mobbing: possibilita’ e prospettive di intervento giudiziario
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Delimitazione del tema: il "dolo specifico" della condotta di mobbing Dott. DANIELA VERRINA MagistratoTRANSCRIPT
MOBBING: POSSIBILITA’ E PROSPETTIVE DI INTERVENTO GIUDIZIARIO
Delimitazione del tema: il "dolo specifico" della condotta di mobbing
Dott. DANIELA VERRINA
Magistrato
E’ noto che una prestazione lavorativa resa in condizioni di stress può assumere connotati di penosità che
vanno ben al di là della mera faticosità intrinseca della prestazione stessa.
I fattori che possono determinare un tale genere di situazione sono vari e di diversa natura. Possono
dipendere, per esempio, dalle caratteristiche obiettive dell’ambiente di lavoro (anche in termini del tutto
peculiari, come rivela la recente notizia giornalistica dell’intervento effettuato in Gran Bretagna per
rendere... più rumorosi certi luoghi di lavoro particolarmente silenziosi nel tentativo di eliminare la causa
di stress emotivo rappresentata proprio dall’eccessivo silenzio) o dalla ripetitività delle mansioni (il caso
"classico" della catena di montaggio). Ma non sono queste le situazioni delle quali oggi ci occupiamo,
giacche alla nozione di mobbing (o bulliying, nella versione americana) rispondono solo situazioni
determinate da condotte intenzionali del datore di lavoro e/o di altri lavoratori: non a caso il termine
"mobbing", che in etologia identifica una tattica di offesa-difesa del gruppo nei confronti di singoli,
richiama il concetto di assalto, di aggressione. Le stesse molestie sessuali fini a sé stesse -. e non
strumentalmente attuate al fini di intimorire o avvilire la persona -, pur appartenendo, sotto il profilo degli
effetti, alla problematica del danno da "ambiente di lavoro", che ci interessa, non integrano di per sé una
condotta di mobbing.
Infatti, tale condotta, così come analizzata dalla medicina del lavoro e definita dai progetti di legge sul
tema, è caratterizzata non solo dalla volontarietà, ma anche dall’intento persecutorio. Il "dolo specifico"
di molestare, terrorizzare, discriminare ed emarginare caratterizza tutte le definizioni recepite dai disegni
e dalle proposte di legge presentati nel tempo: la tutela è apprestata verso condotte che, avendo le
caratteristiche della violenza, della discriminazione e della persecuzione, "mirano a danneggiare" il
lavoratore "con palese predeterminazione" (così l’art.1 della proposta di legge n.6410 presentata alla
Camera dei Deputati il 30/9/1999 d’iniziativa dei deputati Benvenuto ed altri e, parimenti, il più risalente
disegno di legge del senatore Tapparo ed altri) o che tendono "ad instaurare una forma di terrore
psicologico nell’ambiente di lavoro" (così la proposta di legge n.1813 del 9/6/1996). V’è da chiedersi se
questa preoccupazione di connotare finalisticamente la condotta non possa tradursi, all’atto pratico, in un
diabolico onere probatorio per il lavoratore in cerca di tutela (non diversamente da quanto già accade per
la prova della discriminatorietà o della ritorsività dei provvedimenti datoriali); ma la preoccupazione
potrebbe considerarsi infondata se si ritenesse di poter ricostruire questo elemento costitutivo della
fattispecie alla stregua di un connotato implicito nelle (o presunto dalle) caratteristiche obiettive della
condotta (ripetitività, gratuità, monodirezionalità ecc.) piuttosto che come profilo meramente psicologico
della stessa, abbisognevoli di prova specifica. E tale lettura sembrerebbe confortata dal rilievo della
ricorrenza, nei medesimi progetti di legge, di un altro elemento costante: quello - appunto - della
ripetitività della condotta "mobbizzante". Sulla falsariga delle proposizioni medico-legali che collegano i
danni da mobbing ad una durata minima di "esposizione" al fenomeno (sei mesi, secondo gli studiosi
svedesi della materia)- ma fortunatamente con previsione più generica e modulabile da caso a caso - la
proposta di legge 6410 prende in considerazione gli atti di violenza e persecuzione psicologica svolti con
carattere sistematico e duraturo, il disegno di legge Tapparo aggiunge a tali attribuzioni quella ulteriore
della "intensità": in tutti i casi la fattispecie viene ricostruita, sul piano oggettivo, in termini tali da poter
lasciare ben pochi dubbi sull’intento soggettivo di colui che pone in essere la condotta.
Il singolo atto può costituire mobbing?
