mr. sherlock holmes, the philosopher

35
MR. SHERLOCK HOLMES, THE PHILOSOPHER Davide De Pretto “Dunque, Watson! Che cosa ne dice della ragione pura e dei suoi frutti? Se l’erbivendolo vendesse corone di alloro manderei subito Billy a comprarne una” (Vall, I, cap. II, p. 12 [845]) “Questo nome, UOMO, significa che, mentre gli altri animali, delle cose che vedono, nulla esaminano, né considerano, né osservano, l’uomo, al contrario, vede – e ciò è come dire –, e considera, e osserva ciò che vede. Per questo l’uomo, solo tra gli animali, è stato giustamente chiamato , perché vuol darsi ragione di quello che vede” 1 . Riporto qui sotto le edizioni da me utilizzate del Canone. I numeri fra parentesi quadra che si troveranno nei rimandi del testo fanno riferimento alle pagine dell’edizione inglese. A Study in Scarlet, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, Wordsworth, Ware 1992, pp. 11–63; trad. di A. Tedeschi, Uno studio in rosso, pref. di H. Greene, Mondadori, Milano 1990 7 . The Sign of Four, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 64–113; trad. di M. Gallone, Il segno dei quattro, pref. di G. Greene, Mondadori, Milano 1990 7 . The Adventures of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 115–287; Le avventure di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, a cura di N. Rosati Bizzotto, Newton Compton, Roma 1991, vol. I, pp. 227–466. Memoirs of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 289–446; Le memorie di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. II, pp. 9–216. The Hound of the Baskerville in A. CONAN DOYLE, The Return of Sherlock Holmes, Wordsworth, Ware 1993, pp. 15–119; trad. di M. Buitoni Duca, Il cane dei Baskerville, intr. di C. Fruttero e F. Lucentini, Rizzoli, Milano 1992. The Return of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Return of Sherlock Holmes, cit., pp. 120–309; Il ritorno di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. III, pp. 9–276. The Valley of Fear, in A. CONAN DOYLE, The Case–Book of Sherlock Holmes, Wordsworth, Ware 1993, pp. 837–953; trad. di M. Gallone, La valle della paura, pref. di L. Deighton, Mondadori, Milano 1991 7 . 1 PLATONE, Cratilo, a cura di M. Vitali, pres. di F. Maspero, Bompiani, Milano 1989, 399 c 1–6, p. 49. 1

Upload: vancong

Post on 06-Feb-2017

232 views

Category:

Documents


1 download

TRANSCRIPT

Page 1: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

MR. SHERLOCK HOLMES, THE PHILOSOPHER

Davide De Pretto

“Dunque, Watson! Che cosa ne dice della ragione pura e dei suoi frutti? Se l’erbivendolo vendesse corone di alloro manderei subito Billy a comprarne una” (Vall, I, cap. II, p. 12 [845])

“Questo nome, UOMO, significa che, mentre gli altri animali, delle cose che vedono, nulla esaminano, né considerano, né osservano, l’uomo, al contrario, vede – e ciò è come dire –, e considera, e osserva ciò che vede. Per questo l’uomo, solo tra gli animali, è stato giustamente chiamato , perché vuol darsi ragione di quello che vede”1.

Riporto qui sotto le edizioni da me utilizzate del Canone. I numeri fra parentesi quadra che si troveranno nei rimandi del testo fanno riferimento alle pagine dell’edizione inglese.

– A Study in Scarlet, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, Wordsworth, Ware 1992, pp. 11–63; trad. di A. Tedeschi, Uno studio in rosso, pref. di H. Greene, Mondadori, Milano 19907.

– The Sign of Four, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 64–113; trad. di M. Gallone, Il segno dei quattro, pref. di G. Greene, Mondadori, Milano 19907.

– The Adventures of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 115–287; Le avventure di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, a cura di N. Rosati Bizzotto, Newton Compton, Roma 1991, vol. I, pp. 227–466.

– Memoirs of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 289–446; Le memorie di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. II, pp. 9–216.

– The Hound of the Baskerville in A. CONAN DOYLE, The Return of Sherlock Holmes, Wordsworth, Ware 1993, pp. 15–119; trad. di M. Buitoni Duca, Il cane dei Baskerville, intr. di C. Fruttero e F. Lucentini, Rizzoli, Milano 1992.

– The Return of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Return of Sherlock Holmes, cit., pp. 120–309; Il ritorno di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. III, pp. 9–276.

– The Valley of Fear, in A. CONAN DOYLE, The Case–Book of Sherlock Holmes, Wordsworth, Ware 1993, pp. 837–953; trad. di M. Gallone, La valle della paura, pref. di L. Deighton, Mondadori, Milano 19917.

– His Last Bow, in A. CONAN DOYLE, The Case–Book of Sherlock Holmes, cit., pp. 744–837 e 955–966; L’ultimo saluto, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. IV, pp. 11–173 (l’edizione inglese di Card, pubblicata sullo Strand nel gennaio del 1893, si trova in The Adventures of Sherlock Holmes, cit., pp. 307–319).

– The Case–Book of Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, The Case–Book of Sherlock Holmes, cit., pp. 967–1126; Il taccuino di Sherlock Holmes, in A. CONAN DOYLE, Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. IV, pp. 175–381.

§ I. Su macchine pensanti, processi abduttivi e principi metodologici.Per lungo tempo si è visto in Holmes “un figlio del positivismo imperante nella seconda metà del

XIX secolo”2. Anche Gramsci riteneva che vi fosse “un equilibrio razionale (troppo) tra l’intelligenza e la scienza”3, e vedeva in esso la principale ragione della caduta d’interesse per le sue avventure e del fatto che lo stesso Holmes fosse “diventato anacronistico per molta Europa”4.

1 PLATONE, Cratilo, a cura di M. Vitali, pres. di F. Maspero, Bompiani, Milano 1989, 399 c 1–6, p. 49.2 S. BENVENUTI, G. RIZZONI, Il romanzo giallo, cons. di A. Tedeschi, Mondadori, Milano 1979, p. 35. Cfr. anche S.

FABRI, Un laboratorio in giallo, Mondadori, Milano 2000, p. 25: Holmes “applica in modo implacabile e intransigente il metodo deduttivo che diventa per lui e con lui vera e propria arte. Sotto questo punto di vista, è interprete della mentalità e del metodo positivisti basati sulla raccolta e catalogazione sistematica di dati per arrivare a conoscere la realtà”.

3 A. GRAMSCI, Verne e il romanzo geografico–scientifico, in IDEM, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 114.

4 A. GRAMSCI, Origine popolare del superuomo, in IDEM, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 123.

1

Page 2: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

Nondimeno, quantunque non vi sia nulla d’infamante nella nomea di positivista, è tuttavia difficile da applicare al nostro detective, essendo piuttosto adatta al dottor Thorndyke, il cui principio metodologico (ed il cui laboratorio) non sarebbe affatto spiaciuto a Holmes: “è la mia regola, in ogni caso, procedere sulle linee strettamente classiche di inchiesta induttiva: raccogliere i fatti, formulare ipotesi, esaminarle e cercare verifiche. E mi sforzo sempre di tenere la mente perfettamente aperta”5.

Ma nel detective di Baker Street entrano in campo molti più ‘fatti’ (per mantenere tale termine) di quanto usualmente non si pensi, quali il cosiddetto ‘intuito femminile’6 e l’immersione nell’atmosfera del luogo perché “un’inchiesta acquista gusto e sapore piccante, mio caro Mac, quando ci mettiamo in contatto spirituale con l’atmosfera storica dell’edificio in cui dobbiamo svolgerla” (Vall, I, cap. VII, p. 78 [886]). Altro che i soli fatti logici da esporre e riportare, l’unica linea di causa ed effetto che Holmes rimprovera immancabilmente a Watson di trascurare (cfr. ad esempio Sign, cap. I, pp. 5–6 [65], e Copp, pp. 445–446 [272–273])! Infatti “lo sport – l’eccitazione – il pericolo” ed “il desiderio di liberare il paese da una calamità” (Maza, p. 226 [974]) rientrano nelle motivazioni del suo operato. Tutto ciò evidenzia il temperamento artistico del nostro detective, e del resto solo nelle anguste menti di grigi accademici arte e scienza si escludono, mentre nei geni si integrano a vicenda – anzi, si presentano in indissolubile unità.

Come è già stato egregiamente trattato in numerosi studi7, ciò che Holmes denomina deduzione è in realtà abduzione. Aristotele definiva la deduzione (in Greco , erroneamente tradotto con sillogismo) come quel “discorso [] in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso [] dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono. Con l’espressione «per il fatto che questi oggetti sussistono» intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende qualcosa, e d’altra parte, con l’espressione «per mezzo di questi oggetti discende qualcosa» intendo dire che non occorre aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la deduzione necessaria”8. Da questa definizione si colgono i due caratteri basilari della deduzione: I) la sua essenziale autarchia, nel senso che nessun fattore esterno entra in essa – è anzi deduzione proprio e solo se non interviene alcunché d’esterno rispetto alle premesse o protasi, e da questo dipende la correttezza della deduzione (non la verità, che dipende invece dalla verità delle premesse: una deduzione può essere corretta anche se parte da premesse false), e II) la differenza fra conclusione e premesse, una differenza più che altro pragmatica: essa riveste un valore rivelativo, dal momento che nulla di nuovo sorge rispetto alle premesse ma viene solamente esplicitato qualcosa che in esse, quantunque non visto, vi era già presente9. È dunque nullo il valore conoscitivo (nel senso dell’acquisizione di nuove conoscenze) della deduzione ed anzi lo deve

5 R. A. FREEMAN, L’impronta scarlatta, trad. di E. Cuomo, Newton Compton, Roma 1993, p. 12.6 Cfr. Lion, p. 330 [1088], ma soprattutto Twis, p. 338 [196]: “la sensazione di una donna può essere più valida delle

conclusioni raggiunte con un ragionamento analitico [than the conclusion of an analitical reasoner]”. E Holmes sarebbe un misogino? Alla luce di una tale affermazione, si direbbe di no. Certo, dal momento che Twis si svolge nel giugno del 1889 – ossia alcuni mesi dopo Scan – si può capire che abbia smesso di ironizzare sul cervello femminile (Scan, p. 249 [131]). Nondimeno, per Holmes “il cuore e la mente di una donna sono misteri impenetrabili per l’uomo. Capaci di giustificare o perdonare un delitto e poi, magari, inalberarsi per cosette da poco” (Illu, p. 184 [1045]): esse “agiscono per motivi imperscrutabili […] Come si può costruire su queste sabbie mobili? Il loro gesto più banale può significare volumi, o la loro condotta più straordinaria può dipendere da una forcina o un ferro da ricci” (Seco, p. 264 [301]).

7 Cfr. le pagine dedicatevi da I. M. COPI, in Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna 1964, pp. 488–500 (‘Il detective come scienziato’), i saggi raccolti in AA. VV., Il segno dei tre, a cura di U. Eco e T. Sebeok, Bompiani, Milano 1983, M. BALDINI, Karl Popper e Sherlock Holmes. L’epistemologo, il detective, il medico, lo storico, lo scienziato, Armando, Bologna 1998, pp. 21–44 (che riproduce, pari pari, l’Introduzione ad A. CONAN DOYLE, Gli aforismi di Sherlock Holmes, trad. di N. Rosati Bizzotto, Newton Compton, Roma 1995, pp. 7–29.

8 ARISTOTELE, Primi analitici, in IDEM, Opere, vol. I, a cura di G. Colli, Laterza, Roma–Bari 1994, I, 1, 24 b 18–22, p. 86.

9 Proprio in relazione alla tesi del carattere tautologico di qualsiasi deduzione logica, J. e M. B. Hintikka ritengono che la concezione di Holmes della deduzione sia “una sfida importante per i logici–filosofi” ed anzi “rappresenti un’impresa nuova e significativa per la logica filosofica” (J. HINTIKKA e M. B. HINTIKKA, Sherlock Holmes e la logica moderna: verso una teorizzazione della ricerca di informazione attraverso domande, in AA. VV., Il segno dei tre, cit., p. 187).

