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Astrid Lindgren

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MIO PICCOLO MIOTitolo dell’originale svedese:

“Mio, min Mio”Traduzione di Agnese Hellström e

Donatella ZiliottoEdizione Rabén & Sjogren,

StoccolmaCopyright 1989 Adriano Salani

Editore s.r.l., Firenze INDICE.Ed egli va traverso giorno e notteNel rosetoMiramisMusica per le stel eIl pozzo-che-al a-sera-bisbigliaNel Bosco del e TenebreGli uccel i stregatiNel Bosco Morto

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Il Fabbro di SpadeUn uncino di ferroLa notte del a fameMio piccolo MioEd egli va traverso giorno e notte.Qualcuno di voi ha forse ascoltato la

radio, il 15 ottobre del’anno scorso? Eha sentito che si cercava un ragazzoscomparso? Dicevano circa così:

«La polizia di Stoccolma ricerca BoVilhelm Olsson, di nove anni,scomparso dal a sua abitazione, in viaUppland 13, fin dal e 18 del ‘altro ierisera. Il ragazzo ha capel i castano chiari,occhi azzurri e al momento del a suasparizione da casa indossavapantaloncini corti color marrone,

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maglione grigio e berretto rosso. Siprega di voler comunicare al a polizialocale qualsiasi notizia sul oscomparso».

Sì, così. Ma non ci fu mai alcunanotizia di Bo Vilhelm Olsson. Eraproprio scomparso. E

nessuno ha mai saputo dove siaandato a finire. Nessuno. Tranne me.Perché Bo Vilhelm Olsson sono io.

Mi piacerebbe soltanto riuscire araccontare tutto almeno a Benka. Hosempre giocato con lui. Anche Benkaabita in via Uppland. Veramente sichiama Gengt, ma tutti lo chiamanoBenka. Come naturalmente nessunochiama me Bo Vilhelm, ma

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semplicemente Bosse.Cioè, mi “chiamavano” Bosse,

perché, ora che sono sparito, nessuno mipuò più chiamare in alcun modo.Solamente per la zia Edla e lo zio Sixtenero Bo Vilhelm. Per lo zio Sixtenveramente no. Non mi parlava mai.

Di zia Edla e di zio Sixten ero figlioadottivo. Capitai da loro che avevo unanno; prima vivevo in un orfanotrofio.Fu da lì che mi prese zia Edla. Leiavrebbe desiderato una bambina, ma inquel momento non ce n’erano. Cosìprese me. Ma i ragazzi, zia Edla e zioSixten non li sopportano; almeno nonquel i di otto-nove anni. Trovano chefanno troppo chiasso in casa e che

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portano troppo sudicio dal ‘aver giocatoal parco e che buttano i vestiti di qua edi là e che parlano e ridono troppo forte.Zia Edla amava ripetere che il giornoche avevo messo piede in casa loro erastato proprio un giorno nero. Zio Sixtennon diceva niente. Cioè, qualche voltasì:

«Ehi te, levati dai piedi, che se nonti vedo è meglio».

Il più del tempo lo passavo daBenka. Suo padre chiacchierava unsacco con lui, lo aiutava a costruireaeromodel i, faceva dei segnetti sul aporta di cucina per vedere quanto Benkadiventava alto, e cose così. Benka erapadrone di ridere e di parlare e di

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buttare i suoi vestiti di qua e di là quantogli pareva e piaceva. E suo padre glivoleva bene lo stesso. Poi, tutti i ragazzipotevano venire in casa di Benka agiocare. Da me nessuno, invece.«Figurarsi se voglio tutto ‘sto via vai»diceva zia Edla. Zio Sixten erad’accordo.

«Ci basta quel poco di buono cheabbiamo» diceva.

A sera, nel mio letto, desideravo avolte che il babbo di Benka fosse ancheil mio. E poi almanaccavo su chi potesseessere il mio vero padre e perché nonpotessi vivere con lui e con la mia veramamma invece che al ‘orfanotrofio edopo da zia Edla e da zio Sixten.

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Zia Edla mi aveva detto che lamamma era morta quand’ero nato. Chiera mio padre, questo non lo sapevanessuno, diceva. Ma era facileimmaginarsi che razza di mascalzonedovesse essere. Odiavo zia Edla quandoosava parlare così di mio padre!

Poteva anche essere vero che miamadre fosse morta quando io nacqui, ma“sentivo” che mio padre non era unmascalzone. E a volte, pensando a lui, aletto piangevo.

Una persona era gentile con me: lasignora Lundin, la fruttivendola. Miregalava dei dolci, o del a frutta,qualche volta.

Ora mi chiedo chi era mai la signora

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Lundin, in verità. Perché è da lei chetutto cominciò, quel giorno di ottobredel ‘anno scorso.

Durante la giornata zia Edla miaveva ripetuto parecchie volte che io leero capitato in casa per disgrazia. Poi,mancava poco al e sei, mi aveva detto difare un salto fino al a pasticceria diDrottninggatan per comperarle unaspecie di biscotti del a salute di cui eraparticolarmente ghiotta. Misi il mioberretto rosso e usci .

Quando passai davanti alfruttivendolo la signora Lundin stava sula porta. Mi prese per il mento e miguardò lungamente, in uno strano modo.Poi disse:

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«La vorresti, una mela?»«Volentieri» dissi.E lei mi diede una bel a mela rossa,

che faceva voglia.«Mi imbucheresti una cartolina, per

favore?» disse ancora.«Certo» risposi. Al ora scrisse

poche righe su un cartoncino e me lotese.

«Addio, Bo Vilhelm Olsson» dissela signora Lundin. «Addio, addio BoVilhelm Olsson».

Strano davvero: di solito michiamava sempre soltanto Bosse.

Corsi al a cassetta postale del rioneaccanto. Ma nel momento di imbucare lacartolina vidi ch’essa bril ava e

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risplendeva come un piccolo fuoco.Perché le lettere scritte dal a signora

Lundin s’intrecciavano luminose comelingue di fiamma. Non potei fare a menodi leggere.

“Per il Redel Paese Lontano.E’ per via, colui che hai così a lungo

cercato.Egli va traverso giorno e notte e reca

in mano il Segno: la Mela d’Oro”.Non afferrai una sola parola, ma una

strana sensazione di freddo mi invase.Mi affrettai a imbucare la cartolina. Chiera colui che andava traverso giorno enotte? E chi poteva recare in mano unamela d’oro?

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Qui lo sguardo mi cadde sul a melache m’aveva regalato la signora Lundin.La mela era d’oro. “D’oro”. Nel a miamano stava una mela d’oro.

Al ora mi venne da piangere. Nonpiansi, ma c’ero vicino. Mi sentivo tantosolo. Non c’era anima viva; tutti sen’erano andati a casa a mangiare. Cosìmi sedetti su una panchina.

Nel parco era già buio, epiovigginava. Ma le case intorno eranotutte il uminate. Anche al a finestra diBenka c’era luce. In quel momento stavacerto seduto a tavola a mangiare le suefrittel e coi pisel i, insieme al suo papà eal a sua mamma. Dappertutto,dappertutto dove una lampada bril ava,

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un bambino stava cenando con la suamamma e il suo papà, non riuscivo adimenticarlo. Soltanto io me ne stavoseduto lì fuori al buio. Solo. Solo conuna mela d’oro, del a quale non sapevoche farmene.

Tutto preso dai miei pensieri, avevodeposto delicatamente la mela sul apanchina. C’era un lampione, lì accanto,e la sua luce cadeva su di me e sul amela. Ma anche su un oggettoabbandonato per terra. Si trattava di unacomune bottiglietta di birra, vuotanaturalmente. Qualcuno le avevacacciato nel col o un tappo di legno.Probabilmente uno di quei ragazzini chevenivano abitualmente a giocare nel

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pomeriggio nel parco. Raccolsi labottiglia e ne lessi l’etichetta: «Birreriedi Stoccolma - Società per Azioni -seconda qualità». Ed ecco, propriomentre sto leggendo, mi accorgo che nela bottiglia qualcosa si muove.

In “Le Mil e e una Notte” si parla sìdi uno spirito rinchiuso in una bottiglia;ma avveniva nel ‘Arabia lontana,migliaia di anni fa, e poi non eracertamente una comune bottiglietta dibirra. Dev’essere rarissimo trovaredegli spiriti nel e bottiglie di birra del aS.p.A. di Stoccolma. Eppure lì ce n’erauno. Parola d’onore che nel a bottigliettac’era uno spirito. E

faceva anche capire chiaramente che

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voleva uscire. Additava il tappo dilegno e mi guardava con aria implorante.

Non avendo una gran pratica dispiriti, esitavo a levare il tappo. Ma poimi decisi e lo spirito si precipitò fuoricon un forte sibilo e cominciò acrescere, a crescere talmente che al afine fu più alto di tutte le case intorno.Così si comportano gli spiriti: possonorimpicciolire fino a rintanarsi in unabottiglia, e un attimo dopo possonoingigantire fino a raggiungere l’altezzadi una casa.

Nessuno può immaginare la paurache mi presi. Tremavo in tutto il corpo.

Al a fine lo spirito mi parlò; la suavoce era un rumoreggiare profondo, e

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pensai che avrebbero dovuto sentirlo ziaEdla e zio Sixten, loro che silamentavano sempre ch’io parlavotroppo forte.

«Fanciul o» mi disse lo spirito, «mihai liberato dal a mia prigione, e oraindicami tu stesso la ricompensa chedesideri».

Ma per aver tolto quel pezzettino dilegno pensavo proprio di non meritarenul a. Lo spirito al ora mi raccontò diessere arrivato la sera prima aStoccolma e che al a fine si erarincantucciato nel a bottiglia perdormire. Infatti per gli spiriti non c’èniente di meglio che una bottiglia, peruna buona dormitina. Ma, mentre era

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addormentato, qualcuno gli avevatappato l’uscita. E se io non l’avessiliberato, forse sarebbe stato costretto arimanere nel a bottiglia per mil e anni,finché il tappo di legno non fossemarcito.

«E il mio Signore non l’avrebbegradito molto» commentò lo spirito trasé e sé.

Al ora presi coraggio e chiesi:«Spirito, da dove vieni?»Per un momento rimase in silenzio.

Poi mi rispose:«Vengo dal Paese Lontano».Lo disse così forte che la testa mi

rimbombò con fragore.C’era qualcosa, nel a sua voce, che

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animò in me la nostalgia di quel paese.Sentivo che non avrei più potuto vivere,se non riuscivo ad andarci. Levai lebraccia al o spirito e gridai:

«Portami con te! Portami con te nelPaese Lontano! Laggiù c’è qualcuno chemi attende».

Lo spirito scosse la testa. Maquando gli ebbi teso la mela d’oro,esclamò:

«Hai nel a mano il Segno! Tu seicolui che sono venuto a prendere. Seicolui che il Re ha tanto a lungo cercato».

Si chinò e mi sol evò tra le suebraccia mentre tutto cantava e risuonavaintorno a noi che salivamo nel o spazio.

Così ci lasciammo dietro il parco e

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tutte le case dal e finestre il uminatedove i bambini sedevano a tavola con iloro papà e le loro mamme, mentre io,Bo Vilhelm Olsson, veleggiavo sotto lestel e.

Eravamo molto al di sopra del enuvole e filavamo più fulminei dellampo e più fragorosi del tuono. E stel e,lune e soli sfavil avano intorno a noi.

A tratti tutto era nero come la notte ea tratti di un chiarore latteo eabbagliante. «Ed egli va traverso giornoe notte» mormoravo tra me. Così stavascritto.

Improvvisamente lo spirito tese unbraccio e mi indicò qualcosa inlontananza, qualcosa di un verde

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fulgente di sole in mezzo a un’acqualimpida e azzurra.

«Tu vedi laggiù il Paese Lontano»disse lo spirito.

Planammo incontro al verde: eraun’isola, gal eggiante sul mare. E l’ariaprofumava come di mil e rose e gigli,mentre risuonava una strana musica, lapiù bel a che avessi mai udito.

Un gran castel o candido sorgevalungo la riva del mare, e fu lì cheatterrammo.

Qualcuno veniva verso di noi lungola spiaggia: era “il Re, mio padre”.Appena lo vidi, lo riconobbi. Spalancòle braccia e io volai contro il suo petto.Per lungo, lunghissimo tempo mi tenne

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stretto a sé. Nessuno dei due parlò, e iomi tenevo avvinghiato al suo col o.

Come avrei voluto che zia Edlavedesse il Re, mio padre! Era così belo, vestito d’oro e di diamanti.Assomigliava al padre di Benka, ma eraassai più bel o. Peccato, peccato che ziaEdla non fosse lì: così si sarebbefinalmente convinta che mio padre nonera un mascalzone.

Zia Edla comunque aveva ragione aproposito di mia madre: era propriomorta subito dopo la mia nascita; soloche a quegli stupidi del ‘orfanotrofionon era mai passato per la mente dicomunicare a mio padre dove mitrovavo. Per nove lunghi anni lui mi

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aveva cercato disperatamente. Ma orasono così felice che mi ha trovato.

E’ un pezzo ormai che vivo qui. Pertutto il giorno mi diverto da morire. Eogni sera il Re mio padre viene incamera mia, e costruiamo aeromodel i, echiacchieriamo.

E io sto bene e cresco felice, nelPaese Lontano. E ogni mese il Re, miopadre, fa un segnetto sul a porta dicucina per vedere quanto sono cresciuto.

«Mio piccolo Mio, è incredibile,quanto sei cresciuto!» dice, quando mimisura.

E quando dice «mio piccolo Mio» lasua voce ha un tono così caldo e dolce.Pensandoci bene, non mi chiamo affatto

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Bosse.«Per nove lunghi anni non ho fatto

che cercarti» dice mio padre, il Re. «Lanotte non riuscivo a dormire e pensavo:“Dove sarà il mio piccolo Mio?”. Losapevo, che ti chiamavi così».

Ecco, la storia di Bosse era tutto unosbaglio, e anche il resto era tutto unosbaglio, quando abitavo in via Uppland.Ora ogni cosa è di nuovo a posto.

Mi piace tanto il Re mio padre, eanch’io gli vado proprio bene.

Vorrei solo che Benka potessesapere quel o che mi è capitato. Credoproprio che glielo scriverò e poi metteròla lettera in una bottiglia. La tappo benbene e la butto nel mare azzurro che

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circonda il Paese Lontano. E un giornoche Benka starà con i suoi genitori nel aloro casa estiva, ecco che la bottiglia gliva incontro gal eggiando, proprio mentrelui fa il bagno. Perché sarebbedivertente che Benka venisse a sapere lecose meravigliose che mi sono successe.Al ora potrebbe telefonare al a polizialocale e raccontare che Bo VilhelmOlsson, il cui vero nome è Mio, vive alsicuro nel Paese Lontano ed è tantofelice, ma tanto, insieme con suo padre,il Re.

Nel roseto.Eppure non saprei bene che cosa

scrivere a Benka. Quel ch’è successo ame è unico al mondo. Ho paura di non

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saperglielo dire bene, che non capisca.E nessuna parola rende l’idea. Forsepotrei scrivere così: mi è successa unacosa inenarrabile. Ma in questa manieraBenka non sarebbe aiutato certo aimmaginare com’è qui, nel PaeseLontano.

Non basterebbe una dozzina dibottiglie per raccontargli tutto su miopadre, il Re, sul suo roseto e su Jum-Jume sul mio bel issimo Miramis tuttobianco e sul crudele cavalier Kato delPaese Al di Fuori. No, mai e poi mairiuscirei a raccontargli tutto per bene.

Fin dal primo giorno mio padre, ilRe, mi portò con sé nel suo roseto. Eradi pomeriggio e il vento giocava tra gli

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alberi. Mentre ci avviavamo al rosetomi giunse al ‘orecchio una musicastrana, come di mil e campanel e divetro che si mettessero a tintinnare tutteinsieme. Era una musica sommessa, etuttavia sonora. A sentirla, il cuore ti simetteva a tremare.

«Li senti, i miei pioppi d’argento?»chiese il Re, mio padre.

Mi teneva per mano, mentreandavamo. Zia Edla e zio Sixten non mitenevano mai per mano, nessuno miaveva mai tenuto per mano, prima. Forseper questo trovavo così bel o camminarecon la mia mano in quel a del Re, miopadre, anche se in fondo non ero più unbambino piccolo.

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Intorno al roseto si ergeva un altomuro. Il Re aperse una porticina edentrammo.

Una volta, tanto tempo fa, avevoavuto il permesso di andare con Benkaal a sua casetta estiva, e ricordo che cene stavamo su una roccia in riva al mareper cogliere proprio l’attimo in cui ilsole sarebbe tramontato. Il cielo era diporpora, e l’acqua immobile. Era iltempo in cui la rosa canina fioriva, e cen’erano tantissime, dietro la roccia. E dilontano, al di là del golfo, il cuculolanciava il suo richiamo. Al ora pensaiche non potesse esistere al mondo cosapiù bel a. Non del cuculo, naturalmente;quel o non lo vedevo, ma era il suo

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richiamo che faceva sembrare ogni cosapiù bel a. Non ero così scemo da dirlo aBenka, ma per tutto il tempo pensavozitto zitto fra me: «Questa è di sicuro lacosa più bel a del mondo».

Ma al ora non avevo ancora visto ilroseto di mio padre, il Re. Non avevoancora visto le sue rose, tutte quel e suerose bel e che sembravano una cascatascarlatta, o nemmeno i suoi gigli bianchiche s’inchinavano al vento. Non avevovisto i suoi pioppi dal e foglie argentate,così alti nel cielo che sul e loro cimesplendevano le stel e, quando veniva lasera. E nemmeno i suoi uccel i candidiche volavano nel roseto, né udito uncanto simile al loro o al a melodia del e

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foglie d’argento.Immobile, stringevo la mano al Re,

mio padre. Volevo sentire continuamentech’era lì con me, perché era impossibileresistere a tanta bel ezza da soli. Ed eglimi accarezzò una guancia e disse:

«Mio piccolo Mio, al ora, ti piace ilmio roseto?»

Non potei rispondere, perchéprovavo una sensazione strana, come sestessi diventando triste.

Avrei voluto spiegare al Re, miopadre, che pure non ero triste per niente,ma fu lui che mi disse:

«E’ bene che tu sia felice. Si semprefelice, mio piccolo Mio».

Poi se ne andò a parlare col suo

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giardiniere che lo stava aspettando. E iocorsi a dare un’occhiata in giro. Erostordito da tutta quel a bel ezza, comeubriaco di gazosa. Le mie gambe balavano dal a gioia, e sentivo di averemuscoli formidabili nel e braccia. SeBenka fosse stato lì avremmo fatto lalotta. Oh, se ci fosse stato! Ci volevauno del a mia età, lì con me. Ma Benka,poveretto, in quel momento era certo alparco, dove chissà che vento tirava ecome pioveva, e come tutto era buio etetro. Di sicuro sapeva già del a miascomparsa e si stava chiedendo dovepotevo essermi cacciato e se ci saremmorivisti mai, povero Benka!

Ci eravamo tanto divertiti insieme, e

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cominciavo proprio ad aver nostalgia dilui, mentre me ne andavo per il rosetodel Re, mio padre.

Di tutta la vita passata, Benka eral’unico di cui sentivo nostalgia. Dinessun altro provavo la mancanza, oforse sì, del a signora Lundin che erasempre stata tanto buona con me.

Ma era il pensiero di Benka che miperseguitava soprattutto, così me neandai solo solo e silenzioso per unvialetto del roseto e quasi sentivo comela gazosa stava abbandonando il miocorpo.

Ero un po’ triste e camminavo a testabassa. A un tratto la rialzai, e là davantia me sul vialetto c’era… per un

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momento pensai che fosse lui. Ma no:era Jum-Jum. Naturalmente al ora nonsapevo che si chiamasse Jum-Jum. Erasemplicemente un ragazzo e aveva glistessi capel i scuri di Benka e gli stessiocchi marrone.

«Chi sei?» chiesi.«Sono Jum-Jum» rispose.Al ora mi accorsi ch’era un po’

diverso da Benka, forse più serio e piùcarino.

Naturalmente anche Benka eracarino, così come lo sono io, una cosagiusta, in modo che ogni tanto anche silitiga e ci si picchia. Dopo per un po’ citenevamo il muso ma si finiva sempreper fare la pace. Ma con Jum-Jum

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sembrava impossibile prendersi a pugni,sembrava “troppo” buono.

«Vuoi sapere come mi chiamo io?»dissi. «Mi chiamo Bosse… cioè no, michiamo Mio».

«Lo sapevo già che ti chiamaviMio» rispose Jum-Jum. «Il nostro Re hadiramato messaggi in tutto il regno perannunciare che il suo Mio era finalmentetornato a casa».

Ci pensate? Mio padre, il Re, eratalmente contento di avermi ritrovatoche doveva per forza sbandierarlo adestra e a sinistra. Forse era stato unimpulso un po’ infantile, persino, ma ioero talmente felice di udire una cosasimile!

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«Tu ce l’hai un padre, Jum-Jum?»chiesi, e mi auguravo con tutto il cuoreche l’avesse: ne ero stato privo per tantotempo, e sapevo quel che voleva dire.

«Certo che ce l’ho» disse Jum-Jum.«E’ il giardiniere, il mio papà. Vuoivenire con me a vedere dove abito?»

Certo. E lui mi precedette correndolungo il sentiero tortuoso fino al‘angolino più remoto del roseto dove miapparve una casetta bianca col tetto dipaglia, proprio una casetta da fiaba. Imuri e il tetto erano talmente ricoperti dirose rampicanti che del a casa non sivedeva quasi nul a. Dal e finestre aperteentravano e uscivano volando unaquantità di candidi uccel i. Lungo un lato

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c’era una panca con un tavolo e accantouna fila di alveari con nugoli di api cheronzavano tra le rose. Intorno fitticespugli di rose e pioppi dal e foglied’argento. Una voce gridò dal a cucina:

«Ti sei scordato dal a merenda, Jum-Jum?»

Era la mamma di Jum-Jum che lochiamava. Si fece sul a soglia e lì siarrestò sorridente.

Al ora vidi che assomigliavamoltissimo al a signora Lundin, solo cheera un po’ più bel a.

Ma aveva di lei le stesse profondefossette sul e guance paffute, e mi poseun dito sotto il mento proprio comeaveva fatto la signora Lundin quando

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aveva detto: «Addio, Bo VilhelmOlsson, addio addio».

La mamma di Jum-Jum invece disse:«Benvenuto, Mio, benvenuto! Vuoi

far merenda con Jum-Jum?»«Sì, grazie» risposi, «ma non vorrei

che lei si disturbasse».Nessun disturbo, mi assicurò. Jum-

Jum e io sedemmo al a tavola accanto almuro, e la sua mamma ci portò un granpiatto di frittel e, e marmel ata di fragolee latte, e noi mangiammo tanto dascoppiare, e ci si guardava e si rideva.

