuzo in-torno all’origine delle immagini indecifrabili e dei simboli (sono scrittura? Sono disegno?). In ogni caso queste opere raffinate che si colloca-no nella tradizione del manoscritto palinsesto e scavano il tempo e lo spazio, suscitiamo senza dubbio l’ammirazione di molti giapponesi ed io mi auguro che non solo artisti, poeti, musici-sti, calligrafi, ma persone di tutti i ceti vengano a vederle.

Canzoneri, catalogo mostra, Galleria Nagay, Tokyo, 1984.

LA NAVE DI RUGGEROJosé Jimenéz

«Ma solo navi munite di remi m’erano care» (Odissea, XIV, 224)

Rincontrare Ruggero. Se l’ala, in cerca di luce, aveva trasportato Canzoneri, alato predatore del desiderio, in alto, verso il cielo fulgente, ver-so il sacro verbo materializzatosi nelle vetrate di Cefalù, il viaggio dell’incontro ci conduce a gravitare verso le origini. Verso l’itinerario. Normandia in Sicilia. Come un volo sul mare, come un destino ineluttabile nel territorio as-sorto dell’isola.Il segno sconfigge il tempo. Rivela il suo segre-to nascosto nei sotterranei del Palazzo Reale di Palermo. Fra le muffe dei muri, nelle tenebre di un’oscura probabile prigione, una mano vola. Un cuore marinaio vuole ripercorrere l’impossibile mare della sua nostalgia.Questa mano ci porta in volo. Ci conduce attra-verso il tempo. Ci fa conoscere la forma della nave normanna. La stessa che ricompare come Arca di Noè, in un capitello del chiostro di Ce-falù. La nave è, sempre, un’immagine dell’ide-ale. Non stupisca, quindi, la sua affinità icono-grafica, in epoca medioevale, con la casa, con l’edificio. La nave è un prolungamento del fo-colare domestico, della terra natale, fra le onde sinuose del tempo e dello spazio. Nell’universo dell’ignoto.Conosciamo la leggenda. Solcando il mare tra Salerno e Reggio, la nave di Ruggero è coin-volta in una terribile tempesta. Il re normanno invoca il Salvatore, e gli promette di erigere un Tempio proprio sulla spiaggia alla quale la nave fosse approdata. La supplica viene raccol-ta. Appena finisce di parlare, il cielo torna sere-no e il mare tranquillo.Il giorno della Trasfigurazione del Signore, fra cantici di lode e di esultanza, Ruggero sbarca con i suoi uomini a Cefalù. E con lo scettro misura il terreno sul quale sorgerà il Tempio. Il viaggio per mare, oltre lo sconvolgimento dell’inevitabile naufragio, ha condotto non solo alla salvezza materiale, ma anche a quella dell’anima.L’evocazione del mistero cristiano della Trasfi-gurazione di Gesù accentua il simbolismo della

leggenda. La teofania, che secondo la tradizio-ne ha luogo sul monte Tabor, e alla quale as-sistono Pietro, Giacomo e Giovanni, consente una visione anticipata, in questo mondo, del regno di Dio.Mentre si diffonde la voce del Padre: «Ecco il mio figlio prediletto», lo splendore di Gesù te-stimonia l’avvento della luce vera sul mondo. La luce che illumina ogni uomo. La luce sfavil-lante che i giusti irradieranno nell’accedere al regno del padre.Il Tempio rappresenta la Chiesa, la comunità dei credenti; ma anche, in quanto casa di Dio, una nave, che ci consente di scampare alle tem-peste del mondo, che ci trae in salvo dai cupi abissi. Che racchiude in sé l’essenza, la presen-za della luce. E la irradia su tutti gli uomini che serbano puro lo sguardo.

