moshe idel - tecniche mistiche nella cabbalà ebraica

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MOSHE IDEL TECNICHE MISTICHE NELLA CABBALA' ESTATICA I PARTE: IL PIANTO COME PRATICA MISTICA Partenio rimase molto impressionato da Arsenio e Nicola e dal loro modo di celebrare la Messa e riferì: «Mentre l'uno sta in lacrime davanti al Trono di Dio e, per il copioso pianto non può quasi pronunciare parola, l'altro, davanti al leggio, piange egli pure» Come i mistici di altre religioni, i cabbalisti fecero uso di varie tecniche per suscitare stati di coscienza paranormali. Malgrado la notevole importanza di queste pratiche, la loro storia e la loro descrizione hanno ricevuto solo una scarna e sporadica attenzione nei recenti studi di mistica giudaica. La stessa esistenza di sistemi elaborati di pratiche mistiche costituisce la prova dell’attendibilità delle confessioni dei mistici ebrei. Il fatto che i cabbalisti, nel narrare le loro esperienze mistiche, descrivessero anche le tecniche impiegate, rende i loro testi particolarmente preziosi per la conoscenza degli aspetti pratici delle tecniche e della natura esperienziale della loro vita mistica. A differenza della terminologia unitiva, profondamente influenzata da fonti esterne, le descrizioni delle tecniche mistiche combinano elementi ebraici antichi con ogni probabilità autentici, con pratiche derivanti da fonti estranee. In questo capitolo mi occuperò di quattro delle principali tecniche

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Page 1: Moshe Idel - Tecniche mistiche nella Cabbalà ebraica

MOSHE IDEL

TECNICHE  MISTICHE NELLA CABBALA' ESTATICA

I PARTE: IL PIANTO COME PRATICA MISTICA

Partenio rimase molto impressionato da Arsenio e Nicola e dal loro modo di celebrare la Messa e riferì:

«Mentre l'uno sta in lacrime davanti al Trono di Dio e, per il copioso pianto non può quasi pronunciare parola, l'altro, davanti al leggio, piange egli pure»

Come i mistici di altre religioni, i cabbalisti fecero uso di varie tecniche per suscitare stati di coscienza paranormali. Malgrado la notevole importanza di queste pratiche, la loro storia e la loro descrizione hanno ricevuto solo una scarna e sporadica attenzione nei recenti studi di mistica giudaica. La stessa esistenza di sistemi elaborati di pratiche mistiche costituisce la prova dell’attendibilità delle confessioni dei mistici ebrei. Il fatto che i cabbalisti, nel narrare le loro esperienze mistiche, descrivessero anche le tecniche impiegate, rende i loro testi particolarmente preziosi per la conoscenza degli aspetti pratici delle tecniche e della natura esperienziale della loro vita mistica. A differenza della terminologia unitiva, profondamente influenzata da fonti esterne, le descrizioni delle tecniche mistiche combinano elementi ebraici antichi con ogni probabilità autentici, con pratiche derivanti da fonti estranee. In questo capitolo mi occuperò di quattro delle principali tecniche mistiche. Le prime due — il pianto e l’ascensione dell’anima — esemplificano la continuità della tradizione mistica giudaica, indipendentemente dai mutamenti delle concezioni teologiche verificatisi nel corso dei secoli; le ultime due — combinazione di lettere e visualizzazione di colori — rappresentano i generi di tecniche «intensive» più caratteristiche del periodo medioevale. Ho deliberatamente ignorato una lunga serie di altri mezzi utilizzati per conseguire stati paranormali di coscienza, quali le tecniche oniriche, l’isolamento o la concentrazione mentale; che ho trattato in altri contributi (Inquires pp. 201-226; Hitbodedut; The Mystical Experience).

Il pianto come pratica mistica

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Inizierò la mia descrizione delle tecniche focalizzando l’attenzione su una pratica — fino ad oggi ignorata  — che può essere ricondotta attraverso tulle le fasi principali della mistica ebraica per un periodo di oltre due millenni Mi riferisco alla raccomandazione del pianto come mezzo per ottenere rivelazioni — principalmente di carattere visivo — e/o per svelare segreti.  Prima di introdurre il materiale relativo al tema in questione, presenterò un excursus del ruolo del pianto in ambito giudaico. All’interno della cornice nomica, piangere per uno spazio di tempo determinato era una manifestazione obbligatoria da compiersi nel quadro del periodo di lutto tributato ad uno dei membri della famiglia o ad un saggio