Ero così contento che ci fosse Jum-Jum. Uno degli uccel i bianchi siabbassò in volo e rubò un pezzetto difrittel a dal mio piatto, e al ora Jum-Jum

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rise ancora più forte.Proprio al ora arrivò mio padre, il

Re, col padre di Jum-Jum, il giardiniere.Improvvisamente ebbi paura che a

mio padre non piacesse vedermi lì aridere tanto forte, perché al ora nonsapevo ancora quanto buono fosse e chemi voleva bene qualsiasi cosa facessi, eche anzi desiderava vedermi ridere.

Mio padre, il Re, si arrestò quandomi vide.

«Dunque, mio piccolo Mio, te ne staiqui a ridere?»

«Oh, perdonami» dissi.«Ma ridi, ridi, mio piccolo Mio»

esclamò. Poi, volgendosi al giardiniere,disse una cosa incredibile:

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«Amo il canto degli uccel i e lamusica dei miei pioppi d’argento. Mapiù di ogni cosa al mondo amo sentirridere mio figlio nel roseto».

Al ora compresi per la prima voltache mai avrei dovuto aver paura di miopadre, il Re.

Qualsiasi cosa avessi fatto, sempreegli mi avrebbe guardato con quei suoiocchi amorosi, come ora, ritto davanti ame con una mano sul a spal a delgiardiniere e con una corona di uccel ibianchi intorno al capo.

E quando ebbi capito questo, miprese una tal gioia che dovettiricominciare a ridere.

Buttai la testa al ‘indietro e risi così

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forte che gli uccel i ebbero paura. Jum-Jum probabilmente pensò che io ridessiancora di quel ‘uccel o che mi avevarubato la frittel a, e anche lui si mise aridere e a ridere. E il riso contagiòanche i genitori di Jum-Jum e il Re, miopadre.

Finito di mangiare, Jum-Jum e io cibuttammo a correre attraverso il roseto ea far capriole sui prati, e giocammo anascondino dietro i cespugli di rose.C’erano tanti nascondigli, che se neavessimo avuti un decimo nel parco enei dintorni, Benka e io saremmo potutivivere felici. Ossia, “Benka” sarebbestato felice; io per fortuna non ho piùbisogno di cercare nascondigli!

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Cominciava a imbrunire e in brevel’intero roseto fu avvolto da una sofficenebbiolina azzurra. I bianchi uccel itacquero e tornarono ai loro nidi. Anchei pioppi argentati smisero di farrisuonare la loro musica. Nel rosetotutto fu immobile.

Ma in cima al più alto pioppoargentato era rimasto un grande uccel onero, e cantava, solitario. Cantavameglio di tutto il coro dei candidi ucceli, ed ebbi l’impressione che cantasseproprio per me. Ma non lo potevoascoltare, perché il suo canto facevamale al cuore.

«Si fa notte» disse Jum-Jum, «e iodevo andare a casa».

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«No, non andartene!» implorai.«Non voglio rimanere solo con questastrana canzone. Chi è quel o, Jum-Jum?»e gli indicai l’uccel o.

«Non lo so» rispose Jum-Jum. «Io lochiamo l’Uccel o del Dolore. Soloperché è così nero.

Ma forse ha tutto un altro nome».«Non mi piace» dissi.«A me sì» disse Jum-Jum; «ha degli

occhi così dolci. Buonanotte, Mio» ecorse via.

In quel momento arrivò mio padre, ilRe. Mi prese per mano e ciincamminammo verso casa attraverso ilroseto. L’Uccel o del Dolore cantavasempre, ma ora, con la mano in quel a di

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mio padre, non avevo più paura. Anziavrei desiderato che continuasse acantare.

L’ultima cosa che vidi, quandovarcammo il cancel o, fu l’Uccel o delDolore che schiudeva le sue larghe alinere e volava dritto verso il cielo.S’erano accese in quel punto tre piccolestel e.

Miramis.Sarei curioso di sapere quel che

direbbe Benka se vedesse il mio biancocavalo dala criniera d’oro. Il mioMiramis dal a criniera dorata e daglizoccoli d’oro.

A Benka e a me piacevano tanto icaval i. E’ vero; non erano soltanto

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Benka e la signora Lundin, gli uniciamici di quando abitavo in via Uppland;avevo un altro amico, non ve l’horaccontato. Si chiamava Kal e Punt edera un vecchio caval o da tiro. Un paiodi volte al a settimana capitava il carrodel a birra a rifornire i negozi di viaUppland; quasi sempre la mattina presto,proprio quando partivo per andare ascuola, e io mi attardavo un po’ per fareun salutino a Kal e Punt. Era un vecchiocaval o tanto buono e io gli tenevo daparte zol ette di zucchero e bocconcinidi pane. Benka faceva lo stesso, perchéanche lui voleva bene a Kal e Punt. Luidiceva che era il suo caval o e io dicevoche era il mio, e a volte si litigava

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proprio a causa di Kal e Punt. Maquando Benka non era lì ad ascoltare, iobisbigliavo nel ‘orecchio del caval o:«Macché, tu sei il mio caval o». E Kal ePunt sembrava d’accordo con me. Benkaaveva il suo papà e la sua mamma, e unsacco di altre cose, e al ora non si habisogno di un caval o come chi ècompletamente solo. Così era giusto cheKal e Punt fosse il mio caval o, almenoun po’ più che di Benka. Ma, per dirlaproprio tutta, Kal e Punt non era né ilcaval o di Benka né il mio, perchéapparteneva al a birreria. Tuttavia iofacevo così per bene finta che fosse mio,che finivo per crederci.

Al e volte mi fermavo a parlare tanto

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a lungo col caval o che arrivavo tardi ascuola, e quando la signorina me nechiedeva la ragione, io non sapevo maiche cosa rispondere: come si fa a dire ala signorina che mi ero fermato a parlarecon un vecchio caval o da tiro?

C’erano però del e mattine in cui ilcarro del a birra ci metteva davverotroppo ad arrivare, e al ora ero costrettoad andare a scuola senza aver incontratoKal e Punt. In quei casi ero furente conl’uomo del a birra, quel poltrone! Me nestavo seduto nel banco a giocherel arecon le zol ette di zucchero e con ibocconcini di pane che avevo in tasca, emi struggevo dal desiderio di Kal ePunt. Chissà per quanti giorni non lo

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avrei rivisto. E la signorina michiedeva:

«Che cos’hai da sospirare, Bosse?Dov’è che ti fa male?»

Anche al ora non sapevo cherispondere: la signorina non avrebbemai potuto capire quanto bene volevo aKal e Punt.

Ora Benka potrà averlo tutto per sé,e mi fa piacere. E’ bene che Benka abbiaKal e Punt, ora, per consolarlo che ionon ci sono più. E io, io ho il mioMiramis dal a criniera d’oro.

Andò così.Una sera, mentre costruivamo

aeromodel i e si chiacchierava - propriocome fanno Benka e suo padre - io

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raccontai a mio padre, il Re, di Kal ePunt.

«Mio piccolo Mio» disse il Re, miopadre, «dunque ami tanto i caval i?»

«Be’, insomma, sì» risposi. Il miotono non era troppo entusiasta soloperché non volevo che il Re pensasseche mi mancava qualcosa, da lui.

La mattina dopo, quando andai nelroseto, vidi un caval o biancogalopparmi incontro. Mai avevo vistoqualcosa di simile: la crinierasvolazzava d’oro e zoccoli d’oro scintilavano al sole. Mi veniva incontro agrandi balzi e nitriva come un caval oselvaggio. Impaurito, m’ero stretto a miopadre, il Re. Ma egli lo afferrò

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saldamente per la criniera dorata, e dicolpo il caval o si ammansì. Al ungòanzi il muso morbido verso la mia tascaal a ricerca di una zol etta di zucchero.Proprio come succedeva con Kal e Punt.E io la zol etta ce l’avevo davvero: mel’ero messa in tasca per abitudine. Ilcaval o la prese e la mangiò.

«Si chiama Miramis» disse il Re,mio padre. «Ed è il tuo caval o, miopiccolo Mio».

Oh, mio amato Miramis! Ti hovoluto bene fin dal primo istante. Era ilpiù bel caval o del mondo, e nonsomigliava affatto al povero Kal e Punt,così vecchio e stanco. Almeno al primomomento non notai alcuna somiglianza.

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Finché però Miramis non ebbe levato lasua bel a testa a guardarmi. Al ora vidiche aveva gli stessi occhi di Kal e Punt.Occhi fedeli, così fedeli come hannosoltanto i caval i.

Fino ad al ora, non avevo cavalcatomai. Ma mio padre, il Re, mi sol evò ingroppa a Miramis.

«Non so se sono capace» mormorai.«Ma mio piccolo Mio» disse il Re,

mio padre, «non sarai mica uncodardo?»

A queste parole afferrai le redini diMiramis e mi slanciai attraverso ilroseto. Cavalcavo sotto i pioppiargentati e le foglioline d’argento mis’impigliavano tra i capel i; correvo

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veloce, veloce, veloce, e Miramissaltava i più alti cespugli di rose. Il suosalto era così leggero e sicuro che solouna volta sfiorò un cespuglioprovocando una pioggia di petali dirosa.

Jum-Jum arrivò, e mi videcavalcare.

«Mio cavalca Miramis, Mio cavalcaMiramis!» gridava.

Al ora tirai le briglie e chiesi a Jum-Jum se voleva cavalcare con me.Figurarsi. In un baleno fu in groppa e misi pose dietro. Così cavalcammo per iverdi prati che si stendevano oltre ilroseto.

Grande è il dominio del Re, mio

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padre: il Paese Lontano è il più grandedi tutti i regni. Si estende a est e a ovest,a sud e a nord. L’isola dove si trova ilcastel o del Re, mio padre, si chiamal’Isola dei Prati Verdi. Ma è solo unpezzetto del Paese Lontano, unminuscolo pezzettino.

«Anche la terra al di là del e Acquee del e Montagne appartiene al nostroRe» disse Jum-Jum, mentrecavalcavamo per i verdi prati oltre ilroseto.

Pensavo a Benka, volando così nel aluce del sole. Poverino lui, in viaUppland, chissà che buio, e di sicuropiovigginava; e io intanto me ne andavocavalcando per l’Isola dei Prati Verdi

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col cuore colmo di gioia. Era così bel o,intorno: l’erba vel utata luminosa difiori, morbide col ine da cui scendevanolimpidi ruscel i, e candidi agnel inilanosi che brucavano l’erba.

Laggiù un pastorel o suonava unflauto di legno: una strana melodia chemi pareva di aver già sentito, non sodove. Di sicuro non in via Uppland.

Ci arrestammo a parlare col pastorelo. Si chiamava Nanno. Lo pregai diprestarmi per un attimo il suo zufolo, edegli mi insegnò anche a suonare lamelodia di prima.

«Se volete, posso farvi un flauto peruno» disse Nanno.

Non ci pareva vero. Un ruscel o

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scorreva lì accanto e un salice lasciavapendere i rami fino al ‘acqua. Nannoandò a tagliare un ramo del salice ementre lui intagliava i nostri flauti dilegno, noi ce ne stavamo seduti sul asponda a sguazzare coi piedi nel ‘acqua.

Anche Jum-Jum imparò a suonarequel a strana melodia; Nanno disse cheera antica, più antica di qualsiasi altramelodia al mondo. I pastori lasuonavano nei pascoli già migliaia emigliaia di anni fa, disse Nanno.

Lo ringraziammo per averci fatto iflauti e per averci insegnato quel amusica antica. Poi rimontammo suMiramis e ci al ontanammo al galoppo.Sempre più lontano risuonava il flauto

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di Nanno.«Dobbiamo aver cura dei nostri

flauti» dissi a Jum-Jum: «se succederàche ci perdiamo, non avremo che dasuonare questa melodia».

Jum-Jum si teneva stretto a me pernon cadere. Mi appoggiò la testa sul aschiena e disse:

«Proprio così, Mio: dobbiamotenerci preziosi i nostri flauti; e se tusenti il suono del mio, sai che ti stochiamando».

«D’accordo» disse Jum-Jum, e siteneva stretto a me e io pensavo che erail mio miglior amico. Dopo il Re, miopadre, naturalmente. Lui, lo amavo piùdi qualsiasi cosa al mondo.

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Ma Jum-Jum era un ragazzo comeme, e ora che non avevo più Benka eraproprio il mio migliore amico.

Pensate: avevo mio padre, il Re, eJum-Jum, e Miramis su cui cavalcavosopra col ine e prati veloce come ilvento; non c’era da meravigliarsi che iofossi felice.

«Come si arriva al Paese Al di làdel e Acque e del e Montagne?» chiesi.

«Per il Ponte del Primo Sole» disseJum-Jum.

«E dov’è il Ponte del Primo Sole?»«Presto lo vedremo» rispose Jum-

Jum.E così fu. Era un ponte così alto e

così lungo che non se ne vedeva la fine.

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Bril ava nel a luce del mattino esembrava costruito di raggi solari.

«E’ il ponte più lungo del mondo»mi spiegò Jum-Jum. «E col ega l’Isoladei Prati Verdi al Paese Al di là del eAcque. Ma di notte il nostro Re lo faritirare perché al ‘Isola dei Prati Verdisi possa dormire tranquil i».

«Perché?» chiesi. «Chi si ha paurache venga?»

«Il Cavalier Kato» rispose Jum-Jum.Appena ebbe pronunciato questo

nome, si levò come un vento gelido eMiramis cominciò a tremare.

Fu quel a la prima volta che intesinominare il Cavalier Kato.

Ripetei quel nome fra me. «Cavalier

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Kato». Tremavo, nel dirlo. E Miramisnitrì così disperatamente, che sembravaun grido.

Io avrei desiderato andare a caval osul Ponte del Primo Sole, ma primavolevo chiedere il permesso a miopadre, il Re. Perciò ritornammo alroseto. Insieme strigliammo Miramis egli pettinammo la criniera d’oro, loaccarezzammo e gli demmo zol ette dizucchero e bocconcini di pane di cui ciaveva riforniti la mamma di Jum-Jum.

Poi Jum-Jum e io ci costruimmo unacapanna nel roseto, e là dentro cisedemmo per mangiare. Ci pappammodel e croccanti frittel e cosparse dizucchero. Per me è la cosa più squisita

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che esista al mondo. Anche la mamma diBenka le cucinava spesso e me le facevaassaggiare, ma quel e del a mamma diJum-Jum erano molto molto migliori. E’una cosa splendida costruirsi unacapanna. Benka mi aveva spessoraccontato di averlo fatto durantel’estate. Come vorrei potergli scrivere eraccontargli di questa nostra, mia e diJum-Jum. «Ragazzi, che razza dicapanna ci siamo costruiti, qui nel PaeseLontano!»

Musica per le stele.Il giorno seguente ritornammo a

cavalo da Nanno. Da principio nonriuscivamo a trovarlo, ma poi sentimmoil suono del flauto dietro una col inetta,

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e infatti era lì che suonava tutto solo conle pecore che gli pascolavano al‘intorno. Quando ci vide, si tolse ilflauto dal e labbra, sputò, rise e disse:

«Di nuovo qui?»Si vedeva che era contento che

fossimo tornati. Noi tirammo fuori inostri flauti e ci mettemmo a suonaretutti e tre insieme. Non so proprio comeriuscissimo a suonare del e melodie cosìbel e.

«Che peccato che non ci sia nessunoa sentire come siamo bravi» dissi.

«Ci sente l’erba» disse Nanno. «E ifiori, e i venti. Gli alberi ci stannoascoltando, e i salici che si chinanolaggiù sul ruscel o».

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«Davvero? E gli piace, credi?»«Moltissimo» asserì Nanno.Così suonammo a lungo per l’erba e

i fiori e i venti e gli alberi. Ma iocontinuavo a rammaricarmi che non cisentisse alcun essere vivente, e al oraNanno propose:

«Possiamo andare a casa mia esuonare qualcosa per la mia nonnina».

«Abita lontano da qui?» chiesi.«Sì, ma la strada ci sembrerà più

corta se ci suoniamo una marcetta pervia» suggerì Nanno.

Le novel e sono piene di vecchienonnine buone. Ma fino a quel momentonon avevo incontrato mai una nonna incarne e ossa, anche se chissà quante ce

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ne sono. Perciò trovavo splendida l’idead’incontrare la nonna di Nanno.

Dovemmo portarci dietro tutte lepecore e gli agnel i di Nanno. EMiramis. Una vera carovana. Primiandavamo Jum-Jum, Nanno e io, poi gliagnel i e le pecore, e da ultimo Miramis.Trotterel ava lentamente, quasi comeKal e Punt. Ce ne andavamo per le coline, sempre suonando il flauto. Gli agnelini certo non ci capivano niente, madovevano trovarlo divertente perché nonla smettevano di saltel are e di belare.

Dopo ore di col i arrivammo a casadi Nanno. Anche la casetta sembrava dafiaba, una buffa casetta col tetto dipaglia, e intorno tanti lil à e giacinti in

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fiore.«Zitti adesso, che facciamo una

sorpresa al a nonna» disse Nanno.Da una finestra aperta si sentiva

qualcuno trafficare per casa. Cimettemmo in fila davanti al a finestra,Nanno, Jum-Jum e io.

«Si comincia: uno due tre!» sussurròNanno.

Prendemmo a suonare unacanzoncina così al egra che subito gliagnel ini furono costretti a mettersi a balare. E un’antica vecchietta dal ‘aria cosìcarina si affacciò al a finestra: la nonnadi Nanno. Batté le mani ed esclamò:

«Ma che bel a musichetta!»Suonammo a lungo per lei e durante

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tutto il tempo rimase in ascolto al afinestra. Era talmente vecchia, sembravadavvero uscita da una fiaba, eppure erauna nonna proprio di ciccia.

Poi entrammo nel a casetta. La nonnadi Nanno ci chiese se avevamo fame.Eccome.

Al ora prese una forma di pane dacui tagliò del e grosse fette che ci diede.Era un pane bruno, il migliore cheavessi mangiato in vita mia.

«Com’è buono!» dissi a Nanno.«Che tipo di pane è?»

«Non so se sia un tipo speciale»rispose Nanno; «noi lo chiamiamo ilpane-che-sazia-la-fame».

Anche Miramis voleva la sua parte.

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Introdusse la testa nel vano del a finestrae nitrì per protestare. Ci venne daridere, perché era proprio buffo.

Ma la nonnina di Nanno lo accarezzòsul muso, e anche lui ricevette unpezzettino di quel buon pane.

Poi mi venne sete, e al ora Nanno ciinvitò a seguirlo.

Ci condusse nel giardino, dovescorreva una limpida fonte. Nannoimmerse un mastel etto di legno nel afonte e attinse del ‘acqua, che bevemmodirettamente dal bigoncino. Era l’acquapiù fresca che avessi bevuto in vita mia.

«Com’è buona!» dissi a Nanno.«Che fonte è questa?»

«Non credo che sia una fonte

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particolare» rispose Nanno. «Noi lachiamiamo la-fonte-che-estingue-la-sete».

Anche Miramis aveva sete, cosìdemmo anche a lui quel ‘acqua da bere,anche agli agnel i e al e pecore.

Ma Nanno doveva ritornare alpascolo fra i col i con il suo gregge.Chiese al a nonna il mantel o in cui siavvolgeva quando rimaneva la notte adormire al ‘aperto, e lei gli diede unmantel o marrone. Trovavo che Nannoera veramente fortunato, di poterdormire così al ‘aperto, per terra. Io nonl’avevo fatto mai. Benka è andatoqualche volta a campeggiare inbicicletta con i suoi genitori; montano la

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loro tenda in qualche bel a radura ehanno dei sacchi a pelo in cui la nottedormono. Benka mi diceva sempre chequel a era per lui la cosa piùentusiasmante del mondo, e ci credo.

«Beati quel i che passano le notti al‘aperto!» dissi a Nanno.

«Lo puoi fare anche tu. Basta che tuvenga con me» propose Nanno.

«No, il Re, mio padre, starebbe inpensiero se non mi vedesse tornare».

«Posso portare un messaggio al Re,il nostro signore, che tu rimani a dormireal ‘aperto»

propose la nonna di Nanno.«E anche al mio?» chiese Jum-Jum.«Sì, anche al giardiniere» promise la

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nonna.Jum-Jum e io eravamo così pazzi di

gioia che ci mettemmo a saltare comeagnel ini.

Ma la nonna di Nanno guardò lenostre corte vestine bianche, che eranoquanto indossavamo, e disse:

«Avrete freddo, quando cadrà larugiada».

Poi, al ‘improvviso divennetristissima e aggiunse con un filo divoce:

«Ho ancora due mantel i».Andò a una vecchia cassa in un

angolo del a cucina e ne trasse duemantel i, uno rosso e uno blu.

«Le cappe dei miei fratel ini» disse

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Nanno, anche lui tristemente.«Dove sono i tuoi fratel ini?»«Il Cavalier Kato» sussurrò Nanno,

«il perfido Cavalier Kato li ha rapiti».Fuori Miramis nitrì come se

qualcuno lo avesse improvvisamentefrustato. E ogni agnel o corse ansiosodal a sua mamma, e tutte le pecore simisero a belare lamentosamente, da farpietà.

Ma la nonna di Nanno diede a me ilmantel o rosso e a Jum-Jum quel o blu. Ea Nanno diede una forma del pane-che-sazia-la-fame e una brocca del ‘acqua-che-estingue-la-sete. Poi ci mettemmo incammino attraverso i col i, rifacendo lastrada di prima.

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Io ero molto triste per quel o che eraaccaduto ai fratel i di Nanno, eppure nonpotevo fare a meno di ral egrarmi al‘idea che avrei dormito su un prato.

Quando arrivammo al col e vicino aisalici che si curvavano sul ruscel o ciarrestammo, e Nanno propose diaccamparci lì per quel a notte.

Accendemmo un fuoco, un fuococaldo, grande e splendido. E sedutiintorno al fuoco mangiammo il pane-che-sazia-la-fame e bevemmo l’acqua-che-estingue-la-sete. Cadde la rugiada ecadde la notte, ma a noi non importava,perché il fuoco diffondeva calore e luce.