Ma se è vero che la ripetitività della condotta è un altro elemento costante dei progetti di definizione
normativa del mobbing, allora il singolo atto non può mai integrare la fattispecie della violenza morale o
della persecuzione psicologica? Una risposta negativa, in ipotesi soddisfacente se riferita al semplice e
isolato fatto di ingiuria, diffamazione o maltrattamento - almeno normalmente inidoneo a produrre danno
alla salute psico-fisica del lavoratore (con tutte le dovute riserve circa l’idoneità lesiva anche di singoli
atti di molestia quando tocchino una sfera delicata come quella sessuale) -, suscita invece perplessità se
riferita a provvedimenti del datore di lavoro dagli effetti normalmente duraturi (come un mutamento di
mansioni o un trasferimento); tanto più in quanto il singolo atto può essere, per ogni altro verso,
apparentemente legittimo e, quindi, inattaccabile con gli strumenti giuridici "tradizionali". Vero è,
tuttavia, che il singolo provvedimento datoriale adottato con fini persecutori, da un lato, non nasce
solitamente dal nulla - anzi è normalmente preceduto o seguito da altre condotte mobbizzanti -, dall’altro
difficilmente consente la prova del suo intento persecutorio. Un’interessante disamina ante litteram del
problema è fornita da Pret. Milano 14/12/1995 (in Il Lavoro nella giurisprudenza, n.5/1996, p.385, sulla
quale torneremo anche nel prosieguo per altri, interessanti profili) ove si sottolinea la debolezza e
limitatezza della tutela giudiziaria avverso i singoli atti di esercizio del potere datoriale, la cui
persecutorietà può essere apprezzata soltanto in un visione complessiva che ne metta in evidenza la
ripetitività e conseguente lesività della salute psico-fisica del lavoratore.
Le proposte di definizione normative delle condotte di mobbing: i requisiti "oggettivi"...
Dall’insistenza dei progetti di definizione normativa del mobbing sulle caratteristiche obiettive della
condotta rilevante sembra potersi desumere un altro dato significativo ai fini della delimitazione
dell’ambito di operatività della tutela che si intende apprestare: essa viene riservata a comportamenti che -
volendo mediare l’espressione utilizzata dall’art.1435 c.c. per definire i caratteri della violenza rilevante
ai fini dell’annullabilità del contratto - siano idonei a fare impressione sopra una persona sensata. Si tratta
di un’opzione diametralmente opposta rispetto a quella operata dalla Commissione europea con la
Raccomandazione del 27/11/1991 sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro e accolta nelle stesse
proposte di legge presentate in Italia per una regolamentazione di questa materia, ove prevale chiaramente
la concezione "soggettiva" della fattispecie, qualificata dalla percezione negativa della condotta da parte
di colui che la subisce, piuttosto che da un giudizio aprioristico del suo disvalore (secondo il disegno di
legge n.38, comunicato alla Presidenza il 9/5/1996, è molestia sessuale ogni atto o comportamento a
connotazione sessuale o basato sul sesso che risulti indesiderato). Ma la differenza di impostazione appare
del tutto giustificata dalla diversità dei beni giuridici da tutelare e delle finalità della tutela: nel caso della
molestia sessuale è necessario garantire tutela assoluta ad una sfera della personalità e della libertà
individuale nella quale è intangibile il diritto di ciascuno di stabilire i propri limiti di tolleranza rispetto
agli atteggiamenti dei terzi; nel campo della persecuzione sul posto di lavoro è, invece, necessario
escludere dalla sfera di intervento - che coinvolge anche poteri e diritti dei terzi - quelle situazioni di
esasperata sensibilità individuale che rischierebbero di criminalizzare anche condotte innocue o del tutto
tollerabili. Problematica completamente diversa, sulla quale avremo modo di soffermarci in seguito, e con
riferimento alla quale non v’è luogo a differenze tra molestia sessuale e mobbing, è quella dell’incidenza
che la particolare fragilità della vittima può avere sulle conseguenze dannose della condotta molestatrice.
... quelli soggettivi...
Quanto all’individuazione dei possibili "mobbers", ovverosia degli autori della condotta, come già si
evidenziava, essa può provenire dal datore di lavoro - o dai superiori gerarchici che lo rappresentano ed
agiscono nel suo interesse - (mobbing verticale) o dai colleghi (mobbing orizzontale; non a caso la
vocazione ad essere vittima di mobbing è statisticamente propria dei lavoratori più capaci e diligenti, sui
quali si appuntano le gelosie e le rappresagli "auto-difensive" degli altri dipendenti) ma può anche essere
il frutto di una complicità fra l’uno e gli altri, incoraggiata sia dalla tendenziale mancanza di solidarietà in
un ambiente almeno potenzialmente competitivo quale quello di lavoro, sia, talora, da interessi specifici.