2

Page 3: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

escludere sin ab initio, come viene avvertito dallo stesso Aristotele che rivendica la sensibilità d’ogni conoscenza e la necessità del processo di , di astrazione dal molteplice presente nella sensazione, per giungere alle proposizioni universali10.

Ed a distruzione delle pretese della deduzione basta ricordare la definitiva critica di Hume alla possibilità di proposizioni universali tratte dall’esperienza: da una serie di fatti osservati non si può trarre un’effettiva universalità, dal momento che si può solo riscontrare la regolarità di alcuni eventi – ma in alcun modo si può saltare ingiustificatamente a credere che tutti gli eventi di una determinata classe si comportino in quel modo. L’induzione, pertanto, e non solo quella “puerile” che “procede per enumerazione semplice” ma anche quella “utile alla scoperta e alla dimostrazione delle scienze e delle arti” che procede “attraverso i necessari rifiuti ed esclusioni”11, va incontro allo scacco d’essere sempre relegata ad un ambito ipotetico e probabile ed agli eventi numericamente limitati osservati. Essa giunge cioè solo ad una possibile (talvolta fortemente probabile) generalità, e dunque nella sua forma più propria e più raffinata, qualora si sia consapevoli di tutto questo, si risolve in un processo essenzialmente abduttivo12.

Eppure la forma autarchica ed illusoriamente perfetta della deduzione viene a più riprese reclamata dai detectives letterari, tradotta nei termini dell’appellativo celebre di Thinking Machine, stante il soprannome del professor Augustus S. F. X. Van Dusen di Futrelle, il cui motto “logica, logica, logica!” evidenzia la sua convinzione secondo la quale “una mente logica può partire da qualunque punto e proseguire oppure risalire con la stessa facilità fino ad una conclusione naturale. Questo è certo come è certo che due più due fa quattro… non qualche volta, ma tutte le volte”13. Ma l’incarnazione più celebre e duratura, anzi la vera e propria incarnazione della Thinking Machine è Hercule Poirot, che della paradigmatica certezza geometrica ha fatto uno stile di vita, o meglio una vera e propria ossessione al punto da detestare i pezzi di pane privi di simmetria14 e da trovare “davvero insopportabile che ogni gallina deponga un uovo di misura diversa”15. Con le sue scarpe di vernice, le lozioni per i baffi e tutti i tic da dandy démodé, egli siede e riflette (perché “gli Hercule Poirot, amico mio, si accontentano di starsene in poltrona e di pensare”16), prende i dati che altri gli hanno fornito, rimugina e dà la soluzione17.

10 Cfr. ad esempio ARISTOTELE, Secondi analitici, in IDEM, Opere, vol. I, cit., A 18, 81 a 41 – b 9, p. 301.11 F. BACONE, La grande instaurazione. Parte seconda: Nuovo organo, a cura di M. Marchetto, Rusconi, Milano

1998, I, CV, p. 195. La prima è quella aristotelica (cfr. ad esempio ARISTOTELE, Primi analitici, II, 23, 68 b 15–29, pp. 246–247). Riferendosi al passo del Segno dei quattro in cui Holmes parla del suo scritto Upon the Distinction between the Ashes of the Various Tobaccos in cui distingue le ceneri di centoquaranta tipi di sigari, sigarette e tabacco da pipa, e delle possibili applicazioni in fatto di delimitazione del campo d’indagine (Sign, cap. I, p. 7), Rehder ricollega queste due forme ai due tipi di induzione: “la prima frase ricorda l’induzione per enumerazione di Aristotele” e la seconda, relativa alla delimitazione del campo di ricerca, “suona simile alla induzione per eliminazione di Francesco Bacone nel Novum Organum” (W. REHDER, Sherlock Holmes, detective filosofo, in AA. VV., Il segno dei tre, cit., p. 270).

12 Baldini riporta il tipico esempio formalizzato dell’abduzione: “1) Si osserva C, un fatto sorprendente; 2) ma se A fosse vero, allora C sarebbe naturale; 3) c’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero” (C. S. PEIRCE, Collected Papers, University Press, Cambridge 1958, 5,189, cit. in M. BALDINI, Karl Popper e Sherlock Holmes. L’epistemologo, il detective, il medico, lo storico, lo scienziato, cit., p. 23).

13 J. FUTRELLE, La macchina pensante, Newton Compton, Roma 1995, p. 93. L’espressione Thinking Machine ha una sua radice nella cultura illuminista: Voltaire, ad esempio definiva “un’autentica macchina per ragionare” Samuel Clarke, un discepolo di Newton (VOLTAIRE, Il filosofo ignorante, a cura di M. Cosili, Rusconi, Milano 1996, VII, p. 24)

14 “Quel pezzo di pane, non lo avete notato? […] È un quadrato? No. È un triangolo? Ancora no. È rotondo? No. Non ha nessuna forma. È senza simmetria, assolutamente. […] È stato tagliato da una pagnotta senza forma e fatta alla carlona. Nessun panettiere dovrebbe permettersi di farlo!” (A. CHRISTIE, Aiuto, Poirot!, trad. di L. Volpatti, Mondadori, Milano 199918, p. 10).

15 A. CHRISTIE, La sparizione del signor Davenheim, in IDEM, Hercule Poirot indaga, trad. di L. Lax, Mondadori, Milano 19957, p. 203.

16 A. CHRISTIE, Due mesi dopo, trad. di E. Piceni, pref. e post. Di J. Symons, Mondadori, Milano 199918, p. 35.17 “«Sapete a cosa mi fate pensare?» disse la signora Oliver. «A un computer. Vi autoprogrammate. Si dice

programmare, vero? Non fate che mettervi dentro tutte le informazioni e poi state a vedere che cosa ne salta fuori». «Avete avuto proprio un’idea brillante» commentò Poirot, colpito. «Sicuro, io faccio la parte del computer. Mi carico d’informazioni…» «E supponiamo che esca la risposta sbagliata» insinuò Ariadne Oliver. «Impossibile» replicò Poirot. «I computer non fanno errori»” (A. CHRISTIE, Poirot e la strage degli innocenti, trad. di T. Honsel, Mondadori 200112, pp. 41–42).

3

Page 4: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

Anche Ellery Queen – almeno l’Ellery del cosiddetto “Ciclo dei misteri” – viene definito “lucida macchina mentale che nessuna paralisi poteva immobilizzare a lungo”18, convinto che “un passo dopo l’altro, deduzione dopo deduzione, osservazione dopo osservazione” si giunge alla “conclusione inevitabile”19, in una “successione logica” “troppo forte e perfettamente saldata per essere qualcosa di diverso dalla verità”20 ed in modo tale da “essere in grado non solo di ipotizzare, ma di provare l’identità dell’assassino. Non vi sono se o ma nella soluzione del caso”, poiché “il ragionamento logico” non richiede “l’intervento della fortuna”21. Salvo poi fare ammenda di tale ferrea convinzione (innanzi ad uno psicoanalista svizzero), ma in forma talmente egocentrica da farsi carico di tutti gli errori e dunque surrettiziamente riportarsi a centro e personaggio privilegiato d’ogni indagine22.

Questi sono tre esempi di Thinking Machine. Tuttavia, un detective al quale tale espressione è senza dubbio del tutto inappropriata e fuorviante è Holmes. E che Holmes non sia una macchina pensante è implicitamente testimoniato da un personaggio di Chesterton che ne ricalca la figura, Aristide Valentin, il quale non è una macchina pensante (giudicata da Chesterton come una “stupida definizione del fatalismo e materialismo moderni, poiché una macchina è tale, proprio in quanto non può pensare”23) ma un artista oltre che un lucido logico, come la “scienza della deduzione” di Holmes è in pari tempo un’arte. È anzi al temperamento artistico che Holmes fa riferimento per le proprie capacità d’osservazione e ‘deduzione’: a Watson che le considera in gran parte dovute ad un “sistematico allenamento”, Holmes replica che “in certa misura è così”, ma “le abilità che io possiedo sono congenite in me e forse, le ho ereditate da mia nonna, che era sorella di Vernet, l’artista francese. L’arte nel sangue spesso può assumere le forme più strane” (Gree, p. 153 [399]).

È vero che in talune occasioni Watson definisce Holmes “un automa… una macchina calcolatrice”, avendo questi affermato che in un caso qualsiasi persona va considerato “un’unità, un fattore in un problema” (Sign, cap. II, p. 18 [69]), o perché “tutte le emozioni” ed in particolare l’amore “erano respinte con orrore dalla sua mente fredda, precisa, mirabilmente equilibrata” (Scan, p. 229 [117]): ciò è necessario in un detective, che non deve permettere distorsioni operate da coinvolgimenti, essendo già costantemente teso a ripulire il proprio angolo visivo da ogni idolum che lo possa condizionare24. Nondimeno il nostro detective manifesta, soprattutto al momento della cattura del colpevole, una notevole lontananza dagli stereotipi meccanicistici: “un paio di volte nella mia carriera”, mormora a Watson, “ho avuto l’impressione di aver provocato più guai con la mia scoperta del criminale di quanto il criminale stesso ne avesse provocato col suo crimine. Ho imparato la prudenza, e preferisco scherzare con la legge che con la mia coscienza. Prima di agire, cerchiamo di saperne di più” (Abbey, p. 248 [290]), e così lascia liberi numerosi ‘criminali’ o perché comprende le ragioni dei loro atti (si pensi a Bosc, Croo, Abbe e soprattutto Devi,25) o perché vuole prevenire una loro futura carriera criminale (Blue, ma anche, se ci si pensa, 3Stu). Viceversa, in altre occasioni assume su di sé il compito di fare giustizia quando la legge è impotente, come in Iden ove, nella tradizione dei padri britannici, afferra il frustino per punire un colpevole non

18 E. QUEEN, Ventimila hanno visto, in IDEM, Ellery Queen dell’87a strada, intr. di E. G. Laura, Mondadori, Milano 1992, p. 496.

19 E. QUEEN, Sorpresa a mezzogiorno, trad. di G. Montanari, Mondadori, Milano 1990, p. 254.20 Ivi, pp. 187 e 273.21 E. QUEEN, Il mistero delle croci egizie, trad. di G. Montanari, in IDEM, Ellery Queen dell’87a strada, cit., p. 443.22 Cfr. E. QUEEN, Il Gatto dalle molte code, trad. di C. Borelli, Mondadori, Milano 2001, pp. 231–232.23 G. K. CHESTERTON, La croce azzurra, in IDEM, L’innocenza di padre Brown, trad. di R. Costanzi, intr. di L.

Brioschi, Rizzoli, Milano 1989, p. 25.24 Cfr. G. P. CAPRETTINI, Le orme del pensiero, in AA. VV., Il segno dei tre, cit., p. 176: “la misoginia di Holmes – di

cui si è qualche volta tentati di dare un’interpretazione in chiave omosessuale – ha il suo fondamento in una necessità teoretica: se l’investigatore vuol fare della propria mente lo specchio fedele di quella concatenazione di cause ed effetti che è sfociata in un crimine, occorre che egli elimini ogni fattore soggettivo di disturbo. La purezza logica del suo ragionamento non può venir turbata dal pathos dei sentimenti”.

25 Nella conclusione il detective afferma: “non sono mai stato innamorato [I have never loved], Watson, ma se lo fossi stato e se la donna che amavo avesse fatto quella fine, avrei potuto agire proprio come ha agito il nostro cacciatore di leoni fuorilegge” (Devi, p. 158 [797]).