Ci avvolgemmo nei nostri mantel iaccosto al fuoco, e accanto a noi

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giacevano le pecore e gli agnel iaddormentati, mentre Miramis pascolavapoco lontano. Così distesi sentivamo ilvento scorrere tra l’erba e vedevamofuochi accendersi lontano. Tanti e tantifuochi bril avano nel a notte, perché tantierano i pastori nel ‘Isola dei Prati Verdi.E nel ‘oscurità si diffondeva quel ‘anticamelodia che i Pastori suonavano damigliaia d’anni. Così distesiguardavamo i fuochi e arrivava fino anoi quel ‘antica melodia che un pastoresconosciuto suonava nel a notte. Parevaproprio che significasse qualcosa.

Nel cielo bril avano incredibili stele. Io le guardavo, avvolto nel miomantel o fiammeggiante. Mi venne in

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mente al ora che avevamo suonato perl’erba, per i fiori, per i venti, per glialberi. Ma non per le stel e. Amano lestel e che si suoni per loro? Se solo losapessi! Nanno credeva di sì. E al ora cisedemmo di nuovo intorno al fuoco e suinostri flauti suonammo ancora unpiccolo pezzo per le stel e.

Il pozzo-che-ala-sera-bisbiglia.Il Paese Al di là dele Acque e dele

Montagne non l’avevo ancora veduto.Ma un giorno, mentre camminavo nelroseto col Re, mio padre, gli chiesi semi permetteva di cavalcare oltre il Pontedel Primo Sole. Il Re si arrestò e miprese il viso tra le mani. Il suo sguardoera serio e amoroso.

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«Mio piccolo Mio» disse, «puoiandare ovunque, nel mio regno. Puoigiocare nel ‘Isola dei Prati Verdi ocavalcare fino al Paese Al di là del eAcque e del e Montagne, se ti piace.

Puoi andare a est e a ovest, a nord ea sud, lontano quanto può portartiMiramis. Ma una cosa devi sapere:esiste un luogo che si chiama il Paese AlDi Fuori».

«E chi ci vive?» chiesi.«Il Cavalier Kato» disse il Re, mio

padre, e un’ombra gli passò sul viso. «Ilperfido Cavalier Kato».

Quand’ebbe pronunciato quel nome,fu come se qualcosa di magico e infidosi fosse messo a strisciare nel roseto.

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Gli uccel i bianchi si affrettarono involo ai loro nidi e l’Uccel o del Dolorediede un altissimo grido sbattendo legrandi ali nere. E in quel momentoappassirono molte rose.

«Mio piccolo Mio» disse il Re, miopadre. «Sei la cosa più cara che ho almondo, e il mio cuore si fa pesante,quando penso al Cavalier Kato».

I pioppi argentati stormirono forte,come scossi da una tempesta; moltefoglie caddero al suolo, ed era come sequalcuno piangesse. Sentivo che avevopaura del Cavalier Kato, una grande,mortale paura.

«Se il tuo cuore si fa pesante» dissi,«al ora non pensare più a lui».

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Il Re annuì e mi prese per mano.«Hai ragione» disse. «Ancora per un

poco voglio tralasciare il pensiero delCavalier Kato.

Ancora per un poco potrai suonare ilflauto e costruire capanne nel roseto».

Poi continuammo il nostro cammino,in cerca di Jum-Jum.

Il Re, mio padre, aveva tante cose dafare nel suo grande regno, tuttaviatrovava sempre tempo per me. Nondiceva mai: «Sciò, via, ora non hotempo». Gli piaceva stare con me.

Ogni mattina andavamo insieme nelroseto; mi faceva vedere dove gli uccel iavevano i loro nidi, visitava la nostracapanna, mi insegnava a cavalcare

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Miramis e parlava di tutto con me e conJum-Jum. Mi piaceva tanto, che parlasseanche con Jum-Jum Proprio come facevail papà di Benka con me. Era statosempre così bel o quando il papà diBenka aveva parlato con me, e Benkaappariva felice, come se stessepensando: «Rimane sempre il mio papà,ma mi piace che parli anche con te».Proprio quel o che pensavo io, quando ilRe, mio padre, parlava con Jum-Jum.

Tuttavia era un bene che Jum-Jum eio ce ne andassimo a fare del e lunghecavalcate, perché come avrebbe trovatoil tempo, il Re, mio padre, di governareil suo grande regno?

Se per intere giornate non fossimo

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andati lontano, certamente il Re sarebberimasto con noi a giocare e a parlare,invece di fare quel che doveva. Perciòandava proprio bene, che avessi Jum-Jum e Miramis.

Ah, il mio Miramis, che cavalcate hofatto sul a sua groppa! Mai dimenticheròla prima volta che mi condusseattraverso il Ponte del Primo Sole.

Era l’alba, e i guardiani del ponte loavevano abbassato proprio al ora.L’erba morbida era umida di rugiada egli zoccoli d’oro di Miramis tuttibagnati. Avevamo ancora un po’ disonno, Jum-Jum e io, ci eravamo levaticosì per tempo, ma l’aria fresca e purache ci accarezzava il viso mentre

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cavalcavamo per i prati finì persvegliarmi del tutto. Arrivammo al‘inizio del ponte, che il sole sorgeva.Passandoci sopra, ci pareva dicavalcare su raggi di sole e di luce. Ilponte si arcuava alto, altissimo sopra leacque. A guardar giù venivano levertigini: stavamo cavalcando sul pontepiù alto e più lungo del mondo. Lacriniera d’oro di Miramis scintil ava nelsole; il caval o correva sempre piùforte, e sempre più in alto saliva ilponte. Gli zoccoli rimbombavano cometuono. Era così esaltante: presto avreivisto il Paese Al di là del e Acque,presto, presto.

«Jum-Jum!» gridai. «Jum-Jum, non

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sei felice, non è meraviglioso?…».Proprio al ora vidi quel che stava

accadendoQualcosa di spaventoso doveva

succedere. Perché Miramis galoppavadirettamente verso un precipizio. Ilponte finiva, finiva a mezz’aria. Quelgiorno - forse perché i guardiani delponte non avevano ancora terminato illoro lavoro - il raccordo con il Paese Aldi là del e Acque non era compiuto:c’era solo un immenso abisso, unbaratro orrendo.

Mai più ho provato un terroresimile. Volevo urlare in maniera cheJum-Jum mi sentisse, ma non potevo.Tirai le redini di Miramis tentando di

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arrestarne la corsa, ma il caval o non miubbidì. Nitrì selvaggiamente e continuòa galoppare diritto verso la morte, alritmo incalzante degli zoccoli. Fra pocosaremmo caduti nel ‘abisso, fra poconon avrei più sentito gli zoccoli diMiramis, ma soltanto il suo nitritoangoscioso quando fosse precipitato conla criniera d’oro svolazzante. Chiusi gliocchi e pensai intensamente al Re, miopadre.

Gli zoccoli di Miramis rul avano.Al ‘improvviso non rul arono più: li

sentivo ancora, ma il loro suono eradiverso. Un fruscìo come se il caval ogaloppasse su qualcosa di infinitamentemorbido. Apersi gli occhi e vidi al ora

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che Miramis galoppava… “nel ‘aria”. Ilmio Miramis dagli zoccoli e dal acriniera d’oro si muoveva nel ‘aria agilecome sul a terra! Poteva correre sul enuvole e balzare sul e stel e, se voleva.Nessun altro possiede un caval o comeil mio. Così nessuno può immaginarsiche sensazione si prova a sedergli ingroppa e a fluttuare quasi nel ‘ariamentre laggiù, lontano, nel a luce delsole, appare il Paese Al di là del eAcque.

«Jum-Jum!» gridai. «Miramis sagaloppare sul e nuvole».

«Non lo sapevi?» chiese Jum-Jumcome se non ci fosse nul a di strano.

«No, e come facevo?»

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Al ora Jum-Jum rise.«Sai così poco tu, Mio» disse.A lungo cavalcammo nel ‘aria, e

Miramis balzava da una nuvoletta biancaal ‘altra: che divertimento emozionante!Ma a un certo punto decidemmo diatterrare. Miramis planò dolcementeverso terra. Si arrestò. Eravamo giunti alPaese Al di là del e Acque.

«Ecco qua un bel boschetto verdeper il tuo Miramis dal a criniera d’oro»disse Jum-Jum.

«Lascialo pascolare, mentre ce neandiamo a fare un salutino a Jiri».

«Chi è Jiri?» chiesi io.«Lo vedrai» rispose Jum-Jum. «Jiri

e le sue sorel e abitano proprio a un

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passo da qui».Mi prese per mano e mi condusse

verso una casa bianca col tetto di paglia,un’altra casetta da fiaba. E’ difficilespiegare com’è che una casa assomigliaa quel a del e fiabe; ma è qualcosa nel‘aria, o tra i vecchi alberi che lecrescono intorno, oppure i fiori hanno unprofumo di fiaba, o chissà cosa. Nelcortile davanti al a casa di Jiri c’era unvecchio pozzo rotondo. Ora che cipenso, doveva essere proprio il pozzoche faceva assomigliare la casa aun’abitazione da fiaba. Perché pozzicosì antichi non esistono più.

Cinque bambini gli stavano sedutiintorno. Il più grande era un ragazzo.

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Aveva una faccina simpaticissima, tuttaridente.

«Vi ho visto arrivare» disse. «Aveteproprio un bel caval o».

«Si chiama Miramis» dissi. «Equesto è Jum-Jum. Io sono Mio».

«Lo so» disse il ragazzo. «Io michiamo Jiri e queste sono le mie sorele».

Era così carino e gentile, e anche lesue sorel e, e parevano sinceramentefelici del nostro arrivo.

Non andava mai così in via Uppland.Subito si mettevano a ululare i ragazzi,laggiù, appena ci si avvicinava, a menoche non si fosse del a loro banda.Sempre ce l’avevano con qualcuno,

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qualcuno da escludere dai loro giochi. Equel qualcuno ero quasi sempre io. Erasoltanto Benka, che era sempre pronto agiocare con me. Ma quel fusto di Janne!

Mica gli avevo fatto niente, io;eppure, appena mi vedeva, gridava:«Fila, o ti do una sberla che ti facciogirare!». Così era inutile che cercassi digiocare con loro a pal ine o ad altrigiochi. Tutti infatti tenevano per Janne eusavano il suo stesso gergo. E questoperché Janne era così grande e forte.

E se si è avuto a che fare con tipicome Janne, ci si meraviglia poi ditrovare bambini come Jiri, sempre cosìcarini e gentili.

Jum-Jum e io sedemmo accanto a

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Jiri sul parapetto del pozzo. Vi sbirciaidentro: era così profondo che non se nevedeva la fine.

«Come fate a tirar su l’acqua?»chiesi.

«Non la tiriamo su affatto» risposeJiri, «non è un pozzo da acqua, questo».

«E al ora che pozzo sarebbe?»«Si chiama il pozzo-che-al a-sera-

bisbiglia» disse Jiri.«Come?»«Aspetta che venga sera, al ora

capirai» disse Jiri.Per tutto il giorno rimanemmo con

Jiri e le sue sorel e a giocare sotto ivecchi alberi. E

quando ci venne fame, Minonna-Nel

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, una sorel ina di Jiri, corse in cucina aprenderci del pane. Era lo stesso tipo dipane che mi aveva dato la nonna diNanno, e mi parve sempre squisito.

Nel ‘erba, sotto gli alberi, trovai uncucchiaino d’argento. Lo mostrai a Jiri,che subito si fece triste.

«Il cucchiaino di nostra sorel a»mormorò. «Mio ha trovato il cucchiainodi nostra sorel a!»

gridò al e altre.«E dov’è questa sorel a?» chiesi.«Il Cavalier Kato» disse Jiri, «il

perfido Cavalier Kato ce l’ha rapita».Quand’ebbe pronunciato quel nome,

sembrò che l’aria intorno a noidivenisse di gelo. Il grande girasole che

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si ergeva nel giardino appassì e morì, etante farfal e perdettero le loro ali e nonpoterono mai più volare. E io sentivodel Cavalier Kato una mortale paura.

Volevo dare il cucchiaino d’argentoa Jiri, ma lui disse:

«Tienlo pure, il cucchiaino di nostrasorel a: lei non ne avrà mai più bisogno,e sei tu che l’hai trovato».

Le sue sorel e scoppiarono in pianto,a sentire che la loro sorel a non avrebbeavuto mai più bisogno di un cucchiaino.Ma poi ricominciammo a giocare, e nonpensammo più a cose tristi. Misi ilcucchiaino in tasca e ben presto me nescordai.

Mentre si giocava, non smettevo di

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desiderare che venisse sera, per saperequalcosa di più del pozzo meraviglioso.

Finalmente il giorno prese a svaniree l’oscurità ad avanzare. Al ora Jiri e lesue sorel e si scambiarono uno stranosguardo, e Jiri disse:

«Ora!»Corsero tutti a sedersi sul a sponda

del pozzo e Jum-Jum e io ci sedemmoaccanto a loro.

«Adesso, silenzio assoluto»raccomandò Jiri.

In assoluto silenzio attendevamo. Inmezzo agli alberi antichi l’oscurità siinfittì e la casa di Jiri diveniva semprepiù simile a una casa di fiaba, avvolta inun’oscurità grigiastra, non nera, perché

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era ancora sempre il crepuscolo.Un’aria antica, scolorita e stranagravava sul a casa e sugli alberi e siaddensava sul pozzo, sul cui parapettosedevamo in cerchio.

«Silenzio “assoluto”» sussurrò Jiri,benché nessuno avesse fiatato da unpezzo.

Rimanemmo in silenzio ancora più alungo, e l’oscuro grigiore si infittì fra glialberi. Tutto era immobile, e io nonudivo alcuna voce. Ma poi cominciai a“sentire”: dal e profondità del pozzosorgeva un sussurrio lontano. In fondo,proprio in fondo, cresceva un vagomormorio. Era una voce stranissima, anessuna simile.

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E “mormorava novel e”, novel euniche al mondo, le più bel e storie maisentite. Non c’è niente che ami quanto lenovel e, così mi misi a pancia in giù sulparapetto del pozzo per bere meglio aquel a fontana di fiabe. Al e volte lavoce cantava, strane e bel issimecanzoni.

«Ma che meraviglioso pozzo è maiquesto?» mormorai a Jiri.

«Un pozzo di novel e e di canzonidimenticate: il mondo ne era pieno untempo, ma sono tanti anni che tutti lehanno scordate. Soltanto il pozzo-che-ala-sera-bisbiglia le ricorda tutte»

Non so quanto tempo rimanemmo lìseduti In mezzo agli alberi si fece

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sempre più buio, e la voce nel pozzo sifece sempre più tenue. Al a fine non lasentimmo più.

Nel boschetto verdeggiante Miramisnitriva: mi ricordava ch’era tempo diritornare dal Re, mio padre.

«Addio Jiri, addio Minonna-Nel , atutti addio» dissi.

«Addio Mio, addio Jum-Jum» disseJiri. «Tornate presto».

«Sì, ritorneremo presto» dissi.Ci arrampicammo in groppa a

Miramis e lui partì verso casa algaloppo. Non era più così buio perchéla luna era salita in cielo e bril ava suiverdi boschi e sugli alberi silenziosi,così da inargentarli proprio come i

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pioppi laggiù a casa, nel roseto del Re,mio padre.

Giungemmo al Ponte del Primo Sole,ma quasi non lo riconobbi. Eracompletamente trasformato: sembravafatto di raggi d’argento.

«Di notte ha un altro nome» disseJum-Jum mentre lo attraversavamo.

«E come si chiama, di notte?» chiesiio.

«Il Ponte del a Prima Luna» risposeJum-Jum.

Cavalcavamo attraverso il Ponte dela Prima Luna, che fra poco i guardianiavrebbero ritirato, e scorgevamo ifuochi dei pastori del ‘Isola dei PratiVerdi, come piccole fiammel e in

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lontananza. Tutto nel mondo giaceva nela quiete e solo si sentivano gli zoccolidi Miramis rul are sul ponte. La suacriniera non era più d’oro, ma d’argento,e Miramis, al chiaro di luna, sembravaun caval o spettrale.

Pensavo al pozzo-che-al a-sera-bisbiglia e a tutte le novel e udite. Cen’era una che mi piacevaparticolarmente.

Cominciava così:«C’era una volta un figlio di re che

cavalcava al chiaro di luna su un biancocaval o…».

Anch’io ero figlio di re.Sempre più ci avvicinavamo al

‘Isola dei Prati Verdi e gli zoccoli di

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Miramis rimbombavano come tuono. Enel a mente mi risuonava quel a fiaba:

«C’era una volta un figlio di re checavalcava al chiaro di luna su un biancocaval o…».

Nel Bosco dele Tenebre.Al tempo in cui vivevo ancora con

lo zio Sixten e la zia Edla, avevol’abitudine di prendere in prestito deilibri di fiabe dal a biblioteca pubblica.Ma zia Edla non ne era entusiasta.

«Eccoti di nuovo col naso ficcato inun libro» diceva. «Per forza sei lìrachitico, pal ido e striminzito: perchénon te ne stai al ‘aria come gli altribambini».

Invece al ‘aria io ci stavo sempre;

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probabilmente zio Sixten e zia Edlaavrebbero preferito che ci rimanessi al‘infinito. Saranno contenti adesso,immagino, che a casa non ci torno più.

Soltanto di sera cercavo di leggereun poco, ma non poteva dipendere daquesto se ero pal ido. Avrei propriogusto che zia Edla vedesse come sonogrande ora, robusto e sano.

Sono tutto abbronzato, e fortissimo,sul serio. Sarei capace di picchiareJanne con una mano legata dietro laschiena, se vivessi ancora in viaUppland. Ma tutto sommato, non neavrei voglia.

Mi domando cosa direbbe zia Edlase sentisse parlare del pozzo-che-al a-

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sera-bisbiglia.Se le dicessero che non c’è affatto

bisogno di ficcare il naso in un libro e didiventare pal idi per leggere novel e, mache si può rimanere al ‘aria aperta epure farsi una scorpacciata di fiabe.Magari però non sarebbe soddisfattanemmeno così; non c’è mai niente che letorni.

«C’era una volta un figlio di re checavalcava al chiaro di luna su un biancocaval o.

Cavalcava nel Bosco del eTenebre…».

Così aveva raccontato il pozzo. E ilmio pensiero non poteva fare a meno diritornare sempre a quel e parole. Avevo

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la sensazione che con quel a novel a ilpozzo avesse inteso dire qualcosa diparticolare: che io ero il figlio di re chedoveva cavalcare attraverso il Boscodel e Tenebre. Che il pozzo avesseraccontato e cantato per me tutta unasera per indicarmi qual era il miodestino?

Chiesi al Re, mio padre, se sapevadove fosse il Bosco del e Tenebre.

«Il Bosco del e Tenebre è nel PaeseAl di là del e Montagne» rispose, e lasua voce suonò velata. «Perché lo vuoisapere, mio piccolo Mio?»

«Voglio cavalcare stanotte, al chiarodi luna» dissi.

Il Re mio padre mi guardò in modo

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strano.«Ah, di già?» disse, e la sua voce

suonò ancora più triste.«Ma forse tu non vuoi» dissi. «Forse

non sei tranquil o se io cavalco di nottenel Bosco del e Tenebre».

Mio padre, il Re, scosse la testa.«No, e per quale motivo?» disse.

«Un bosco che dorme tranquil o alchiaro di luna non cela pericoli».

Ma poi rimase silenzioso con il capoappoggiato a una mano, e io compresiche i suoi pensieri erano dolorosi.

Gli misi un braccio intorno al e spale per consolarlo e dissi:

«Vuoi che resti a casa con te?»Ml guardò a lungo, e i suoi occhi

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erano tanto tristi.«No, mio piccolo Mio, non puoi

restare: la luna è già alta nel cielo e ilBosco del e Tenebre ti attende».

«Sei proprio sicuro di non esseretriste?»

«Sì, sono proprio sicuro» dissepassandomi una mano tra i capel i. Alora corsi a chiedere a Jum-Jum sevoleva venire con me, ma non avevofatto che pochi passi quando mio padremi chiamò: «Mio piccolo Mio!».

Mi volsi, e vidi il Re, mio padre,che mi tendeva le braccia. Mi precipitaicontro il suo petto e lui mi tenneabbracciato forte forte, a lungo.

«Ma vedrai che torno presto» dissi.

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«Veramente?» disse, in un sussurro.Trovai Jum-Jum davanti al a casetta

del giardiniere e gli raccontai che avevodeciso di cavalcare attraverso il Boscodel e Tenebre

«Così, finalmente!» esclamò Jum-Jum.

Non capi bene perché mio padreavesse detto:

«Ah, di già», e Jum-Jum: «Così,finalmente», ma non me ne feci unproblema.

«Vieni con me?» chiesi a Jum-Jum.Jum-Jum diede un sospirone.«Sì» disse. «Sì. Sì!»Andammo a prendere Miramis che

pascolava nel roseto e io gli sussurrai

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che doveva condurmi al Bosco del eTenebre. Al ora si mise a bal are, comese quel a fosse la notizia piùentusiasmante che da tempo avesseudito. E appena ci accomodammo sul asua groppa, volò via in un lampo.

«Mio piccolo Mio!» senti mio padregridare, quando fummo usciti dal roseto.Era il più triste richiamo che avessisentito, ma non potevo tornare indietro.Non potevo.

Il Paese Al di là del e Montagne eratalmente lontano. Senza un caval oeccezionale come Miramis, maisaremmo riusciti a raggiungerlo, mai cisaremmo potuti arrampicare sugli altimonti che toccavano quasi il cielo. Ma

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per Miramis non c’erano difficoltà.Come un enorme uccel o si librava sul ecime del e montagne e su una di queste,la più alta, atterrammo per un momento,sul e nevi eterne. Seduti in groppa aMiramis contemplavamo il paese che ciattendeva al e falde del a montagna.Ecco il Bosco del e Tenebre bagnato dalchiarore lunare, bel issimo e innocente:doveva essere vero, al ora, che un boscoaddormentato nel chiaro di luna non celapericoli. Aveva ragione mio padre: quitutte le cose, non soltanto le persone,erano buone; i boschi, i prati, i ruscel i ei verdi boschetti. E la notte era buona egentile come il giorno, la luna splendevamite come il sole, e il buio era

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un’amichevole oscurità. Non c’eraniente di cui aver paura.

C’era una sola cosa che incutevaterrore. Un’unica cosa.

Dal a groppa di Miramis intravidi,molto al di là del Bosco del e Tenebre,un paese dove tutto era oscurità, e nonun’oscurità amichevole. Non si potevaguardarlo senza tremare.

«Che paese terribile è quel o!» dissia Jum-Jum.

«Il Paese Al di Fuori inizia laggiù»disse Jum-Jum. «Si vede il suo confine».

«La terra del Cavalier Kato!»esclamai.

Al ora Miramis ebbe un brividocome di freddo, e grossi macigni si

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staccarono dal a montagna e rotolaronocon gran fracasso nel a val e sottostante.