Come il marinaio chiuso nella cripta Canzo-neri è catturato. Dalla luce del Duomo di Ce-falù: «sono come prigioniero del Duomo e del-la sua luce», ha detto. E ancora: «mi sento un naufrago».Questo naufrago della luce si è avventurato in un viaggio nel tempo. In realtà, ogni viaggio è viag-gio nel tempo, non solo nello spazio. Perché l’esperienza della conoscenza, che andiamo

facendo nel viaggio, spezza l’idea ingenua di se-quenza, di tempo lineare. Nel viaggio, il tempo esplode in un lampo. E il susseguirsi dei giorni, o delle tappe, si fa intenso e fluido come l’ac-qua.Eppure, nel ricreare il viaggio di re Ruggero, la nave che scampò al naufragio e conquistò la luce, Canzoneri restituisce ai nostri giorni se-gnati dalla fretta e dalla superficiale fugacità il quesito fondamentale di ogni viaggio. Quello che ci fa seguire la scia del destino, che lo fa coincidere con lo specchio concavo della morte.Tornare a Ruggero vuol dire navigare nel tem-po. L’immagine ideale della nave normanna, che già dal muro si trasfigura grazie al frottage, è netta e presente, nella sua forma sensibile o spirituale, in ogni opera della mostra.I grandi fogli di documenti notarili del XVIII secolo, incollati l’uno all’altro, i dischi di cera-mica, le pergamene del XV e XVI secolo quasi cucite tra loro, gli elementi di zavorra, le staffe di fusione, il grande foglio a scacchiera che reg-ge i pesi. Sono tutti testimoni della sopravviven-za, elementi impregnati della luce di altri tempi che Canzoneri ha salvato dal naufragio.Per fare questo, ha dovuto emulare Ruggero. In-vocare con lo scettro la costruzione dello spazio di luce. Lo scettro: ottone, niello, oro, lapislaz-zuli e smalti, che invoca la trasfigurazione dei metalli. L’origine della luce.I fori e i tagli delle pergamene, il colore dei fogli incollati con le trasparenze e le sfumature dei segni e delle immagini presenti e, in particolare, l’uso del niellato nella realizzazione dei dischi e dello scettro, lasciano indovinare un rapporto profondo tra l’opera di recupero e le tecniche usate da Canzoneri.I quattro pesi, distribuiti sul grande foglio-scac-chiera, rappresentano l’allegoria del destino: non abbiamo mai una visione completa della scac-chiera, data la frammentarietà della vita indivi-duale che si dilegua nel tempo. I quattro pesi (schegge del tempo): una pietra dell’XI secolo, un frammento di ceramica, un frammento d’ar-gento ed un frammento d’oro (nel 1986 fu reso noto il ritrovamento, sempre nei sotterranei del Palazzo Reale di Palermo, di alcuni rari pesi pale-stinesi d’oro e d’argento, dei secoli VII-VI a.C.).Siamo distanti anni luce da una concezione commerciale dell’arte. Da un processo di pro-

Sylvano Bussotti e Michele Canzoneri La clemenza di Tito, Teatro Massimo, Palermo, gennaio 1981

Duomo di Cefalù, montaggio dell’ultima vetrata dell’Esamerone, 1990. Foto Carla De Gregorio

Sylvano Bussotti, partitura, 1975

Francesco Pennisi, Partitura, 1996

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i testi, l’artista, da sempre interessato ai mate-riali trasparenti, ha intrapreso la realizzazione delle vetrate. I materiali adoperati: vetro acrili-co, vetro soffiato e pigmenti, il tutto montato su telai di acciaio dalle misure variabili a seconda dei cicli. Il sottofondo da cui le vetrate nascono è dato dalla trama tematica sviluppata da Mons. Valenziano, vero e proprio custode della storia e dei significati della cattedrale, nonché ispira-tore degli altri interventi artistici, svolti all’in-segna del più assoluto rigore e nel rispetto della dottrina e dell’estetica.

L’insieme delle 72 vetrate ed il programma iconograficoIl sistema tematico che dà vita alle vetrate si compone di più cicli: ciclo dell’Esamerone, com-posto dalle 14 vetrate situate negli intercolumni della navata centrale; ciclo degli Atti degli Apostoli, composto dalle 18 vetrate situate nelle navate laterali (storie di Pietro nella navata nord, 9; sto-rie di Paolo in quella sud, 9); Apocalisse, svolto attraverso le 16 vetrate situate nel transetto; ciclo delle Grandi Feste, 8 vetrate situate nelle tre absidi, nella protesis e nel diaconicon; vetrata del Giudizio, collocata nel prospetto principale; 17 vetrate atematiche. I diversi cicli si riferiscono dunque ai corrispondenti temi iconografici e presenta-no ognuno una propria cifra formale, eppure il motivo costante è rappresentato dal confronto con la luce: è da questa che le opere di Can-zoneri prendono origine ed è secondo il gioco di ombre e trasparenze che i registri cromatici e formali illustrano i soggetti delle storie sacre. Il tutto, in sintonia e nel rispetto di quanto esiste già: la struttura architettonica, gli straordinari mosaici bizantini situati nell’abside che ancora una volta alla luce si rivolgono, le figurazioni ad affresco ed encausto. Materiali figurativi che vogliono esaltare la trascendenza divina e la manifestazione del sacro. E’ da ricordare inoltre che la vetrata posta in coincidenza dell’abside maggiore è dedicata alla Trasfigurazione, cele-brazione del 6 agosto e giorno della massima luminosità. Ulteriore elemento che sancisce la creazione del duomo nel segno della luce.