eminente. Appare evidente dalle normative halakiche che, quantunque il pianto fosse obbligatorio nel periodo di lutto, non era considerato comportamento conveniente alla vita di tutti i giorni. Il pianto era raccomandato anche nelle celebrazioni connesse con il lutto per la Distruzione del Tempio, come parte del rito di Tiqqun hassot, o come componente basilare dell’osservanza del 9 di Av. Erano particolarmente apprezzate le lacrime versate in quest’ultima circostanza: Dio stesso veniva immaginato in lacrime per la Distruzione del Tempio. Oltre a questi casi di lamentazione per una perdita personale o nazionale, il pianto era considerato parte del processo di pentimento. Tutte queste circostanze di pianto erano rivolte al passato, indirizzate cioè ad un evento o ad alcuni eventi che si erano già verificati. Le pratiche di pianto rivolte al futuro erano più limitate; il pentimento e il pianto potevano contribuire all’avvento del Messia: per affrettare l’evento venivano costituiti gruppi di lamentatori. Secondo un’altra versione il pianto faceva parte del processo di pentimento che avrebbe dovuto favorire la salvaguardia degli ebrei dagli eventi terribili che avrebbero caratterizzato il periodo immediatamente precedente la venuta del Messia. Questi tipi di pianto, rivolti al passato o al futuro, erano associati a concezioni midrashico-talmudiche della vita e della storia. Pur non essendo obbligatoria la partecipazione a queste pratiche rivolte al futuro, il loro ruolo aveva un’evidente finalità nazionale. Prenderò in esame due pratiche di pianto rivolte al presente, così come esse sono documentate nei testi mistici ebraici. Il primo genere è il pianto mistico, cioè lo sforzo di ricevere visioni e informazioni su segreti come risultato diretto di pianto autoindotto. Il secondo genere, di carattere teurgico, intendeva provocare il pianto «superiore»: secondo questa concezione le lacrime umane possono innescare processi a livello divino. L’attività teurgica rivolta al presente sarà analizzata nel capitolo dedicato alla teurgia cabbalistica; è tuttavia necessario osservare fin d’ora le principali differenze tra questi due generi di pianto. Il secondo è essenzialmente una reinterpretazione teurgica delle raccomandazioni nomiche al pianto; i processi superiori costituivano l’obiettivo da perseguire mediante questa tecnica; il cabbalista è strumento e non fine ultimo di tale attività Il pianto mistico, al contrario, aveva. quale fine ultimo l’acquisizione di una presa di coscienza paranormale da parte del cabbalista. Quantunque considerato interpretazione spirituale di pratiche nomiche, esso può essere altrettanto facilmente definito attività anomica, dal momento che non si assiste a nessuna rivelazione di segreti né si discutono tematiche esoteriche, fatta eccezione per le visioni di Dio, ereditate dalla tradizione midrashico-talmudica. Inoltre il rinvenimento delle prime attestazioni di questa pratica in testi pretalmudici o midrashici è una prova importante della sua indipendenza dalle classiche regole halakiche. D’altro canto, esistono solo scarsi riferimenti a questa concezione del pianto nelle fonti classiche rabbiniche: su tale problema mi soffermerò più a lungo al termine di questo paragrafo. La prima attestazione del pianto mistico è riscontrabile nella letteratura apocalittica. In una versione di 2 Enoch si afferma a proposito di questo patriarca che «piangevo e mi addoloravo con i (miei) occhi. Quando mi sono steso sul letto, mi sono addormentato e due grandi uomini sono apparsi di fronte a me».  Un interessante parallelo è attestato in 4 Ezra; l’angelo che in precedenza ha rivelato alcuni segreti al profeta conclude il suo discorso con queste parole: «se tu pregherai ancora, piangerai come stai facendo adesso e digiunerai per sette giorni, ascolterai cose ancora più grandi di queste». Successivamente Ezra scrive: «Ho digiunato per sette giorni, lamentandomi e piangendo, come mi ha ordinato l’angelo Ariel»; in seguito egli riceve una seconda visione. Anche la terza visione è preceduta da una simile sequenza di eventi: «Ho pianto ancora e ho digiunato per sette giorni come prima». Simili affermazioni ricorrono nell’Apocalisse di Baruk. Baruk e Geremia seguono la stessa pratica: «abbiamo strappato i nostri abiti, abbiamo pianto e ci siamo lamentati per sette giorni e dopo sette giorni accadde che la Parola di Dio venne a me» Una caratteristica comune del pianto «apocalittico» è lo stato di desolazione, associato al motivo della Distruzione del Tempio o ad altri segni della decadenza religiosa; il senso di disperazione si esprimeva nel pianto, seguito da rivelazioni confortanti. La connessione tra il pianto e le percezioni paranormali che si manifestano nei sogni appare evidente anche in un racconto midrashico:

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Uno degli studenti di Shim’on bar Yohai aveva dimenticato quanto aveva appreso. Si recò al cimitero in lacrime. A causa del suo grande pianto, egli (Shim’on) venne a lui in sogno e gli disse: «Quando ti lamenti, getta nel fuoco tre fascine di legna e io verrò». Lo studente andò da un interprete di sogni e gli chiese che cosa gli fosse accaduto. Quest’ultimo gli rispose: «Ripeti il tuo capitolo (cioè qualsiasi cosa tu impari) tre volte ed esso ti tornerà alla memoria». Lo studente cosi fece e in effetti così accadde.

La connessione tra il pianto e la visita ad una tomba sembra associata ad una pratica volta a provocare una visione. Ad essere esatti, si tratta di una concezione connessa con la diffusa credenza secondo la quale era possibile ottenere una visione nei cimiteri. Addormentarsi piangendo, come si legge nel brano riportato, sembra ugualmente far parte della sequenza: visitare il cimitero — piangere — addormentarsi piangendo — ottenere la rivelazione in sogno. Come avremo modo di osservare, questa sequenza, con l’eccezione della visita alle tombe, si ripete nell’esperienza di Hayyim Vital. E’ evidente che l’aneddoto citato era stato conservato nel testo midrashico perché offriva un rimedio – la tecnica mnemonica della ripetizione – a chi dimentica la Torà. Ancora una volta ricorre la connessione tra il pianto e il miglioramento della propria conoscenza della Torà. Muovendomi in tale contesto, analizzerò un passo dei Midrash hallel, un testo tardo che elabora un tema già trattato nell’Avot de-Rabbi Natan  :

«Che muta la rupe in un lago, la roccia in una fonte d’acqua». Abbiamo insegnato che ‘Aqiva e Ben ‘Azzai erano aridi come questa roccia, ma poiché si tormentavano per amore dello studio della Torà, Dio aprì loro uno spiraglio per (comprendere) la Torà e quegli argomenti che la scuola di Shammai e la scuola di Hillel non potevano comprendere (...) e soggetti che erano oscuri al mondo venivano interpretati da ‘Aqiva, come è scritto: «Lega le sorgenti dei fiumi in modo che non versino e quel che vi è nascosto porta alla luce»,” ciò che mostra che l’occhio di ‘Aqiva aveva visto la Merkavà, allo stesso modo in cui l’aveva veduta il profeta Ezechiele; perciò sta scritto: «Che muta la rupe in lago».