Sì, c’era un solo essere pericoloso:il Cavalier Kato. Da lui bisognavaguardarsi, costantemente. Ma io nonvolevo pensarci più.

«Il Bosco del e Tenebre» dissi aJum-Jum, «il Bosco del e Tenebre, è lìche voglio andare adesso».

Al ora Miramis nitrì, e se ne sentìl’eco alta e selvaggia tra le vette. Poiplanò dolcemente nel ‘aria verso ilbosco il uminato dal a luna ai piedi del amontagna. E dal bosco venne unarisposta, come se cento caval i avesseronitrito nel a notte. Calammo sempre piùin basso, finché gli zoccoli di Miramis

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sfiorarono le cime degli alberi, lievi.Passammo tra i verdi rami folti.Eravamo in mezzo al Bosco del eTenebre.

Il Bosco del e Tenebre era un boscoparticolare, racchiudeva un segreto. Ungrande e meraviglioso segreto, lointuivo, ma la luna doveva avervi stesosopra un velo, perché io non loscoprissi. Non ancora. Un mormoriovagava tra gli alberi, un’al usione alsegreto, ma io non intendevo quellinguaggio. Le piante bril avano alchiaro di luna, racchiudendo un segretoche io non riuscivo a penetrare.

Improvvisamente sentimmo inlontananza un rimbombo di zoccoli:

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sembrava il galoppo di cento caval i nela notte, e quando Miramis nitriva,sembrava che cento caval i glirispondessero nitrendo. Il tuono deglizoccoli si faceva sempre più da presso,i nitriti sempre più selvaggi eimprovvisamente eccoli addosso, centocaval i bianchi con le criniere al vento,altrettanti Miramis. Il mio caval o sibuttò nel branco e insieme galopparonoverso una radura del bosco. Jum-Jum eio eravamo scesi dal a cavalcatura estavamo sotto un albero a guardare ibianchi caval i che, con Miramis intesta, balzavano qua e là come impazzitie s’impennavano al chiaro di luna.

«Come sono felici» disse Jum-Jum.

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«Perché?» chiesi.«Perché Miramis è tornato a casa»

disse Jum-Jum. «Non sapevi cheMiramis proviene dal Bosco del eTenebre?»

«No, non lo sapevo».«Sai così poco tu, Mio» disse Jum-

Jum.«Com’è al ora che ho avuto

Miramis?» chiesi.«Il Re, nostro signore, dispose che

uno dei suoi puledri bianchi venisse al‘Isola dei Prati Verdi per diventare il tuocaval o».

Guardai Miramis che galoppava cosìfelice al chiaro di luna, e fui colto daun’ansia improvvisa.

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«Jum-Jum, credi che Miramis siatriste di dover stare con me?» chiesi.«Forse ha continua nostalgia del Boscodel e Tenebre».

Avevo appena detto queste paroleche Miramis arrivò da me galoppando;posò la testa sul a mia spal a e rimase alungo così in silenzio, dando di tanto intanto dei piccoli nitriti soffocati.

«Ecco, vedi che preferisce stare conte» disse Jum-Jum.

Questo mi rendeva felice.Accarezzai Miramis e gli diedi una zoletta di zucchero, e il suo muso era cosìmorbido contro la mia mano, quando laprese.

Cavalcammo ancora attraverso il

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bosco, e dietro a noi andavano i centocaval i bianchi.

Quel segreto stava immobile nel‘aria. Ne era impregnato il bosco intero,ogni albero, le verdi macchie, le tremuleche frusciavano soavemente al nostropassaggio, i caval i bianchi lo sapevanoe gli uccel i risvegliati dal trapestiodegli zoccoli. Jum-Jum aveva ragionequando mi diceva: «Sai così poco, tu,Mio».

Improvvisamente Miramis partì algaloppo in mezzo agli alberi, e tutti icaval i bianchi gli tennero dietro.Andavamo come il vento. Il mio mantelo rosso si impigliò a un ramo - forsel’albero voleva trattenermi per svelarmi

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il segreto - ma io avevo fretta. Continuaila mia corsa e feci un bel sette nel miomantel o.

In mezzo al bosco apparve unacasetta, piccola e bianca, col tetto dipaglia. Intorno le crescevano dei meli icui fiori candidi splendevano al a luna.Da una finestra aperta veniva un rumoreritmico: sembrava che qualcuno stessetessendo.

«Andiamo a vedere chi è che tesse?»proposi.

«Andiamo» disse Jum-JumScendemmo dal a groppa di Miramis

e seguimmo il sentiero tra i meli fino ala casetta.

Bussammo al a porta e il rumore

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cessò.«Venite dentro, ragazzini» disse

qualcuno. «E’ tanto che vi aspetto».Entrammo nel a casetta e vedemmo

una tessitrice davanti al suo telaio.Aveva un’aria carina e ammiccava nel anostra direzione.

«Perché vegli e tessi nel cuor del anotte?» le chiesi.

«Tesso tela di sogni» rispose, «equesto non si può fare che di notte».

Un raggio di luna che entrava dal afinestra il uminava il suo tessuto, e lofaceva rifulgere.

«Trama di fiabe e tela di sognivanno tessute di notte» ripeté.

«Con che cosa tessi, che viene così

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bel o?» chiesi.Non rispose, ma ricominciò a

tessere. Intrecciava i fili con la spola eintanto canticchiava sottovoce:

“Raggio di luna, raggio di luna,sangue rosso del mio cuore,fili argentati e porporini,fiore di melo vel utatocome il vento lungo i prati.Ma l’Uccel o del Dolorecanta lugubre nel bosco”.Pareva una cantilena monotona, ma

appena la voce dela tessitrice si spense,un’altra canzone, a me nota, echeggiò nelbosco. Era l’Uccel o del Dolore. Stavaappol aiato sul a cima di un albero ecantava da straziare il cuore.

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«Che canta l’Uccel o del Dolore?»chiesi al a tessitrice.

Al ora si mise a piangere, e le suelacrime gocciolavano sul tessuto e sitrasformarono in piccole perle chiare,che lo resero ancor più lucente.

«Che canta l’Uccel o del Dolore?»chiesi ancora una volta.

«Canta del a mia figliolina» disse latessitrice, singhiozzando. «Canta del amia figliolina, che mi hanno rapito».

«Chi ha rapito la tua piccola figlia?»chiesi, ma conoscevo già la risposta,non avevo bisogno che me lo dicesse.«Oh, no, non pronunciare quel nome!»implorai.

«No, perché altrimenti il chiaro di

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luna si offusca» disse la tessitrice, «e icaval i bianchi piangono sangue».

«Perché piangono sangue?»«Per il piccolo puledro anch’esso

rapito» disse la tessitrice. «Ascolta,come l’Uccel o del Dolore canta sulbosco».

Lo sentivo attraverso la finestraaperta; aveva cantato molte sere per menel roseto, ma non avevo mai compresoil suo canto. Ora sapevo: cantava di tuttigli esseri rapiti, del a figliolina del atessitrice, dei fratel i di Nanno, del asorel a di Jiri e di altri, tanti altri che ilCavalier Kato aveva rapito e portato alsuo castel o.

Per questo c’era tanta tristezza nel e

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casupole del ‘Isola dei Prati Verdi e delPaese Al di là del e Acque e del eMontagne: per i bambini, per tutti ibambini che erano scomparsi.

Persino i bianchi caval i nel Boscodel e Tenebre avevano qualcuno dapiangere con lacrime di sangue al solosentirne nominare il rapitore.

Il Cavalier Kato! Avevo una talepaura di lui, una paura mortale. Mamentre me ne stavo in quel a casetta asentire l’Uccel o del Dolore cantare,improvvisamente seppi perché avevocavalcato quel a notte attraverso ilBosco del e Tenebre. Oltre al Bosco dele Tenebre c’erano le tracce del confinecon il Paese Al di Fuori. Era laggiù la

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mia meta. Dovevo andare laggiù acombattere contro il Cavalier Kato,anche se avevo paura, una pauramortale. Tanta paura, che mi veniva solovoglia di piangere, quando pensavo aquel o che ero destinato a compiere.

La tessitrice aveva ricominciato atessere. E insieme a mormorare quel acantilena monotona: «Raggio di luna,raggio di luna, sangue rosso del miocuore», e pareva che si fosse scordatadel a nostra esistenza.

«Jum-Jum» dissi, con una voce chenon mi riconoscevo, «adesso partirò peril Paese Al di Fuori».

«Lo so» disse Jum-Jum.«Come puoi saperlo» chiesi stupito,

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«se non lo sapevo nemmeno io unmomento fa?»

«Sai così poco, tu, Mio» disse Jum-Jum.

«Tu invece sai tutto, mi pare».«Io so da lungo tempo che tu sei

destinato ad andare nel Paese Al diFuori. Tutti lo sanno».

«Tutti?»«Sì» disse Jum-Jum. «L’Uccel o del

Dolore lo sa. La tessitrice lo sa. Centobianchi caval i lo sanno. L’intero Boscodel e Tenebre lo sa, gli alberi lomormorano, e l’erba e i fiori di melo,tutti lo sanno».

«E’ così?»«Ogni pastore del ‘Isola dei Prati

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Verdi lo sa e lo modula sul suo flauto lanotte. Nanno lo sa. La sua nonna, Jiri ele sue sorel e, e il pozzo-che-al a-sera-bisbiglia».

«E il Re, mio padre…» dissi in unbisbiglio.

«Il Re, tuo padre, l’ha sempresaputo» disse Jum-Jum.

«E vuole che io vada?» chiesi, e nonpotevo impedire al a mia voce ditremare.

«Sì, vuole che tu vada» disse Jum-Jum. «E’ triste, ma vuole che tu vada».

«Ma io ho paura!» esclamai, eincominciai a piangere. Per la primavolta sentivo veramente che paura fol eavessi. Afferrai Jum-Jum per un braccio.

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«Jum-Jum» dissi, «io non hoabbastanza coraggio. Perché il Re, miopadre, vuole che vada proprio io?»

«Perché solo un bambino di stirpereale può farlo» rispose Jum-Jum. «Soloun figlio di re».

Così disse Jum-Jum.«Ma se sarà la mia morte?»

interrogai, e strinsi ancor più forte ilbraccio di Jum-Jum.

Non rispose.«Può volere il Re, mio padre, che

vada ugualmente?»La tessitrice aveva smesso di

tessere, e nel a casa c’era silenzio.Anche l’Uccel o del Dolore taceva. Glialberi non muovevano foglia, e non si

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udiva il minimo fruscio. Il silenzio eracompleto.

Jum-Jum annuì.«Il Re, tuo padre, vuole che tu vada

ugualmente».Al ora mi parve che tutto crol asse.«Non ne ho il coraggio!» gridai.

«Non posso, non posso!»Jum-Jum mi fissava senza parlare.

Ma l’Uccel o del Dolore ricominciò acantare, ed era un canto che mi arrestòquasi i battiti del cuore.

«Canta del a mia figliolina» disse latessitrice, e le lacrime caddero sultessuto e si trasformarono in perle.

Serrai i pugni.«Jum-Jum» dissi, «andrò. Andrò al

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Paese Al di Fuori».Al ora un mormorio corse per il

Bosco del e Tenebre, e l’Uccel o delDolore ebbe uno stupendo tril o di gioia.

«Lo sapevo» disse Jum-Jum.«Addio, Jum-Jum» dissi, e sentivo

che stavo per rimettermi a piangere,«addio caro caro Jum-Jum».

Al ora Jum-Jum mi guardò, e avevagli stessi occhi buoni di Benka. Poisorrise.

«Vengo con te» disse.Era un amico, Jum-Jum, era

veramente un amico. Ero felice ch’eglidicesse di volermi seguire, ma nonvolevo che gli capitasse qualcosa dimale.

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«No, Jum-Jum» dissi, «dove iovado, tu non puoi seguirmi».

«Vengo con te» disse Jum-Jum. «Unbambino di sangue reale in groppa a uncaval o bianco dal a criniera d’oro e unsolo amico al suo seguito, così stascritto. Non puoi mutare quel o che èstato deciso da migliaia e migliaiad’anni».

«Migliaia e migliaia d’anni» ripetéla tessitrice. «Ricordo che i venti locantavano la sera che piantai i mieimeli, tanto tanto tempo fa. Migliaia emigliaia d’anni».

Ammiccò.«Vieni, Mio, che ti accomodo il

mantel o» disse.

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Tagliò un pezzo del suo tessuto e conquel o accomodò lo strappo che mi erofatto cavalcando nel bosco. Foderò ilmantel o di quel a stoffa lunare, ed essoricadde morbido e tiepido sul e mie spale.

«Il mio tessuto più bel o a chisalverà la mia piccola figlia» disse latessitrice. «E ti darò del cibo, il pane-che-sazia-la-fame. Tienlo da conto,perché devi percorrere sentieri difame».

Mi diede il pane, e io la ringraziai.Poi mi volsi a Jum-Jum:

«Siamo pronti?»«Pronti» disse Jum-Jum.Passammo la porta. Seguimmo il

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sentiero tra i meli. Montammo a caval o.L’Uccel o del Dolore spiegò le suegrandi ali nere e volò verso la montagna.

I cento caval i bianchi rimaseroimmobili a guardarci, mentre sparivamotra gli alberi. Non ci seguirono. I fiori dimelo bril avano bianchi come la neve alchiaro di luna. Forse non avrei visto maipiù fiori di melo così bianchi…

Gli ucceli stregati.Forse non avrei visto mai più fiori

di melo, mai più verdi alberi, mai piùprati di veluto.

Perché dove stavamo andando i fiorinon sbocciavano e non potevanocrescere né alberi né erba.

Cavalcammo nel a notte, andavamo e

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andavamo. I boschetti amici nel chiarorelunare li avevamo lasciati indietro edavanti a noi non regnava che l’oscurità.Il lume del a luna s’era spento, il terrenos’era fatto duro e sassoso, nude paretirocciose si ergevano dappertutto,serrandoci sempre più da presso. Al afine ci trovammo a cavalcare per unangusto sentiero buio incassato tra duealtissime montagne nere.

«Se soltanto la strada non fosse cosìbuia!» sospirò Jum-Jum. «Se soltanto lemontagne non fossero così nere e noicosì piccoli e soli!»

Il sentiero si snodava serpeggiante esi aveva la sensazione che dietro ognicurva stessero in agguato mil e pericoli.

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Anche Miramis lo avvertiva: tutto il suocorpo fremeva e di continuo tentava digirarsi per tornare indietro. Ma ioreggevo le redini ben salde e locostringevo a procedere. Il sentiero sifece più stretto; le montagne nere sialzarono; l’oscurità s’infittì. Al a finearrivammo a una stretta apertura tra lepareti rocciose, che assomigliava a unaporta. E al di là di essa si intravvedevauna tenebra più buia del a più profondaoscurità.

«Il Paese Al di Fuori» mormoròJum-Jum. «Questo è l’ingresso del PaeseAl di Fuori».

Miramis s’impennò selvaggiamente;si rizzò sul e zampe posteriori e nitrì che

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non reggeva il cuore a udirlo. Era unsuono terrificante, ed era l’unico cheintorno si sentisse. Perché le tenebre aldi là del ‘ingresso erano mute. Mute eadescatrici. Attendevano solo chevarcassimo il confine.

Capivo di dover entrare in quel‘oscurità, ma non avevo più paura. Orache sapevo che da migliaia e migliaiad’anni era stabilito che io dovessipassare quel a porta buia, m’era venutouno strano coraggio. Succeda quel cheha da succedere, pensavo. Forse nonsarei mai più tornato indietro, ma pauranon volevo averne.

Guidai Miramis verso quel etenebre. Quando si rese conto che mai

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gli avrei permesso di tornare indietro,passò quasi in fuga attraverso la portastretta e galoppò fuggendo per i buisentieri oltre il confine. Volavamo nel anotte nera senza conoscere la strada.

Ma Jum-Jum mi era accanto; misedeva al e spal e e mi abbracciavastretto. Mai gli avevo voluto così bene.Non ero solo: mi seguiva un amico, unosoltanto, proprio come era stato detto.

Per quanto tempo cavalcassimoattraverso le tenebre, non potrei dirlo.Forse fu solo un breve attimo, forsefurono molte, molte ore. Oppurepassarono migliaia e migliaia d’anni,così mi parve. Era come quando sicavalca in sogno, in quei sogni

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spaventosi dai quali ci si svegliaurlando e poi si rimane ancora a lungoimmobili a letto dal a paura. Ma questoera un sogno senza risveglio.Continuavamo a cavalcare e a cavalcarenel a notte.

Improvvisamente Miramis si arrestò.Eravamo giunti a un lago e in nessunincubo vidi lago più spaventoso. Al evolte avevo sognato di grandi distesed’acque buie; ma mai l’acqua era cosìbuia come quel a che si stendeva oradavanti a me. Era la superficie piùsolitaria e più nera del mondo; intornonon c’erano che alte rocce scure edeserte. E sul e acque tenebrosevolteggiavano molti, moltissimi uccel i.

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Non si vedevano, ma si sentivano le lorostrida. E mai ho udito qualcosa di piùtriste, di più penoso: come seimplorassero aiuto; come se fosserodisperati e piangessero.

Dal ‘altra parte del lago, sul a rocciapiù alta, c’era un grande castel o nerocon soltanto una finestra il uminata.Assomigliava a un occhio, un occhiorosso, cattivo, orrendo, che ci fissassenel a notte e ci volesse male.

«Il castel o del Cavalier Kato!»sussurrò Jum-Jum, e Miramis rabbrividì.

Il castel o del Cavalier Kato! Eradunque laggiù. Dal ‘altra parte di quel‘acqua buia stava il nemico che erovenuto a combattere. Quel ‘occhio

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crudele fisso sul lago mi terrorizzava,anche se avevo deciso di non avere piùpaura. Mi terrorizzava: come poteva unessere piccolo come me trionfare suqualcuno perfido e malvagio quanto ilCavalier Kato?

«Tu hai bisogno di una spada» disseJum-Jum.

In quel momento sentimmo qualcunolamentarsi nel e vicinanze:

«Ohi ohi ohi» si lamentava la voce.«Muoio di fame. Ohi ohi ohi!»

Poteva essere pericoloso avvicinarsia quel ‘invocazione; forse era unatrappola. Ma decisi che, chiunque fosse,dovevo cercarlo per capire se avevaveramente bisogno di aiuto.

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«Dobbiamo andare a vedere chi è»dissi a Jum-Jum; «dobbiamo aiutarlo».

«Vengo con te» disse Jum-Jum.«E tu, Miramis, rimani qui» dissi

accarezzandogli il muso. Il caval o nitrìansiosamente.

«Non stare in pensiero» lorassicurai. «Torniamo subito».

Chi si lamentava non doveva esserelontano, ma era una impresa difficilerintracciarlo in quel ‘oscurità.

«Ohi ohi ohi» si fece di nuovo udirela voce. «Muoio di fame. Ohi ohi ohi!»

Avanzammo a tentoni nel a direzioneda cui venivano i lamenti, incespicandonei sassi e scivolando nel ‘oscurità. Mafinalmente incappammo in una casupola

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cadente. Era una vera topaia; se nonfosse stata addossata a una parete del aroccia, sarebbe certamente crol ata. Unaluce fioca traspariva da una finestra, enoi ci avvicinammo in punta di piedi esbirciammo nel ‘interno.

Là dentro stava seduto un vecchiettomagro, sparuto, un povero vecchio daigrigi capel i arruffati. Nel caminettoardeva il fuoco, ed egli sedeva davantial fuoco dondolandosi avanti e indietro;e lamentandosi:

«Ohi ohi ohi, muoio di fame,muoio…».

Al ora entrammo. Il vecchiettoammutolì e ci fissò. Stavamo in piedi sula soglia e lui ci fissava come se non

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avesse mai visto esseri simili a noi.Levò le vecchie mani ossute, come perripararsi da un pericolo.

«Non fatemi del male» sussurrò.«Non fatemi del male!»

«Non siamo venuti per farti delmale» dissi. «Abbiamo sentito che avevifame: ti portiamo del pane».

Tirai fuori il pane che ci aveva datola tessitrice e lo porsi al vecchietto. Luicontinuava a fissarmi, al ora glieloavvicinai ancora, ma il vecchio era solospaventato, terribilmente spaventato,come se gli stessi tendendo un tranel o.

«Prendi il pane» dissi, «non averpaura».

Tese cautamente la mano, e lo

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afferrò. Lo strinse tra le palme,tastandolo; lo portò al naso e lo annusò.Al ora cominciò a piangere.

«Pane» singhiozzò. «Pane-che-sazia-la-fame».

Poi si mise a mangiare. Non ho maivisto nessuno mangiare così. Mangiava epiangeva, mangiava mangiava. Quandoebbe finito, raccolse fin la piùminuscola briciola caduta sugli abiti,fino al ‘ultima, e solo al ora tornò afissarci e disse:

«Da dove venite, voi? Dov’è che sitrova del pane come questo? Per tutti igiorni di fame che ho passato, ditemi, dadove venite?»

«Dal Paese Lontano. Laggiù c’è

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pane come questo» dissi.«E perché siete qui?» sussurrò il

vecchietto.«Per combattere contro il Cavalier

Kato» risposi.Avevo appena detto così, che il

vecchio cadde dal a sedia con un grido.Rotolò per terra come un piccologomitolo polveroso e venne verso di noia quattro zampe. Si fermò ai nostri piedie guardò in su strizzando quei suoiocchietti spaventati.

«Tornate indietro, da dove sietevenuti» sussurrò. «Tornate indietro,prima che sia troppo tardi!»

«Io non torno indietro» dissi. «Sonovenuto per combattere contro il Cavalier

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Kato».Lo dissi ad alta voce, e chiaramente.

Pronunciai il nome del Cavalier Katopiù chiaro e più forte che potevo, e ilvecchietto mi fissava come se siaspettasse che io rimanessi lì stecchitodavanti ai suoi occhi.

«Ohi ohi ohi» implorò. «Zitto! Sta’zitto! Tornate là da dove siete venuti.Andate, prima che sia troppo tardi, vidico».

«Indietro non torno» ribattei. «Sonovenuto per combattere contro il CavalierKato».

«Ssst!» mormorò il vecchietto,terrorizzato. «Zitto. Le spie possonosentirti. Forse proprio in questo

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momento stanno in ascolto».Si trascinò fino al a porta e origliò

angosciato.«E’ tutto silenzio» disse, «ma

possono esserci ugualmente. Qua, là,dappertutto. Spie dappertutto».

«Le spie del Cavalier Kato?» chiesi.«Zitto, ragazzo. Vuoi proprio buttar

via la tua giovane vita? Non puoichetarti?»