Apocalisse, Opere per il duomo di Cefalù,catalogo della mostra, Museo RISO, Palermo, Arnaldo Lombardi Editore, 2002.

DIARIO DI VIAGGIO, DIARIO DI BORDOJoselita Ciaravino

«La distanza, qualunque essa sia, è pur sempre concepibile: se breve, è preda dello sguardo, se incommensurabile, è preda dell’immaginazi-one». Questa mostra e le opere che vi si presen-tano, nascono da un viaggio. E mi viene da pen-sare, seguendo la frase di Edmond Jabès, che il viaggio verso delle “distanze” sia esperienza di creazione e di immaginazione per eccellen-za, ancor prima che di scoperta. Forse, non c’è apprendimento senza un po’ di fantasia, ed è per questo che si mette sempre in valigia un quaderno, un diario di bordo che ci accompag-ni lungo il percorso e che sia traccia di quel che si incontra, salvo poi trasformarsi in strumento per tutte le deviazioni possibili. Invitato dal Ministero alla Cultura della Repub-blica siriana, nel luglio del 2003, Canzoneri ha tenuto un work shop per gli studenti degli Isti-tuti d’Arte di Damasco ed Aleppo. Il soggiorno è stato entusiasmante, un’esperienza di studio e di indagine visiva che ha portato l’artista a con-frontarsi con una luce diversa, con un paesag-gio naturale ed urbano che ha innescato nuove ricerche. Il programma di viaggio lo ha portato a sostare dapprima ad Aleppo, per poi proseguire a Damasco. Altre tappe fondamentali sono state Bosra, Palmira, ed Ebla. Tra siti archeologici e luoghi ancora pulsanti di vita, il viaggio si è snodato all’insegna dell’inevitabile confronto con una storia millenaria. Le città, il loro tessu-to fatto di pieni e di vuoti, mihrab e minareti, colori, dettagli di forme, i segni della scrittura e delle decorazioni, e poi l’apertura dei paesaggi, volti e persone, tutto trova spazio da qualche parte nel diario che ha accompagnato il viag-gio. Non solo luogo depositario di memorie ma strumento quasi di verifica, l’insieme dei fogli è diventato il mezzo su cui misurare lo sguardo su città e deserti, attraverso cui mettere a pun-to una sorta di trasfigurazione dei luoghi. Dai fogli emergono segni, lasciando intrecciare la grafia occidentale con quella orientale (i fogli di cui si compone il diario di Canzoneri sono di carta antica del ‘700 e dell’800). Sono segni che diventano scrittura, e Canzoneri annota a mar-

gine appunti e riflessioni, per poi fare spazio a disegni. «Fate delle linee, non fate passare gior-no senza esercitarvi nelle linee», diceva Ingres, e le linee sono solo l’inizio di numerosi appunti visivi, poi ripresi e compiuti, in altri tempi ed in altri luoghi ancora.In particolare, è l’incontro con Ebla che si pone all’origine della mostra. Ebla, città millenaria, ha da sempre esercitato un forte richiamo su Canzoneri. I resti della città, delle sue architet-ture, si presentano come oggetti del quotidiano contemporaneo. La pietra, il mattone, è l’unità minima da cui prende inizio questo viaggio, perché non solo all’origine della città che non esiste più, ma anche del percorso di un artista che realizza delle “pietre” a immagine e somiglianza