La metamorfosi da roccia in fonte d’acqua è una metafora che indica la trasformazione di Rav ‘Aqiva da uomo limitato a fonte di conoscenza halakica ed esoterica: tale metamorfosi fu determinata dal suo tormento interno, accompagnato dal pianto. Giobbe 28,11 attesta il termine ebraico beki («piangere» secondo il testo masoretico), generalmente tradotto col valore di «gocciolare, versare». Evidentemente, secondo l’anonimo interprete, il versetto indica che Dio, mediante il «pianto», avrebbe manifestato le cose nascoste; prova decisiva del ruolo svolto dal pianto nel determinare il nuovo status di ‘Aqiva è la menzione del suo «occhio». L’intero passo può essere interpretato secondo un duplice livello di lettura: il pianto ha trasformato ‘Aqiva da roccia in fonte; il suo occhio, che ha portato a tale mutazione, ha avuto una visione del carro divino. Seguendo i due versetti del libro di Giobbe, possiamo riassumere i soggetti indicati nel Midrash hallel; la sofferenza e il pianto aprono la strada (1) alla rivelazione, cioè alla visione («e su quanto è prezioso posa il suo occhio»), o alla visione della Merkavà; (2) alla comprensione di argomenti esoterici: «e quel che vi è di nascosto porta alla luce». Questi due effetti della sofferenza e del pianto ricorrono in alcuni testi cabbalistici che saranno analizzati in seguito. Sarebbe necessario sottolineare che la combinazione della visione e dei segreti della Torà indica che tali segreti non rappresentano solo un’informazione ignota e celata agli occhi delle generazioni precedenti; ritengo che proprio in virtù della loro comprensione sia stata prodotta la trasformazione di ‘Aqiva in «fonte»: quest’ultimo termine è presumibilmente da intendere in connessione con gli insegnamenti della Torà. Prima di procedere nella nostra trattazione, mi sembra opportuno analizzare brevemente la combinazione del pianto con la posizione della testa tra le ginocchia, generalmente nota come «posizione di Elia». Si tratta della posizione che il profeta avrebbe assunto sul monte Carmelo e che probabilmente era parte integrante della sua preghiera; nel Talmud essa viene presentata come parte della preghiera di Hanina ben Dosa per la salvezza del figlio di Yohanan ben Zakkai. In un altro passo talmudico viene descritto il tentativo di El’azar ben Dordia di pentirsi: in tale contesto egli pone la testa tra le ginocchia e piange. Il risultato del dolore e del pianto di El’azar è la morte, interpretata dall’autorità talmudica come acquisizione improvvisa della beatitudine del mondo avvenire. Questo racconto non può servire di per sé come prova decisiva dello status tecnico del pianto; tuttavia, la sua associazione con la posizione di Elia è notevolmente suggestiva, poiché sia nei testi degli Hekalot, sia in una narrazione posteriore delle pratiche descritte in questo genere letterario, si dimostra la possibilità di ottenere la visione mistica dei palazzi superiori mediante la posizione di Elia.” Come già abbiamo avuto modo di osservare, ‘Aqiva riceve la visione della Merkavà mediante il pianto;

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tuttavia le due pratiche non sono combinate in nessun testo connesso alla letteratura degli Hekalot. Il seguente brano rappresenta la sola eccezione a me nota, nella quale si avverte forse un’affinità casuale tra un modello di attività e un’esperienza rivelatrice; in esso si afferma:

Yishma’el disse: mi sono dedicato alla ricerca della conoscenza e al calcolo delle feste, dei momenti e delle date (escatologiche), dei tempi e dei periodi (di tempi) e ho rivolto il mio volto al Supremo Santo Unico per mezzo della preghiera e delle suppliche, digiunando e piangendo. E ho detto: «Dio, Signore di Sevaot, Signore d’Israele, fino a quando saremo tenuti in così poco conto?». La preghiera di Yishma’el ha un fine dichiaratamente messianico: conoscere la data della redenzione, cioè ricevere una rivelazione attraverso qualsiasi indizio dal quale poter trarre un’informazione occulta al riguardo. Sembra di poter dedurre che i metodi «matematici» migliori per giungere alla conoscenza della data segreta della fine delle sofferenze d’Israele fossero inappropriati o raggiungibili unicamente per mezzo di una tecnica mistica che includeva il pianto, insieme ad altri generi di pratiche ascetiche. Ciò nonostante, l’esistenza di tale pratica combinata nell’antica mistica giudaica è presumibile non solo sulla base del racconto talmudico di El’azar. In relazione ad un’esperienza mistica, lo Zohar descrive Shim’on bar Yohai che piange nella posizione di Elia. Dopo aver chiesto chi potesse rivelargli i segreti della Torà, il mistico «pianse, pose la testa tra le ginocchia e baciò la polvere». I suoi amici lo incoraggiavano: «alliètati nella gioia del Signore». Egli allora mise per scritto tutto ciò che aveva ascoltato quella notte e lo apprese senza dimenticare niente. Shim’on rimase in questa posizione tutta la notte e la mattina alzò gli occhi ed ebbe una visione di luce che rappresentava il Tempio. Così per Shim’on come per ‘Aqiva nel Midrash hallel, il pianto è connesso sia con la rivelazione di segreti della Torà sia con una visione; benché la Merkavà non sia identica al Tempio, è sorprendente l’affinità tra il Midrash hallel e il brano dello Zohar. Possiamo forse dedurre che l’autore dello Zohar disponesse di una fonte nella quale il pianto e la posizione di Elia erano già combinate nel testo talmudico? Un importante esempio nel quale il pianto appare nel quadro di un più ampio sistema culminante in un’esperienza mistica è attestato in un trattato giudeo-arabo del XIII secolo, Peraqim be-haslahà, attribuito pseudoepigraficamente al Maimonide. L’autore orientale descrive con queste parole l’atto della preghiera:

L’orante si volgerà a Dio, sia benedetto, dritto sui suoi piedi, compiacendosi nel cuore e sulle labbra (!). Le sue mani saranno stese e i suoi organi vocali mormoreranno e parleranno (mentre) le altre membra tremeranno e saranno scosse; non cesserà di cantare dolci melodie, umiliandosi, implorando, inchinandosi, prostrandosi (e) piangendo, poiché egli si trova alla presenza del Re Grande e Maestoso e (allora) sperimenterà un’esperienza estatica e resterà stupefatto, finché troverà la sua anima nel mondo degli intelletti.

Senza dubbio  l’anonimo autore propone qui un disegno intenzionale di preghiera ideale che si conclude con un’esperienza mistica. La tecnica del pianto è egregiamente spiegata da Avraham ha-Lewi Berukim, uno dei discepoli di Yishaq Luria. In uno dei suoi programmi per raggiungere «la saggezza», dopo aver specificato che «il silenzio» è la prima condizione, scrive quale sia

 la seconda condizione: in tutte le tue preghiere ed in ogni ora di studio, in un luogo che sia stimato difficile, in cui tu non possa comprendere le scienze propedeutiche o qualche segreto, suscita in te un pianto amaro fin quando i tuoi occhi non verseranno più lacrime; fa’ così quanto più potrai piangere. E accresci il tuo pianto, perché le porte delle lacrime non restino chiuse e affinché le porte celesti si aprano di fronte a te.  È ovvio che, per Luria e Berukim, il pianto è uno stimolo per superare le difficoltà intellettuali e per ottenere la rivelazione di segreti. È plausibile interpretare la frase finale del brano in riferimento ad un’esperienza rivelatrice, durante la quale si schiudono le porte celesti. Questo testo viene raccomandato per un fine pratico; sembra che Avraham Berukim avesse avuto effettivamente la possibilità di mettere in pratica questi propositi; si narra infatti che Luria gli avesse rivelato che sarebbe morto so non avesse pregato davanti al Muro del Pianto e non avesse visto la Shekinà. Si racconta che 

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dopo aver ascoltato le parole di Yishaq Luria, il sant’uomo si isolò per tre giorni e tre notti in digiuno, (si rivestì) di un sacco e pianse nottetempo. Poi si recò davanti al Muro del Pianto, ivi pregò e pianse un pianto possente. All’improvviso alzò gli occhi e vide sul Muro del Pianto l’immagine di una donna, di spalle, in abiti che è meglio non descrivere, per usare misericordia alla gloria divina. Quando l’ebbe vista, egli subito cadde riverso a terra, gridò, pianse e disse: «Sion, Sion, guai a me che ti ho visto in tale condizione!». E si lamentava amaramente e piangeva e si percuoteva il volto e si strappava la

barba e i capelli dal capo, finché svenne e si addormentò giacendo riverso sul volto. Allora gli apparve in sogno l’immagine di una donna che venne, posò le mani sul suo volto e asciugò le lacrime dai suoi occhi (...) e quando Yishaq Luria lo vide, disse: «Vedo che hai meritato di contemplare il volto della Shekinà».

È chiaro che le due visioni della donna — cioè della Shekinà — sono il risultato dell’aspro pianto di Avraham: la prima è una visione, ricevuta in stato di veglia, della schiena della Shekinà; la seconda è una visione del suo volto, che si manifesta solo in sogno. La prima visione provoca ansia; la seconda, sollievo. Simile alla storia di Avraham Berukim è la confessione autobiografica del suo amico Hayyim Vital: Nel 1566, la vigilia di Shabbat, l’8 di Tevet, ho recitato il Qiddush e mi sono seduto a mangiare; e i miei occhi versavano lacrime e sospiravo dolorosamente poiché (...) ero stato legato da una stregoneria (...) e piangevo anche per aver trascurato lo studio della Torà negli ultimi due anni (...) e a causa della mia afflizione non mangiai niente, giacqui nel mio letto riverso sul volto, piangendo, finché, addormentatomi, stanco di tante lacrime, ebbi un sogno meraviglioso.