4

Page 5: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

perseguibile. Innanzi a Charles Augustus Milverton, egli prova il medesimo “senso di repulsione” che sente “davanti ai serpenti dello zoo, nel vedere quegli occhietti letali, e quelle malevole teste schiacciate”26, e non esita ad entrare in casa sua ed a scassinargli la cassaforte: si tratta in fondo di “un’azione moralmente giustificabile anche se, tecnicamente, criminosa” ove sussiste solo il rischio personale, “ma un gentiluomo non dovrebbe preoccuparsene eccessivamente, quando una signora ha disperatamente bisogno del suo aiuto”, tant’è che, alla fine, quando Lestrade gli chiede aiuto per risolvere l’assassinio di Milverton, Holmes replica: “credo che esistano crimini che sfuggono alla legge e che quindi, fino a un certo punto, giustificano la vendetta privata. No, inutile discutere, ho deciso. Le mie simpatie vanno al criminale, più che alla vittima, e non intendo occuparmi di questo caso”27.

Questo non è uno sciocco tentativo di ‘umanizzare’ Holmes, o di trovarne forme ‘umane’ di sensibilità. Egli rimane la persona fredda e controllata che Watson ci presenta, per il quale “un granello di sangue in uno strumento particolarmente delicato o un’incrinatura in una delle sue potente lenti non gli avrebbero arrecato maggior disturbo di un’emozione profonda” (Scan, p. 229 [117]). I suoi più profondi sentimenti rimangono costantemente celati dalla sua ferrea maschera di riservatezza e sarebbe idiota volerla svellere – anche perché non si disporrebbe di elemento alcuno per soddisfare tale superficiale curiosità. Ciò che qui si intende mostrare è che il nostro detective non considera un assassino solamente un ‘assassino’, ossia non commette l’errore di pensare astrattamente e ‘per universali’, scordando tutti i contesti e le diverse motivazioni che hanno portato ad un determinato atto. Forse nessun brano può commentare il ‘metodo’ di Holmes meglio di uno hegeliano: “si conduce un assassino al luogo del supplizio. Agli occhi del popolo comune costui non è altro che un assassino. Alcune signore osservano che si tratta di un uomo vigoroso, bello, interessante. Quel popolo trova orribile una tale osservazione: «Che cosa, un assassino bello? Come si può pensare in maniera così sconveniente e chiamare bello un assassino? Vuol dire che anche voi non siete molto migliori!». «Ecco la corruzione dei costumi che domina fra la gente altolocata!» – aggiunge forse il prete”28. Qui si vede a cosa conduca il pensiero astratto, di cui l’atteggiamento da ‘macchina pensante’ è una delle tante (troppe) manifestazioni: si astrae da un fenomeno complesso un particolare e si guarda solo questo, dimenticandosi del resto, semplificando la complessità in nome di un’identificazione univoca e degradante, perché “questo significa pensare astrattamente: non vedere altro, nell’assassino, se non questa qualità astratta per la quale è un assassino, e per questa semplice qualità cancellare in lui tutta la natura umana restante”29. E forse in un’ossessione di giustizia che si traduce nella forma primitiva del vendicatore o del giustiziere, tanto cieco alle differenze fra caso e caso quanto ligio a perseguire la sua fanatica e puritana ansia di giustizia. Oppure nella nera figura di Javert, il cui odio profondo per ciò che travalica l’osservazione puntuale e formale della lettera della legge, lo conduce ad una distorsione intellettuale e ad una vuota inflessibilità30.

Su questa ‘linearità’ si potrebbe inscrivere la differenza fra siffatti tipi d’uomini ed i nostri detective – fra coloro cioè che preferiscono tagliare i nodi e quelli che ambiscono a scioglierli,

26 Chas, p. 141 [213]. “Nel corso della mia carriera ho avuto a che fare con cinquanta assassini ma nemmeno il peggiore di loro mi diede mai quel senso di repulsione che provo per questo individuo” ( ivi, pp. 141–142). E raramente Watson ha udito Holmes “esprimersi con tanta veemenza” (ivi, p. 141) o lo ha visto “pallido per l’ira e la mortificazione” (ivi, p. 144 [215]) come di fronte a Milverton, ed il detective si chiede come possa venire paragonato “un mascalzone che, in un momento d’ira, fracassa la testa al compare con quest’individuo che, metodicamente e senza fretta, tortura l’anima e sconvolge i nervi per impinguare la sua già rigonfia borsa” (ivi, p. 142 [213]).

27 Ivi, pp. 147 e 155 [216, 223]. Questo uso ‘libero’ della legge sarà fatto proprio dai grandi detectives di John Dickson Carr, in particolar modo dal dottor Fell e da sir Henry Merrivale che non esitano a far saltare in aria case e navi per evitare che colpevoli non effettivamente tali finiscano in carcere.

28 G. W. F. HEGEL, Chi pensa astrattamente?, in IDEM, Scritti storici e politici, trad. e note di G. Bonacina, a cura di D. Losurdo, Laterza, Roma–Bari 1997, p. 109.

29 Ivi, p. 110.30 Due espressioni, infatti, lo descrivono in modo acutissimo: Javert “era assoluto e non ammetteva eccezioni” ed

“aveva introdotto la linea retta in quanto vi è di più tortuoso” (V. HUGO, I Miserabili, trad. di M. Zini, intr. di M. Le Cannu, Mondadori, Milano 19985, parte I, lib. V, V, p. 175).

5

Page 6: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

essendo autenticamente razionali proprio nel non ridurre a differenza semplice ciò che è complesso, essendo tesi a risolvere, non a giudicare. E d’altra parte, come dice Ellery Queen, “la colpevolezza è un termine molto generico e comprensivo”, e “siamo tutti quanti membri della tribù dei lanciatori di pietre… o della prima pietra, potrei aggiungere”31. Appunto – ed è qui che Hegel sembra descrivere Holmes molti anni prima che questi nascesse – nell’indagine criminale “un conoscitore degli uomini indaga la via battuta dal delinquente nella sua formazione, trova nella sua storia cattiva educazione, cattivi rapporti familiari del padre e della madre, qualche durezza smisurata in occasione di una trasgressione più lieve compiuta da quest’uomo, tale da esasperarlo contro l’ordine civile, una prima reazione contraria che l’abbia messo al bando da quell’ordine e che ora gli abbia reso possibile continuare a mantenersi solo attraverso il delitto”32. E non è difficile vedere in queste parole non solo il ritratto del nostro detective, ma anche quello di un suo grande collega russo, il Porfirij Petròvic di Dostoevskij.

Ma anche nell’aspetto più proprio delle indagini di Holmes, ossia nella soluzione di un mistero (per semplificare, l’interesse maggiore ma non esclusivo è rivolto più al come si sia svolto un delitto che al perché33), egli si mostra tanto lontano dallo stereotipo della macchina infallibile quanto vicino all’effettivo procedere dell’intelligenza. Egli ammette senza problemi la propria fallibilità: “ho commesso un errore, mio caro Watson – il che, temo, mi accade più di frequente di quanto si penserebbe nel leggere i suoi racconti” (Silv, p. 12 [291])34, e si paragoni questa affermazione con una a caso di Poirot: “ho sempre ragione. Succede tanto invariabilmente che me ne stupisco io stesso. E invece adesso si direbbe, proprio, con quasi assoluta certezza, che mi sono sbagliato. Questo fatto mi lascia sconvolto”35. L’aspetto che radicalmente diversifica Holmes rispetto a molti suoi successori è l’assoluta mancanza di pretese a riguardo di un certo tipo di superiorità intellettuale che ha la sua massima incarnazione seria in Philo Vance36 e quella più divertente e comica in Poirot37. Certo, anche Holmes è presuntuoso e, come tutti i detectives, parla male dei suoi

31 E. QUEEN, Il caso dei fratelli siamesi, trad. di G. Montanari, in IDEM, Sfida al lettore, intr. di E. G. Laura, Mondadori, Milano 1993, p. 103.

32 G. W. F. HEGEL, Chi pensa astrattamente?, cit., p. 109. Peraltro questa conoscenza si rivela essenziale nella stessa scoperta del colpevole, cercando di immedesimarsi con la sua mente ripercorrendo così a ritroso la costruzione della trama criminale: “i risultati migliori, ispettore, li avrà mettendosi sempre nei panni dell’altro, pensando a ciò che avrebbe fatto se fosse stato in lui” (Reti, p. 380 [1105]). Cfr. anche Musg, p. 98 [363] ove questo processo è “semplificato dal fatto che Brunton aveva un’intelligenza di prim’ordine e quindi non occorreva lasciare margini a quella che gli astronomi definiscono equazione personale”.

33 Infatti “il compito che egli si prefigge non è etico ma logico. Seguire indizi, sciogliere enigmi, chiarire misteri: ricondurre il caos indiziario (determinato da uno squilibrio fra le due metà del mondo, una “positiva” e l’altra “negativa”) a una totalità ordinata di segni” (G. P. CAPRETTINI, Le orme del pensiero, cit., p. 181).

34 A maggior riprova di cotesta fallibilità basti ricordare la cassetta di metallo di Watson depositata nei sotterranei della banca Cox & Co. ove sono contenuti alcuni casi di Holmes che “finirono con un totale fallimento” (Thor, p. 281 [981]). Nel settembre del 1887, Holmes ammette d’essere “stato sconfitto quattro volte – tre volte da uomini, e una volta da una donna” (Five, p. 310 [176]) ed in altre occasioni d’essere giunto alla soluzione solo per caso (cfr. Yell).

35 A. CHRISTIE, Carte in tavola, trad. di G. M. Griffini, Mondadori, Milano 199610, p. 17836 Ciò risulta evidente da ogni riga dei romanzi di Van Dine teso a rilevare lo “snobismo intellettuale e sociale” e

l’“indefinibile disprezzo per l’inferiorità di ogni genere” (S. S. VAN DINE, La strana morte di Mr. Benson, trad. di A. Carrer, Newton Compton, Roma 1994) del suo straordinario eroe. Forse nessuna espressione migliore di questa li può indicare: “non posso dire con Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto, perché tante cose chiamate umane le considero a me estranee” (ivi, p. 33).

37 Fanno giustamente notare Benvenuti e Rizzoni che Poirot “rappresenta un po’ la nota comica nei romanzi di Agatha Christie: desta ammirazione per quella sua capacità di dipanare anche le matasse più ingarbugliate, ma fa sorridere, per come è fatto, per come si comporta, per come agisce”, sì che, nonostante l’enorme stima che continuamente palesa nei propri riguardi, “ci diverte e non chiede di “prosternarci” davanti alla sua personalità” (S. BENVENUTI, G. RIZZONI, Il romanzo giallo, cit., pp. 72–73). Anche Ellery Queen, nelle prime descrizioni e nei primi atteggiamenti ricalca il detective à la Philo Vance ma in modo meno rigido (Cfr. ad esempio E. QUEEN, Sorpresa a mezzogiorno, cit., p. 7), con tutte le aspirazioni intellettuali del “mito americano”: “una cultura, un’istruzione universitaria, una buona posizione sociale, una agiatezza e una professione libera come quella dello scrittore. E anche eleganza personale, raffinatezza e distinzione di modi. In realtà, per gli europei Ellery Queen risulterà sempre n po’ affettato, leggermente goffo e ridicolo, più che elegante, raffinato e distinto. Ma è esattamente quello che il cittadino medio americano identifica per “individuo raffinato”, e che rappresenta il massimo delle sue aspirazioni” (S. BENVENUTI, G. RIZZONI, Il romanzo giallo, cit., pp.