delle antiche. Usando i materiali a lui propri, vetro acrilico e vetro soffiato, nascono degli oggetti che sembrano fatti d’argilla e di paglia (come gli antichi mattoni), con inediti giochi di trasparenze ed opacità. “Mettere la prima pi-etra”, “la pietra angolare”, la pietra è la metafora di un inizio e di una fondazione. La pietra di Ebla, che è anche la pietra di Damasco, di Alep-po e delle altre città, richiama il gesto inaugura-le, e richiama qui, con i suoi segni acquosi e le sue venature, anche il gesto della prima scrittu-ra, del primo libro. «La vita è fatta di nulla, nomi scritti sull’acqua», scriveva Grazia Deledda.Come fosse una sorta di viaggio a ritroso, un modo per tornare verso la storia con materiali

e procedimenti tutti contemporanei, Canzoneri immagina altre “fondazioni”: sono le città che si stagliano (e un po’ si disegnano) nelle sculture che prendono il nome di Damasco, Aleppo, Palmi-ra, La città celeste. Come dei libri aperti, insieme elementi autorevoli e rigidi, queste città evoca-no sky line e dettagli di visioni urbane, paesaggi ed architetture invisibili, ed uniscono in un’uni-ca soluzione il richiamo al luogo della scrittura - il libro - con quello della fondazione - la città.Non è la prima volta che Canzoneri si confronta con la scrittura, con antiche civiltà e con l’ar-chitettura. Né tanto meno con il tema del viag-gio. Durante gli anni di lavoro per le vetrate di Cefalù, è l’incontro con la figura imponente di Ruggero II, re normanno che la leggenda vuole all’origine dell’edificazione del Duomo. E Ruggero viaggiava da Salerno verso Palermo, quando la sua imbarcazione scampò il naufra-gio. Ne viene fuori la mostra Il muro del tempo, presso la Cripta della Cappella Palatina di Pal-ermo (1992). Nel 1993 è Argento (Milano), una serie di opere che dialogano con la Pietra Nera di Palermo (Museo Archeologico A. Salinas), uno dei frammenti risalenti alla V dinastia egi-zia disseminati in altri musei del mondo, e su cui sono riportati eventi per circa 600 anni di storia. Sempre nel ‘93, Canzoneri realizza Linea d’ombra, stanza d’artista dell’Atelier sul mare di Antonio Presti. Ispirata all’omonimo romanzo di Conrad, ancora una volta storie di mare e di viaggi. E nel ‘98 è la mostra Lo spazio è la luce più sottile (Palazzo Steri, Palermo), variazioni sul tema della pianta del Duomo di Cefalù.Nelle opere di oggi, scrittura, tracce dell’anti-co ed architettura, sembrano intrecciarsi in un unico grande tema - un unico grande viaggio -, creando incastri e variazioni. Così, la scrittura si fa disegno e le architetture diventano scritture minute e preziose, non importa se il segno è fat-to di resina e non è disteso su un foglio; l’antico si imbatte nel contemporaneo ed i materiali di oggi mimano quelli di un tempo; il libro si fa oggetto, e la pietra, il mattone, appare come un foglio trasparente di ricami, una pagina leggera in cui immaginare chissà quale resoconto di viaggio.

Pietra di Damasco, catalogo mostra, Loggiato San Bar-tolomeo, edizioni Provincia di Palermo, 2004.

come invece Canzoneri sembra suggerirci, essa stessa fonte di luce?Questi, quindi, alcuni degli aspetti presenti nelle opere realizzate per il Duomo di Cefalù (certamente poi approfonditi in sede di catalo-go) e che rivelano già ad un primo approccio la vitalità dell’intero progetto e più in generale dell’intero progetto rispetto non solo al contes-to specifico della Sicilia ma in relazione al più ampio ambito dell’arte contemporanea.È da tempo ormai che le tendenze più aggior-nate dell’arte contemporanea hanno recupera-to il rapporto tra arte e architettura sollecitato, in particolare, proprio dal contatto con l’an-tico, attraverso l’intervento pensato apposita-mente per l’edificio del passato. Le vetrate re-alizzate per Cefalù, pur inserendosi nel solco di questa direzione, costituiscono un ulteriore e importante passo avanti. Il rapporto con l’arte e l’architettura del passato e quindi concreta-mente con le fonti, con le radici della nostra storia è coraggiosamente risolto mediamente un progetto che, diversamente da quanto oggi spesso si vede, si propone non come intervento effimero, transitorio, ma come definitivo. Non quindi installazione temporanea, molte volte ridotta a semplice accostamento tra le ragioni del nuovo e dell’antico, ma opera contemporanea destinata a restare.Una sfida difficile, questa delle vetrate, proprio perché il lavoro di Canzoneri continuamente rischiava o di essere invasivo, pleonastico rispetto al delicato quanto consolidato equilib-rio del Duomo o viceversa di essere esso stesso fagocitato dalla magnifica imponenza di quello spazio e che invece, attraverso un sapiente la-voro di equilibri e “rotture”, l’artista ha risolto efficacemente.Sarà poi il tempo, come ben sapevano gli ar-tisti del passato, a dirci quanto il ciclo nella sua interezza, entrerà a far parte pienamente dell’equilibrio composito del Duomo di Ce-falù.