Ricordo un caso, sottoposto al giudizio della magistratura del lavoro genovese, in cui - benché non si
facesse questiona esplicita di mobbing - dalle carte del processo chiaramente si intuiva come la subdola
operazione di demansionamento posta in essere dal datore di lavoro nell’assegnare ad un funzionario la
dirigenza di un ufficio del quale egli nulla conosceva e che era del tutto estraneo alla sua professionalità -
anche se non al suo grado -, avesse trovato la complicità dell’impiegato - di livello inferiore - che, avendo
di fatto diretto il medesimo ufficio sino a quella data, era evidentemente propenso, per parte sua, ad
astenersi dal trasmettere a quel funzionario qualsiasi conoscenza ed esperienza nelle nuove mansioni. Il
che pone in luce la potenziale "insufficienza" della gamma di possibili autori del mobbing delineata dalla
proposta di legge Benvenuto, la quale, prendendo in considerazione i soli superiori o pari grado del
lavoratore "mobizzato", muove dal presupposto che la superiorità gerarchica e/o l’inquadramento poziore
siano di per se’ sufficienti a tutelare il lavoratore da simili condotte ad opera dei propri sottoposti o
inferiori di grado: probabilmente sottovalutando la varietà e imprevedibilità delle mille strade che la
persecuzione psicologica può percorrere nelle complesse ed articolate dinamiche relazionali degli
ambienti di lavoro.
... e le tipologie.
Condotte "classiche" di mobbing che possono provenire da pari grado -ma anche da sottoposti - del
"mobbizzato" sono, ad esempio, le azioni di isolamento, di occultamento di informazioni, di critica più o
meno velata, di maldicenza nell’ambito lavorativo, di ostentazione di indifferenza o di scarsa stima.
Altri comportamenti tipici richiedono, invece, una posizione di preminenza rispetto al dipendente: la
sottrazione di strumenti di lavoro (non è raro il caso del lavoratore che si trova dall’oggi al domani
privato del computer, piuttosto che della linea telefonica), il rimprovero ingiustificato, sgarbato od
eccessivo, l’attribuzione di mansioni avvilenti o senza significato, la sottoposizione a pressanti visite di
controllo nei confronti del lavoratore in malattia, l’assegnazione di obiettivi di lavoro irraggiungibili, sino
ad arrivare al demansionamento, al trasferimento e al licenziamento. Questo genere di persecuzione ha, di
solito, un obiettivo aziendale ben preciso: espellere dall’impresa il lavoratore che, in base alla vigente
legislazione protettiva, non si può licenziare, provocandone le dimissioni ovvero "costruendone" il
licenziamento per scarsa produttività o superamento del periodo di comporto. Si parla, in proposito, di
bossing o di mobbing strategico, il più diffuso in Italia secondo le stime del Centro di disadattamento
lavorativo della Clinica del Lavoro dell’Università di Milano.
Quali strumenti di tutela sono oggi disponibili?
Talora queste condotte assumono connotati di rilievo penale; così quando si traducono in ingiurie o fatti
di violenza privata, diffamazione, abuso d’ufficio o addirittura estorsione (è il caso, purtroppo assai meno
raro di quanto si creda, come rivelano le cronache giudiziarie, del comportamento indotto attraverso la
minaccia dell’esercizio - ovviamente improprio - di un potere o di un vantato diritto, quale la minaccia di
una denuncia penale per ottenere le dimissioni del prestatore). Più frequentemente - almeno fino a quando
la penale sanzionabilità del responsabile di terrorismo psicologico sul luogo di lavoro rimarrà una mera
proposta di legge (la n.1813 presentata alla Camera dei deputati il 9/7/1996) - esse sfuggono alla sfera di
intervento punitivo dello Stato ed il loro destinatario non può trovare tutela se non attraverso gli strumenti
civilistici. Ma quali sono questi strumenti e come possono essere utilizzati?
L’interrogativo, che ne racchiude molti altri, impone, in primo luogo, l’individuazione degli obblighi e
divieti - e delle rispettive fonti giuridiche - la violazione dei quali può giustificare una richiesta di tutela
da parte del lavoratore.
L’art.2043 c.c.
Il primo e fondamentale principio è quello del neminem laedere: la causazione di un danno ingiusto è
fonte di responsabilità extra-contrattuale e obbliga il responsabile - anche indiretto, quale il padrone o il
committente per il fatto dei propri domestici e commessi - al risarcimento del relativo danno.