Si rimise a sedere sul a seggiola eammiccò nel vuoto.

«Sì, sì» bisbigliò così piano, chequasi non si afferravano le parole. «Lesue spie sono ovunque. Di mattina, disera, di notte. Sempre e ovunque».

Tese la mano e mi afferrò per un

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braccio.«Per tutti i giorni di fame che ho

passato» sussurrò, «non ti fidare dinessuno. Entri in una casa… credi diessere fra amici. Ma sei fra nemici. Titradiscono, ti consegnano a quel o chesta dal ‘altra parte del lago. Non tifidare di nessuno, ti dico. Non ti fidaredi me! Come fai a sapere che non timando dietro le spie, appena esci diqui?»

«Non credo che lo farai» dissi.«Non si può mai essere sicuri»

sussurrò il vecchietto. «Non si può maiessere sicuri di niente».

Rimase pensieroso, in silenzio.«No, non te le manderò dietro, le

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spie» disse. «C’è ancora qualcuno chenon è un traditore, in questo paese. E c’èancora qualcuno che sa battere il ferro».

«Noi abbiamo bisogno di un’arma»disse Jum-Jum. «Mio deve avere unaspada».

Il vecchietto non rispose. Andò al afinestra e l’aprì. Fuori, sul lago, sisentiva il lamento triste degli uccel i.Sembrava che piangessero nel a notte.

«Senti» disse il vecchio, «senti,come si lagnano. Vuoi diventare anche tuun uccel o che vola piangendo sullago?»

«Che uccel i sono?» chiesi.«Sono uccel i stregati» disse. «E tu

certo sai, chi è stato. Certo sai, chi li ha

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rapiti. E ora sai anche che accade a chivuol combattere il brigante».

Una grande tristezza mi prese,quando ebbi udito le sue parole. Quegliuccel i… erano i fratel i di Nanno e lasorel a di Jiri e la piccola figlia del atessitrice, e tutte le altre creature che ilCavalier Kato aveva rapito e stregato.Oh, avrei combattuto contro di lui,eccome!

«Mio deve avere una spada» disseJum-Jum. «Senza una spada, non si puòcombattere».

«Tu hai detto che c’era ancoraqualcuno che batteva il ferro» ricordaial vecchietto.

Mi guardò quasi arrabbiato.

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«Non ci tieni al a tua giovane vita?»«Dove posso trovare un fabbro?»

ripetei.«Zitto!» e rinchiuse lesto la finestra.

«Zitto, le spie ti sentono».Andò in punta di piedi fino al a

porta, vi appoggiò l’orecchio e ascoltò.«E’ tutto silenzio» disse. «Ma non

vuol dire. Spie dappertutto».Poi si chinò su di me e mi sussurrò

al ‘orecchio:«Va’ dal Fabbro di Spade e salutalo

da parte di Eno. Digli che hai bisogno diuna lama che tagli la pietra. Digli chesei un cavaliere del Paese Lontano».

Mi guardò a lungo.«Perché tu lo sei, vero?»

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«Sì» rispose Jum-Jum per me. «E’cavaliere e principe. Il principe Mio delPaese Lontano.

E deve avere una spada».«Dove troverò il Fabbro di Spade?»

chiesi.«Nel a caverna più profonda del a

più nera montagna» disse il vecchietto.«Attraversa il Bosco Morto! Adesso!»

Andò al a finestra e la riaprì. E sullago senti ancora il grido degli uccel idel a notte.

«Adesso, principe Mio» disse ilvecchio. «Il mio cuore ti seguirà. Maforse già domani sentirò un nuovo uccelo piangere sul lago».

Nel Bosco Morto.

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Stavamo chiudendoci ale spale laporta di Eno, quando udimmo Miramisnitrire. Era un nitrito alto e disperato.Come se invocasse: «Mio, aiutami!».

Il cuore mi si arrestò in petto.«Jum-Jum, cosa stanno facendo a

Miramis!» gridai. «Senti! Cosa fanno aMiramis!»

«Zitto» disse Jum-Jum. «L’hannopreso… le spie».

«Le spie hanno preso Miramis?»gridai: non m’importava che qualcunopotesse sentirmi.

«Devi far piano» sussurrò Jum-Jum,«altrimenti prendono anche noi».

Ma io non ascoltavo già più quel chemi diceva. Miramis, il mio caval o

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amato; era il mio caval o, il più bel o eveloce del mondo, che stavanoportandomi via.

Lo senti nitrire ancora, e misembrava proprio che implorasse:«Mio, perché non vuoi aiutarmi?».

«Vieni» mi disse Jum-Jum,«dobbiamo andare a vedere che cosa glistanno facendo».

Ci arrampicammo al buio su per lerocce.

Procedevamo faticosamente carponi;io mi feri le mani sul e pietre taglienti,ma non sentivo dolore: ero troppodisperato per Miramis.

Stava ritto su una roccia erisplendeva candido nel ‘oscurità. Il mio

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Miramis, il caval o più bianco e più belo del mondo.

Nitriva selvaggiamente es’impennava cercando di liberarsi. Macinque spioni neri lo circondavano, edue lo trattenevano per le redini. PoveroMiramis, che terrore doveva provare:quei neri spioni erano così sinistri, e leloro voci suonavano così lugubrementeafone.

Jum-Jum e io ci avvicinammocarponi finché non ce ne mancò ilcoraggio, poi ci appiattimmo dietro unaroccia da dove potevamo sentire le loroparole:

«La cosa migliore è portarlo nel anera barca direttamente al di là del Lago

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Morto»propose uno.«Sì, oltre il Lago Morto dal Cavalier

Kato» disse un altro.Avrei voluto gridare loro di lasciar

libero il mio caval o, ma mi trattenni.Chi avrebbe combattuto contro ilCavalier Kato, se io fossi stato fattoprigioniero dal e spie? Ah, perchéproprio “io” ero stato scelto percombattere contro il Cavalier Kato? Inquel momento mi pareva che nemmenola sorte degli uccel i stregati mitoccasse; l’unica cosa che desideravoera di riavere per me Miramis dal acriniera d’oro.

«Qualcuno deve avere attraversato il

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confine» disse una del e spie. «Qualcunodeve aver cavalcato il caval o bianco. Ilnemico è fra noi».

«Bene, se il nemico è fra noi» disseun altro, «vuol dire che lo prenderemopiù facilmente.

E ancora più facilmente il CavalierKato lo annienterà e lo schiaccerà».

Fremetti, perché ero io il nemico cheaveva oltrepassato il confine, io coluiche il Cavalier Kato doveva schiacciaree annientare. Se il Re, mio padre, fossestato lì ad aiutarmi! «Io so che tu vuoiche io combatta contro il Cavalier Kato»gli avrei detto, «ma dispensami, tiprego! Che io possa riavere Miramis elasciare questo luogo per sempre. Mai

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prima ho avuto un caval o tutto mio, enemmeno un babbo tutto per me, lo sai.E se ora il Cavalier Kato mi avrà in suopotere, mai più potrò stare con te.Aiutami a scappare da qui! Non civoglio più stare! Voglio stare con te,voglio tornare al ‘Isola dei Prati Verdicon Miramis!»

Proprio quando me ne stavo dietro laroccia agitato da questi pensieri, misembrò di udire la voce del Re, miopadre.

«Mio piccolo Mio» disse.Nul ‘altro. Ma capi ch’egli

desiderava che io fossi coraggioso, eche non me ne stessi lì a piagnucolarecome un bamberottolo, anche se mi

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avevano portato via Miramis. Ero o nonero un cavaliere? Quel Mio checostruiva capanne nel roseto e chevagava per i col i del ‘Isola dei PratiVerdi suonando il flauto non esistevapiù. Adesso ero un cavaliere, uncavaliere “buono”, non come Kato. E uncavaliere deve essere coraggioso, nondeve piangere.

Così non piansi, eppure vidi duespie trascinare Miramis fino al lago eissarlo su una grande barca nera. Nonpiansi, eppure Miramis nitriva come sevenisse frustato. Non piansi nemmenoquando gli spioni si misero ai remi e nesenti lo sciabordio nel ‘acqua scura. Ilrumore si fece sempre più fioco, e

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l’ultimo disperato nitrito di Miramis migiunse di lontano sul lago, prima che labarca sparisse… ma non piansi. Perchéero un cavaliere.

Non piangevo? Oh, se piangevo!Stavo bocconi dietro la roccia, con lafronte contro il duro suolo e piangevodisperatamente. Un bravo cavalieredeve saper anche dire la verità.

Non riuscivo a smettere, e quandopensai agli occhi di Miramis, cosìfedeli, piansi ancora di più. La tessitriceaveva detto che i cento caval i bianchipiangevano sangue per il puledro rapito;forse anch’io piangevo nel ‘oscuritàlacrime di sangue per Miramis.

Jum-Jum si chinò su di me e mi mise

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una mano sul a spal a.«Non piangere più, Mio» disse.

«Dobbiamo andare dal Fabbro di Spade.Tu devi avere una spada».

Avevo ancora dentro di me moltelacrime, ma le inghiotti . Cercai diessere forte e le inghiotti . Poi mirialzai, per andare al a ricerca delFabbro di Spade. Attraversa il BoscoMorto, aveva detto Eno. Ma dov’era ilBosco Morto?

«Dobbiamo trovare il Fabbro diSpade prima che la notte finisca» dissi aJum-Jum.

«L’oscurità ci protegge dagli spioni.Dobbiamo passare il Bosco Mortostanotte».

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Ci arrampicammo di nuovo sul erocce e tornammo al a catapecchia diEno. Era buia e silenziosa, e non siudiva più nessuno lamentarsi.Avanzammo ancora nel a notte, efinalmente arrivammo al Bosco Morto.Non un alito di vento, né fruscio difoglie. Perché non c’erano fogliolinepalpitanti, ma solo morti tronchid’albero neri, con rami nodosi estecchiti.

«Stiamo entrando nel Bosco Morto»disse Jum-Jum.

«Sì, ci entriamo» dissi, «ma chissàse ne usciremo mai».

Perché era proprio uno di queiboschi nei quali ci si perde nei sogni, al

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e volte. Si cammina e si cammina, e nonsi trova mai l’uscita.

Ci tenevamo per mano, Jum-Jum eio, mentre camminavamo per il BoscoMorto sentendoci così piccoli e spersi.Gli alberi morti erano talmente fitti chequasi ci impedivano di avanzare.

«Se soltanto il bosco non fosse cosìfolto, e il buio così fondo, e noi cosìpiccoli e soli»

mormorò Jum-Jum.Cammina e cammina. A volte in

lontananza risuonavano del e voci: eranole spie.

Probabilmente era vero quel o cheEno aveva detto, che c’erano spie diKato dappertutto.

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L’intero Bosco Morto ne sembravapieno. E quando le sentivamo, lontanofra gli alberi, ci arrestavamo, Jum-Jum eio, e quasi quasi non osavamo respirare.

Cammina e cammina.«La notte è lunga, qui nel Bosco

Morto» disse Jum-Jum, «ma ancor piùlunga mi sembra la strada per arrivare alFabbro di Spade».

«Jum-Jum, tu credi che lotroveremo?…» avevo cominciato achiedere, ma le parole mi si fermaronoin gola. Perché laggiù tra gli alberiavanzava verso di noi una lunga fila dispioni neri…

Tutto era perduto! Mai più avreipotuto combattere contro il Cavalier

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Kato, e la notte seguente Eno avrebbesentito due nuovi uccel i piangerevolando sul lago.

Sempre più sempre più siavvicinavano a noi gli spioni. E noirimanevamo immobili, incapaci dimuoverci. Ma qui avvenne un fattostraordinario: il vecchio tronco di unodegli alberi neri si aprì proprio accantoa noi, e io vidi che era cavo. E primache mi rendessi conto di come era potutosuccedere, Jum-Jum ed io ci ritrovammorannicchiati nel ‘interno del ‘alberocavo, tremanti come due uccel ini su cuiplana lo sparviero. Ora le spie ci eranoproprio accanto, così che potevamoudire quel o che dicevano.

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«Ho sentito qualcuno parlare nelBosco Morto» diceva una di loro. «Chiè che parla nel Bosco Morto?»

«Il nemico è fra noi» dicevaun’altra. «E’ il nemico, che parla nelBosco Morto».

«Se il nemico è nel Bosco Morto, locattureremo presto» disse una terza spia.«Cercate, cercate dappertutto!»

E li sentimmo frugare fra gli alberi.E udimmo i loro passi circospetti. Noinel nostro albero, così piccoli eimpauriti.

Frugarono dappertutto, senzatrovarci. Le loro voci si al ontanaronosempre più, finché tornò il silenzio.L’albero cavo ci aveva salvati.

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Ma perché? Forse perché tutto ilBosco Morto odiava il Cavalier Kato esi al eava con chi veniva a combatterlo?Forse quel ‘albero morto un tempo erastato un giovane albero sano con le suefoglioline verdi fruscianti al vento; forsela ferocia del Cavalier Kato ne avevacorroso e carbonizzato i rami. Noncredo che un albero possa maiperdonare chi gli ha ucciso le tenerefoglie.

«Grazie, buon albero» dissi uscendocarponi dal suo tronco cavo.

Ma l’albero rimase immobile esilenzioso.

E continuammo a camminare per ilBosco Morto.

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«Sta albeggiando» disse Jum-Jum,«e ancora non abbiamo trovato lacaverna del Fabbro di Spade».

La notte stava per finire. Ma l’albaqui non era chiara e luminosa: era grigiae terribile, un crepuscolo molto simile al‘oscurità. Pensai a come era l’alba nel‘Isola dei Prati Verdi, quandocavalcavamo Miramis e i prati eranoumidi di rugiada, e ogni filo d’erba brilava.

Così camminavo pensando aMiramis, dimentico di ogni cosa, e nonmi meravigliai né mi spaventai quandosenti un calpestio di zoccoli. Ecco, oraarriva Miramis, pensai. Ma Jum-Jum miafferrò per un braccio e bisbigliò:

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«Ascolta! Le spie cavalcano per ilBosco Morto!»

Di nuovo credetti che tutto fosseperduto. Ora niente poteva più salvarci:fra poco i neri spioni sarebbero apparsifra gli alberi e ci avrebbero visti!Sarebbero sopraggiunti a caval o comeventi di tempesta, si sarebbero chinati incorsa per afferrarci e ci avrebberobuttati sui loro caval i. E via, fino alcastel o del Cavalier Kato. Mai piùavrei potuto combattere contro di lui, ela notte seguente Eno avrebbe sentitodue nuovi uccel i piangere volando sullago.

Sempre più sempre più siavvicinava il trepestio degli zoccoli. Ma

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ecco che avvenne un fatto straordinario:davanti a noi si spalancò nel terreno unaluce, una grande tana, pareva. E primache io mi rendessi conto di come erapotuto succedere, Jum-Jum e io ciritrovammo rincantucciati nel a tana,tremanti come due coniglietti inseguitidal a volpe.

Appena in tempo. Il trepestio si fecesempre più vicino, e sentimmo gli spionicavalcare sul e nostre teste, propriosopra di noi, e gli zoccoli pesanti deicaval i rintronare sul tetto del a tana. Unpo’ di terriccio si staccò e scorse in unrivoletto, su di noi. E noi lì tremanti,piccoli e spaventati.

Poi ci fu silenzio. Un silenzio fondo,

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come se in tutto il Bosco Morto non cifosse nessun essere vivente.Attendemmo a lungo.

«Credo che ora possiamo sgusciarfuori» dissi infine.

Ma nel o stesso istante sentimmo dinuovo quel trepestio di zoccoli. Glispioni tornavano.

Ancora una volta gli zoccolituonarono sul e nostre teste e sentimmole spie lanciare grida e richiami. Poi sibuttarono giù dai caval i e si sedetteroper terra subito fuori dal a tana.

Potevamo vederli dal suo imbocco;erano così vicini che avremmo potutotoccarli.

Sentivamo ogni parola di quel che

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dicevano.«Ordine del Cavalier Kato: il

nemico deve essere catturato vivo omorto» disse uno di loro.

«Il nemico giunto sul caval o biancodeve essere catturato entro stanotte.Ordine del Cavalier Kato».

«Il nemico è fra noi» disse un altro,«e certo verrà catturato. Cercate, cercatedappertutto!»

Sedevano vicinissimi, a discutere dicome intendevano catturarci. Così neri eorribili in quel a terrificante alba grigiae con tutti quegli alberi morti intorno,mentre le loro nere cavalcaturepascolavano battendo selvaggiamente ilterreno con gli zoccoli.

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«Cercate, cercate dappertutto. Chebuco è quel o lì per terra?» disse a untratto uno spione.

«Una tana» rispose un altro. «Forseil nemico è nascosto lì dentro. Cercate,cercate dappertutto!»

Jum-Jum e io ci stringemmo l’uno al‘altro. Ora tutto era davvero perduto.

«Proverò con la mia lancia» disseuna del e spie. «Se il nemico è lì dentro,lo infilzerò».

Vedemmo una lancia nera penetrarenel a tana e cercammo di indietreggiareil più possibile. Ma anche la lancia eralunga, e la sua punta aguzza siavvicinava sempre più.

La lama vibrava nel ‘aria, ma non

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colpiva noi. Colpiva la parete del a tanatra Jum-Jum e me, ma noi no.

«Cercate, cercate in tutto il BoscoMorto» ripeteva lo spione di fuori.«Ordine del Cavalier Kato: il nemicodeve essere preso! Cercate, cercatedappertutto! Qui non c’è».

Le spie rimontarono sui loro nericaval i e partirono al galoppo.

Eravamo salvi di nuovo. La tana ciaveva salvati. Perché? Forse persino laterra odiava il Cavalier Kato e si aleava con chi era venuto a combatterlo.Forse un tempo su quel terreno crescevadel a verde erbetta tenera, erba bagnatadal a rugiada del ‘alba. E certo lacrudeltà del Cavalier Kato l’aveva

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carbonizzata e corrosa. Non credo che laterra possa mai perdonare chi le ha fattomorire i fragili fili d’erba.

«Grazie, buona terra» dissi, quandoce ne andammo.

Ma la terra non rispose. Si stendevasilenziosa, e la tana era sparita.

Andammo e andammo, finché ilBosco Morto finì. Montagne e rocce siergevano ora davanti a noi. Quando levidi, la disperazione mi afferrò: erano lerocce intorno al Lago Morto quel e al equali eravamo giunti. Tutto era statoinvano. Mai avremmo trovato il Fabbrodi Spade: avevamo vagato per il BoscoMorto tutta la notte, ora ci ritrovavamoal punto di partenza. Ecco laggiù la

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catapecchia di Eno, piccola, grigia ecadente, addossata al a roccia per noncadere. Contro un’alta roccia nera comeil carbone.

«E’ certo la montagna più nera delmondo…» mormorò Jum-Jum.

La montagna più nera del mondo!Ma era proprio lì che il Fabbro diSpade doveva avere la sua caverna. Lacaverna più profonda nel a montagna piùnera, così aveva detto Eno.

«Oh, Jum-Jum» cominciai, «vedraiche…».

Ma poi ammutoli . Perché come unturbine venne dal Bosco Morto, unturbine fatto da un lungo, tenebrosovortice di neri spioni. Alcuni

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avanzavano di corsa, altri spronavano iloro bui destrieri e tutti insieme cistavano circondando. Ci avevano visti, etutti insieme rumoreggiavano con le loroterrificanti voci afone:

«Il nemico è fra noi. Laggiù!Acchiappatelo! Acchiappatelo! Ordinedel Cavalier Kato: il nemico sia presovivo o morto!»

Addossati contro la parete rocciosa,Jum-Jum e io vedevamo gli spioniavvicinarsi sempre più. Tutto eradavvero, davvero perduto. Mai piùavrei combattuto contro il CavalierKato.

Ero talmente triste, che avrei volutobuttarmi per terra e piangere. Ma poi

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pensai che ne avrei avuto tutto il tempo:già la notte seguente Eno avrebbe sentitoun nuovo uccel o volare sul lago, unuccel o che si lamentava più forte e piùtristemente degli altri. Eno l’avrebbeguardato dal a finestra e avrebbemormorato:

«Laggiù vola il principe Mio».Il Fabbro di Spade.Ma alora avvenne un fatto

straordinario: la parete rocciosa controla quale stavamo addossati, cedette, eprima che mi rendessi conto di comefosse potuto succedere, Jum-Jum e iostavamo dentro la montagna, tremanticome due agnel ini quando arriva illupo.

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Ma non occorreva avere tanta paura.Stavamo nel a montagna, e gli spionifuori. La parete rocciosa s’era richiusasenza lasciare aperture. Qui non ciavrebbero presi mai.

Sbraitavano inferociti, là fuori.«Cercate, cercate dappertutto»

urlavano. «Il nemico era tra noi, ed èsparito. Cercate, cercate dappertutto!»

«Sì sì, cercate cercate» dissi io.«Qui non ci troverete mai!»

Eravamo così felici, Jum-Jum e io,che ridevamo forte nel a montagna. Mapoi mi venne in mente Miramis e al oranon risi più.

Ci guardammo intorno. Eravamo inun’immensa cavità buia, ma il buio non

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era completo Vi era diffuso un debolechiarore, che non si capiva da dovevenisse. Dal a caverna si dipartivanobuie gal erie che si addentravano nelcuore del a montagna.

Nel a caverna più profonda del amontagna nera abitava il Fabbro diSpade, così aveva detto Eno. Certamenteuna di quel e gal erie buie portava a lui,ma quale?

«Così, siamo entrati nel a montagnapiù nera» disse Jum-Jum.

«Ci siamo entrati, ma chissà se neusciremo mai».

Perché era proprio una montagna incui perdersi, come nei sogni: si camminae si cammina per strani sentieri bui,

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senza poter trovare la via d’uscita.Ci prendemmo per mano e ci

incamminammo verso l’interno del amontagna. Ci sentivamo così piccoli espersi, e la via per la caverna piùprofonda doveva essere ancora moltolunga.

«Oh, se solo questa montagna nonfosse così terribile» mormorò Jum-Jum,«i corridoi non fossero così bui e noicosì piccoli e soli!»

Andammo e andammo. Ogni tanto legal erie si dividevano e si ramificavanoin diverse direzioni. L’interno del amontagna era tutto percorso da una retedi strade tenebrose.

A volte quel debole chiarore

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appariva più intenso, così da il uminareun paio di metri di strada, ma altrel’oscurità era completa, e non sidistingueva nul a. A volte poi la gal eriaera così alta che sembrava la navata diuna chiesa. Le pareti trasudavanoumidità, faceva freddo e noi ciavvolgemmo più strettamente nei nostrimantel i.