6

Page 7: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

predecessori38, si irrita se qualcuno non lo tiene nella dovuta considerazione o lo ritiene solamente “il secondo grande esperto in Europa” (Houn, cap. I, p. 27 [20]). Propriamente, come scrive Watson, egli “è sensibile alla lusinga, riguardo alla sua arte, quanto lo può essere una fanciulla riguardo alla propria bellezza” (Stud, I, cap. IV, p. 42 [24]). Ma nella maggior parte delle occasioni, quest’orgoglio è quello autocelebrativo della forza della ragione che in lui si manifesta, non tanto (e non sempre, dal momento che è comunque presente) quello della sua persona: “se chiedo che la mia capacità venga pienamente riconosciuta è perché questa capacità è qualcosa di impersonale – al di fuori di me stesso” (Copp, p. 445 [272]). Infatti, non essendo solito porsi come incarnazione dell’infallibilità, la sua attenzione è costantemente tesa a nuove esperienze, ad integrare continuamente le conoscenze già apprese con quelle che ancora gli sono ignote, “sempre in cerca di conoscenza alla vecchia università” (Redc, p. 75 [813]), la vita, non supponendo mai di sapere già tutto. Sin dall’inizio egli si presenta affermando che “come tutte le altre arti, la scienza della deduzione e dell’analisi può essere acquisita soltanto attraverso uno studio lungo e paziente, né la vita è abbastanza lunga perché un qualsiasi mortale possa raggiungere il più alto grado di perfezione in questo campo” (Stud, I, cap. II, pp. 20–21 [17]) – affermazione non da poco, se si considerano le sue straordinarie capacità. Ad esempio, egli ammette in tutta tranquillità che suo fratello è un osservatore ed un ‘deduttore’ a lui superiore: “non sono fra coloro che considerano la modestia una virtù. Per un uomo dotato di logica, tutte le cose andrebbero viste esattamente come sono, e sottovalutare se stessi significa allontanarsi dalla verità almeno quanto sopravvalutare le proprie doti. Quindi, quando affermo che Mycroft possiede poteri di osservazione superiori ai miei, le assicuro che dico la pura verità” (Gree, p. 154 [399]).

Sopra abbiamo rammentato en passant la crisi che ha colto Ellery Queen in Il gatto a molte code, seguente a Dieci incredibili giorni ove la sua “vecchia e spietata alleata, la Logica”39 aveva creduto colpevole un innocente. Nella sua parte essenziale, la ‘confessione’ di Queen al professor Seligmann è rivelativa di un certo tipo di atteggiamento intellettuale:

“come posso ora sapere quanti altri innocenti sono stati puniti per colpa mia? Indulgendo alla mia paranoia, ho fatto una lunga e onorata carriera. E poi parlano di mania di grandezza! Ho dato consigli legali agli avvocati, consigli di chimica ai chimici, consigli di balistica agli esperti di balistica, consigli sulle impronte digitali a chi tutta la sua vita aveva lavorato sulle impronte digitali. Ho imposto i miei imperiali decreti sui metodi di ricerca criminale ad agenti di polizia che avevano trent’anni di pratica, ho fatto analisi psichiatriche a beneficio di psichiatri qualificati. Mi sono sforzato di far apparire Napoleone una specie di portinaio. E intanto mi sono divertito a giocare con la vita di uomini innocenti. […] La mia filosofia è stata flessibile e razionale come quella della Regina in Alice nel Paese delle Meraviglie! […] Un grande libro, un libro che abbraccia tutta la saggezza dell’uomo da quando esso ha imparato a ridere di se stesso. In quel libro troverà tutto, anche me. La Regina aveva un solo modo di appianare ogni difficoltà, grande o piccola. Ricorda? “Tagliategli la testa!” […] Sono finito, Herr Professor. Una gloriosa carriera di Schlamperei mascherata da scienza esatta e onnipotente vede in questo momento il suo inglorioso epilogo”40.

In conclusione, Seligmann raccomanda ad Ellery di “tener sempre presente una lezione grande e vera”, ovvero “quella che sta scritta nel Vangelo di Marco: «C’è un solo Dio, e non ve ne sono altri all’infuori di Lui»”41. Conclusione scialba e dovuta a tale surrettizia identificazione con dio, ma, come dice Chesterton, “solo chi non sa niente di motori, pensa di far andare automobili senza benzina; e così, solo chi non s’intende di ragione può pretendere di ragionare senza solidi e

97–98).38 Egli giudicava Dupin “un mediocre [a very inferior fellow]” dotato solo di “una certa capacità analitica” (Stud, I,

cap. II, p. 23), ma in altra occasione, pur senza nominarlo, “un ragionatore serrato [a close reasoner] (Card, p. 75). Fruttero e Lucentini – che giustamente li tengono sempre congiunti – si divertono a rappresentare questa rivalità quando Dupin deduce alcuni particolari “dal formato e dal colore del foglio” ed Holmes si mostra “seccato in realtà di essere stato prevenuto” (C. DICKENS, C. FRUTTERO & F. LUCENTINI, La verità sul caso D. Romanzo, Einaudi, Torino 1989, p. 12).

39 E. QUEEN, L’affare Kalkis, in IDEM, Ellery Queen dell’87a strada, cit., p. 236.40 E. QUEEN, Il gatto a molte code, cit., pp. 231–232.41 Ivi, p. 234. Va da sé che sin dall’inizio Ellery Queen è soggetto ad errori: già in L’affare Kalkis del 1932, il suo

quarto romanzo, sono presenti quattro soluzioni.

7

Page 8: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

indiscussi fondamenti”42. Solo chi identifica la ragione con una forma particolare di ragionamento, per poi crederlo infallibile, può entrare in crisi (se è intelligente) ed anzi rigettare la ragione perché la forma particolare in cui credeva è andata distrutta. Il vizio alla base è un’eccessiva fiducia immediata, che si converte in totale sfiducia quando si vede tradita – ovvero la che Platone paventava, il farsi nemici del pensiero, “e non c’è guasto peggiore che ti possa capitare del diventare nemico dei discorsi”43, giacché come la misantropia nasce “dall’esagerata fiducia, senza cognizione”44 verso qualche uomo, così anche la misologia sorge in chi, “senza la competenza specifica dei ragionamenti”, crede ciecamente ad alcuni ragionamenti (o, meglio, pseudoragionamenti), e smentendo più tardi questa fede poiché li scopre errati, non imputa tale illusione alla propria “mancanza di esperienza”, ma conclude “per la bruciatura provata, con lo scaricare allegramente la colpa da se stesso sui ragionamenti”, continuando “per il resto della vita a denigrare, a odiare le argomentazioni, diseredandosi così dell’autentico sapere intorno alla realtà”45.

Fortunatamente il giovane Queen è abbastanza intelligente da attribuire a sé più che alla ragione la colpa degli errori, ed amo immaginare Holmes, innanzi al fuoco del camino, che gli tende una mano e dice (citando surrettiziamente Hegel): “continui fiducioso: la scienza che La conduce dentro questo labirinto dell’animo è anche capace di portarLa fuori e di guarirLa”46.

Qual è la differenza fra Holmes e questo Ellery Queen? Mandel afferma che “l’ideologia comune al romanzo poliziesco originario e classico” è quella ‘borghese’, uno dei cui elementi consiste nel fatto che “una razionalità parziale e frammentaria è innalzata allo statuto di principio assoluto che deve guidare il comportamento umano”47. Ora, tale riduzione od assimilazione dell’intelligenza ad una particolare forma di razionalità non si rinviene in Holmes, dal momento che in lui la ragione è costantemente attenta ad ogni percorso in una tale malleabilità da permetterle di rimanere aperta ad ogni possibile aspetto che in un qualche modo rientri nel processo d’indagine. Baldini ha definito Holmes “un ipocrita sincero sul piano metodologico”48, e ha parlato della sua “«falsa coscienza» metodologica”49 per brani apparentemente contrastanti presenti nei racconti quando si richiama al proprio metodo: se “è un errore enorme teorizzare a vuoto. Senza accorgersene, si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie, anziché il viceversa” (Scan, p. 232 [119]. Cfr. anche Stud, I, cap. III, p. 29 [20] e Seco, p. 264 [301]) nondimeno “quando un fatto sembra smentire una lunga catena di deduzioni, si rivela invariabilmente passibile di un’interpretazione diversa” (Stud, I, cap. VII, p. 73 [35]) e “ben sappiamo quanto spesso l’immaginazione sia la madre della verità” (Vall, I, cap. VI, p. 70 [882])50 – come scriveva Baudelaire in riferimento a Poe, “l’immaginazione è una facoltà quasi divina che penetra all’istante, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie”51, e qui si tratta di una sua forma specifica, ovvero “l’uso scientifico che si fa dell’immaginazione” (Houn, cap. IV, p. 65 [36]).

Solo apparentemente i passi sopra riportati si contraddicono, dal momento che viene di volta in volta accentato un particolare aspetto della ricerca in relazione al bisogno effettivo della situazione

42 G. K. CHESTERTON, La croce azzurra, cit., p. 25.43 PLATONE, Fedone, in IDEM, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, a cura di E. Savino, Mondadori,

Milano 19966, 89 d 2–3, p. 367.44 Ibidem, 89 d 5.45 Ivi, 90 b 6 – d 7, p. 369.46 Hegel a Windischmann (27 maggio 1810), in G. W. F. HEGEL, Epistolario, vol. II (1808–1818), trad. di P.

Manganaro e G. Raciti, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1988, pp. 90–91, n. 158.47 E. MANDEL, Delitti per diletto. Storia sociale del romanzo poliziesco, trad. di B. Arpaia, pref. di G. Galli, postf. di

V. Spinazzola, Interno Giallo, Milano 1990, p. 69.48 M. BALDINI, Karl Popper e Sherlock Holmes. L’epistemologo, il detective, il medico, lo storico, lo scienziato , cit.,

p. 37.49 Ivi, p. 35.50 “Vede il valore dell’immaginazione”, spiega in altra occasione a Watson, “è l’unica qualità di cui Gregory è

totalmente privo. Noi abbiamo immaginato cosa poteva essere accaduto, abbiamo agito di conseguenza, e i fatti ci hanno dato ragione” (Silv, p. 24 [300]).

51 C. BAUDELAIRE, Nuove note su Edgar Poe (1857), in IDEM, Per Poe, a cura di G. Bufalino, Sellerio, Palermo 1998, p. 107.

8

Page 9: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

in cui vengono enunciati, ma essi fanno riferimento ad un identico processo, da Holmes costantemente attuato ed anzi divenuto in lui una “seconda natura”.

In effetti, quantunque il nostro detective non ne mostri una vera consapevolezza, egli si trova sempre ed inevitabilmente in quel “campo delle ipotesi” dove “anche la mente più logica può sbagliare” (Empt, p. 29 [135]). Non si tratta di deduzione e di ferrea ed incontrovertibile logica, ma di abduzione: nonostante l’antipatia a tale termine, i detectives indovinano, basandosi senza dubbio su numerosi elementi ma comunque indovinando. “Ciò che rende Sherlock Holmes così efficace nell’indagine non è il fatto che tiri a indovinare, ma che lo faccia così bene. Infatti, senza saperlo, segue le istruzioni di Peirce per la selezione della migliore ipotesi”52, perciò non si tratta di un semplice tirare ad indovinare – è questo che Holmes giudica “un’abitudine odiosa e distruttrice delle facoltà logiche [a shocking habit – destructive to the logical faculty]” (Sign, cap. I, p. 11 [67]) – bensì di uno scegliere, sulla base di alcuni elementi, un’ipotesi rispetto ad un’altra, un preciso percorso che mostri in sé le particolari relazioni instauratesi fra molteplici eventi osservati rispetto ad altri.

Distinguendo fra ragionamento analitico od a ritroso (reasoning backwards, or analytically) e ragionamento sintetico (synthetically), egli afferma che il primo consiste nel risalire, a partire da un fatto, alle cause che l’hanno provocato mentre il secondo nel prevederne le conseguenze (Stud, II, cap. VII, p. 143 [61]). In una lettera che scrisse al Daily Gazette egli affermava:

“in mancanza di dati, dobbiamo abbandonare il metodo analitico o scientifico dell’indagine [ the analytic or scientific method of investigation], e dobbiamo abbordarla in maniera sintetica [in the synthetic fashion]. In altre parole, invece di partire da eventi conosciuti e dedurre da essi ciò che è accaduto, dobbiamo fabbricare una spiegazione ipotetica, che dovrà però corrispondere agli elementi che conosciamo. Metteremo così alla prova la nostra spiegazione con ogni nuovo fatto che possa emergere. Se tutti i fatti combaceranno, ciò dimostrerà che siamo sulla giusta via; e con ogni nuovo fatto, questa probabilità aumenta in progressione geometrica finché la prova non diventi decisiva e convincente”53.