Non mi addentro nella disamina della tutela risarcirai offerta da questa "clausola in bianco" - per il cui
approfondimento abbiamo la fortuna di poterci avvalere dell’intervento di ben altro conoscitore del tema -
se non per ricordare fugacemente che, secondo Corte Cost 184/86, l’art.2043 c.c. "va necessariamente
esteso fino a comprendere il risarcimento...di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le
attività realizzatrici della persona umana" e per formulare la provocatoria ipotesi che nella "visione" del
giudice delle leggi la tutela offerta dal sistema di responsabilità aquiliana possa andare al di là della stessa
nozione di integrità psico-fisica e arrivare a coprire quello che in dottrina viene già chiamato "danno
esistenziale".
L’art.2087 c.c
Secondo parte della dottrina (F. Giammaria, Osservazioni in tema di danno da dequalificazione
professionale, nota a Cass., S.L. 18/4/1996, n.3686 e Riva Sanseverino, in Commentario del cod. civ., a
cura di Scialoja e Branca, sub art.2987, Bologna, 1986, 203), l’art.2043 c.c. sarebbe addirittura l’unica
norma invocabile dal lavoratore laddove la condotta ascrivibile al datore di lavoro non attenga alla
eliminazione dei rischi strettamente ed esclusivamente connessi all’ambiente di lavoro ("tecnicamente"
inteso), ai quali soltanto sarebbe riferibile l’art.2087 c.c.. Se dovessimo accogliere questa lettura della
norma, potremmo senz’altro chiudere questo capitolo della discussione, escludere che l’art.2087 c.c.
possa costituire un presidio avverso le condotte di mobbing e rivolgerci altrove. Ma a diversa
determinazione ci induce altra interpretazione della norma lavoristica, peraltro più aderente al dato
letterale. Essa, infatti, sottolinea come il riferimento all’esercizio dell’impresa" tout court individui un
ambito di operatività del precetto assai più vasto rispetto all’ambiente di lavoro in senso stretto ed
evidenzia come il richiamo alla "particolarità del lavoro" e all’esperienza", quali parametri di
individuazione delle misure adottabili, ponga i confini dell’obbligazione datoriale ben oltre i limiti di
operatività delle mere regole tecniche e scientifiche.
Personalmente, non solo credo che l’obbligo di protezione sancito dall’art.2087 c.c. riguardi tutti gli
aspetti della prestazione e del rapporto di lavoro - e , in particolare, il tema che oggi ci interessa-; sono
anche convinta - in ciò confortata da alcune pronunce di legittimità (v.., da ultimo, Cass., 1/9/1997,
n.8267, in F.I., 1998. 131 ss.) e da autorevole dottrina - che l’obbligazione di adottare tutte le misure
idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore costituisca la piena trasposizione,
nell’ambito della responsabilità contrattuale, del principio stesso del neminem laedere e dei valori
affermati, a livello costituzionale, negli artt.32 e 41 comma secondo della Costituzione.
D’altra parte, che l’art.2087 c.c. possa costituire il fondamento di una responsabilità contrattuale per
danno biologico è riconosciuto dalla giurisprudenza pressoché unanime nel settore specifico della
responsabilità datoriale per l’ipotesi di molestie sessuali sul luogo di lavoro (cfr. , fra le altre, Cass., S.L.,
17/7/1995, n.7768, in G. I, 1996, 1110 ss.; Pret. Trento 22/2/1993, in G. C., 1994, I, 555; Trib.Milano,
21/4/1998, in R.C.D.L., 1998, 957).
E’ vero, tuttavia, che questa norma - che, in quanto foriera di responsabilità contrattuale, comporta un
regime di favore per il prestatore di lavoro danneggiato, sia quanto a rito e competenza, sia quanto a
prescrizione estintiva e regime dell’onere probatorio - ha raramente conosciuto applicazioni
giurisprudenziali, specie di legittimità, che ne abbiano valorizzato tutte le concrete potenzialità.
E’ il caso, per esempio, della pronuncia del Supremo Collegio, 8267/97, già citata, che sull’art.2087 c.c.
ha fondato la responsabilità dell’imprenditore per il danno alla salute sofferto da un dipendente a causa
dell’eccessivo carico di lavoro, addebitandogli il mancato adeguamento della forza lavoro alle effettive
esigenze della produzione (facendo, altresì, applicazione, al caso dello spontaneo adeguamento del
lavoratore alle esigenze dell’ufficio, e della conseguente accettazione di un regime di superlavoro,
dell’ulteriore, fondamentale principio di irrilevanza dell’eventuale concorso causale del dipendente
laddove il datore di lavoro abbia omesso le misure atte ad impedire l’evento lesivo).