«Forse non troveremo la viad’uscita, e nemmeno la caverna delFabbro di Spade» disse Jum-Jum.

Avevamo fame, e mangiammo un po’del nostro pane; poco, perché nonsapevamo quanto dovesse durare.

Mentre mangiavamo, continuavamo acamminare. E quando ebbi finito il pane

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eravamo proprio giunti a un punto in cuiil corridoio si diramava in tre direzioni.

Qui del ‘acqua scorreva lungo lepareti e io mi fermai a bere quel ‘acqua.Buona non era, ma non ne avevamo del‘altra. Quand’ebbi bevuto, mi volsi.Jum-Jum non c’era più. Forse non s’eraaccorto che io m’ero fermato a bere eaveva continuato per uno di queicorridoi pensando che io gli andassidietro.

Al momento non provai paura. Stavofermo al trivio e mi chiedevo quale viaavesse preso Jum-Jum. Non potevaessersi al ontanato troppo e bastava chelo chiamassi.

«Jum-Jum, dove sei?» gridai con

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quanta voce avevo in gola. Ma il miogrido risuonava come un lugubrebisbiglio.

Che montagna era quel a? Era comese le pareti rocciose accogliessero ilsuono del mio grido, lo soffocassero elo restituissero sotto forma di bisbiglio.E i bisbigli avevano un’eco che andavasussurrando per l’intera montagna.

«Jum-Jum, dove sei?» chiedeva lavoce soffocata per tutti i corridoi. «Jum-Jum, dove sei?… Jum-Jum, dove sei?»

Improvvisamente una paura fol e miprese. Provai a urlare ancora più forte,ma la montagna continuava a bisbigliaresoltanto. Non potevo credere che quel ache udivo fosse la mia voce; certo

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apparteneva a qualcun altro, qualcunoche si trovava lontano, nel ventre del amontagna, e che si burlava di me.

«Jum-Jum, dove sei… Jum-Jum,dove sei… Jum-Jum dove sei»sussurrava.

Ero pazzo di terrore. Mi precipitainel a gal eria di sinistra, feci un paio dipassi correndo, poi sempre correndotornai al ‘incrocio e mi precipitai nel agal eria di destra, di nuovo tornaiindietro correndo e mi precipitai in quela di mezzo. Jum-Jum, che strada haipreso?

Ora non osavo più gridare, perchéquei bisbigli erano più terrificanti ditutto il resto. Ma Jum-Jum doveva pur

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sentire che avevo bisogno di lui ecertamente sarebbe tornato indietro.

Di nuovo la gal eria si biforcava eovunque guardassi serpeggiavano nuovisentieri bui verso i quali mi precipitavosempre cercando affannosamente. Misforzavo di non piangere, perché ero uncavaliere. Ma non ce la facevo più afare il cavaliere. Pensavo a Jum-Jum chestava correndo chissà dove, anche luidisperato, e mi chiamava, e al ora mibuttai sul a ruvida roccia e piansi comeavevo pianto quando gli spioni avevanocatturato Miramis. Ora non avevo piùMiramis e non avevo più Jum-Jum: erocompletamente solo.

Mi pentivo di essere venuto in quel

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paese e non riuscivo a capire come ilRe, mio padre, avesse potuto lasciarmicombattere contro il Cavalier Kato.Avrei voluto averlo lì per potergli dire:«Vedi come sono solo? Jum-Jum èsparito, e tu sai che è il mio miglioreamico, ora che non ho più Benka. Eadesso non ho più nemmeno Jum-Jum.Sono completamente solo. E tutto questoperché hai voluto che io combattessicontro il Cavalier Kato».

Per la prima volta ebbi la sensazioneche fosse un po’ ingiusto, da parte delRe, mio padre, desiderare che io partissiper una simile impresa. Ma mentre ero lìche piangevo, mi sembrò di udire lavoce del Re, mio padre.

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«Mio piccolo Mio» disse.Nul ‘altro.Ma era come se dicesse che non era

il caso di essere così triste. E forse,dopo tutto, avrei ritrovato Jum-Jum.

Come mi rialzai, qualcosa mi caddedi tasca. Era il piccolo flauto di legnoche Nanno aveva intagliato per me. Quelo che avevo suonato intorno al fuoco nel‘Isola dei Prati Verdi.

E se mi mettessi a suonare il flauto?,pensai; quel a vecchia melodia che miha insegnato Nanno? Mi era venuta inmente la promessa che Jum-Jum e io cieravamo scambiati: se mai ci fossimoperduti, dovevamo suonare quel avecchia melodia.

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Appoggiai il flauto al e labbra, maquasi non osavo soffiare. Avevo tantapaura che ne uscisse soltanto un orribilesuono morto, come quando avevogridato. Ma bisognava tentarecomunque. E cominciai a suonare ilmotivo.

Il suono si levò chiarissimo. Erachiaro, limpido, puro, più bel o quasi inquel a tenebrosa montagna che nel ‘Isoladei Prati Verdi.

Suonai tutta la melodia, e poi mimisi in ascolto. E da lontano lontano nela montagna mi giunsero alcuni chiaritoni di risposta. Era un suono moltodebole, ma almeno sapevo ch’era Jum-Jum che mi rispondeva.

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Credo di non aver mai provato invita mia una felicità simile.

Continuai a suonare, e benché fossicosì felice, non riuscivo a smettere dipiangere di colpo; così continuavo acamminare nel a montagna suonando esinghiozzando un pochino. Solo pocopoco, mentre camminavo suonando e poimi fermavo ad ascoltare il flauto di Jum-Jum. A volte lo sentivo più vicino, e alora cercavo di seguire la gal eria da cuiproveniva la musica. Ormai siavvicinava sempre più, e da un flautoche non era il mio si levava quel avecchia melodia sempre più chiara esempre più forte. E tutt’a un tratto Jum-Jum stava davanti a me, in mezzo a un

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corridoio scuro. Jum-Jum, il miomigliore amico. Tesi una mano e lotoccai; gli misi un braccio intorno al espal e: volevo “sentire”

che era veramente lui. Il miomigliore amico.

«Se incontrerò mai Nanno, voglioproprio ringraziarlo di averci costruitoquesti flauti» disse soltanto Jum-Jum.

«Anch’io» dissi.Ma poi pensai che forse non lo

avremmo rivisto mai più.«Jum-Jum, che strada prendiamo

ora?»«Fa lo stesso» rispose Jum-Jum,

«basta che la prendiamo insieme».Così pensavo anch’io. Andammo e

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andammo, e non ci sentivamo più cosìpiccoli e spersi perché ci tenevamocompagnia con i nostri flauti. Quel‘antica melodia echeggiava pura e bel anel cuore del a montagna più nera, quasivolesse consolarci e infondercicoraggio.

Il cammino portava in basso, semprein basso. La fioca luce che ci avevaguidati nel a montagna si fece più viva.Come il riflesso di un grande fuoco.

Sì, era una fiamma che rischiarava lescure pareti e si al ungava oscil ando.

Ci avvicinavamo sempre più alfuoco, suonando sui nostri flauti.Stavamo ancora suonando l’anticacanzone quando entrammo nel a caverna

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del Fabbro di Spade.Era una fucina in cui bril ava un

immenso fuoco. E accanto a una grandeincudine stava un uomo. Non credo diaver mai visto un uomo più grosso e piùforte. Aveva una folta chioma rossa euna selvaggia barba rossa. Il resto eratutto nero, coperto di fuliggine, e le suemani erano le più grandi e le più nereche io avessi mai visto. Le sopraccigliaerano come due cespugli, e quandoentrammo nel a sua caverna egli stavaimmobile con le folte sopraccigliacorrugate e sembrava stupefatto.

«Chi suona nel a mia montagna?»chiese. «Chi è che suona il flauto nel amia montagna?»

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«Un cavaliere col suo scudiero comeseguito» rispose Jum-Jum. «Uncavaliere del Paese Lontano. E’ ilprincipe Mio che suona il flauto nel atua montagna».

Al ora il Fabbro di Spade mi siavvicinò. Sfiorò stupito la mia fronte colsuo grosso indice fuligginoso.

«Com’è chiara la tua fronte» disse.«Com’è limpido il tuo sguardo. E chesuono dolce ha il tuo flauto».

«Vengo a chiederti una spada» dissi.«Mi manda Eno».

«A che ti serve una spada?» chiese.«Per combattere contro il Cavalier

Kato» risposi.Non appena ebbi detto così, il

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Fabbro di Spade emise un ruggitospaventoso come non ne avevo uditimai.

«Il Cavalier Kato!» ruggì, e nerintronò la montagna. «Il Cavalier Kato!A morte!»

Un rumoreggiare di tuono risuonòfino al e gal erie più remote. Le gridadel Fabbro di Spade non si tramutavanoin bisbiglio; no, rul avano più del tuonoed echeggiavano tra le pareti del amontagna.

Con le grosse mani nere contratte ilfabbro giganteggiava e la fiamma delfuoco il uminava quel viso buio dirabbia.

«Il Cavalier Kato! A morte!» urlò

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più e più volte.La luce del a fiamma colpì anche una

lunga fila di spade affilate, appese al epareti del a caverna. Mandavano scintile e bagliori terrificanti. Mi misi aosservarle.

Al ora il Fabbro di Spade smise diimprecare e mi venne accanto.

«Vedi queste mie spade?» disse.«Queste spade affilate che ho battuto peril Cavalier Kato? Il Fabbro di Spade delCavalier Kato, questo sono».

«Se sei il suo Fabbro di Spade,perché gridi: ‘A morte’?» chiesi.

Strinse al ora i pugni neri così forte,che le nocche divennero bianche.

«Perché nessuno odia il Cavalier

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Kato quanto il suo Fabbro di Spade»rispose.

Soltanto al ora mi accorsi ch’egli sitrascinava dietro una lunga catena diferro, fissata al a parete del a montagnae che sferragliava a ogni suo passo.

«Perché sei incatenato al amontagna?» chiesi. «E perché non rendiincandescente la tua catena e non laspezzi poi sul ‘incudine?»

«Il Cavalier Kato mi ha incatenatoqui con le sue mani» disse il Fabbro diSpade. «E non c’è fuoco né martel o chevinca le sue catene. Le catene di odiodel Cavalier Kato non si spezzano cosìfacilmente».

«Ma perché devi portare catene di

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odio?» chiesi.«Perché io sono colui che fabbrica

le spade» rispose. «Io fabbrico le spadeper uccidere i buoni e gli innocenti. Perquesto il Cavalier Kato mi ha incatenatocon i vincoli più resistenti che esistano:non può fare a meno del e mie spade».

I suoi occhi sprizzavano scintil e.«Sto qui nel a mia caverna e

fabbrico spade per il Cavalier Kato.Giorno e notte, giorno e notte, e lui losa. Ma c’è una cosa che ignora, ed èquesta».

Il Fabbro di Spade mi trascinò versol’angolo più buio del a sua caverna e dauna fessura del a roccia trasse unaspada. Luceva come una fiamma, nel a

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sua mano.«Per migliaia e migliaia d’anni ho

lavorato a una spada che riesca atagliare la pietra»

disse. «E finalmente stanotte ce l’hofatta: la notte scorsa soltanto l’hoterminata».

Levò la spada e con un solo fendentestaccò un grosso blocco dal a pareterocciosa.

«Spada mia, fiamma di fuoco!»mormorò. «Spada mia, che puoi tagliarela pietra».

«Perché hai bisogno di una spadache tagli la pietra?» chiesi.

«Sappilo» disse il Fabbro di Spade:«questa spada non è stata fatta per i

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buoni e gli innocenti. Questa spadaattende il Cavalier Kato. E lui - certo losai - ha un cuore di pietra».

«No, non lo so; so così poco delCavalier Kato» dissi. «Tutto quel o cheso, è che sono venuto per combatterecontro di lui».

«Ha un cuore di pietra» ripeté ilFabbro di Spade. «E un artiglio diferro».

«Un artiglio di ferro?» chiesi.«Non lo sai? Non ha più la mano

destra e al suo posto c’è un uncino diferro».

«E che fa col suo uncino di ferro?»chiesi timoroso.

«Strappa il cuore dal petto degli

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uomini» rispose il Fabbro di Spade.«Una sola unghiata del suo artiglio diferro, e il cuore non c’è più. Al suoposto mette un cuore di pietra: chiunquegli sta intorno deve avere un cuore disasso».

Fremevo, ascoltando il suo racconto,e cominciavo a desiderare sempre più ilmomento in cui avrei cominciato acombattere contro il Cavalier Kato.

Il Fabbro di Spade mi stava accanto.Accarezzava la spada con le manifuligginose: si capiva che era quel o ilsuo più gran tesoro.

«Dammi la tua spada che taglia lapietra» implorai. «Dammi la tua spada,e io combatterò contro il Cavalier

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Kato».A lungo il Fabbro di Spade rimase in

silenzio a fissarmi.«Va bene» disse al a fine, «avrai la

mia spada. La mia fiamma di fuoco.Perché la tua fronte è così limpida».

Mi mise in mano la spadafiammeggiante e io senti il corpopercorso da un fuoco di coraggio e diforza.

Poi il Fabbro di Spade andò al aparete rocciosa e rimosse una lastra dipietra. Una grande finestra apparve, e daquel a finestra entrò un gelido vento e ilrumoreggiare di acque tempestose.

«Il Cavalier Kato sa molte cose»disse il Fabbro di Spade, «ma non sa

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che ho trapanato il monte e aperto la miaprigione. Per molti anni ho scavato nel aroccia per dare un’uscita al a miaprigione».

Mi affacciai a quel vano e al di làdel Lago Morto vidi il castel o delCavalier Kato.

Era sopraggiunta una nuova notte e ilcastel o stava laggiù, nero e tenebrosocome mi era apparso la prima volta. Eproprio come al ora l’unica finestra iluminata sembrava un occhio crudele chefissasse torvo le notturne acque del LagoMorto.

Jum-Jum era al mio fianco erimanevamo vicini in silenzio, pensandoche lo scontro era prossimo ormai.

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Al e nostre spal e risonò la voce delFabbro di Spade:

«E’ venuta, è venuta finalmente per ilCavalier Kato l’ora del a sua ultimalotta».

Un uncino di ferro.Pesanti nuvole incombevano sul

lago, l’aria era piena dele strida degliucceli stregati e nere si accaval avano leonde. Quel e onde spumeggianti cheavrebbero sospinto la nostra barcaattraverso il Lago Morto fino ainfrangerla, forse, contro gli scogli sottoil castel o del Cavalier Kato.

Il Fabbro di Spade ci osservava dala sua apertura mentre scioglievamo lapiccola barca; era ormeggiata in una

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baia scavata nel a montagna, nascostafra le alte pareti rocciose.

«Il Cavalier Kato sa molte cose»disse, «ma non sa che il Lago Morto hacorroso la mia montagna; non sa nientedel a mia baia segreta e niente del abarca legata al ponte segreto sotto la miaapertura».

«Perché hai una barca, se non puoiremare?» chiesi.

«Posso remare» disse il Fabbro diSpade. «Mi calo dal a mia apertura finche la catena me lo permette. Al ora miriesce di remare: tre volte la lunghezzadel a mia barca, nel a mia baia segreta».

Dal ‘apertura egli incombeva sulpontile, immenso e nero, così scuro che

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quasi non riuscivo a distinguerlo. Masentivo risuonare la sua strana, sinistrarisata. Era come se non sapessenemmeno più come si fa a ridere.

«Il Cavalier Kato sa molte cose»disse, «ma c’è una cosa che ignora:quale carico porti la mia barca,attraverso il Lago Morto».

«E c’è una cosa che tu non sai»dissi. «Non sai se mai più rivedrai la tuabarca. Forse stanotte stessa poserà sulfondo del lago, come una cul a che leonde del Lago Morto fanno dondolare, ein quel a cul a dormiremo Jum-Jum e io.Che dirai al ora?»

Il Fabbro di Spade trasse unprofondo sospiro, e non rispose.

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Cominciai a remare e non vidi più ilFabbro di Spade, inghiottito dal‘oscurità. Ma poco prima chemanovrassimo la barca attraverso lostretto passaggio fra la baia segreta delFabbro di Spade e il Lago Morto, losentimmo ammonirci a voce bassa:

«Stai al ‘erta, principe Mio! Stai al‘erta appena vedi un uncino di ferro! Senon hai la spada pronta sarà la fine delprincipe Mio!»

«La fine del principe Mio… La finedel principe Mio» sussurravanolugubremente intorno a noi le rocce.

Ma non ebbi il tempo di meditarcisopra, perché in quel momento leselvagge onde del Lago Morto si

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gettarono sul a nostra barca e lasospinsero lontano dal a montagna delFabbro di Spade. Lontano sugli abissiruggenti.

Ci eravamo lasciati dietro la terra eci sentivamo piccoli e spauriti.

«Oh, se la nostra barca non fossecosì piccina!» disse Jum-Jum. «Se illago non fosse così profondo, le ondatecosì selvagge e noi così piccoli e soli!»

Perché le onde del Lago Mortosembravano torri; mai ne avevo viste dicosì alte.

Selvaggiamente si buttavano su dinoi, e a strappi e a scosse violente cilanciavano verso nuove onde infuriate.Inutile cercare di remare: ci

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aggrappavamo ai remi, Jum-Jum e io,reggendoli più forte che potevamo. Masopraggiunse un caval one spumeggianteche ce ne strappò uno di mano, e poiun’ondata schiumante che ci ruppel’altro, e poi vennero ondate e ondate dischiuma ribol ente che si levarono in unmuro altissimo intorno al a nostra barca,piccola e fragile come noi.

«Ora non abbiamo più remi» disseJum-Jum, «e fra poco non avremonemmeno più barca. Quando le onde lagetteranno contro le rocce del CavalierKato, si romperà in mil e pezzi. E a noinon serviranno più barche».

Da ogni parte arrivarono in volo gliuccel i stregati. Ci volteggiavano intorno

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gridando i loro lamenti. Volavano cosìvicini che io potevo distinguere i loroocchietti lucidi, tristissimi nel ‘oscurità.

«Sei il fratel o di Nanno?» chiesi auno.

«Sei la sorel ina di Jiri?» chiesi a unaltro.

Ma essi continuavano a fissarmi coni loro lucidi e tristi occhietti da uccel o,e le loro strida erano grida didisperazione.

Pur non avendo remi e non potendodirigere la barca, puntavamo diritti sulcastel o del Cavalier Kato. Era laggiùche volevano condurci le onde, eraproprio contro quel e rocce che avevanodeciso di sfracel arci. Che morissimo ai

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piedi del Cavalier Kato, ecco quel o chevoleva il Lago Morto.

Sempre più vicini ci facevamo aquel e rocce perigliose, sempre piùvicini al nero castel o dal ‘unico occhiocrudele. La barca filava velocissima trale onde sempre più impetuose.

«Ora» gridò Jum-Jum, «ora… Oh,Mio, è la fine!»

Ma al ora avvenne un fattostraordinario: proprio quando cicredevamo vicini a morire, le onde siabbassarono e si placarono, finché lasuperficie del ‘acqua giacquecompletamente liscia. Dolcemente leacque condussero la nostra barca tra gliscogli e la cul arono pian piano fin sotto

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le puntute rocce nere ai piedi del castelo del Cavalier Kato.

Non riuscivo a capire come quel eonde calme potessero essere gli stessicaval oni ruggenti e impetuosi di prima.Forse perché odiavano il Cavalier Katoe desideravano aiutare colui che venivaa combatterlo. Forse il Lago Morto untempo era stato un al egro laghettoazzurro tra rive tranquil e, un laghetto incui si specchiava il sole nel e bel egiornate estive e dove piccole ondegentili lambivano mol emente le rocce.Forse c’era stato un tempo in cui ibambini facevano il bagno nel lago, e ilsuono del e loro risa volava sul ‘acqua,là dove ora non si sentiva che il triste

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richiamo degli uccel i stregati. Perquesto certamente le onde avevanoruggito e innalzato un muro di schiuma:per nasconderci al ‘occhio fisso delcastel o.

«Grazie, buon lago» dissi. «Grazie,caval oni selvaggi».

Ma i caval oni erano scomparsi el’acqua nera si stendeva immobile,senza risposta.

A grande altezza sul e nostre teste,sul a sommità del a montagna rocciosa,si ergeva il castel o del Cavalier Kato.Eravamo sul a sua sponda, vicina comenon mai, e questa era la notte del abattaglia.

Mi chiedevo se coloro che avevano

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atteso quest’ora per migliaia e migliaiadi anni lo sapevano. Sapevano che ilcombattimento era per stanotte?Pensavano a me? E il Re, mio padre,pensava a me? Ero certo di sì. Mipareva di vederlo sedere solitariopensando a me e mormorandotristemente: «Mio piccolo Mio».

Impugnai la spada e mi parve diimpugnare una fiamma di fuoco. Labattaglia che mi preparavo a combattereera così grave, che non resistevo più nel‘attesa. Ardevo di misurarmi colCavalier Kato, anche se questo dovevacostarmi la vita. Bisognava combatteresubito, anche se al a fine Mio nonsarebbe più esistito.

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«Mio, ho tanta fame» disse Jum-Jum.Tirai fuori i resti del pane-che-sazia-

la-fame e mangiammo sul e rocce sottoil castel o del Cavalier Kato. Dopo averfinito ci sentivamo sazi, forti e quasifelici; ma era il nostro ultimo pane e nonsapevamo quando avremmo potutotrovare ancora qualcosa da mangiare.

«Ora dobbiamo arrampicarci su perle rocce» dissi a Jum-Jum. «E’ l’unicomodo di raggiungere il castel o».

Jum-Jum annuì, e così cominciammoa inerpicarci per la parete ripida escoscesa.

«Oh, se soltanto la montagna nonfosse così ripida» disse Jum-Jum, «e lanotte non fosse così buia, e noi così

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piccoli e soli».Su e ancora su. Si procedeva

lentissimi, per quel difficoltosocammino. Ci arrampicavamo con lemani e coi piedi, trovavamo fenditure esporgenze, ci aggrappavamo e ciissavamo.

A volte mi scoraggiavo e pensavo:«Qui non si può più andare avanti, oracado, ed è finita». Ma al ‘ultimomomento trovavo sempre qualcosa a cuiappigliarmi. Era come se la montagnastessa mi ponesse un gradino sotto ipiedi, proprio quando rischiavo dicadere.

Forse persino la montagna odiava ilCavalier Kato e cercava di aiutare chi

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veniva a combatterlo.Il castel o del Cavalier Kato sorgeva

altissimo sul e acque. E fino lassùdovevamo arrivare per raggiungere lemura del castel o, proprio in cima al amontagna rocciosa.

«Siamo quasi arrivati» bisbigliòJum-Jum. «Fra poco scavalcheremo ilmuro e poi…».