Come una fabricaCome un’antica cattedrale medievale, il Duo-mo di Cefalù si erge nel nostro presente come luogo straordi nario d’incontro e sperimentazi-one, luogo in cui il sacro abbraccia l’arte. E’ questo il senso dell’operazio ne odierna, il sig-

nificato di una mostra che ci conduce alla sco-perta di due autori contemporanei che all’in-terno di questo luogo hanno operato, Michele Canzoneri e Virginio Ciminaghi, rispettiva-mente autori del ciclo delle vetrate e dell’altare (attualmente sono in corso d’opera la realiz-zazione dell’ambone e della porta d’ingresso). Soprattutto, l’esposizione allestita all’interno del Duomo vuole essere occasione di conoscen-za di uno dei capolavori dell’arte e dell’ar-chitettura italiana, lasciandolo percepire come sommo cantiere, teatro di rappresentazione li-turgica ed iconografica: quella che sta all’origi-ne dell’abbraccio tra antico e con temporaneo. Come tale la mostra, allestita nel braccio sud del transetto, consente di stabilire un’interes-sante relazione tra opera preparatoria ed op-era conclusa, aprendo così l’affascinante iter di studi e boz zetti ad una prospettiva più vasta e dando quasi forma ad una mostra all’interno di una “mostra”. L’evento rappresenta una sorta

di approdo, un avvicinamento alla conclusione di un percorso ambizioso, quello intra preso con i lavori di restauro della cattedrale e con l’originale innesto d’arte contemporanea real-izzato al suo interno. Un progetto fortemente voluto dalla Soprintendenza dei Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, sviluppato nelle sue valenze estetiche e teologiche da Monsignor Crispino Valenziano, ed oggi fruibile dai visita-tori grazie anche a questa occasione di appro-fondimento e di studio.Il Duomo e le sue caratteristicheLa Cattedrale di Cefalù rappresenta uno dei capolavori dell’architettura italiana, un esem-pio tra i più signi ficativi dell’arte normanna in Sicilia, oltre che esperienza culturale a tut-to tondo nata dall’incrocio di influenze arabe e bizantine. Il Duomo, edificato da Ruggero II intorno al 1131, in quella che era allora la nuova sede del potere vescovile, la cittadina Kephaloidon, sanciva il nuovo potere conferito

alla città e ne sottolineava la valenza strategica, dovuta al sito costiero.L’edificio, caratterizzato da un impianto ba-silicale con aula tripartita e tetto ligneo, cos-tituisce un vero capolavoro dell’arte del XII secolo. Presenta un forte slancio in altezza e si sviluppa, per la planimetria fortemente sim-metrica, secondo un asse longitudinale di rifer-imento. Preludio del gotico, il duomo è stato concepito nel rispetto del simbolismo della liturgia cristiana: questa si pone all’origine del-la scelta del sito - il pendio della rocca - e della collocazione lungo l’asse oriente-occidente. La cattedrale infatti è dedicata all’evento della Trasfigurazione e per questa ragione si rivolge alla luce dell’oriente. La diffusione della luce all’interno del Duomo costituisce un momen-to di fondamentale importanza in nome delle ragioni della liturgia, ma anche in funzione dell’architettura che sembra svilupparsi sec-ondo il ritmo con cui i fasci luminosi penetra-no e abitano lo spazio. Elemento essenziale è, nelle grandi cattedrali del Medioevo, la vetrata: essa svolge la funzione di rendere manifesto il discorso teologico, coniugando il sacro alle norme ed alle scelte dell’estetica. La luce viene infatti assimilata dal Cristianesimo alla persona divina e sono proprio le vetrate che la “plasma-no” e le conferiscono forma attraverso i colori. Eppure, secondo il progetto originario, il Duo-mo non prevedeva vetrate. Nel corso dei seco-li le finestre furono forse chiuse da transenne plumbee alla maniera araba e poi sostituite da vetri opachi dal motivo geometrico.