In realtà lo stesso metodo analitico si comporta come quello sintetico, anzi, entrambi sono le due facce del medesimo processo. La rilevanza di un fatto rispetto ad un altro, l’attenzione rivolta ad esso, rispondono già a determinate ipotesi che oscuramente agiscono nella mente del detective: una forma di scelta è operante sin dall’inizio, ad esempio quando Holmes si reca sul luogo del delitto perché sa che lì può acquisire molti più elementi rispetto al mero resoconto udito da un altro, perché “le informazioni di prima mano sono sempre le migliori” (Stud, I, cap. IV, p. 39 [24]), e sa questo in primo luogo perché riconosce la validità dei dettagli che alla maggior parte degli uomini sfuggono e che lui nota perché ne va in cerca, ed in secondo luogo perché ritiene che ad un’indagine non basti la mera testimonianza di altri o le confessioni. Quest’ultimo è un notevole passo in avanti rispetto all’uso comune di procedere, basato sul sentito dire, ed è l’istituzione di un vero e proprio paradigma d’indagine, con i suoi metodi ed i suoi criteri. Quest’esigenza fortemente speculativa può essere definita con un passo di Hegel: “è chiaro allora che dietro la cosiddetta cortina che dovrebbe occultare l’interno, non c’è niente da vedere, a meno che noi stessi non ci rechiamo là dietro, e perché si vegga, e perché là dietro ci sia qualcosa che possa esser veduto”54. Tutti i dettagli, gli indizi e le prove esistono solo perché vengono riconosciuti come tali. Ma perché vengano riconosciuti è necessario ritenerli a priori suscettibili di importanza e del carattere di prova altrimenti non se ne andrebbe in cerca considerandoli prove essenziali. Un Gregson ed un Lestrade, ad esempio, non li considerano effettivamente tali – e ciò si evince dal fatto che non ne vanno in

52 T. A. SEBEOK e J. UMIKER–SEBEOK, “Voi conoscete il mio metodo”: un confronto fra Charles S. Peirce e Sherlock Holmes, in AA. VV., Il segno dei tre, cit., pp. 40–41.

53 A. CONAN DOYLE, The Story of the Man with the Watches, in IDEM, The Final Adventures of Sherlock Holmes, coll. and intr. by P. Haining, Warner Books, London 1993, p. 89; L’uomo dagli orologi, in IDEM, I racconti del terrore e del mistero, trad. di P. Forti, Mondadori, Milano 1988IV, p. 118. Ovviamente è una nostra supposizione che si tratti di Holmes, dal momento che in questa avventura non viene nominato ed è per di più datata 1892. Supponendo che la datazione sia errata, supponiamo altresì l’autenticità di detta epistola.

54 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1996, III, cpv. 76, pp. 105–106.

9

Page 10: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

cerca. Nondimeno tale paradigma riveste carattere ipotetico, ed il sapere cui si faceva sopra riferimento è e rimane una supposizione – ma una supposizione ragionata, riflessa, di cui Holmes appare perfettamente consapevole quanto a validità, ma non sempre quanto al suo carattere ipotetico (ma – non dimentichiamolo – ipotetico/scientifico).

E sussiste in pari tempo il problema della rilevanza dei cosiddetti fatti, o della loro pertinenza al caso in questione: come si può conoscerle a priori? Ovvero, come si può sapere quali siano i fatti pertinenti e quali no? Anche in questo caso ad operare è l’immaginazione raziocinante che rintraccia relazioni ma secondo criteri del tutto particolari55. Facendo riferimento all’incipit di Card, Umberto Eco ha addirittura scritto che fra i molti percorsi mentali di Watson Holmes sceglie “quello che mostra maggior coerenza estetica, o più “eleganza”. Holmes inventa una storia. Accade semplicemente che quella storia possibile sia analoga a quella reale”56, sì che (almeno in questo caso) “inventa per il solo amore dell’eleganza”57. Il problema rimane aperto, ed è affidato all’acume ed all’abilità intellettuale del detective che giunge alla ‘verità’ magari attraverso un percorso errato, come il Guglielmo da Baskerville di Umberto Eco. Ed attraverso le parole stupefatte di Adso, Eco mostra l’effettivo procedere del detective: “ebbi l’impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile”58. Questa affermazione va inquadrata nella conclusione ‘nominalistica’ del libro – conclusione straordinaria ed innegabile nella sua problematicità59 - che fa saltare in aria qualsiasi bussola univoca per il pensiero, dal momento che il riferimento al polo è saltato anch’esso, sì da risultare necessario continui aggiustamenti sulla bussola con cui si procede ragionando. In definitiva, l’unica risposta è sempre la stessa: “ahimè Adso, come ti fidi dei sillogismi! Abbiamo solo e di nuovo la domanda”60.

Anche Holmes possiede la medesima ed estrema duttilità della mente di Gugliemo nel rintracciare vari percorsi e verificarli, cosa che costantemente lo salva da una fede ingenua in una ragione assolutizzata: sotto questo profilo egli non si arresta mai, e se giudica “brutta abitudine” e “debolezza umana” formulare “delle ipotesi provvisorie in attesa che il tempo o altri elementi le confermino o le neghino” (Suss, p. 257 [1019]), nondimeno la sua mente è in costante fermento in tali genesi ed egli anzi afferma che “la prima regola per un investigatore” consiste proprio nel “cercare una possibile alternativa, ed eliminarla” (Blac, p. 134 [208]). Infatti la debolezza sopra citata consiste solo nell’attendere che altri demoliscano le ipotesi costruite, come il tacchino induttivista di Russell scoprì la falsità della sua teoria (secondo la quale alle nove del mattino gli veniva portato da mangiare) quando alle nove del mattino del 24 dicembre il fattore lo sgozza. Invece un vero detective deve – e qui deve significa ‘non può non’ – incessantemente verificare da sé qualsiasi teoria formuli onde evitare non di finire uccisi ma che ad altri capiti questo: “non nego che, in qualche modo, l’evidenza appoggia la sua teoria”, dice in un’occasione a Lestrade, “voglio solo farle presente che esistono altre teorie possibili” (Norw, p. 39 [142]).

Ma un problema rimane e concerne il fine della detection, essenzialmente pragmatico e legato alla realtà empirica, e che richiede che ad un certo punto ci si fermi: anche in essa come nel crimine

55 Cfr. a tal proposito Reig, pp. 114–115 [373]: “nell’arte della deduzione [in the art of detection], la cosa più importante è il saper vagliare, da un cumulo di fatti, quelli che sono accidentali e quelli che invece sono essenziali”.

56 U. ECO, Corna, zoccoli, scarpe. Alcune ipotesi su tre tipi di abduzione, in AA. VV., Il segno dei tre, cit., p. 256.57 Ivi, p. 258. A riprova dell’ipoteticità delle sue ‘deduzioni’, basta ricordare un piccolo errore, o meglio una

mancanza commessa all’inizio di Houn, quando esaminando il bastone del dottor Mortimer, suppone che sia un tipo amiable, simpatico, perché “solo un tipo simpatico riceve regali” (Hon, cap. I, p. 23 [19]), mentre egli lo ha ricevuto in occasione del suo matrimonio (ivi, p. 26 [20]), e Holmes riconosce la dimenticanza.

58 U. ECO, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 198823, Giorno IV, Vespri, p. 309.59 Cfr. ivi, Giorno VII, Notte, pp. 494–496.60 Ivi, Giorno IV, Laudi, p. 266. È interessante comparare il titolo ed il distico finale del romanzo (sui quali cfr. U.

ECO, Postille a “Il nome della rosa”, in ivi, pp. 507–508) con la celebre (e curiosissima) affermazione di Holmes in Nava: “non c’è nulla per cui la deduzione sia così necessaria come nella religione”, afferma raccogliendo una rosa, “un individuo raziocinante può costruirla come una scienza esatta” (Nava, p. 181 [419]). La comparazione evidenzia due estremi, giacché Il nome della rosa nega risolutamente la possibilità (assai ingenua) di applicare la deduzione alla religione (come a tutto il resto, peraltro).

10

Page 11: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

è necessario “il tocco supremo dell’artista – sapere quanto fermarsi” (Norw, p. 51 [150]) sulla base di verifiche empiriche più e più volte effettuate ed allora, dopo aver messo alla prova in più modi la teoria adottata, “una volta che queste deduzioni sono confermate punto per punto da vari incidenti separati, il soggettivo diventa oggettivo e possiamo onestamente dire di aver raggiunto lo scopo” (Suss, p. 262 [1024]). Di questo punto molti si sono giustamente sbizzarriti a cogliere ed illustrare le aporie: ad esempio il Lönnrot di Borges cade nelle mani del suo acerrimo nemico proprio grazie alla perfezione del suo ragionamento di cui aveva tenuto conto Red Scharlach, tessendo una tela per condurre nelle sue mani il detective dilettante61. Il Matthäi di Dürrenmatt impazzisce e sta ad attendere un assassino proprio perché la logica lo imponeva – ed era effettivamente così, tutto sarebbe filato liscio, se non fosse intervenuto un piccolo incidente, peraltro supponibile a posteriore, ad incrinare il quadro62.

In questo senso, a voler essere rigorosi, questi due esemplari si richiamano più a molti detectives della Golden Age che non a Holmes, dal momento che questi è consapevole dei possibili “fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco”63. Egli batte la pista sinché è calda, pensa alle possibili eventualità occorse – ed anzi, cerca di immaginare quello che non sa ancorandolo a quel che sa. Ed innanzi ad una sconfitta suppone che qualcosa sia andato storto nella sua teoria ed il lavoro ricomincia da capo. Perché? Perché sa bene (non ipotizza, ma sa) che ciò può accadere. È ovvio che Holmes si attenda che tutto proceda secondo la teoria che ha formulato, ma è altrettanto in grado di ripercorre il cammino nel caso che non si verifichi ciò che aveva ipotizzato.

§ II. L’interesse di Holmes verso la filosofia.Stando al celebre elenco e ad un appunto di Watson in Uno studio in rosso, l’interesse di Holmes

per la filosofia doveva essere più o meno quello di Nero Wolfe: “solo i filosofi e gli sciocchi perdono tempo con l’incognito. Ed io non sono né l’uno né l’altro”64.

Le sue cognizioni erano nulle. Watson riferisce stupito che una volta citò Thomas Carlyle e Holmes gli “chiese nel modo più ingenuo chi era e che cosa aveva fatto” (Stud, I, cap. II, p. 16 [15]). Non voglio mettere in dubbio la fedeltà del buon dottore (quantunque fossero passati ben cinque anni al momento della redazione del romanzo), ma voglio rilevare che, immediatamente dopo, viene citata la celebre ignoranza di Holmes a proposito dell’astronomia, un’ignoranza che è in pari tempo indifferenza65, e viene da chiedersi come possa un simile individuo discutere in altra occasione sulle “ragioni del mutamento nell’inclinazione obliqua dell’eclittica” (Gree, p. 153 [399]). Di più: come può un individuo che non sa nulla di letteratura citare a memoria ed in lingua originale Goethe66 e Flaubert (Redh, 270 [140]), e leggere Petrarca (Bosc, 293 [164]), e tutto questo in avventure pubblicate precedentemente a Five, ove la celebre lista del secondo capitolo di Stud viene ricordata (Five, p. 318 [182])?