Ma soprattutto grandemente inesplorato appariva, sino a non molto tempo fa, il terreno del bene giuridico
tutelato dalla norma codicistica. Osservava più di dieci anni or sono il Montuschi (Ambiente di lavoro e
tutela della malattia psichica, RIDL, 1987, 3 e ss) come, nonostante la presenza nel nostro ordinamento di
una fitta serie di disposizioni (art.32 Cost., art.2087 c.c., art.9 Stat. lav., l.833/73) impositive di una lettura
della salute in termini "onnicomprensivi", lo scenario giurisprudenziale apparisse dominato unicamente
dalla problematica relativa alla lesione fisica, guardandosi invece con diffidenza alla tutela della salute
psichica lesa nell’ambito del rapporto di lavoro, quasi che la malattia mentale - o meglio, il disturbo
psichico - costituisse una condizione preesistente nel lavoratore o dovesse esistere in nuce, solo trovando
nelle difficoltà incontrate sul lavoro la propria causa scatenante. Si arrivava così, in forza di una ritenuta
eccezionalità e imprevedibilità dell’evento dannoso, a negare tutela al lavoratore affetto da sindrome
psico-nevrotica, benché i periti riconoscessero l’esistenza di un preciso e sicuro nesso causale fra questa
patologia e l’atteggiamento negativo del datore di lavoro verso le giuste richieste del lavoratore di
riconoscimento dei propri meriti, (Cass., 20/12/1986, n.7801, in R.I.D.L., 1997, II, 578 ss). Isolate,
benché tratte dall’osservazione di dati di fatto piuttosto evidenti, erano affermazioni simili a quella
contenuta in Pret.L’Aquila, 10/5/1991 (in F. I., 1993, I, 317 ss.) secondo cui "appare adeguato ad un
criterio di normalità sociale che l’esaurimento nervoso e lo stress siano riconducibili alla causa
licenziamento".
La più recente giurisprudenza pare fortunatamente, orientata verso un superamento di questa
impostazione, sia sotto il profilo della rilevanza riconosciuta al danno psichico, sia quanto ad estensione
della tutela anche ai c.d. danni imprevedibili.
Sulla risarcibilità dei danni imprevedibili
Da quest’ultimo punto di vista, è recentissima la notizia giornalistica di una decisione della Cassazione (la
n.12339 del 5/11/1999) che avrebbe escluso la possibilità di limitare la responsabilità del datore di lavoro
per i danni fisici (sindrome depressiva e successivo infarto), provocati con il suo comportamento al
lavoratore, in ragione della esistenza di una concausa rappresentata da una preesistente patologia
coronarica; la Corte avrebbe affermato che una limitazione di responsabilità può derivare solo dalla
concorrenza di un altrui fatto colposo o doloso, ma non dalla concorrenza, nella causazione dell’evento,
di una precedente malattia o di altro evento naturale ed imprevedibile. Non diversamente la
giurisprudenza di merito (cfr.,Trib.Milano, 19/6/1993 e 21/4/1998, in R.C.D.L., 1998, 957), ha escluso
che il datore di lavoro potesse essere, in tutto o in parte, esonerato dalla responsabilità per il danno
biologico e morale sofferto dalla lavoratrice molestata, in ragione della esistenza di una concausa del
danno, rappresentata dalla particolare fragilità personale della donna. Conclusione del tutto corretta se si
tiene conto, da un lato, del principio per cui il concorso di cause, anche se indipendenti dall’azione o
dall’omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra questa e l’evento dannoso, e,
dall’altro, della inoperatività della limitazione della responsabilità contrattuale al solo danno prevedibile,
ai sensi dell’art.1225 c.c., allorquando l’inadempimento sia accompagnato da dolo (ovverosia da una
condotta intenzionalmente diretta a ledere la personalità del lavoratore). I’inoperatività che, vale la pena
di sottolinearlo, potrà certamente essere opposta al datore di lavoro in tutti i casi di mobbing che siano
ascrivibili ad una sua propria condotta o ad una sua consapevole e volontaria omissione; inoperatività che
non ci sarà nemmeno bisogno di invocare nei casi - meno gravi e più ricorrenti - in cui alla persecuzione
sul luogo di lavoro faccia seguito, come conseguenza prevedibile secondo la scienza medica e
psichiatrica, una sindrome di tipo ansioso-depressivo.