Al ora udimmo del e voci: duespioni parlavano tra loro nel a notte.Due nere sentinel e a guardia del e mura.

«Cerca, cerca dappertutto!» dicevauna. «Ordine del Cavalier Kato:dobbiamo catturare il nemico. Il nemicogiunto sul bianco caval o deve esserepreso, questo è l’ordine del Cavalier

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Kato. Cerca nel e grotte dei monti, cercafra gli alberi del bosco, cerca nel ‘acquae nel ‘aria, cerca vicino e lontano, cercadappertutto!»

«Cerca vicino, cerca vicino» dissel’altro spione. «Noi siamo di quel i checercano vicino.

Forse il nemico è davvero tra noi,forse proprio stanotte si staarrampicando su per le rocce. Cercadappertutto».

Il mio cuore quasi cessò di battere,quando vidi la sentinel a accendere unatorcia.

Bastava che con quel a torcia iluminasse la base del muro, e ci avrebbescorti. Al ora tutto sarebbe stato

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perduto: il nemico non avrebbe piùcavalcato il suo caval o bianco; con unpiccolo grido saremmo precipitati nelLago Morto e scomparsi per sempre.

«Cerca, cerca dappertutto» dissel’altra sentinel a. «Il umina con la torciale mura del castel o. Forse il nemico lesta scalando proprio in questo momento.Cerca, cerca dappertutto!»

Il primo spione levò il braccio chereggeva la torcia e si sporse sulparapetto. La luce cadde sul a pareterocciosa, e noi ci rannicchiammo e cifacemmo piccoli piccoli, come duetopolini quando sentono arrivare il gatto.La luce del a fiaccola si faceva semprepiù vicina, scivolava sul e rocce, quasi

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ci era addosso.«Ora» mormorò Jum-Jum, «ora…

Oh, Mio, è la fine!»Ma al ora avvenne un fatto

straordinario: uno stormo di uccel i silevò dal lago a colpi d’ala fruscianti euno di essi si buttò a capofitto sul atorcia facendola cadere di mano al asentinel a. Una scia di fuoco solcòl’abisso e ne udimmo lo sfrigolìoquando la fiaccola si spensesprofondando nel lago. Ma un’altratraiettoria di fuoco andava incontro al eacque: l’uccel o che ci aveva salvati erain fiamme. Con le ali ardenti si inabissònel Lago Morto.

La pena ci strinse il cuore.

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«Grazie, povero caro uccel ino»sussurrai, ma l’uccel o non udiva ormaipiù nul a.

Mi veniva da piangere, ma in quelmomento la preoccupazione maggioreerano gli spioni.

Ancora non eravamo di là dal muro,ancora ci attendevano tanti pericoli.

Gli spioni ce l’avevano con l’uccelo. Le loro disgustose testacce scurespuntavano oltre il muro, proprio sopradi noi, e ci giungevano chiaramente leloro voci agghiaccianti.

«Cerca, cerca dappertutto»dicevano. «Forse il nemico è piùlontano, forse sta arrampicandosi in unaltro punto del e rocce. Cerca

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dappertutto!»Si al ontanarono di qualche passo e

si misero a cercare in un’altra direzione.«Adesso!» sussurrai a Jum-Jum.

«Adesso!»Ci arrampicammo in un baleno e

scavalcammo il muro. E come il ventocorremmo verso il castel o del CavalierKato, e ci addossammo tremanti al enere pareti.

«Come si fa a entrare nel castel odel Cavalier Kato?» mormorò Jum-Jum.«Come si fa a entrare nel castel o piùscuro del mondo?»

Aveva appena detto così, che unaporta si aprì nel muro.

Una porta nera si aprì accanto a noi,

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in assoluto silenzio, senza il minimorumore; almeno avesse cigolato un po’stridendo sui cardini, anche un cigolìolievissimo, non avrebbe fattoun’impressione così spaventosa comequel ‘innaturale silenzio.

Tenendoci per mano, Jum-Jum e ioentrammo nel castel o del CavalierKato. Ci sentivamo piccoli e spaventaticome non mai.

Perché mai il buio era stato piùprofondo, mai il freddo più gelido, maiil silenzio più ostile come qui, nel castelo del Cavalier Kato.

Dal a porta saliva una scala achiocciola stretta e oscura. Mai avevovisto gradini più bui e scoscesi.

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«Oh, se l’oscurità non fosse cosìpaurosa» mormorò Jum-Jum, «se ilCavalier Kato non fosse così crudele enoi così piccoli e soli!»

Io impugnavo saldamente la miaspada, e cominciammo piano piano asalire, io davanti e Jum-Jum dietro.

In sogno mi sono ritrovato spesso incase tenebrose. Case sconosciute, buie,terribili, con stanze oscure che misoffocavano e mi schiacciavano,pavimenti che si spalancavano in neriabissi proprio mentre passavo, scale checrol avano travolgendomi. Ma nessunacasa di incubo fu mai spaventosa comeil castel o del Cavalier Kato.

Salivamo e salivamo per quel a

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scala a chiocciola, senza sapere checosa avremmo incontrato in cima.

«Mio, ho paura» bisbigliò Jum-Jumdietro di me.

Mi volsi a lui per prenderlo permano, ma ecco, Jum-Jum era sparito. Ilmuro l’aveva inghiottito, non so come. Eio rimasi solo su un gradino, mil e voltepiù solo di quando ci eravamo perdutinel a montagna del Fabbro di Spade, mile volte più solo. Ero disperato.

Non osavo gridare, ma andavotastando con le dita tremanti la paretenel a quale Jum-Jum era sparito, emormoravo piangendo:

«Dove sei, Jum-Jum? Jum-Jum,ritorna!»

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Ma il muro rimaneva freddo ecompatto sotto le mie dita. Non c’eranessuno spiraglio da cui Jum-Jumpotesse uscire. E tutto era silenzio, comeprima.

Jum-Jum non rispondeva, quando loinvocavo piangendo.

Credo che nessuno al mondo sia maistato solo come me, quando ricominciaia salire la scala con passi pesanti. Nonavevo quasi la forza di alzare i piedi egli scalini erano tanti, e altissimi.

Tanti… ma uno di essi era l’ultimo.Io non lo sapevo; come si fa, quando siva per una scala al buio? Feci un passo,e incontrai il vuoto. Diedi un grido ecaddi, cercando affannosamente un

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appiglio. Riusci ad aggrapparmi al oscalino più alto, l’ultimo, e a quel orimasi appeso sgambettando e cercandoun appoggio per i piedi. Ma nonesisteva: ero sospeso su un abisso nerosenza fondo. Fra poco precipito, pensai,ed è la fine…

Oh, aiuto, aiuto!Qualcuno stava salendo le scale.Era Jum-Jum che tornava?«Jum-Jum, Jum-Jum caro, aiutami»

sussurrai.Non lo distinguevo in quel ‘oscurità.

Non potevo vedere il suo visetto gentilené i suoi occhi tanto simili a quel i diBenka. Ma lo senti mormorare:

«Sì, sì, prendi la mia mano, ti aiuto.

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Prendila, ti aiuto!»Così presi la sua mano. Ma non era

una mano.Era un uncino di ferro.La notte dela fame.Forse un giorno riuscirò a

dimenticarlo. Ci sarà forse un giorno chenon mi ricorderò più del Cavalier Kato.Dimenticherò quel volto terrificante,quegli occhi spaventosi, quel diabolicouncino di ferro. Desidero solo arrivareal giorno in cui li avrò scordati.

Anche la sua stanza era terrificante:l’aria trasudava malvagità. Notte egiorno, notte e giorno il Cavalier Katorimaneva chiuso lì dentro meditandoazioni malvage e l’aria era così satura di

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malvagità da soffocare. Il male neusciva a fiumi e al suo passaggio morivatutto ciò che nel mondo vi era di bel o edi vivo; la malvagità corrodeva le verdifoglie, i fiori, la tenera erbetta eoscurava il sole di un velo fumoso, cosìche laggiù non faceva mai veramentegiorno, ma notte o qualcosa di moltosimile la notte. Non era dunque stranoche la finestra del a sua stanza bril assecome un occhio crudele sopra le acquedel Lago Morto. Perché notte e giorno,notte e giorno da quel a stanza sisprigionava il male.

E proprio in quel a stanza fuicondotto. Il Cavalier Kato era riuscito acatturarmi nel momento in cui avevo

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bisogno di tutte e due le mani pertenermi aggrappato e non mi erapossibile afferrare la spada. I suoi nerispioni si gettarono su di me e micondussero nel a sua stanza. Jum-Jumc’era già; era pal idissimo e molto tristee appena mi vide sussurrò:

«Oh, Mio, è la fine».Il Cavalier Kato entrò e potemmo

così vederlo in tutto il suo orrore. Quelvolto diabolico era davanti a noi. Lui cifissava in silenzio. La sua malvagità ciinondò come un fiume gelido, la suamalvagità ci avvampò di un caloreincandescente, ci lambì volto e mani, ciincenerì gli occhi, scese bruciante neipolmoni a ogni respiro. Senti passare su

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di me onde di cattiveria e mi senti tutt’aun tratto così debole che non sarei statoin grado di levare la spada nemmenoimpiegando tutte le mie forze. Gli spioniconsegnarono la mia spada al CavalierKato, e lui trasalì appena la vide.

«Mai spada così potente è entratanel mio castel o» disse agli spioni che locircondavano.

Andò al a finestra e lì rimasepensieroso, con la spada in mano.

«Cosa me ne faccio di questa spada?Per uccidere i buoni e gli innocenti, nonserve. E

al ora che me ne faccio?»Mi fissò con i suoi diabolici

occhietti da serpente e vide quanto

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grande era il mio desiderio di riavere laspada.

«La inabisserò nel Lago Morto»disse. «Nel punto più profondo del LagoMorto, perché non posso permettere cheuna spada così potente rimanga nel miocastel o».

Levò la spada e la lanciò dal afinestra.

La vidi volare attraverso l’aria, edero disperato: per migliaia e migliaiad’anni il Fabbro di Spade avevalavorato a un’arma che potesse tagliarela pietra; per migliaia e migliaia d’annisi era atteso e sperato che io riportassivittoria sul Cavalier Kato. E ora la miaspada giaceva sul fondo del Lago Morto.

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Non l’avrei rivista mai più. Tutto eraperduto.

Il Cavalier Kato si piazzò davanti anoi, così vicino che la sua malvagitàquasi mi soffocava.

«Che me ne faccio di questi mieinemici? Che me ne faccio di questi mieinemici venuti da tanto lontano peruccidermi? E’ un problema interessante.Potrei dar loro sembianze di uccel o efarli volare e gridare per migliaia emigliaia d’anni sul Lago Morto».

Lo sguardo dei suoi maligni occhiettida serpente ci strisciò addosso.

«Sì, potrei dar loro sembianze diuccel o. Oppure…. crash, strappargli ilcuore e regalare loro in cambio due

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cuori di pietra. Potrei tenerli come valetti, se avessero un cuore di pietra».

Oh, cambiami in un uccel o! avraivoluto gridare. Niente al mondo puòessere più mostruoso che vivere con uncuore di pietra. Ma tacqui, perchésapevo che se avessi chiesto didiventare uccel o, subito il CavalierKato mi avrebbe invece strappato ilcuore.

Coi suoi diabolici occhietti daserpente il Cavalier Kato ci squadrò dacapo a piedi.

«Oppure potrei rinchiuderli nel atorre e lasciarli morire di fame» disse.«In fondo, sono pieno di uccel i e di valetti. Sì, credo proprio che getterò i miei

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nemici nel a torre e li lascerò morire difame».

Camminava su e giù meditando, eogni suo pensiero rendeva l’aria ancorapiù densa di malvagità.

«Basta una sola notte per morire difame, nel mio castel o. La notte è cosìlunga e la fame è così grande, che bastauna sola notte per morire».

Si arrestò davanti a me, e mi pose ilsuo orribile artiglio su una spal a.

«Ti conosco, sai, principe Mio»disse. «E sapevo che eri arrivato appenaho visto il tuo caval o bianco. Stavo quiseduto ad aspettarti. E sei venuto. Tucredevi che questa sarebbe stata la nottedel a battaglia».

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Si curvò su di me e mi sibilò al‘orecchio:

«Credevi che sarebbe stata la nottedel a battaglia, ma ti sei sbagliato,principe Mio, perché questa sarà la nottedel a fame. E quando la notte sarà finita,nel a mia torre non rimarrà che qualchebianco ossicino: i soli resti del principeMio e del suo scudiero».

Batté col suo uncino di ferro sulgrande tavolo di sasso che stava inmezzo al a stanza, e tutta una nuova seriedi spioni entrò.

«Buttateli nel a torre» ordinò,indicandoci col suo uncino di ferro.«Buttateli nel a torre dai sette chiavisteli. Sette sentinel e stiano di guardia

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davanti al a porta, settantasette sentinel ein tutte le sale, per tutte le scale, lungotutti i corridoi fra la torre e la miastanza».

Si sedette davanti al tavolo.«Voglio starmene in pace a crear

malefici e non voglio più venirdisturbato dal principe Mio. Quando lanotte sarà finita, andrò a gettareun’occhiatina a quel e bianche ossicinanel a torre. Addio, principe Mio! Buonriposo nel a torre del a fame!»

Gli spioni afferrarono Jum-Jum e mee ci trascinarono attraverso tutto il castelo fino al a torre dove era stabilito chedovessimo morire. E dappertutto nel esale, per tutte le scale, lungo tutti i

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corridoi stavano già al loro posto glispioni che dovevano sorvegliare ilcammino fra la torre e la stanza delCavalier Kato. Aveva tanta paura di me,il Cavalier Kato, da sentire il bisogno ditanti guardiani? Aveva tanta paura di unmiserel o senza spada, rinchiuso consette chiavistel i con sette guardianidavanti al a porta?

Gli spioni ci tenevano saldamenteper le braccia durante il tragitto verso laprigione.

Andavamo e andavamo attraversol’immenso castel o nero. A un certomomento passammo davanti aun’inferriata oltre la quale si potevavedere il cortile del castel o. In mezzo al

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cortile stava un caval o incatenato a unpalo. Era nero, con accanto un puledrinopure nero. Il cuore mi diede un balzo,quando vidi il caval o: mi ricordavaMiramis, che non avrei mai più rivisto.Che ne avevano fatto? Era già morto?Ma la spia mi diede uno strattone e micostrinse a proseguire.

Eravamo arrivati al a torre nel aquale dovevamo passare la nostra ultimanotte. La pesante porta di ferro fu apertae ci scaraventarono dentro. Poi la portasi richiuse su di noi con un tonfo esentimmo gli spioni serrare i settechiavistel i.

Eravamo soli soli nel a nostraprigione, Jum-Jum e io.

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Era una stanza rotonda, ricavata dala torre, con spesse mura di pietra. Lafinestrina nel a parete era chiusa da unagrossa inferriata, e attraverso l’inferriatasentivamo le tristi strida degli uccel istregati sul Lago Morto.

Ci accasciammo al suolo, miseri espaventati, con la certezza di dovermorire prima del termine del a notte.

«Oh, se la morte non fosse cosìdifficile» disse Jum-Jum, «talmentedifficile, e noi così piccoli e soli».

Ci tenevamo per mano, stretti stretti,rannicchiati sul gelido pavimento dipietra.

Sentivamo i morsi del a fame, unafame diversa da quel a comune. Ci

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serrava, ci scuoteva e ci squassava,togliendo al nostro sangue ogni forza.Rimaneva soltanto il desiderio distenderci e dormire, per non svegliarcimai più. Ma non dovevamo dormire, nonancora.

Bisognava cercare di rimaneresvegli il più a lungo possibile. Cosìcominciammo a parlare del PaeseLontano, in attesa del a morte.

Io pensavo al Re, mio padre, e mivennero le lacrime agli occhi. Ma lafame mi aveva già così indebolito che lelacrime scorrevano con estrema lentezzaper le guance. Anche Jum-Jum piangevain silenzio.

«Ti ricordi quando, nel ‘Isola dei

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Prati Verdi, andavamo suonando i nostriflauti?» dissi.

«Te lo ricordi, Jum-Jum?»«Sì, ma era tanto tempo fa» disse

Jum-Jum.«Possiamo suonare i nostri flauti

anche qui dentro» proposi. «Possiamosuonare quel ‘antica canzone finché nonci addormenteremo, vinti dal a fame».

«Sì, suoniamola ancora un’ultimavolta» sussurrò Jum-Jum.

Tirammo fuori i nostri flauti. Lemani stanche non ce la facevano quasi areggerli, ma pure suonammo l’anticamelodia. Jum-Jum suonava e piangeva.Forse anch’io piangevo, non so. L’anticomotivo era sempre bel issimo, ma ora

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aveva un suono tenue, come seanch’esso capisse che stava per morire.Eppure gli uccel i stregati sentirono lamusica.

Sentirono quel e note estenuate evennero tutti in volo al a nostra feritoia.I tristi occhietti da uccel o luccicavanoattraverso l’inferriata. Ma gli uccel ivolarono via di nuovo e a noi venneromeno le forze per suonare.

«Ecco, ora abbiamo suonato perl’ultima volta» dissi, e rimisi in tasca ilflauto.

Ma in tasca c’era qualcos’altro;tastai con la mano per capire che fosse.Era il cucchiaino che un tempo eraappartenuto al a sorel ina di Jiri.

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Avrei tanto voluto che gli uccel iritornassero, per far vedere loro ilcucchiaino: forse la sorel ina di Jiril’avrebbe riconosciuto. Ma gli uccel istregati erano volati lontano.

Lasciai cadere il cucchiaino perterra, tanto la mia mano era stanca.

«Vedi, Jum-Jum» dissi, «uncucchiaino ce l’abbiamo».

«Sì, un cucchiaino» disse Jum-Jum.«Ma che cosa ce ne facciamo, se nonabbiamo niente da mangiare?»

E Jum-Jum si distese per terra echiuse gli occhi, ormai incapace diparlare. Anch’io ero stanco, così stanco;la fame mi faceva male. Dovevomangiare qualcosa, qualsiasi cosa, non

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importava, basta che si potessemangiare. Più di tutto desideravo ilpane-che-sazia-la-fame, ma sapevo chenon ne avrei assaggiato mai più. Avevoanche sete, e sognavo l’acqua-che-estingue-la-sete. Ma sapevo che non neavrei bevuta mai più. Mai più mangiare,mai più bere. Pensai perfino a quel apappetta di avena che zia Edla mipropinava di mattina, e che avevosempre trovato disgustosa. Anche unapappetta così disgustosa ora mi sarebbesembrata divina. Oh, poter mettere sottoi denti qualcosa, qualsiasi cosa! Con leforze che mi rimanevano raccolsi ilcucchiaino e me lo misi in bocca,fingendo almeno di mangiare.

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Al ora avvenne un fattostraordinario. Il cucchiaino contenevaqualcosa, qualcosa che aveva il saporedel pane-che-sazia-la-fame e del‘acqua-che-estingue-la-sete. C’era panee acqua, e insieme avevano un saporesquisito. La vita ritornò, e la mia famescomparve d’incanto.

E il cucchiaino non si vuotava mai:continuava a riempirsi e io mangiai,mangiai, finché non ne potei più.

Jum-Jum era disteso al suolo con gliocchi chiusi. Gli infilai il cucchiaino trale labbra, e lui mangiò come in sogno.Mangiava a occhi chiusi, e infine disse:

«Oh, Mio, ho fatto un sognomeraviglioso; un sogno che rende la

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morte più lieve. Ho sognato del pane-che-sazia-la-fame».

«Non era un sogno» dissi.Così Jum-Jum aprì gli occhi, si rizzò

a sedere e sentì che era vivo e che nonaveva più fame. Tutti e due eravamosbalorditi, e quasi felici nel a nostramiseria.

«Ma cosa farà il Cavalier Kato dinoi, se vedrà che non siamo morti difame?» chiese Jum-Jum.

«Basta che non ci dia un cuore dipietra!» esclamai. «Ho tanta paura diavere un cuore di pietra: deve raschiarein gola».

«Ancora la notte non è finita» disseJum-Jum. «Il Cavalier Kato ci metterà

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un po’ a venire.Rimaniamo seduti qui a

chiacchierare del Paese Lontano, eintanto le ore passeranno.

Sediamoci vicini, così non sentiremotanto il freddo».

Nel a torre faceva infatti un freddospaventoso. Il mantel o m’era scivolatodal e spal e, così lo raccolsi e me loributtai addosso. La tessitrice l’avevafoderato con la sua trama fatata.

Nel o stesso istante senti il grido diJum-Jum.

«Mio, Mio, dove sei?» gridava.«Ma sono qui» dissi, «al a porta».Vedevo Jum-Jum girarsi terrorizzato

da ogni parte.

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«Non ti vedo» singhiozzava, «eppurenon sono diventato cieco, perché laporta la vedo, e i chiavistel i, e tutto ilresto nel a nostra prigione».

Al ora mi accorsi che avevo messoil mantel o al a rovescia, con larisplendente fodera di fiaba rivolta infuori. Mi tolsi il mantel o per rimetterlodiritto, e di nuovo Jum-Jum gridò.

«Perché mi hai fatto paura?»esclamò. «Dove ti eri nascosto?»

«Mi vedi, ora?»«Certo, ma dov’eri?»«Nel mio mantel o. La tessitrice

deve avergli messo una fodera che rendeinvisibili».

Lo provammo diverse volte, ed era

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proprio così: appena si girava in fuori iltessuto fatato, chi c’era dentroscompariva.

«Gridiamo a squarciagola» proposeJum-Jum. «Così forse gli spioniverranno a vedere perché gridiamo. E tupuoi scivolare fra loro invisibile nel tuomantel o fatato, e scappare dal castel odel Cavalier Kato fino al PaeseLontano».

«E che ne sarà di te, Jum-Jum?»«Io rimango» disse Jum-Jum con la

voce che gli tremava un poco. «Hai unsolo mantel o che rende invisibili».

«Sì, e ho anche un solo amico. Senon possiamo salvarci tutti e due,moriremo insieme».

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Jum-Jum mi buttò le braccia al col oe disse:

«Sai, volevo davvero che tu fuggissie ti mettessi in salvo nel Paese Lontano.Eppure non posso fare a meno di esserecontento, perché hai scelto di restare conme. Cerco di non essere troppo contento,ma non mi riesce».

Aveva appena detto così, chesuccesse un fatto straordinario: gli ucceli stregati stavano ritornando; con rapidibattiti d’ala frul avano al a nostrafinestrina. Reggevano faticosamentequalcosa col becco, tutti insieme. Unoggetto pesantissimo. Una spada. Laspada che taglia la pietra.