Proprio a proposito della filosofia e di Carlyle, Holmes smentisce la propria ignoranza in Sign:

“«come ci sentiamo piccoli, con tutte le nostre ambizioni e i nostri sforzi meschini, di fronte alle grandi forze elementari della natura! A che punto è la lettura del suo Jean Paul Richter?»«Non c’è male. Sono risalito a lui attraverso Carlyle.»«Infatti: è come seguire il corso di un ruscello sino al lago donde scaturisce. Fa un’osservazione curiosa ma profonda, cioè che la maggior prova della vera grandezza dell’uomo consiste nella percezione della propria piccolezza. Questo

61 Cfr. J. L. BORGES, La morte e la bussola, in IDEM, Finzioni, a cura di F. Lucentini, Einaudi, Torino 19985, pp. 119–133.

62 Cfr. F. DÜRRENMATT, La promessa. Un requiem per il romanzo giallo, in IDEM, Un requiem per il romanzo giallo, trad. di S. Daniele, Einaudi, Torino 1991, pp. 1–153.

63 Ivi, p. 10. “Noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari” (ibidem).

64 R. STOUT, Quella bomba di Nero Wolfe, trad. di L. Grimaldi, Il Giallo Mondadori n. 1331, Milano 1974, p. 4.65 “Lei dice che noi giriamo attorno al sole. Se girassimo attorno alla luna non cambierebbe nulla per me o per il mio

lavoro” (ivi, p. 17 [15]).66 Nel Segno dei quattro viene citato per ben due volte (Sign, cap. VI, p. 56 [83]; cap. XII, p. 139 [113]) dicendo che è

sempre conciso (p. 56) e dimostrando così una sua lettura diretta.

11

Page 12: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

implica, mi sembra, un potere di confronto e di valutazione che è in se stesso una prova di nobiltà. Richter offre alla mente un vasto pascolo intellettuale»” (Sign, cap. VII, p. 68 [87]).

A quanto pare, Holmes non ignorava affatto chi fosse Carlyle, e da queste parole dimostra anzi di conoscerlo molto bene, altrettanto quanto Jean Paul (non si comprenderebbe altrimenti il paragone del ruscello e del lago). Peraltro, nonostante l’assenza di citazioni dirette di filosofi e correnti di pensiero, il nostro detective si dev’essere continuamente interessato di filosofia: non è possibile che un uomo così preciso e puntiglioso, con la cartesiana “passione delle cognizioni complete ed esatte [definite and exact knowledge]” (Stud, I, cap. I, p. 9 [12]), e per di più in completa rottura rispetto al modo usuale di indagare, non si sia mai posto determinate domande, peraltro direttamente legate alle metodologie ed ai criteri adottati durante le indagini. È assurdo credere che un uomo fermamente convinto che “nulla è più ingannevole [deceptive] di un fatto ovvio” (Bosc, p. 290 [161]) perché nulla vi è di “più innaturale” (Iden, p. 271 [147]), li ritenesse ovvi e non bisognosi di giustificazione: infatti, come altri hanno rilevato, Holmes è “più interessato al suo metodo che al particolare soggetto o campo a cui è applicato”67. Peraltro, egli stesso ammette che durante i suoi due anni di università “ho sempre avuto la passione di chiudermi in camera mia a rimuginare e ad elaborare i miei metodi di ragionamento” (Glor, pp. 67–68 [342]), e difficilmente poteva compierlo abbandonandosi solo a se stesso privo di riferimenti o di ‘guide’, non tanto perché non vi fosse capace ma perché una personalità curiosa come il nostro detective doveva sentirsi spinta a cercare verifiche e posizioni diverse in quei metodi da parte di altri suoi colleghi pensatori68.

E l’abitudine fortemente amletica a commentare e ad osservare la vita ed i suoi accidenti ne fanno un attento scrutatore che non si limita, ad esempio, a citare direttamente versi dei poeti in determinate occasioni, ma molte volte li richiama e talora in decisa opposizione al contenuto espressovi. Prendiamo ad esempio la celebre conclusione di Card, nella quale Rehder nota che Holmes “giunge al cuore del filosofare, allo , cioè a meravigliarsi del significato delle cose”69: “a che serve questo circolo vizioso di dolore, di violenza, di paura? Deve avere uno scopo, altrimenti il nostro universo è governato dal caso, il che è impensabile. Ma quale fine? Questo è l’immenso, sempiterno interrogativo al quale la mente umana è ancora lontanissima dal poter dare una risposta!” (Card, p. 57 [319]). Ebbene, questo passo richiama direttamente le celebri parole di Mefistofele:

Was soll uns denn das ewge Shaffen? questo perpetuo creare, allora, perché?Geschaffenes zu Nichts hinwegzuraffen? Per travolgere nel nulla quel che è stato creato?«Da ists vorbei!» Was ist daran zu lesen? «È passato!» Come dobbiamo intenderla,Es ist so gut als wär es nicht gewesen, questa parola? È come non fosse mai statoUnd treibt sich doch im Kreis, als wenn es wäre! eppure s’agita in cerchio, come esistesse.Ich liebte mir dafür das Ewigleere. Preferirei, fossi io, il vuoto eterno70.

Questo è un esempio di citazione nascosta, o di rievocazione, e non a caso di versi di Goethe. Viene da chiedersi, ad esempio, se quando Holmes afferma che “la vita non è forse tutta patetica e inutile? […] Raggiungiamo qualcosa, l’afferriamo. E alla fine, cosa ci resta in mano? Un’ombra. O peggio che un’ombra – l’infelicità” (Reti, p. 369 [1095]), che non vi siano in queste parole tracce di letture dirette di Schopenhauer o del nostro Leopardi.

67 T. A. SEBEOK e J. UMIKER–SEBEOK, “Voi conoscete il mio metodo”: un confronto fra Charles S. Peirce e Sherlock Holmes, cit., p. 57, nota 24.

68 Alla filosofia si dedicherà in vecchiaia secondo la testimonianza di Watson (cfr. la prefazione di Watson alla raccolta His Last Bow, in Tutto Sherlock Holmes, cit., vol. IV, p. 11), forse in relazione ai fondamenti teorici per il manuale dell’arte dell’investigazione (Abbe, p. 234 [281]. È nondimeno certo che Holmes non riducesse la filosofia a vuoti formalismi od a cliché deprimenti, come fa Poirot con la teologia che riduce a domande del tipo “quanti angeli potevano danzare sulla punta di un ago” (A. CHRISTIE, Poirot e la strage degli innocenti, cit., p. 17).

69 W. REHDER, Sherlock Holmes, detective filosofo, cit., pp. 266–267. Com’è noto, la ‘meraviglia’ come origine del filosofare è stata tematizzata da Platone e da Aristotele.

70 J. W. VON GOETHE, Faust, a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 199710, II, vv. 11598–11603, p. 1019.

12

Page 13: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

La cultura tedesca comunque è fortemente presente nel detective di Baker Street e non solo con Goethe e Jean Paul, in quanto egli mostra di comprendere il Tedesco, afferma d’avere lavorato a lungo in Germania (Last, p. 171 [965]) e di preferire la musica tedesca a quella francese ed italiana perché introspettiva (Redh, p. 261 [140])71. Se consideriamo alcuni interessi in contrasto con l’immagine falsa e semplificata propagandata da molti prodotti cinematografici, quale ad esempio l’interesse per il Medio Evo, ne esce un Holmes assai lontano da taluni dogmi positivisti e molto più vicino a spunti derivati dalle varie forme che aveva preso il Romanticismo agli inizi del secolo. È ad esempio lontano dalla glorificazione dello spirito commerciale e da altri aspetti che, pur non rientrando nei maggiori esponenti del positivismo, rientravano nella mentalità positivista72. Il nostro detective è una personalità estremamente complessa e tormentata, ed indubbie sono una serie di letture e di riflessioni derivate dal Romanticismo inglese e tedesco, come pure dall’Illuminismo francese, sì che il discorso si presenta assai complesso dal momento che di Holmes possiamo vedere i procedimenti in atto ed alcune riflessioni – ma non possediamo veri e propri elementi per ricostruire un quadro completo del suo pensiero. Perciò considererò gli aspetti filosofi, non pretendendo d’inquadrarlo in categorie artefatte o di riferire quel che io suppongo che pensasse.

È nondimeno auspicabile gettare una breve occhiata all’ambiente in cui si trovava, all’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento, nella quale non regnava solamente il positivismo, ma anche molte correnti debitrici allo spirito romantico degli inizi del secolo ed in particolare a Coleridge, punto di riferimento non solo per i Romantici della cosiddetta ‘seconda generazione’ (i più celebri dei quali, per intenderci, furono Keats, Shelley e Byron) ma anche per filosofi come Thomas Hill Green che pubblicò nel 1865 una Spiritual philosophy in cui si richiamava organicamente al rapsodico pensiero del grande poeta. Coleridge aveva portato in Inghilterra la prima filosofia classica tedesca, Fichte ma soprattutto Schelling (di quest’ultimo aveva tradotto parti di alcune opere spacciandole per proprie), mentre personalità come Carlyle e, in America, Emerson ed il sommo Hermann Melville si erano a loro volta richiamati a tali origini tedesche reinterpretandole in modo originale, intendendo il mondo non come una collezione di fatti, ma come la diretta manifestazione della divinità, suo habitus, ed il visibile quale simbolo ed emblema dell’invisibile.

Nondimeno permane nel tessuto della cultura inglese una certa tendenza empirista derivante sia dai grandi filosofi dell’autunno del Medio Evo (la scuola francescana prima con Roger Bacon e poi con Ockham e gli Ockhamisti) sia da Francis Bacon, Locke, Hume e dal grande sviluppo della scienza seguito a Newton: “della mente inglese è dato osservare che nacque aristotelica”, osservava Borges, “il reale, per quella mente, non sono i concetti astratti, ma gli individui; non l’usignuolo generico, ma gli usignoli concreti”73. Nel secolo precedente, anche Hegel aveva parlato di Francis Bacon come del simbolo “del filosofare esteriore, sensibile” tipico degli Inglesi74. Questa attenzione a ciò che è direttamente esperibile (attenzione assai lodevole75) si manifesta in varie forme e rimane sullo sfondo emergendo in espressioni verbali od in atteggiamenti facilmente degenerati a cliché:

71 Ed infatti va ad ascoltare Wagner (Redc, p. 75 [813]) e Les Huguenots di Mayerbeer (Houn, cap. XV, p. 273 [119]) ed esegue per Watson al violino i Lieder di Mendelssohn (Stud, I, cap. II, p. 18 [16]), i Lieder vocali od i Lieder ohne Worte, trascritti per violino da Joseph Joachim (S. GUERRA, E. SOLITO, I diciassette scalini. Enciclopedia di Sherlock Holmes, pres. di M. Polidoro, La bottega delle meraviglie, Roma 1998, p. 90).

72 Egli anzi attacca lo spirito commerciale incarnato in Neil Gibson con parole la cui attualità è sorprendente: “voi ricchi dovreste imparare che non potete comperare tutto il mondo perché condoni le vostre malefatte” (Thor, p. 290 [987]). Durante il colloquio Holmes mantiene un atteggiamento turbato e sarcastico e si occupa del caso solo per aiutare la signorina Grace Dunbar.

73 J. L. BORGES, L’usignuolo di Keats, in IDEM, Altre inquisizioni, a cura di F. Tentori Montalto, Feltrinellii, Milano 199715, p. 122.

74 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 19922, vol. III, II, p. 35.

75 Proprio in relazione a quest’aspetto, Hegel riconosceva a Bacon il grande merito, “almeno di fronte alla cultura”, di essersi in tal modo contrapposto “alla superstizione deserta di pensiero, che presso i popoli germanici sorpassava di molto in assurdità paurosa quella dei popoli antichi, […] che trasforma in causa un’essenza immaginata (un al di là, che dovrebbe esistere magari in maniera sensibile e agire come causa), oppure fa che agiscano l’una sull’altra due cose sensibili che non hanno tra loro nessunissima relazione” (ivi, pp. 32–33).