Nuove frontiere nella rilevanza del danno psichico
Deve, infatti, darsi atto che in tempi relativamente recenti, con l’aiuto della scienza medico-legale e
psichiatrica, si è avviato il cammino verso l’acquisizione e il riconoscimento delle dinamiche che
collegano causalmente la sofferenza psichica al disagio lavorativo e, quindi, della rilevanza, a fini
risarcitori, del c.d. "disturbo post-traumatico da stress" subito nell’ambiente di lavoro, una patologia alla
quale si riconnettono precisi disturbi emotivi e psico-somatici, che ci sono stati ampiamente illustrati dal
precedente relatore. E, talora, le affermazioni di principio vanno ancora più in là del riconoscimento della
tutela risarcitoria alla vera e propria malattia mentale e tendono ad attribuire rilevanza al danno psichico
anche quando non assurga a livello di patologia psichiatrica. La già citata decisione della Pretura di
Milano del 14/12/1995 - pur partendo dal forse erroneo presupposto della estraneità alla nosografia
psichiatrica dell’accertato "disagio nevrotico con nuclei di somatizzazione" - basa su un’approfondita
ricostruzione del concetto di danno alla salute, come elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza e
desumibile dalle norme vigenti - da quelle costituzionali a quelle ordinarie (per esempio in tema di diritto
all’autodeterminazione in tema di mutamento di sesso o sterilizzazione) - l’affermazione che il diritto alla
salute, comprensivo del diritto ad una salute psichica, autonoma e potenzialmente prevalente su quella
fisica, non ha soltanto una dimensione "passiva", come diritto alla protezione della propria sfera personale
(fisica e psichica), ma possiede anche "una dimensione attiva, come diritto e libertà di essere, di disporre
di se’ e di autodeterminarsi" (si ricordi che, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, salute non è già
"assenza di malattia",ma il completo benessere fisico, psichico e sociale"). E su tali basi il Tribunale di
Milano ha riconosciuto il diritto del lavoratore al risarcimento non solo con riferimento alla vera e propria
patologia psichiatrica e alla conseguente riduzione della capacità lavorativa, ma anche in relazione ad un
precedente periodo di minore efficienza psico-fisica, valutato alla stregua di danno biologico temporaneo.
Una proposta "provocatoria" in punto interpretazione ed applicazione dell’art.2087 c.c.
Peraltro, ragionando su queste parole e sulle connesse prospettive di "apertura" verso un possibile
passaggio dalla tutela della salute alla tutela del benessere, mi è sorto spontaneo un quesito: non è forse
possibile che, mentre ci sforziamo di ampliare in via interpretativa la gamma delle lesioni all’integrità
della persona del lavoratore, suscettibili di tutela sotto l’egida del concetto di danno biologico,
trascuriamo di valorizzare il dato normativo, messoci a disposizione dal legislatore del 1942 e
rappresentano dalla esplicita estensione dell’obbligo di protezione, posto dall’art.2087 c.c. a carico del
datore di lavoro, anche alla "personalità morale" del lavoratore? Non dimentichiamo per caso che l’art.41
comma secondo della Costituzione vieta l’esercizio dell’iniziativa economica in contrasto, fra l’altro, con
la dignità umana (sì che il Pretore di Bologna, con sentenza 20/11/1990, in G. I., 1992, I, 2, 84, arrivava
ad affermare che questo precetto costituzionale debba essere considerato uno dei "casi determinati dalla
legge" nei quali l’art.2059 c.c. consente il risarcimento del danno morale, liquidandolo pertanto in
favore di un lavoratore licenziato per le numerose assenze provocate dalla grave malattia del figlio)?
Mi chiedo, insomma, se non sia possibile trarre dalla specificità e pregnanza della normativa esistente uno
strumento di tutela immediata e diretta, anche preventiva e non solo risarcitoria, contro tutte le condotte di
mobbing che siano ascrivibili, per azione o colpevole omissione, al datore di lavoro; e ciò a prescindere
dalla insorgenza di una malattia fisica o psichica e in dipendenza della mera incidenza (negativa) che la
condotta produce sulla capacità e sul modo del lavoratore di valutare se’ stesso, di rapportarsi agli altri, di
far valere la propria professionalità: in una parola, sulla sua personalità. Il che costituisce già un danno,
così come - forse - è già danno la spendita di energie psichiche e lo sforzo tramite il quale il lavoratore
mobbizzato può "resistere" alla persecuzione, adeguando il proprio atteggiamento alle esigenze
"difensive" (in senso aggressivo o, all’opposto, menefreghista), o ricercando compensazioni extra-
lavorative al senso di frustrazione inflittogli dal lavoro: la vittima di mobbing, infatti, non sempre è una
persona malata, ma è sempre un individuo in difficoltà, anche se più o meno brillantemente fronteggiate.
Il "pericolo" della elisione dell’onere della prova: un problema noto alla giurisprudenza
in materia di danno da demansionamento
Mi rendo conto, tuttavia, di avventurarmi in un terreno assai delicato, ove i confini tra danno psichico,
lesione della personalità e mera sofferenza morale sfumano pericolosamente e nel quale la logica
conclusione della immanenza del danno alla condotta - non potendosi, in questa lettura, avere mobbing
senza lesione - può innescare un meccanismo di elisione dell’onere della prova del danno e, quindi
portare verso la - da molti temuta - sostituzione in via interpretativa del sistema risarcitorio con un
sistema sanzionatorio, la cui introduzione, si sottolinea, non può che essere riservata al legislatore.