Come negli antichi testi apocalittici e nella storia di Avraham Berukim, Vital sembra aver combinato il pianto, il dolore e, almeno in una certa misura, anche il digiuno. L’ultimo elemento è curioso, poiché l’intera vicenda ebbe luogo la sera di Shabbat, quando tutti gli ebrei hanno l’obbligo di consumare un pasto rituale. Il contenuto del sogno successivo è complesso e questo non e il luogo adatto per descriverne i dettagli. Sarà sufficiente notare che Vital ebbe una rivelazione notevolmente elaborata, parallela ad alcune rivelazioni attestate in altre opere cabbalistiche: stando alla descrizione riportata si tratta in effetti di una rivelazione, non di un sogno. Caratteristica certamente innovativa del racconto del sogno rivelatore di Vital è la sua visione di una bella donna che egli ritiene sua madre; essa gli chiede in sogno: «‘Perché piangi, Hayyim, figlio mio? Ho ascoltato le tue lacrime e sono venuta in tuo soccorso” (...) ed io invocai la donna: “Madre, madre, aiutami, cosicché possa vedere il Signore assiso su un trono, l’Antico dei Giorni, con la sua barba bianca come neve, infinitamente splendente”». I riferimenti alle visioni profetiche bibliche, riscontrabili solo nella citazione di Safrin, sono estremamente importanti per la nostra trattazione. Inizialmente Vital, almeno in apparenza, piangeva per ricevere una risposta a due problemi che lo assillavano: la sua impotenza sessuale e la sua interruzione dello studio della Torà. Nel sogno rivelatore, egli vede se stesso nell’atto di piangere per ottenere una visione di Dio. La richiesta di vedere Dio, formulata da Vital in versi profetici, ne richiama alla mente una simile, attestata alla fine del passo nel Midrash hallel, nella quale la visione di ‘Aqiva della Merkavà è confrontata con quella di Ezechiele. Altrettanto importante per il nostro studio è il seguente passo di Natan di Gaza in cui egli descrive una sua visione. Dopo un’estesa sezione in cui il profeta sabbatiano vanta la sua perfezione religiosa, egli scrive: Al compimento dei miei venti anni ho iniziato a studiare lo Zohar e alcuni degli scritti luriani. (Secondo il Talmud), chi desidera purificare se stesso riceve aiuto del cielo; così, Egli mi ha mandato alcuni dei suoi santi angeli e dei suoi spiriti benedetti, che mi hanno rivelato molti dei misteri della Torà. Nello stesso anno, poiché la mia forza si era accresciuta a seguito delle visioni degli angeli e delle anime benedette, mi sono sottoposto ad un digiuno prolungato durante la settimana che precede la festa di Purim. Mi sono chiuso in una stanza isolata, in santità e purità; ivi ho recitato le preghiere penitenziali del servizio mattutino piangendo a calde lacrime; (allora) lo spirito è disceso su di me, i miei capelli si sono drizzati, le mie ginocchia hanno iniziato a tremare e ho scorto la Merkavà; ho avuto visioni di Dio per tutto il giorno e tutta la notte e mi è stata concessa la vera profezia come ad ogni altro profeta, appena la voce mi parlò, iniziando con le parole: «Così parla il Signore» (...) Anche l’angelo che mi apparve in una visione diurna era vero; egli mi rivelò misteri terribili.

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La visione della Merkavà, del tutto insolita nel periodo medievale, è qui rappresentata a seguito di un periodo di digiuno prolungato culminante in un pianto con effusione di lacrime. É interessante che a Natan sia stata concessa non solo un’esperienza visiva, ma anche la rivelazione di «misteri terribili». Così nell’esperienza del cabbalista seicentesco ricorrono entrambe le tematiche attestate nel Midrash hallel, databile ad epoca alto-medievale. Ancora una volta, come nella fonte midrashica, la visione della Merkavà è evidentemente associata ai «terribili misteri», che in questo caso saranno da riferire al messianismo di Shabbetai Sevi: Natan ha potuto infatti vedere l’immagine di Sevi incisa sulla Merkavà.

Il pianto mistico sembra essere stato impiegato anche da alcuni circoli hassidici. Prima di trattare dettagliatamente le testimonianze di questa pratica, vorrei citare un passo che narra l’interessante sogno di Yosef Falk, il cantore del Besht:

Nel suo sogno vide l’immagine di un altare al quale stava ascendendo il morto; lo vide porre la sua testa tra le ginocchia e iniziare a gridare la Selihà: «Rispondici, Dio, rispondici. Rispondici Padre nostro» e così di seguito per tutto l’alfabeto. Dopo aver detto: « Rispondici, Dio dei nostri padri, rispondici. Rispondici, Dio di Abramo, rispondici. Rispondici, riverito d’Isacco, rispondici. Rispondici. potente di Giacobbe, rispondici. Rispondici misericordioso, rispondici. Rispondici, re dei carri, rispondici», egli ascese al cielo.

Questa tecnica d’implorazione — la posizione di Elia e le alte grida — sembra riflettere il più antico motivo del pianto nella posizione seduta di Elia. Yisrael Ba’al Shem Tov lo interpretava come un tentativo di ascendere ad un livello superiore per mezzo della recitazione della formula «rispondici». Sembra che per i primi hassidim il clamore delle grida e, suppongo, anche le lacrime costituissero gli elementi basilari di una tecnica mistica. Anche un contemporaneo più giovane del Ba’al Shem Tov, Eliyyà, gaon di Vilna, coltivò probabilmente la pratica del pianto. Il suo discepolo più importante, Hayyim da Volozhin, raccontò al nipote di Eliyyà che suo nonno molto spesso soffriva grandi dolori, digiunava e non dormiva per uno o due giorni, piangendo copiosamente perché Dio gli aveva tenuto nascosto un determinato segreto della Torà. Tuttavia — continuava — quando il segreto gli veniva rivelato, il suo volto risplendeva di gioia e i suoi occhi si illuminavano. Il racconto di Hayyim mostra un modello comportamentale volto al conseguimento della conoscenza dei segreti celati della Legge. La frequente attestazione dell’uso di tale modello ne mostra l’evidente natura tecnica. Possiamo osservare che nel hassidismo delle origini e nella pratica dei suoi oppositori, i Mitnaggedim, il pianto era utilizzato come una delle componenti della tecnica mistica. Un esempio interessante della relazione tra il pianto e la rivelazione è riportato da Yishaq Yehiel Safrin, nella sua Megillat setarim e nel suo Netiv Miswoteka, nei quali egli narra le sue esperienze mistiche. Propongo di seguito una versione di questa confessione mistica, basata sul racconto combinato dei due testi:

Nel 1845, il ventunesimo giorno di ‘Omer, mi trovavo nella città di Dukla. Vi giunsi a tarda notte; era buio e non c’era nessuno che mi ospitasse, eccetto un conciapelli che venne e mi condusse alla sua casa. Volevo recitare la preghiera della sera e contare 1’‘Omer, ma, non potendo farlo lì, mi recai da solo al Ber Midrash, ove rimasi a pregare fin oltre la mezzanotte. Mi resi conto, in tale situazione, della triste condizione della Shekinà in esilio e delle sue sofferenze quando si trova nel mercato dei conciatori. Piansi molte volte davanti al Signore del mondo, dal profondo del mio cuore, per la sofferenza della Shekinà. A causa della mia sofferenza e del mio pianto, venni meno, mi addormentai per qualche tempo ed ebbi una visione di luce, splendore e grande fulgore: (ed ecco mi apparve) l’immagine di una giovane donna adorna di ventiquattro ornamenti (...) Ella disse: «Sii forte, figlio mio», e così di seguito. Mi addoloravo di non poter avere la visione della sua schiena e di non essere in grado di ricevere il suo volto. Mi fu detto allora che (ciò accadeva perché) sono vivo; è scritto infatti «perché nessun uomo può vedermi e restare in vita».

La visione dell’apparizione femminile dotata di caratteristiche materne — essa chiama Yishaq «figlio mio» — rientra nell’ambito delle immagini tradizionali del pianto cabbalistico insieme alle visioni di Avraham Berukim e Hayyim Vital. Anche Lewi Yishaq da Berditchev deve aver sperimentato tale visione. Nell’opera Netiv Miswoteka, nel passo precedente a quello summenzionato, dopo aver citato il racconto di Hayyim Vital tratto dal Sefer ha-hesiyonot, Yishaq scrive:

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E accadde al santo Lewi Yishaq che la sera di Shavu’ot ebbe la visione della Shekinà nell’immagine di (...) e gli disse «Figlio mio, Lewi Yishaq, sii forte, perché molti problemi ti affliggeranno, ma sii forte, figlio mio, perché io sarò con te».

Dunque anche Lewi Yishaq sperimentò una visione della Shekinà che gli apparve nelle vesti di una giovane donna: si osservi come Yishaq Safrin abbia censurato questa parola, così come nella narrazione della sua propria visione riportata poco oltre. Particolarmente significativa, per due ragioni, anche la circostanza cui l’evento viene associato: la sera di Shavu’ot è vicina temporalmente al periodo in cui Safrin sperimentò la sua visione, il ventunesimo giorno di ‘Omer; a ciò si aggiunga che proprio nella notte di Shavu’ot due noti cabbalisti ricevettero la loro rivelazione della Shekinà. Mi riferisco alla veglia di Yosef Caro e di Shelomò ha-Lewi Alqabes. Dunque Lewi Yishaq tentò di imitare l’esperienza dei cabbalisti suoi predecessori. È strano che Safrin non menzioni neppure indirettamente l’esperienza di queste due grandi personalità del XVI secolo, benché sia impossibile supporre che egli non ne fosse a conoscenza dal momento che fu pubblicata a stampa nel famoso Shene luhot ha-berit.  L’assenza di tale menzione è tanto più inspiegabile quando si consideri che egli cita i casi meno noti di Avraham Berukim e Hayyim Vital. La soluzione del problema è semplice e molto interessante per la comprensione delle concezioni di Safrin. I brani precedentemente riportati sono introdotti dalle seguenti parole: «La rivelazione della Shekinà (si compie) per mezzo e a seguito di una sofferenza — sopportata volontariamente — per mezzo della quale si avverte la sofferenza della Shekinà; il fatto che questa rivelazione si rivesta di una forma e di un’immagine è dovuta alla sua essenza corporea». Questa premessa postula una rivelazione della Shekinà come immagine femminile derivante dalla sofferenza, due elementi assenti nelle veglie di Caro e Alqabes. Nell’esperienza di questi ultimi, la Shekinà poteva essere ascoltata per bocca di Caro, ma rimaneva invisibile. Safrin e le citazioni da lui addotte descrivono esclusivamente rivelazioni visibili della Shekinà. Inoltre, nella veglia di Shavu’ot, la tecnica utilizzata dai cabbalisti richiedeva lo studio di vari passi tratti da fonti ebraiche classiche. La partecipazione e l’afflizione associate alla sorte della Shekinà erano il risultato e non la causa della rivelazione. Nei casi di Avraham Berukim, Hayyim Vital, Lewi Yishaq e Safrin, il pianto precedeva l’apparizione della Shekinà. In altri termini, Safrin considerava le sofferenze autoindotte culminanti nel pianto come una tecnica per contemplare l’immagine della Shekinà. Sembra che egli avesse dovuto lottare per avere la visione del volto della Shekinà; lo stesso desiderio viene espresso da Vital: tuttavia al primo tale visione sarebbe stata impedita dalla sua condizione umana.” L’attivazione dell’occhio si conclude con un’esperienza visiva. Nel caso di Caro e Alqabes, l’organo attivato sono le labbra; la Shekinà parla per bocca di Caro. È sorprendente la correlazione tra la tecnica e la natura della rivelazione; Safrin considera il pianto uno stimolo all’esperienza mistica. Possiamo proporre tuttavia una spiegazione ancor più elaborata: il suo soggiorno notturno in una piccola città doveva essere un espediente premeditato volto a provocare uno stato di profonda malinconia culminante nel pianto. Il suo viaggio a Dukla può essere letto come una sorta di esilio autoimposto, una Galut che imita l’auto-esilio della Shekinà è la ricompensa di questa “partecipazione mistica”. Poiché il fatto si verifica nel periodo tra Pesah e Shavu’ot possiamo supporre che il viaggio costituisca un esercizio propedeutico alla sofferenza e al pianto, il cui scopo sarebbe stata la rivelazione durante la vigilia di Shavu’ot; è interessante osservare che la Shekinà si manifesta prima del previsto. Sulla base di un altro passo di Safrin si deduce che la preghiera penitenziale accompagnata da pianto e contrizione di cuore può produrre la manifestazione della luce divina ed una «seconda nascita».  Nella raccolta di esempi proposti nell’opera Netiv miswoteka manca tuttavia il caso più importante: il pianto utilizzato per provocare un’esperienza della Shekinà. Mi riferisco alla pratica di Sevi Hirsch di Zhidachov, il più autorevole maestro di dottrine cabbalistiche di Yishaq Safrin; nel suo commento allo Zohar, Safrin narra un avvenimento che ha tutti i requisiti per essere citato nella nostra trattazione:

Riguardo alla sacralità, egli (Sevi Hirsch) era solito pregare ogni sera di Shabbat nell’intento di causare a se stesso uno stato di sofferenza, un senso di disagio e di afflizione. Questo egli faceva per annichilarsi completamente prima di Shabbat, in modo da essere in grado di ricevere la sua luce, sia benedetto, durante la preghiera e il pranzo della sera di Shabbat, con un cuore puro, santo e schietto. Questa era la sua usanza riguardo alla sacralità, motivata dal suo costante timore che pensieri arroganti ed estranei potessero penetrare nel suo cuore. Una volta, in occasione della festa di Shavu’ot, centinaia di persone si erano raccolte intorno a lui. Prima della preghiera (del mattino), alla (prima)

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luce dell’alba, io entrai in una delle sue stanze, ma egli non mi vide, perché stava percorrendo la stanza avanti e indietro a grandi passi, piangendo e facendo piangere cielo e terra insieme con lui di fronte a Dio,” E impossibile esprimere per scritto (tale esperienza). Egli si umiliò di fronte a Dio con un pianto possente, implorando di non essere respinto dalla luce del suo volto (…) allora fui scosso da un grande tremito, a causa del timore reverenziale della Shekinà, aprii la porta e fuggii via.

Stando al racconto di Yishaq Safrin, le procedure automortificanti di Sevi Hirsch erano un mezzo per prepararsi a ricevere la luce divina in occasione della vigilia di Shabbat e di alcune altre feste; è tuttavia da osservare che il pianto è connesso solo con il racconto  di Shavu’ot. Inoltre Safrin manifesta una sensazione di oppressione causata dalla presenza del volto divino, evidentemente causata dalla mortificazione e dal pianto dello zio. Benché non si tratti di un’esperienza della Shekinà vissuta in prima persona, il fatto che Safrin attesti tale esperienza costituisce prova evidente che lo stesso Sevi Hirsch intendeva provocarla, che la circostanza dell’evento è evidentemente associata con la festa di Shavu’ot e infine che il maestro di Zhidachov è l’erede di una tradizione preesistente relativa alla possibilità di sperimentare la presenza della Shekinà a Shavu’ot. Ho già menzionato i principali predecessori — Caro, Alqabes e Lewi Yishaq da Berditchev —; tuttavia da questo brano apprendiamo per la prima volta che il pianto costituisce parte integrante di una vera e propria pratica mistica. La visione di Safrin della Shekinà può essere ora esaminata nel quadro di una più estesa finalità mistica, coltivata in seno ai circoli hassidici per conseguire esperienze della Shekinà: è possibile pertanto sostenere che tali tradizioni discendessero da precedenti pratiche cabbalistiche.

Passo ora all’esame della relazione tra il pianto e i segreti. Alla fine del commento al primo libro dello Zohar, Safrin confessa:

Piangendo a calde lacrime, come un pozzo, mi sono reso degno di essere trasformato in un “torrente che trabocca, una fonte di saggezza;” non mi venne rivelato alcun segreto, nè mi fu concessa alcuna straordinaria capacità intuitiva, ma in seguito divenni come polvere e piansi di fronte al Creatore dell’universo come una fonte, per non essere lontano dalla luce del suo volto e per la volontà di acquisire una perspicacia derivante dalla fonte della saggezza; così divenni un torrente traboccante di lacrime.

Questo voluminoso commento allo Zohar, uno dei più vasti nel suo genere, fu composto, secondo la testimonianza dello stesso autore, sulla base di rivelazioni indotte anche mediante il pianto. Ancora nella seconda metà del XIX secolo, l’antica tecnica mistica del pianto era praticata al fine di conseguire gli stessi scopi cui si fa riferimento nel Midrash hallel; la rivelazione visiva e lo svelamento di segreti. Sulle orme di suo padre, Eli’ezer Sevi Safrin confessa nell’introduzione al suo commento allo Zohar che, raggiunta la maturità,

una volta mi sono svegliato nel (mezzo del)la notte e ho pianto copiosamente, addolorato nel cuore, davanti a Dio per l’esilio della Shekinà e della comunità d’Israele, per i santi che soffrono (...) mi sono svegliato dopo la mezzanotte anche il giorno seguente e ho pianto ancor più del giorno prima per gli stessi motivi. Prima dell’aurora mi sono addormentato circa mezz’ora, per calmare la mia mente e quietarla per la preghiera (del mattino). Durante il mio sonno ho visto in sogno che mi trovavo nella Terra d’Israele” (...) ed è possibile che, in virtù di questo sogno che ebbi l’onore di avere, quel Vecchio mi abbia dato la forza di interpretare il sacro libro dello Zohar.