13

Page 14: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

basti pensare, ad esempio, che anche il signor Pickwick si definiva “un osservatore della natura umana”76.

Lo scalpore ottenuto da Darwin – che Holmes cita mostrandosi implicitamente d’accordo con la teoria evoluzionista (Cfr. Stud, I, cap. V, p. 49 [ 26–27]) – aveva accresciuto una serie di diatribe e di scontri scienza/religione, ed è in riferimento a questi, già nell’aria prima di Darwin, che si era inizialmente diffuso l’interesse per l’idealismo tedesco che si opponeva in unum sia alla visione positivistica del mondo sia alla gretta religione tradizionale che permaneva in qualsiasi istituzione scolastica77. Tale ripresa dell’idealismo che si ha con Green, Stirling ma soprattutto Bradley, va ad incastrarsi col fecondo terreno della cultura britannica, dando vita a riflessioni estremamente arcuate e legate ad un concetto fondamentale: la relazione. Già Green aveva obiettato alla visione positivistica del mondo che in realtà non esistono fatti irrelati, ma essi sono da sempre in intrinseca e costitutiva relazione con l’altro: non esiste alcun fatto in sé, ma ogni cosa è ciò che è solo in virtù della relazione che la costituisce. Al di là di taluni rivestimenti misticheggianti, l’argomentazione coglieva un punto basilare: chiunque creda ai fatti isolati e separati smentisce se stesso, dal momento che egli stesso li pone in rapporto fra di loro, ed in una relazione intrinseca senza la quale essi non sarebbero. Nella natura sussiste un vicendevole ed innegabile determinarsi di ogni singolo fattore col (e nel) suo ambiente, con ogni altro fattore ivi presente, che concorre a costituirlo, in una relazione che solo superficialmente si può negare, ma che costituisce la loro vita. C’è un passo di Ernst Bloch particolarmente adatto a comprendere questo: “anche per il pensatore dialettico, che è andato alla scuola di Hegel, è ovvio che bisogna partire dai fatti, non per fermarsi ad essi, però, come puri e semplici contenuti sensibili, e neppure per addizionarli all’infinito, senza avere la capacità di scoprire la connessione che li tiene insieme, connessione che per l’appunto non è un fatto, e neppure la descrizione di esso, bensì quel che sorge solo da quella funzione del pensiero che si chiama conoscenza dei fatti”, perciò i “fatti non sono essi stessi se non le creste delle onde che scorrono sulla superficie sensibile di un mare di connessioni dialettiche”78.

È sull’aspetto della relazione che si svilupperà l’intensa riflessione di Bradley, per la cui complessità non possiamo qui seguire. Nel 1865 egli era entrato ad Oxford come studente e nel 1870 come Fellow al Merton College, tanto disponibile ed attento agli studenti quanto intelligente e pronto sopra ogni cosa a “stimolare la ricerca e il dubbio”79, ritenendo “che ciò di cui la filosofia inglese ha principalmente bisogno sia uno studio scettico dei primi principi”, ossia “lo sforzo di acquistare consapevolezza e di dubitare di tutti i pregiudizi”80. Queste parole furono scritte nel 1892, ma costituivano una costante consapevolezza di Bradley, ed è bello immaginarsi il nostro detective – probabilmente studente ad Oxford81 – intento a riflettere ed a dialogare con una simile personalità. Come si vedrà dal resto del lavoro, è più che supponibile – nell’immaginaria biografia di Holmes – che non solo egli abbia studiato ad Oxford, ma che anzi sia stato grande amico di Bradley. Ma in fondo, detectives e filosofi non hanno la medesima natura? Non sono entrambi

76 C. DICKENS, Il Circolo Pickwick, trad. di F. Ballini, intr. di G. K. Chesterton, postf. di P. Hobsbaum, Mondadori, Milano 19982, cap. II, p. 27.

77 Così scriveva Bradley nel 1892: “la nostra teologia ortodossa da una parte e il nostro trito materialismo dall’altra (è naturale qui assumerli come esempi tipici) dileguano come fantasmi davanti alla luce di una libera, scettica indagine” (F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, a cura di D. Sacchi, Rusconi, Milano 1984, Intr., p. 143). La religione fungeva ancora da forte spartiacque: basti ricordare che per entrare ad Oxford ed a Cambridge era necessaria una professione di fede anglicana all’atto dell’iscrizione o dell’insediamento, venendo al contempo richiesto il celibato sino a che Gladstone procedette nel 1871 ad aprirle anche ai non anglicani sopprimendo le prove confessionali, e nel 1877 ad abolire l’obbligo del celibato (Cfr. D. SACCHI, Introduzione a F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, cit., pp. 7–8). Nel 1870 il Merton era l’unico College di Oxford diretto da un laico, “ma dei ventitré fellows, risiedenti insieme con cinquanta–sessanta studenti entro edifici costruiti fra il secolo XIV e l’inizio del XVII (non si dimentichi che il Merton era stato nel Trecento il College di Thomas Brawardine, l’iniziatore di studi logico–matematici che furono denominati in seguito calculationes), nove erano ecclesiastici” (ivi, p. 8).

78 E. BLOCH, Soggetto–Oggetto. Commento a Hegel, cit., p. 113.79 F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, cit., Pref., p. 125. Così definisce lo scopo del suo libro.80 Ivi, p. 126.81 Particolare che non è certo ma estremamente probabile (Cfr. S. GUERRA, E. SOLITO, I diciassette scalini.

Enciclopedia di Sherlock Holmes, cit., pp. 113 – 114).

14

Page 15: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

emblemi di un medesimo processo di ricerca razionale, volto a decifrare da una parte enigmi empirici e dall’altra quelli della ragione stessa? Tom Anderson, il dotto ubriacone di Wrightsville, aveva definito Ellery Queen “uno di quegli uomini che hanno l’istinto di cercare la verità”82. Holmes non è affatto diverso in tutte le sue imprese. E proprio quell’istinto lo porta ad opporsi alle cosiddette ‘prove schiaccianti’: “il mio istinto mi conduce da una parte ma i fatti sono tutti dall’altra” (Norw, p. 40 [143]). In questo senso i resoconti delle sue imprese si mostrano anch’essi “austeri passatempi” che “divertono l’intelligenza senza affaticarla” (Vall, I, cap. I, p. 7 [842]), ossia esercizi estremamente utili a farla uscire da quella ‘minorità intellettuale’ in cui si trova quando si sottomette all’ovvio ed all’evidenza fallace.

§ III. “Non mi riesce di vivere senza far funzionare il cervello” (Sign, cap. I, p. 12 [67]).Se Hegel fosse vissuto più tardi, avrebbe senza dubbio giudicato Holmes un uomo ricco di

spirito che, al pari di Montesquieu e Voltaire, “raccogliendo in unità ciò che l’intelletto separa” dà vita ad “una forma geniale di razionalità; poiché la razionalità ha come determinazione essenziale precisamente questo raccogliere in unità”83. Certo, non si trova traccia in Holmes della grande consapevolezza dialettica dell’assolutezza del pensiero, quantunque egli affermi che “non dovrebbe esserci nessuna combinazione di eventi a cui l’ingegno di un uomo non sappia dare una spiegazione” (Vall, I, cap. VI, p. 70 [882])84 ed Umberto Eco ravvisi in lui un esponente tardivo del razionalismo secentesco85. Nondimeno egli pone la ragione “sopra ogni altra cosa al mondo” (Sign, cap. XII, p. 139 [113]) e non è certo cosa da poco, tanto da ritrovarsi come esigenza assoluta e condizione sine qua non di un’effettiva criticità, volta non solo verso l’esistente ma anzitutto verso se stessi, ossia contro qualsiasi presupposto e qualsiasi pensiero che si dia per scontato e troppo frettolosamente conduca ad ingiustificate conclusioni86.

Non è cosa da poco anche in relazione ad aspetti ignobili ma sin troppo diffusi ancor oggi. Qualcuno ha ritenuto di trovare traccia di razzismo nel nostro detective87 ma come altri giustamente hanno fatto notare88, in realtà questo è un elemento completamente assente – anzi, un elemento contro cui Holmes e Watson si battono. Forse nessun commento è migliore di quello del detective a proposito del Ku Klux Klan: “mi passi il violino e cerchiamo di dimenticare per mezz’ora questo tempo deprimente e l’ancor più deprimente [the still more miserable] comportamento dei nostri simili” (Five, p. 321 [183]). Un uomo che anzitutto riflette – e stricto sensu – non può certo arrestarsi a futili rappresentazioni completamente ingiustificate. Anche questo è un aspetto costitutivo di chi non riconosce l’intrinsecità della relazione ad ogni realtà: infatti qualsiasi forma di razzismo si sostiene sulla presunta ed illusoria separatezza di un gruppo rispetto ad un altro e sulle caratteristiche fisiche e pregiudiziali che egli attribuisce ai due gruppi. In tal senso gli esponenti di simili modi di vedere si comportano come i poliziotti ottusi che non scorgono i nessi di ciò che vedono e si arrestano a due o tre aspetti senza procedere ad ulteriori riflessioni: vittime di determinati presupposti, diventano carnefici per mancanza di raziocinio e non a caso inseriscono i

82 E. QUEEN, Il rovescio della medaglia, trad. di E. Hirschhorn, Garzanti, Milano 1964, p. 17.83 G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio con le Aggiunte a cura di L. von Henning, K.

L. Michelet e L. Baumann, vol. III, Filosofia dello spirito, a cura di A Bosi, Utet, Torino 2000, § 394, Aggiunta, p. 133.84 Asserzione estremamente simile a quella di Ahab: “il più piccolo atomo non si muove o vive nella materia, senza

avere un minuzioso riflesso nella mente umana” (E. MELVILLE, Moby Dick o la balena, trad. di C. Minoli, rev. e note di M. Bacigalupo, intr. di F. Pivano, Mondadori, Milano 199912, cap. LXX, p. 383)!

85 “Passare da un’abduzione creativa alla meta–abduzione è tipico di una mente razionalistica, nello stile del razionalismo del XVII e XVIII secolo. Per ragionare come Holmes bisogna essere fortemente convinti che ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum (Spinoza, Ethica, II, 7) e che la validità di un concetto complesso consiste nella possibilità di analizzarlo nelle sue parti più semplici, ognuna delle quali deve apparire razionalmente possibile: un lavoro di libera configurazione di concetti che Leibniz chiamava “intuizione” (Nouveaux essais sur l’entendement humain IV, 1, 1)” (U. ECO, Corna, zoccoli, scarpe. Alcune ipotesi su tre tipi di abduzione, cit., pp. 258–259).

86 Cfr. Nava, p. 182 [419]: “«sospetta di qualcuno?» «Sospetto di me stesso.» «Come?» «Di giungere troppo rapidamente alle conclusioni»”.

87 E precisamente M. TRUZZI in Sherlock Holmes: Psicologo sociale applicato, in AA. VV., Il segno dei tre, cit., p. 92.88 S. GUERRA, E. SOLITO, I diciassette scalini. Enciclopedia di Sherlock Holmes, cit., p. 103.

15

Page 16: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

due o tre ‘fatti’ notati all’interno di rapporti estrinseci di chiara forma gerarchica e di totale invenzione.