D’altra parte, non è questo un tema nuovo al diritto del lavoro: l’identica contrapposizione fra sostenitori
di una rigorosa applicazione dell’onere probatorio, gravante sul lavoratore che lamenta il danno, e fautori
di un riconoscimento in via presuntiva del diritto al risarcimento, in ragione della intrinseca lesività della
condotta datoriale, è nota alla giurisprudenza in materia di danno alla professionalità derivante dal
demansionamento.
Neanche a dirlo, il secondo orientamento trova maggiore accoglienza presso i giudici di merito (vedi, fra
le altre, l’orientamento espresso da Pret. Milano, 7/1/97 e 31/7/97, entrambe in O. G.L., 1997, ma anche
dal nostro Tribunale, del quale ricordiamo le inedite sentenze 21/5/1999, n.1192 e 28/7/1998, n.1969),
mentre la via del rigore è prevalente nelle aule della Suprema Corte; ma non senza eccezioni. La stessa
Cassazione ha, infatti, talora riconosciuto che la dequalificazione comporta un effettivo e inevitabile
vulnus alla vita professionale, sì che l’esistenza di un pregiudizio non necessita di specifica prova (cfr.
Cass., 16/12/1992, n.13299). L’argomento interessa anche il nostro specifico tema di trattazione in quanto
demansionamento e dequalificazione sono forme "tipiche" del mobbing c.d. verticale.; forse nulla è tanto
avvilente per il lavoratore - e utile all’eventuale progetto datoriale di estromissione del lavoratore stesso
dall’impresa - della sottrazione delle proprie mansioni e competenze e dell’attribuzione di compiti non
conformi alla propria professionalità e preparazione o addirittura della totale assenza di compiti
(fenomeno assai più diffuso di quanto non si potrebbe credere, a giudicare dal rilevante numero di casi
sottoposti al giudice). Da questo punto di vista pare utile ricordare alcuni punti fermi della giurisprudenza
in materia di demansionamento illegittimo: in primo luogo, che l’equivalenza delle mansioni, alla quale il
datore di lavoro deve adeguare il proprio ius variandi, deve essere intesa, non solo nel senso di pari valore
professionale delle nuove mansioni, ma anche come loro attitudine a consentire la piena utilizzazione e
l'arricchimento del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore nella pregressa fase del rapporto (sì
che anche il radicale mutamento contenutistico delle mansioni rispetto all’esperienza professionale
acquisita può costituire illegittimo demansionamento: cfr. Cass., 13/11/1991, n.12088 ma anche Trib.
Genova, 21/5/1999, n.1192, sopra citata); che dal demansionamento può derivare un danno biologico, per
la prova e la risarcibilità del quale si richiamano tutte le considerazioni svolte con riferimento all’art.2087
c.c.; che ben distinto da questo va tenuto il danno alla professionalità, il quale - debba o meno essere
rigorosamente provato, a seconda dell’indirizzo cui si ritenga di aderire - è un danno patrimoniale,
giacche professionalità significa prestigio, ricollocabilità sul mercato del lavoro, chance di ulteriore
miglioramento della propria posizione lavorativa, voci tutte che hanno un contenuto economico reale,
anche se indiretto e di difficile quantificazione.
Vero è che le espressioni utilizzate in alcune decisioni dei giudici di merito sembrano elidere tale
patrimonialità, parlando di danno alla dignità e alla personalità del lavoratore (Pret. Milano, 9/12/1997,
Pret. Bologna, 8/4/1997, in RIDL, 1997, 348 ss) o di danni concernenti la vita di relazione ((Pret.Milano
11/3/1996 e Pret.Nocera Inf., 5/12/1996), ma nel momento della liquidazione ricorrono comunque ad uno
parametro di quantificazione - la retribuzione - che rivela come, in ogni caso, l’unico valore della
personalità la cui lesione viene riconosciuta rilevante è quello "monetizzato" dal compenso, cioè quello
del singolo "uomo lavoratore". Lo rivela esplicitamente la motivazione di Pret.Bologna 8/4/1997,(in L.
G., 1998, 140) che, dopo avere riconosciuto che il danno alla personalità del lavoratore demansionato è in
re ipsa, lo identifica nell’"ipotetico valore che il lavoratore, ove non vigesse il divieto di reformatio in
peius di cui all’art.2103 c.c. avrebbe potuto lucrare sul mercato del lavoro in termini di maggiore
retribuzione, accettando una previsione contrattuale di incondizionato ius variandi da parte datoriale".