L’incontro con l’arte contemporaneaSi sono dovuti attendere gli anni della contem-poraneità perché i lavori di restauro ci riconse-gnassero un Duomo rinnovato e perfettamente fruibile, svolto ad opera della Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Paler-mo, e perché le finestre trovassero una nuova sistemazione. Tra il 1986 e il 1990 sono state in-fatti installate le prime 32 vetrate della navata centrale e delle due laterali, realizzate da Can-zoneri in una prima fase dell’impegnativa com-mittenza ancora in corso. Dopo anni di studio, dopo avere osservato con attenzione il variare della luce all’interno dello spazio architettoni-co e dopo essersi relazionato con il luogo e con

Michele Canzoneri in una soffieria a Damasco durante il suo workshop all’Accademia di Belle Arti, 2003. Foto FAISAL

Giuseppe Tucci, Telegramma, 1978

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NOVA ET VETERACrispino Valenziano

In questi ultimi anni, da quando l’artista ha iniziato ad elaborare quelle vetrate che adesso assommano a 42 nel giro della Cattedrale, con molta attenzione ho sentito commenti e raccol-to percezioni. E mi sono accorto che coglie il senso chi nell’operazione scorge non soltanto l’invito rivolto alla luce a farsi architettare ma s’accorge pure della sua doppia formatività auspicata e prodotta: nel qualificare l’architet-tura ruggeriana del Duomo mediante una luce “operata” e nel qualificare insieme la stessa luce mediante la Parola in essa “impressa”. I bambini si dimostrano emblematici d’ottimale “critica d’arte”: leggono tutti la semplicità dell’astratto che sfugge a certe cataratte maturate e godono tutti la complessità del colore che confonde cer-te retine in distacco…Pochi monumenti si sono illuminati provan-do e riprovando così durante la loro diacronia come la Basilica cefaludense, e le molte prove non hanno combaciato con la nostra sincretica edificazione, pure a motivo delle variazioni pro-gettuali e delle attuazioni incompiute.L’attuale “prova” disvela però le intime coeren-ze del monumento ed è perciò da valutare raf-finatamente. L’osservazione fu di F. Zeri; io mi limito ad esplicitare: l’attuale “prova” disvela le intime coerenze “culturali e teologiche del Duo-mo basilicale”. Non scrivo per la prima volta che gli inserti nar-rativi vetrati di Genesi, Atti degli Apostoli, Apo-calisse, e celebrativi delle “grandi feste” rituali, fanno con l’interno della Cattedrale uno scam-bio ammirevole tra la figuratività parietale e la scansione illuminante che sarebbe stata ma non è stata, eccetto che nell’abside e nel prolunga-mento del bema: adesso è stato affidato di “im-maginare” la iconicità alla luce gemmificata ed è stato affidato alle pareti aniconiche di “ritmar-ne” la composizione “iconica”; il contrappunto per moto contrario che erompe è, sì, totalmente ricercato ma prezioso della sinfonia modale al-trimenti irraggiungibile.Scrivo invece per la prima volta che gli inserti fi-nalmente non condizionano l’esterno della Cat-tedrale ma ne rispettano anzi esaltano i registri

con sabbiata patinatura continua; l’alternanza interno-esterno che ne risulta è, sì, sfuggente ma insinuativa qui della idealità edificatoria, pe-raltro incompiuta per sempre.Io so che l’operazione culturale poietizzata con le vetrate (e con gli svariati recuperi e le molte-plici acquisizioni) in corso d’opera nel Duomo di Cefalù tocca molti aspetti estetici, e pertanto è operazione da apprendere, analisi su analisi, per comprenderne forma su forma. Ma so pure che essa recepisce e tramanda a nostra volta la creatività estetica e poietica che la nostra tradi-zione artistica, teologica e liturgica, ha sempre perseguito in via di nova et vetera, la cui oblite-razione annullerebbe colpevolmente la sincro-nia di connaturalità storica e utopica che alla tradizione culturale ecclesiale è propria.

Apocalisse, catalogo mostra, Palazzo Belmonte Riso, Pa-lermo, novembre 2001.