Prima di concludere la nostra trattazione di questa pratica mistica, si rendono necessarie alcune osservazioni generali sulla natura del materiale preso in esame.

1. In tutti i casi analizzati, la tecnica del pianto è attribuita a membri dell’élite ebraica o da essi praticata; in altri termini, in nessun luogo si raccomanda di utilizzare il pianto come mezzo popolare per indurre la visione della Shekinà. Tale pratica appare invece destinata a un esiguo numero di eletti ed è effettivamente seguita solo da quei pochi individui che hanno interesse di sperimentare tale visione.

2. I passi citati derivano da testi che non appartengono alle correnti principali della letteratura talmudico-midrashica. L’assenza di una considerazione halakica del pianto mistico è solo casuale; il pensiero rabbinico

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proponeva mezzi alternativi per conseguire le stesse finalità del pianto mistico. Secondo un detto rabbinico, lo studio della Torà è sufficiente per ottenere la rivelazione dei suoi segreti; un’affermazione midrashica raccomanda lo studio della Torà in Terra d’Israele a chiunque desideri contemplare la Shekinà.” Risulta pertanto che il sistema nomico per ricevere segreti o visioni della Shekinà non includeva il pianto e indicava un metodo accessibile non solo ad un’élite, ma a tutti gli ebrei. 3. Ancora una volta, sulla base dei brani citati, le rivelazioni sembrerebbero conseguite in uno stato di desolazione e dolore per amore della Shekinà e partecipazione alla sua sofferenza causata dall’incapacità umana di apprendere la Torà. Una concezione talmudico-midrashica a proposito della dimora della Shekinà afferma comunque che «la Shekinà non discende su nessuno che sia triste, pigro o superficiale, ma solo su chi sia lieto di adempiere i precetti». Esiste dunque un’evidente contraddizione tra i requisiti talmudici e il pianto mistico suscitato da uno stato iniziale di desolazione.

Queste osservazioni confermano il carattere anomico della tecnica del pianto; di qualsiasi natura sia, tutto ciò che tale tecnica promette può essere conseguito anche rimanendo nell’ambito delle attività halakiche classiche, quali lo studio della Torà o l’adempimento dei precetti. Data l’antichità delle prime attestazioni dell’esistenza di questa tecnica, è possibile che la pratica del pianto sia rimasta estranea alle fonti rabbiniche e sia ricomparsa solo all’epoca della fioritura della Cabbalà, parallelamente al rinnovato interesse per il conseguimento di esperienze mistiche che trascendono il «misticismo normale» del sistema rabbinico. Un esame più attento dei materiali antichi presenti nei brani riportati sembra negare la possibilità che le pratiche medievali si propagassero solo sulla base di una profonda conoscenza di antiche testimonianze letterarie. È difficilmente ipotizzabile che il Midrash hallel, per esempio, sia la fonte delle pratiche posteriori. Pertanto, anche ammettendo che non esistano testi rilevanti sfuggiti al mio esame di questo genere letterario, possiamo pensare ad una trasmissione orale, probabilmente a carattere elitario, di quest’antica tecnica mistica. Vorrei richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che le primitive tradizioni ascetiche cristiane possono essere state influenzate da antiche tradizioni giudaiche relative alle potenzialità mistiche del pianto; lo stesso vale, direttamente o indirettamente anche a proposito dell’ascetismo sufico. Questi generi di pratiche ascetiche sono stati presentati con grande franchezza, dal momento che nè il cristianesimo nè l’islam avevano interesse a far sparire le tracce di fenomeni ascetici radicali. La mia interpretazione presenta per il momento solo un’ipotesi, non essendo stata condotta alcuna ricerca in tale direzione. Tuttavia il fatto stesso che questa pratica ascetica sia attestata in antichi testi ebraici e anche in periodi posteriori può favorire un nuovo approccio alla problematica trattata.

Concludo con una breve osservazione sul meccanismo psicologico alla base delle esperienze prese in esame: il pianto non è mai descritto come una pratica a sé stante; esso fa sempre parte di una sequenza elaborata di esercizi ascetici — digiuno, cordoglio, sofferenze autoindotte — e ne costituisce in genere l’ultima tappa. In alcuni casi, il mistico è già esausto al momento in cui inizia a piangere; un periodo di sopore, talvolta svenimenti precedenti la fase del sonno vero e proprio rappresentano la prova concreta di questo stato di esaurimento. D’altro canto, l’iperattività del sistema visivo sta a testimoniare l’intensa concentrazione sull’attimo in cui tutti gli altri canali della percezione sensoriale vengono ad essere gradualmente ostruiti. Questo nuovo equilibro degli stimoli prepara la strada ad ulteriori stati di presa di coscienza paranormali incentrati esclusivamente su esperienze visive. In tali casi, le idee o i concetti sui quali viene concentrata la propria attività intellettiva ed emotiva tendono a rivelarsi per mezzo del medium in stato di sovreccitazione. Da un punto di vista più strettamente psicologico, le visioni conseguenti ad uno stato mentale penoso e doloroso possono essere associate a quelle che Margarita Laski definiva «estasi da desolazione». 

Tratto da: MOSHE IDEL, CABBALA', Nuove prospettive - Ed. GIUNTINA, a cui si rimanda vivamente per l'approfondimento.