Fedele a questa opzione, che ha indubbio fondamento teorico, ma avvertendo al tempo stesso la necessità
di ricercare un criterio di razionalizzazione del ricorso all’equità più soddisfacente del riconoscimento di
una certa percentuale della retribuzione (che rappresenta il sistema più diffuso di quantificazione), il
Tribunale di Genova ha assunto a parametro di quantificazione delle singole voci di danno, accomunabili
nella categoria del danno professionale, la scala retributiva degli inquadramenti come espressione del
valore economico assegnato alle corrispondenti professionalità (vedi le sentenze sopra citate). Rilevano
così, volta per volta: per il danno da perdita di chance, la differenza fra la retribuzione percepita e il
maggiore compenso che le progressioni di carriera avrebbero assicurato in assenza del demansionamento
illecito; per il danno da dequalificazione in senso stretto, la differenza fra la retribuzione spettante in
relazione alla qualifica e alle mansioni, delle quali il lavoratore è stato privato, - anche se integralmente
corrisposta - e quella prevista per la deteriore posizione aziendale di fatto ricoperta; per il danno da
radicale mutamento contenutistico delle mansioni, la differenza fra la retribuzione corrispondente al
livello inizialmente rivestito nell’area di originaria assegnazione e quella corrispondente al livello
raggiunto, nella stessa area, con l’esperienza e la crescita professionale maturate nelle mansioni
originarie.
La tutela ripristinatoria
Ma più interessante ancora della tutela risarcitoria è la possibilità, di una tutela ripristinatoria: a fronte
dell’illegittimo demansionamento, il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore nelle mansioni
precedentemente svolte o in altre equivalenti.Tale possibilità è affermata dalla dottrina e dalla
giurisprudenza prevalenti sulla base del principio di rimozione degli effetti dell’atto illegittimo e di
conseguente obbligatorio ripristino dello stato quo ante (vedi, da ultimo, Cass., 29/10/1998, n.9734).
L’insuscettibilità di un’esecuzione forzata di tale ordine - che dal punto di vista pratico può effettivamente
costituire grave pregiudizio all’effettività della tutela - non rappresenta però, anche secondo la
giurisprudenza di Cassazione, un ostacolo alla sua ammissibilità (cfr., tra le altre, Cass., 16/3/1984,
n.1833).
La necessità di un intervento preventivo
Il che, peraltro, non toglie che la tutela giudiziaria garantisca, di massima, solo un intervento ex post,
tanto meno efficace quanto più assenti sono le norme di comportamento e la messa in opera, nei luoghi di
lavoro, di misure idonee a prevenire e combattere la molestia e il disagio sul luogo di lavoro. E sotto
questo profilo il nostro Paese sembra affetto da una sua propria, tradizionale trascuratezza verso questo
genere di problematiche. La contrattazione collettiva difficilmente contiene previsioni che traducano in
specifiche norme d’azione i doveri e i poteri dell’imprenditore funzionali all’adempimento di questa
obbligazione contrattuale; solo recentemente e solo con riferimento alle molestie sessuali - per le quali ci
si è potuti avvalere delle indicazioni fornite dalla Raccomandazione della Commissione CEE del
27/11/1991 - si cominciano a tratteggiare norme comportamentali e di intervento specifiche (così nel
settore del commercio, settore cooperative, e, per l’impiego pubblico e negli accordi collettivi dei
comparti della sanità e degli enti pubblici; va poi ricordata la realtà specifica del Codice di
comportamento per la tutela della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Comune di Torino.
E ciò benché elevatissimi siano i costi di questi fenomeni, non solo sociali, ma anche imprenditoriali, in
termini di diminuzione della produttività e aumento dell’assenteismo e del turnover.
Le esperienze di altri Paesi
Ben più ampia e consapevole è l’attenzione che altri Paesi dell’Unione Europea prestano al problema
(certamente anche in ragione della maggiore rilevanza che ivi riveste a livello sociale). In Svezia esiste un
vero e proprio regolamento dedicato al mobbing e adottato dall’Ente Nazionale per la Salute e la
Sicurezza del Lavoro. Esso prevede, fra l’altro: che il datore di lavoro pianifichi e organizzi il lavoro in
modo da prevenire, per quanto possibile, la persecuzione nei luoghi di lavoro; che comunichi in modo
inequivocabile che queste forme di persecuzione non verranno assolutamente tollerate; che l’ambiente
lavorativo sia "monitorizzato" al fine di individuare possibili condizioni di potenziale insorgenza del
mobbing (ivi comprese eventuali carenze organizzative che possano indurre la cosiddetta mentalità del
capro espiatorio) ; che siano previste procedure speciali di intervento a sostegno dei lavoratori
mobbizzati.