CAMPI DI BATTAGLIA DEL TEMPORemo Bodei

Il tempo della memoria parla, lasciando all’o-blio la sua assenza e alla caducità e all’acciden-talità i loro diritti. Ci troviamo in un campo di battaglia in cui le tracce non soccombono di-nanzi agli assalti del tempo, ma lo avvolgono e lo inglobano, favorendo la sua sedimentazione, per farlo poi enigmaticamente riemergere in frammenti di scrittura e in segni che ricoprono altri segni.Nello spazio di antiche carte imbevute di colo-re, nelle opere esposte di Michele Canzoneri la scrittura riemerge lentamente alla superficie, lottando. Sotto la superficie della copertina dei dossiers o della prima pagina, raccolti in fascicoli, questi fogli ci fanno immaginare altri mondi da scoprire. Stratificati come il konvolut che avvol-ge gli antichi papiri incollati e compressi usciti dalle sabbie del deserto egiziano, essi mostrano il dorso delle cose, ma celano il loro interno. In essi il passato riaffiora nella sua complessità irri-ducibile al presente. Non si concede, infatti, per intero, resta una riserva di senso, un carico di questioni non ancora decifrate.Ritorna quella fascinazione del deserto e delle civiltà di mattoni e argilla in esso custodite che era stato mostrato dall’artista, nel 2004, in La

pietra di Damasco, dove abbondano i dipinti dai colori tenui, sabbiosi, con prevalenza del giallo e del marrone e tocchi di azzurro spento. Una dichiarazione di modestia, anche di fronte alla rappresentazione delle rovine di antiche civiltà quali Ebla. O, altrove, quale umile testimonian-za di fronte allo spettacolo dei monasteri del Sinai.Questi lavori, si parva licet, ricordano i fogli dei codici leonardeschi, così densi di scrittura e im-magini minute, quali idee o promemoria, modi di rinviare a esperienze e a esperimenti possibili. L’effetto è quello di accennare ad architetture di significato appena intraviste, ma che conti-nuano a ondeggiare in noi, a crearsi, a disfarsi e a rovesciarsi come accade, appunto, nei mirag-gi, nell’aria surriscaldata dei deserti.In Konvolut si inserisce una gamma di colori più splendenti, un rosso deciso e variazioni di inda-co, ma compaiono anche i contrasti sfumati di nero e bianco, in forma di una specie di aghi orizzontali o di una strada simile a un meandro che, pur separando simbolicamente il male dal

bene, contempla limitate enclaves di bene nelle zone destinate al male, come a voler segnalare l’incertezza delle linee di confine e la speranza che le tenebre non prevarranno.Nel dipanarsi delle linee di sbiadita scrittura, nelle colate di colore composte da filamenti e pigmenti di vetro acrilico e soffiato e da re-sine, nelle teche di plexiglas, nei “dialoghi con la luce”, si rivela la ricerca del sacro, che non si manifesta però nelle vesti dello spaventoso e paralizzante numinosum, del Rex tremendae maie-statis, ma in allusioni a un’alterità che tuttavia è presente, a un invisibile cui si può giungere attraverso lo stretto varco del visibile.

Michele Canzoneri, Konvolut, Biblioteca infinita, Fabbri-che Chiaramontane, Agrigento, Silvana Editoriale, Milano 2010.

LE BIBLIOTECHE DI CANZONERISalvatore Silvano Nigro

Canzoneri è un imbalsamatore di carte. Recupe-ra fogli dissipati dal tempo, fogli morti. Li tratta come corpi sacri. E li sottrae alla caducità della morte, per consegnarli alla rinascita artistica: al tempo dell’arte. Fa emergere dalla superficie delle carte, enigmatiche scritture, geroglifici, segni di luce. Inscena palinsesti illusori. E fa che il singolo foglio diventi l’equivalente di quelle lastre in vetroresina, dentro le quali l’artista usa la luce come fosse il pennello di un magico scri-ba orientale che nell’aria disegni l’alfabeto figu-rato di una lingua arcana. Canzoneri assembla intere biblioteche immaginarie su fogli di carta disposti nei corridoi, nelle architetture, nei labi-rinti suggeriti dagli incorniciamenti. Di queste biblioteche Canzoneri è l’architetto e il custo-de. Lo stampatore unico, anche. È l’amanuen-se, che nei vivagni delle pagine fa precipitare la scrittura nelle postille enigmatiche a un ipoteti-co testo fatto di luce. Ogni foglio è una biblio-teca in compendio. Ogni sistema di fogli incor-niciati è una biblioteca universale, nella quale la storia tutta, umana e geologica e astronomica, si abbrevia in letteratura portatile. Canzoneri è uno scultore. Concepisce la tipografia come arte di scolpire la lastra. Così come concepisce l’aria quale carta immaginaria da scolpire con il laser della luce. Una vetrata di Canzoneri è un intero