«Guarda, Mio!» esclamò Jum-Jum.

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«Gli uccel i stregati sono riusciti ariprendere la spada dal fondo del LagoMorto».

Corsi al a feritoia e tesiansiosamente le mani nel e tenebre.Afferrai la spada.

Fiammeggiava, e le gocce d’acquadi cui era ancora imperlata sembravanoscintil e.

«Grazie, grazie buoni uccel i!»mormorai.

Ma gli uccel i mi diedero soltantouna triste occhiatina umida e volaronovia con melanconiche strida.

«Fortuna che abbiamo suonato inostri flauti» disse Jum-Jum. «Altrimentigli uccel i non sarebbero mai riusciti a

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trovare la strada per la nostra prigione».Quasi non sentivo le sue parole.

Rigiravo la spada tra le mani: la miaspada, la mia fiamma di fuoco! Misentivo forte come non mai. La testa mirintronava. Sentivo che in quel momentoil Re, mio padre, stava pensando a me.

«E’ giunta l’ora» dissi, «del ‘ultimabattaglia del Cavalier Kato».

Jum-Jum impal idì e gli occhi glilampeggiarono stranamente.

«Come potrai aprire i settechiavistel i?» chiese. «Come potraipassare attraverso i settantasettespioni?»

«Con la mia spada spezzerò ichiavistel i e il mio mantel o mi

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nasconderà ai settantasette spioni».Mi buttai il mantel o sul e spal e. Il

tessuto fatato bril ava nel buio di unaluce così sfolgorante che avrebbe potutoil uminare l’intero castel o del CavalierKato. Ma Jum-Jum disse:

«Non ti vedo, Mio; però so che seiqui vicino a me. Ti aspetterò, finché nontornerai indietro».

«E se non tornassi mai…» dissi, poitacqui. Era impossibile sapere chiavrebbe vinto: se io o il Cavalier Kato.

Ci fu silenzio nel a nostra prigione,un lungo silenzio. Infine Jum-Jum disse:

«Se non tornassi mai, potremmosempre pensarci. Pensare l’uno al ‘altroil più a lungo possibile».

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«Sì, Jum-Jum» promisi: «nel mioultimo momento sarà a te e al Re, miopadre, che io penserò».

Levai la spada, e tagliai la porta diferro come se fosse stata pasta frol a.Per una spada capace di tagliare lapietra, una porta di ferro non è infatti piùche pasta frol a. Proprio come setagliasse una fetta di torta la spadapenetrò nel duro ferro. Con un paio diveloci fendenti tolsi i chiavistel i. Poiapri la porta. Al leggero scricchiolìoche fece, le sette sentinel e si volseronel a mia direzione.

E io stavo lì, avvolto nelrisplendente tessuto di fiaba, dal a lucecosì viva ch’era impossibile non mi

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vedessero.«Una porta ha cigolato nel a notte»

disse una sentinel a.«Pare anche a me» disse un’altra.Investigarono e frugarono da ogni

parte, ma non mi videro.«Forse era soltanto un pensiero

cattivo del Cavalier Kato» mormorò unospione.

Io intanto ero già lontano.Tenevo stretti spada e mantel o e

correvo a precipizio verso la stanza delCavalier Kato.

Dappertutto, in ogni sala, scala,corridoio, stavano di guardia la sentinele. L’intero castel o tenebroso era pienodi neri spioni. Ma non mi vedevano, ma

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non mi sentivano. E io continuavo la miacorsa verso la stanza del Cavalier Kato.

Non avevo più nessuna paura. Maiavuto meno paura. Non ero più quel Mioche costruiva capanne nel roseto e chegiocava nel ‘Isola dei Prati Verdi. Eroun cavaliere che si preparava al a lotta.

Correvo velocissimo. Il mantel ofatato mi sventolava dietro, luminoso nelbuio castel o. La spada ardeva come unfuoco nel mio pugno, come una fiammascintil ante. Ne stringevo l’impugnatura,mentre continuavo la corsa.

Pensavo al Re, mio padre, ed erocerto che lui stava pensando a me. Ora,ora avrei combattuto. Ma non avevoalcun timore: ero un cavaliere senza

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paura con la spada in pugno.Nel a testa mi rumoreggiava una

cascata. Ero davanti al a porta del astanza del Cavalier Kato.

Apri la porta. Il Cavalier Katosedeva al suo tavolo di pietra con lespal e rivolte al ‘ingresso. Una nebbia dimalvagità lo avvolgeva.

«Voltati, Cavalier Kato!» esclamai.«E’ giunta l’ora del ‘ultima battaglia».

Si volse. Mi levai il mantel o erimasi davanti a lui con la spada levata.Il suo volto terrificante si fece grigio econtratto, e nei suoi occhi spaventosic’erano solo terrore e odio. Rapido,afferrò una spada che giaceva sul tavolo.

E così ebbe inizio l’ultimo

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combattimento del Cavalier Kato.Certo la sua spada era potente, ma

non potente come la mia. La mialampeggiava, fiammeggiava e ardevafendendo l’aria come una saetta.

Breve fu il duel o che era statoatteso da migliaia e migliaia di anni. Inuna lotta silenziosa e terribile la miaspada fendeva l’aria come una folgoremuta e si abbatteva su quel a delCavalier Kato.

Un ultimo fendente gliela tolse dimano e ora il Cavalier Kato stavadavanti a me disarmato: la lotta eraterminata.

Al ora si strappò dal petto ilgiustacuore di vel uto nero.

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«Guarda di colpire il cuore!» gridò.«Trafiggi il mio cuore di pietra. Haraschiato così a lungo nel mio petto».

Lo guardai negli occhi. E nei suoiocchi vidi qualcosa di strano: che ilCavalier Kato desiderava disfarsi delsuo cuore di pietra. Forse nessunoodiava tanto il Cavalier Kato come eglistesso.

Alzai al ora la mia spadafiammeggiante, la levai altissima e lacalai pesantemente sul cuore di pietradel Cavalier Kato.

Nel o stesso istante egli sparì. Nonc’era più, ma per terra era rimasto unmucchio di sassi.

Solo un mucchio di sassi e un uncino

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di ferro.Sul davanzale un uccel ino grigio

picchiava al vetro, come se volesseuscire. Andai al a finestra e l’apriaffinché potesse volare via. Si librò nel‘aria e tril ò di gioia. Doveva essererimasto prigioniero a lungo.

Restai al a finestra seguendo il volodel ‘uccel ino. Così vidi che la notte erafinita e che s’era fatto giorno.

Mio piccolo Mio.Si era fatto giorno e il tempo era

belissimo. Brilava il sole e una lievebrezza estiva mi scompigliavacarezzevole i capel i, mentre me nestavo affacciato al a finestra. Mi sporsia guardare il lago. Era un laghetto

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azzurro e felice nel quale il sole sispecchiava. Gli uccel i stregati eranospariti.

Era proprio una di quel e giornate incui viene voglia di giocare. Guardai lasuperficie del ‘acqua increspata dal abrezza del mattino e mi venne l’idea dibuttarci dentro qualcosa. Chissà chetonfo, da quel ‘altezza. Ma non avevoniente altro che la mia spada, così lalasciai cadere. Lo schiaffo che diede ala superficie del ‘acqua fu formidabile, epoi si inabissò in un mulinel o di cerchiche si al argarono sempre più fino araggiungere le rive del lago.

Ma non aspettai che gli anel isparissero, dovevo correre da Jum-Jum

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che mi aspettava certo con grande ansia.Rifeci correndo la stessa strada che

avevo fatto soltanto poco prima. Leimmense sale e i lunghi corridoi eranovuoti e silenziosi. Non un solo spionenero era rimasto. Erano tutti spariti e ilsole il uminava le sale deserte.Attraverso l’inferriata un raggio avevaacceso una ragnatela che pendeva dal avolta, e tutto rivelava vecchiaia eabbandono.

C’era tanto vuoto e silenzio ched’improvviso ebbi paura che anche Jum-Jum fosse sparito. Mi misi a correrecome un pazzo, ma quando fui vicino ala torre senti il suono del flauto e mirasserenai.

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Spalancai la porta del a prigione, eseduto per terra vidi Jum-Jum. Gli si iluminarono gli occhi e balzò in piedi.

«“Dovevo” suonare senza smetteremai, perché morivo di paura».

«Ora non c’è più nul a di cui averpaura».

Ci guardammo, ci ridevano gliocchi.

Tenendoci per mano abbandonammocorrendo il castel o del Cavalier Kato.Nel cortile ci venne incontro algaloppo… Miramis! Il mio Miramis dala criniera d’oro. Al suo fianco saltel avaun puledrino bianco.

Abbracciai il mio caval o e tenni alungo la bel a testa accanto al a mia

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bisbigliandogli nel ‘orecchio: «Miramis,oh il mio Miramis!».

Miramis mi guardava con i suoiocchi fedeli: sapevo che gli ero mancatoquanto lui era mancato a me.

In mezzo al cortile c’era un palo dacui pendeva una catena. Al ora capi cheera Miramis il caval o nero che avevovisto legato a quel palo durante la notte,stregato anche lui, e che il piccolopuledro altri non era che quel o rapitodal Cavalier Kato nel Bosco del eTenebre.

Per lui i cento caval i bianchiavevano pianto sangue.

«Ma che ne è successo di tutti glialtri che sono stati rapiti dal Cavalier

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Kato?» chiese Jum-Jum. «E dove sonogli uccel i stregati?»

«Cavalchiamo fino al lago ecerchiamoli» gli dissi.

Ci arrampicammo sul dorso diMiramis e il puledrino ci correva dietropiù veloce che poteva. Uscimmo cosìdal cortile.

In quel o stesso istante sentimmodietro di noi un rumore spaventoso, unrimbombo che sembrò scuotere tutta laterra. Era il castel o del Cavalier Katoche crol ava in un immenso mucchio dimacerie. Non esistevano più torri, nésale deserte, né buie scale a chiocciola,né inferriate: nul a di nul a. Solo unammasso di pietre. Dal e mura, un

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sentiero scendeva verso il lago; eraripido, stretto e pericoloso, ma Miramisavanzava posando cautamente glizoccoli, imitato dal puledrino. Cosìarrivammo sani e salvi al a spiaggia.

Su una lastra di pietra ai piedi del amontagna rocciosa stava un gruppo dibambini.

Certamente ci aspettavano, perché civennero incontro con volti raggianti.

«Oh, ecco laggiù i fratel i diNanno!» disse Jum-Jum. «Ecco la sorelina di Jiri, e tutti gli altri. Ora non c’èpiù rimasto nemmeno un uccel ostregato».

Saltammo giù dal a groppa diMiramis. Al ora tutti i bambini ci

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vennero accanto timidamente, ma sicapiva lo stesso che erano felici. Unragazzo, uno dei fratel i di Nanno, miprese la mano e disse piano, come senon volesse farsi sentire dagli altri:

«Sono così contento che tu avessi ilmio mantel o. Sono così contento chenon siamo più stregati».

E l’altro fratel o di Nanno mi miseuna mano sul a spal a e disse:

«Sono così contento che siamoriusciti a ripescare la tua spada dalfondo del lago. Sono così contento chenon siamo più stregati».

«Ora la spada giace di nuovo sulfondo del lago» dissi al egramente. «Maio non avrò mai più bisogno di una

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spada».Cercai con gli occhi nel gruppo dei

bambini.«Chi di voi è la piccola figlia del a

tessitrice?» chiesi.Ammutolirono tutti. Nessuno

rispose.«Chi di voi è la piccola figlia del a

tessitrice?» chiesi di nuovo, perchévolevo raccontarle che sua madre avevatessuto la fodera fatata del mio mantel o.

«Milimani era la figliolina del atessitrice» rispose finalmente uno deifratel i di Nanno.

«E dov’è?»«Laggiù giace Milimani».I bambini si fecero da parte. Su una

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lastra a fior d’acqua era distesa unabimba piccina.

Corsi a inginocchiarmi accanto a lei.Stava immobile, con gli occhi chiusi.Morta. Il visino era pal ido e smunto e ilcorpicino tutto bruciacchiato.

«Fu lei a volare contro la torcia»disse un bambino.

Ero disperato. Milimani era mortaper me. Ero inconsolabile. Nul a piùpoteva essere bel o, ora che Milimaniera morta per causa mia.

«Non essere triste» cercò diconsolarmi il fratel o di Nanno.«Milimani voleva così.

“Voleva” volare contro la torcia, pursapendo che le sue ali avrebbero preso

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fuoco».«Ma ora è morta». Nul a avrebbe

potuto consolarmi.Uno dei fratel i di Nanno prese le

manine bruciacchiate di Milimani tra lesue.

«Dobbiamo abbandonarti qui» lesussurrò. «Ma prima di partire ticanteremo la nostra canzone».

Tutti i bambini si sedettero intorno ala lastra di pietra, e cantarono unacanzone che avevano composto perMilimani.

“Milimani, sorelina,sorel ina che sparì nel ‘onde,sparì nel ‘onde con l’ali bruciate.Milimani, oh Milimani,

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dormi muta e non ti puoi svegliare,più non vola Milimanicon tristi grida sul ‘acqua stregata”.«Ora non è più stregata» disse Jum-

Jum, «e le piccole onde gentilicanteranno per Milimani che dorme sul ariva».

«Se avessimo qualcosa con cuicoprirla» mormorò la sorel ina di Jiri.«Qualcosa di soffice, perché la lastra dipietra le sembrasse meno dura».

«L’avvolgeremo nel mio mantel o»dissi. «L’avvolgeremo nel a stoffatessuta da sua madre».

Così avvolsi Milimani nel mantel ofoderato di tessuto di fiaba, più vel utatodei fiori di melo, più dolce del vento nel

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‘erba, più caldo e più rosso del sanguedel cuore. Così lo aveva tessuto la suamamma.

Avvolsi il corpicino di Milimani congrande cura, perché non le fosse durogiacere sul lastrone di pietra.

Al ora avvenne un fattostraordinario: Milimani aprì gli occhi emi guardò. Dapprima rimase immobile econtinuava a fissarmi. Poi si sedette egirò lo sguardo sul gruppo di bambini,tutta stupita.

«Com’è azzurro il lago» dissesoltanto.

Poi si levò il mantel o e si alzò. Tuttii segni del e bruciature erano scomparsi,e lei era viva, viva!

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Una barca arrivava scivolando sul‘acqua, sospinta da vigorosi colpi diremo. Quando la barca si fece piùvicina, vidi che era il Fabbro di Spade aremare, e accanto a lui scorsi Eno.

Poco dopo la barca si affiancò allastrone, e i due saltarono a terra.

«Che cosa ti avevo detto?» esclamòil Fabbro di Spade con voce tonante.«Che cosa ti avevo detto? ‘E’ venutafinalmente per il Cavalier Kato l’ora dela sua ultima lotta’ avevo detto».

Tutto emozionato, Eno mi vennevicino.

«Volevo soltanto farti vedere unacosa, principe Mio» disse. Aprì la manorugosa e mi mostrò qualcosa sul a

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palma.Era una fogliolina verde. Delicata,

trasparente, vel utata, di un verde palido percorso da esili venature.

«E’ spuntata nel Bosco Morto» disseEno. «Su un albero del Bosco Morto».

Ammiccava soddisfatto, scuotendosu e giù il suo grigio capino arruffato.

«Ogni mattina andrò nel BoscoMorto per vedere se sono spuntatenuove foglioline verdi»

disse. «Tu intanto puoi tenere questa,principe Mio».

Mi mise in mano la foglia. Erasicuro di avermi regalato il più grantesoro del mondo.

Poi ammiccò di nuovo e disse:

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«Me ne stavo rannicchiato nel a miacasetta a far voti che tutto ti andassebene, principe Mio. Che tutto ti andassebene».

«Come hai riavuto la tua barca?»chiesi al Fabbro di Spade.

«Le onde me l’hanno ricondottaattraverso il lago» rispose.

Fissai il lago in direzione del amontagna del Fabbro di Spade e del acasetta di Eno.

Sopraggiungevano molte barche,cariche di persone sconosciute. Esserimagri che guardavano il sole e l’acquaazzurra con occhi stupiti e felici.Doveva essere la prima volta chevedevano il sole, che ora splendeva

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chiaro sul lago e sul e col inecircostanti. Solo l’ammasso di maceriein cima al a montagna del castel ometteva tristezza, ma pensai che ungiorno o l’altro sarebbero state ricopertedi borraccina. La borraccina soffice everde le avrebbe nascoste tutte enessuno avrebbe saputo che là sotto sinascondevano i resti del castel o delCavalier Kato.

La strada per tornare a casa eralunga, ma l’andare leggero. I bambinipiù piccoli cavalcavano Miramis e ipiccolissimi il puledro. Si divertivanoun mondo. Noialtri andammo a piedi,finché arrivammo al Bosco del eTenebre.

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Si era già fatta notte e il Bosco del eTenebre dormiva sotto la luna, propriocome la prima volta. Tutto era silenzio,mentre avanzavamo tra gli alberi. Mapoi Miramis nitrì alto e selvaggio, e dalontano nel Bosco del e Tenebre centocaval i bianchi fecero sentire il loroselvaggio e alto nitrito. Ci venneroincontro al galoppo, in un martel are dizoccoli. Al ora anche il puledrino nitrì.Si sforzava di nitrire in maniera forte eardita, ma ne uscì soltanto un debolenitrito che si sentiva appena. Ma i centocaval i bianchi lo sentirono ugualmente.

Com’erano felici che il loropuledrino fosse ritornato! Gli si affolavano intorno e tutti cercavano di

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andargli vicino vicino per toccarlo esincerarsi così ch’era proprio lui, ilpiccolo puledro rapito.

Ora avevamo cento caval i, enessuno doveva più andare a piedi. Ognibambino avrebbe avuto la suacavalcatura.

Io montai Miramis, e Jum-Jumsedeva dietro a me come sempre: nonvoleva nessun altro caval o. Unabambina piccolissima ebbe il puledrotutto per sé e cavalcava verso il bosco ei cento caval i rilucevano al chiaro diluna.

Ben presto vidi il bianco dei fiori dimelo bril are tra gli alberi. Nevosicumuli di petali posavano sugli alberi

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intorno al a casa da fiaba del atessitrice. Dal ‘interno proveniva unrumore ritmico e Milimani disse:

«La mia mamma tesse».Saltò da caval o proprio davanti al

cancel o, fece ciao con la mano e gridò:«Come sono contenta di essere

tornata prima che i meli sfioriscano!»Corse per il sentiero tra gli alberi

bianchi e scomparve nel a casetta. Iltelaio si fermò.

Ma avevamo ancora molta strada dafare per l’Isola dei Prati Verdi, e ioardevo di riabbracciare il Re, miopadre. Così i cento caval i bianchi conin testa Miramis si alzarono in volo sulBosco del e Tenebre e si levarono più

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alti del a montagna più alta.Era mattina quando arrivammo al

Ponte del Primo Sole. I guardiani loavevano appena abbassato, e il pontescintil ava di raggi d’oro e di lucequando i cento caval i bianchi viirruppero coi col i vibranti e le criniereal vento. I guardiani ci guardavano,paralizzati dal o stupore. Ma a un trattouno di essi portò un corno al e labbra, visoffiò dentro, e il suono andò per tuttal’Isola dei Prati Verdi. E dal e case e dale capanne uscirono correndo tutti quel iche avevano avuto rapiti i loro bambinie che erano stati così in pena per loro.Ora li vedevano tornare in groppa acento bianchi caval i, e nessuno

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mancava: tutti erano tornati a casa.I caval i bianchi continuarono la loro

corsa sfrenata attraverso i prati, ed ecco,eravamo arrivati al roseto del Re, miopadre. Tutti i bambini saltarono dai lorocaval i e i loro babbi e le loro mamme licircondarono, come i caval i avevanofatto col loro puledrino. C’era Nannocon la sua nonna, Jiri con le sue sorel e,i genitori di Jum-Jum e tante altrepersone che non avevo mai visto prima;tutti ridevano e piangevanoabbracciando e baciando i loro bambiniritrovati.

Ma il Re, mio padre, non c’era.I cento caval i si volsero per tornare

al Bosco del e Tenebre. Li vidi

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galoppare via attraverso i prati,sospingendo il puledrino bianco.

Jum-Jum cominciò a raccontare aisuoi genitori tutte le nostre avventure,così nessuno si accorse che aprivo ilcancel o del roseto. Nessuno mi videinoltrarmi fra le rose. Per fortuna,perché volevo essere solo.

Passai sotto i pioppi argentati, chestormivano come sempre; come semprefiorivano le rose: tutto era immutato.

Al ora lo vidi: vidi il Re, mio padre.Là, dove l’avevo lasciato quand’eropartito per il Bosco del e Tenebre e peril Paese Al Di Fuori, là lo trovai. Mitendeva le braccia, e io mi gettai sul suopetto e mi strinsi a lui forte forte.

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Anch’egli mi tenne stretto mentre misussurrava:

«Mio piccolo Mio!»Perché mi ama, il Re, mio padre.Ormai è tanto che vivo nel Paese

Lontano. Non penso quasi mai al tempoin cui abitavo in via Uppland. Qualchevolta mi viene in mente Benka, perchéassomiglia a Jum-Jum.

Spero che non provi troppa nostalgiadi me, perché nessuno sa meglio di mequanto pesi la nostalgia. Lui però ha unpapà e una mamma, e certamente aquest’ora avrà anche un altro amico delcuore.

Capita a volte che mi vengano inmente anche zia Edla e zio Sixten; ma

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non ce l’ho più con loro. Mi domandosoltanto cos’avranno pensato, quandosono scomparso. Se poi si sono accortiche sono scomparso: gliene importavacosì poco di me, che forse non ci hannonemmeno fatto caso. Zia Edla forsepensa che se soltanto si dà la briga diandare al parco, mi trova seduto sul apanchina sotto il lampione, che mangiouna mela e giocherel o con unabottiglietta vuota di birra. Forse pensache io me ne stia lì a fissare le case conle finestre il uminate, dove i bambinisiedono a cena con i loro papà e le loromamme. Se pensa così, sarà certo in colera che io non sia ancora di ritorno con isuoi biscotti del a salute.

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Ma si sbaglia, zia Edla. Oh, come sisbaglia! Nessun Bosse sta seduto su unapanchina del parco. C’è invece unragazzo che vive nel Paese Lontano. NelPaese Lontano, proprio così. Laggiùdove stormiscono i pioppi d’argento,dove luminosi fuochi riscaldano la notte,dove esiste il pane-che-sazia-la-fame. Edove suo padre è Re, e gli vuol tantobene.

Proprio così. Bo Vilhelm Olssonvive nel Paese Lontano, ed è felice,tanto felice col Re, suo padre.