libro della Creazione, un De rerum natura, un libro aereo che per luminosi geroglifici raccon-ta tutta una teogonia. Ogni lastra è una biblio-teca che contiene tutte le possibili biblioteche immaginarie.Le biblioteche di Canzoneri occupano spazi im-maginari. Nel piccolo contengono il massimo. Nel particolare contengono l’universale. Sono spazi percorribili, quelli che Canzoneri evoca dentro e attorno ai fogli, sotto e sopra; percor-ribili con l’occhio e ancor più con la mente. Gli spazi si aprono nella luce, e la luce si declina nei vari colori che le carte stesse trasudano, secerno-no, sgrondano; e alla fine riassorbono e mine-ralizzano. Le biblioteche di Canzoneri sono dei sacrari. Custodiscono reliquie. Corpi sacri, che hanno la consistenza antica di pergamene. Den-tro queste biblioteche ci si muove felpatamen-te, come dentro ipogei. Crediamo di andare in pien’aria. E invece scendiamo. Scendiamo giù. Fin sotto le piramidi del tempo. Verso le celle sacre, segrete, profonde.C’è qualcosa di sacro nelle scritture enigma-tiche di Canzoneri, nelle Cattedrali che egli ci finge. Forse, semplicemente Canzoneri è un Er-mete spicopompo. L’officina nella quale lavora è un’aiuola selvosa, dentro la quale le carte con-vivono con le vetrate; e con degli aerei cavalli monumentali, auroralmente attraversati dalla luce. Sono cavalli corruschi, quelli di Canzone-ri. Scalpitano. Sono pronti al trotto. O al volo. Non si sa però se portino in alto o verso il basso. Sospetti sono i riverberi rossi. L’ aurora è una mano rubescente, tra la luce morente del crepu-scolo e quella risorgente del sole.Canzoneri è uno scenografo, l’apparatore di spazi che esistono solo perché esiste la luce che li inventa. Le carte diventano, in questi spazi d’invenzione, pareti, cortine; e anche targhe, non si sa a che cosa appese: targhe commemo-rative, forse, o devote. Dietro queste targhe c’è di certo una memoria. E un culto. Forse tutto si è cancellato dentro i solchi luminosi della scrittura, Ma la cancellazione è pur sempre una presenza. Attesta che qualcosa c’era, prima; qualcosa che ora non c’è. L’assenza si dichiara, però. Esiste, quindi. Canzoneri è un equilibri-sta sospeso sul nulla, che è un vuoto parados-salmente pieno di una memoria fattasi nebbia, polvere di luce. L’alchimia di Canzoneri ha po-

teri illusionistici. Tanto da tramutarsi in glittica. Del resto Canzoneri è pur sempre uno scultore. E la materia che egli tratta è indubbiamente pre-ziosa. Le teche di Canzoneri impaginano lapi-dari. Sono enciclopedie glittografiche. Quante sono le biblioteche di Canzoneri? Tante quante l’universo può memorizzare. Tante quante, poi l’artista può sfogliare con il dito: libro dopo li-bro, pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, parola dopo parola; all’infinito.

Michele Canzoneri, Konvolut, Biblioteca infinita, Fabbri-che Chiaramontane, Agrigento, Silvana Editoriale, Milano 2010.

Page 85: Michele Canzoneri. Opera completa 1984-2015

Finito di stampare nel mese di maggio 2015 per i tipi delle Grafiche Aurora di VeronaCarta

Woodstock Betulla 140 gr/mq, Symbol Matt Plus 170 gr/mq e Arcoset extra white 140 gr/mqTesti composti in

ITC New Baskerville e Akzidenz GroteskProgetto grafico di Leo Guerra

Redazione di Cristina Quadrio Curzio