Holmes concorda invece implicitamente con Bradley quando questi afferma che “per il pensiero ciò che non è relativo è nulla”89: il pensiero pensa sempre relazioni, non cose isolate, e l’isolamento, la separatezza, è solo apparentemente tale. Infatti ciò che Holmes si prefigge in un’indagine consiste proprio nello scovare le segrete relazione che hanno dato origine ad un particolare evento, dipanare il filo rosso del delitto dalla matassa ingarbugliata della vita ma tenendo presenti quanti più particolari possibili. A tre studenti che non erano riusciti a portare a termine un’indagine, Ellery Queen spiega: “avete sbagliato per il semplice motivo che ciascuno di voi ha seguito un’unica linea di attacco, un unico indizio, e da qui ha costruito il suo ragionamento, ignorando completamente gli altri elementi del problema”90, mentre “tutto deve inserirsi nella soluzione di un caso”91 – anche come aspetto critico che impedisca di costruire teorie troppo unilaterali. Athelney Jones che sbotta: “i fatti valgon sempre meglio delle teorie, dopo tutto! La mia opinione sul caso è confermata” (Sign, cap. VI, p. 54 [82]), è infatti uno dei maggiori costruttori di teorie – e delle teorie peggiori in assoluto proprio perché non ne è consapevole e lascia correre la sua rozza immaginazione, come un medico che, incapace di una vera diagnosi, consigliasse come cura la prima cosa che gli venisse in mente sulla base delle proprie impressioni. Come scriveva Hegel, egli diviene un alleato del peggior dogmatismo aprioristico: “tutti gli eroi dell’esperienza” che “mediante osservazioni, ricerche ed esperimenti credettero d’ottenere la cosa stessa in tutta la sua purezza, non poterono farlo senza ricorrere a deduzioni e a concetti; e i loro concetti e le loro deduzioni furono tanto peggiori, quanto più essi credevano di non avere che fare con concetti”92. È assente qualsiasi consapevolezza critica mentre Holmes, fortemente consapevole di tali problemi, proprio per questo non viene irretito nella pregiudizievole rete che ottenebra i lenti neuroni di Jones. In generale, i detectives ottusi si fermano a due o tre fatti, polemizzano con Mr. Theorist Holmes e non si accorgono che, così facendo, li forzano in relazioni arbitrarie ed inventate. La loro considerazione dei fatti, come pure questi fatti stessi divengono un’opera puramente immaginaria, una costruzione debole che causa solamente disastri sia nella mancata ricostruzione dell’evento sia nelle conclusioni pratiche che portano all’arresto (quando non alla morte) di un innocente: “l’astrazione, quasi a forza, di un particolare aspetto della realtà dai rimanenti e la restrinzione della nostra attenzione a questo solo aspetto sono una finzione che, dimentica di se stessa, prende per realtà solida quello che è semplicemente una fantasma”93.

E forse nessun passo è più rivelativo del seguente nel riportare la chiara consapevolezza di Holmes a tal proposito:

“il ragionatore ideale […] una volta che gli viene mostrato un singolo fatto con tutte le sue implicazioni, ne dedurrebbe non solamente la catena di eventi che ad esso ha condotto ma anche tutti i risultati che ad essi seguono. Come Cuvier poteva descrivere esattamente un animale osservandone un singolo osso, così un osservatore che ha afferrato pienamente un anello in una serie di incidenti dovrebbe essere in grado di indicarne con precisione tutti gli altri, sia precedenti che successivi. Non abbiamo ancora afferrato quali risultati possa raggiungere il solo ragionamento. Esso ci permette, studiandoli, di risolvere problemi che hanno frustrato tutti coloro che hanno cercato una soluzione mediante l’aiuto dei propri sensi. Ma per raggiungere l’acme di quest’arte è necessario che il ragionatore sia in grado di mettere a profitto tutti i fatti di cui è venuto a conoscenza; e questo, come vedrà subito, comporta di per sé il possesso di tutto lo scibile il che, anche in questi tempi di istruzione libera e di enciclopedie, è una cosa piuttosto rara. Non è impossibile, però, che un uomo possieda tutte le cognizioni che possono essergli utili per il suo lavoro, ed è quello che ho cercato di fare io” (Five, p. 318 [181–182]).

In questo brano – ove si parla di un ideal reasoner, dell’ideale cui ispirarsi ma che effettivamente (proprio perché ideale) non può mai tradursi nella realtà, mancando in questa la possibilità di raccogliere tutti gli elementi di un dato evento – Holmes precisa il senso del

89 F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, cit., III, p. 168.90 E. QUEEN, L’avventura del viaggiatore africano, in IDEM, Sfida al lettore, cit., p. 236.91 Ivi, p. 237.92 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. III, II, pp. 26–27.93 F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, cit., I, pp. 154–145.

16

Page 17: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

raccogliere il molteplice in unità come rinvenimento delle relazioni che li costituiscono, delle implicazioni che permettono di ricostruire un quadro completo. Allenata a riconoscere ed a supporre alcune relazioni, la mente di Holmes passa immediatamente a verificare se si rinvengano nel caso in esame, non tralasciando alcun dettaglio dandolo per scontato o ritenendolo aprioristicamente irrilevante. Perché quest’attenzione? La risposta è già stata data, ma si può qui cercare di articolarla nella sua complessità: “la natura essenziale del finito consiste in ciò che, ovunque esso si presenti, la sua determinazione qualitativa oltrepassa i limiti della sua esistenza”94, nel senso che esso ‘vive’ o sussiste solo perché si riconosce la molteplicità delle relazioni che lo legano al suo contesto.

Un fatto in sé non significa assolutamente nulla ed è una pura astrazione, ma ha significato solo nella sua ‘storia’, e ricostruire questa storia è il fine di Holmes, fine che persegue attraverso l’analisi di altri fatti e cercando di scoprirne i sottili legami col primo. La difficoltà principale discende dunque dal problema che, lasciato a sé, ogni ‘fatto’ rimanda ad infinite relazioni immaginabili, e tutto sta a rintracciare quelle che effettivamente hanno costituito quel determinato fattore, senza inventarne altre. Queste parole di Chesterton contro gli “oscuri altari preistorici” di chi crede ai fatti95, sono acutissime, quantunque erroneamente applicate a Holmes: “i fatti come fatti nascondono la verità. Io posso essere uno sciocco – e in realtà sono un po’ squilibrato – ma non ho mai creduto a… – come si chiama il protagonista di quelle clamorose vicende? – Sherlock Holmes. Ogni particolare ci conduce a qualcosa, certo, ma quasi sempre ci conduce alla cosa sbagliata. I fatti ci conducono in tutte le direzioni, almeno a quanto mi sembra, come i mille rami di un albero. È solo la vita dell’albero che possiede un’unità e si innalza; è solo la linfa verde che zampilla, come una fontana, verso le stelle”96. Nella sua critica alle prove indiziarie Holmes non afferma nulla di diverso: esse “sembrano indicare senza dubbio una determinata cosa ma, se appena si osservano da un’altra angolazione, troviamo che indicano qualcosa di totalmente diverso” (Bosc, p. 291 [162]). Questo perché il presunto fatto viene riconosciuto per ciò che è solo attraverso determinate relazioni che gli sono intrinseche e che ne mostrano il collegamento con altri ‘fatti’ o, come dice Bradley, “l’identità di una cosa dipende dal punto di vista che si adotta riguardo ad essa”97.

Questo discorso, apparentemente vago ed astratto, è sin troppo radicato nella realtà. Viene ucciso un uomo a bastonate e si appicca il fuoco alla stanza in cui viene commesso l’omicidio. Alcuni giorni dopo viene scoperta su un muro, l’impronta di un pollice insanguinato corrispondente al principale indiziato. La polizia conclude: questo ha movente ed opportunità, l’assassinio è stato perpetrato col suo bastone e questa è la prova definitiva. Il caso è chiuso. Tutti avranno riconosciuto in queste parole la trama di Norw. Arriva Holmes e, con gran disdegno di Lestrade, afferma: no, il caso è aperto; poi chiede al ‘pratico’ ispettore se l’impronta c’era già il giorno precedente e come mai la polizia non l’aveva vista. “Be’, non avevamo un motivo specifico per esaminare attentamente l’anticamera” (Norw, p. 46 [147]), è la risposta. Ma Mr. Theorist ‘vince’ sul practical man perché il giorno precedente aveva esaminato quella parete. In questo caso l’impronta assume due significati

94 F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, cit., XV, p. 313.95 G. K. CHESTERTON, Il club dei mestieri stravaganti, trad. di A. R. Ferrarin, intr. di R. Mussapi, Newton Compton,

Roma 1996, p. 54.96 Ivi, p. 38.97 F. H. BRADLEY, Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, cit., VIII, p. 212. È forse questa una delle possibili

ragioni dell’interesse di Holmes per il Buddhismo (Cfr. Sign, cap. X, p. 93 [96]; Empt, p. 18 [127]): nei nobili insegnamenti del Buddha – ‘Buddhismo’ è termine occidentale a designare il sanscrito Buddhadharma, che significa appunto ‘insegnamenti del Buddha’ – tutta la realtà è compresa come anattā ed anicca, ovvero insostanziale, ed impermanente: nulla è assoluto, realtà a se stante, ma tutto è in relazione con altro. Ogni cosa è cioè priva di sé, nel senso che non sussiste in sé e per sé ma ha bisogno dell’altro, e non è mai una realtà statica, compiutamente definita ed immutabile, ma continuamente diviene, è rigenerazione continua. Ma il divenire d’ogni cosa non è un divenire singolo, unico: nulla si limita a mutare senza condizionare se stesso e tutto ciò che gli è altro, ed è qui che si incontra il concetto di paticca samuppāda, della “co–produzione condizionata”, ossia del continuo condizionarsi ed interagire d’ogni cosa in sé e con gli altri. Ogni elemento, come è condizionato e determinato da ciò che gli è altro, così è in pari tempo condizionante: si tratta di una determinazione vicendevole ed incessante. Per un inquadramento generale ma speculativo degli Insegnamenti del Buddha in relazione alla filosofia occidentale ed a tematiche qui in oggetto, cfr. G. PASQUALOTTO, Illuminismo e illuminazione. La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha, Saggine, Roma 1997.

17

Page 18: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

nettamente diversi che si immettono in due percorsi teorici molto lontani: accusa definitiva nei confronti di McFarlane per Lestrade, assoluta prova d’innocenza per Holmes. Sono le relazioni a dar significato all’impronta che per sé, come fatto isolato, non significa nulla, e ciò vale sia per i due o tre altri ‘fatti’ supposti da Lestrade sia per quelli numerosi rinvenuti da Holmes. Immettendoli in essi, il pensiero costruisce una trama a partire da un quadro confuso ed inestricabile sulla base di alcuni elementi che in esso rinviene. Perciò tutto dipende dall’acutezza e dalla capacità d’osservazione ed analisi del detective.

Tale intento può essere sintetizzato da una parte nella frase di Holmes che “ciò che un uomo può inventare, un altro può scoprire” (Danc, p. 72 [164]), dall’altra nella dinamicità di questa scoperta, ossia nel fatto che si devono visualizzare in atto i vari aspetti dell’evento, nelle loro implicazioni reciproche, come illustra Ellery quando afferma che “una ruota non è tale se non può girare”, non nel senso che non sia “in grado di riconoscere una ruota come un oggetto fisico di per sé, ma semplicemente che per me essa non possiede alcun significato finché non funziona come una ruota. Ecco perché tento sempre di visualizzare un delitto in movimento”98. I cosiddetti ‘fatti’, “in riposo, immobili, separati” non significano “assolutamente nulla”, mentre nell’atto concreto, dove concludono “quei piccoli grumi di colore distanti l’uno dall’altro, come i soli infinitesimali di un universo chiuso? Si erano fusi; avevano perduto la loro qualità prismatica ed erano diventati un insieme corrusco; non più separati, ma riuniti in uno schema simmetrico in grado di raccontare l’intera storia del caso”99.

Sulla base di quanto detto, un appellativo senza dubbio adatto a Holmes è quello settecentesco di ‘philosophe’, che allora designava l’Illuminista aprendosi a più significati: scienziato, dissacratore, ma soprattutto uomo che si fa guidare dalla sua raison. Comunque l’uomo attento, i cui occhi penetrano ovunque e non si stanca mai d’indagare la realtà e di riflettere su di essa.

I legami fra Holmes e l’Illuminismo francese sono sottili ma radicati: “lo spirito filosofico”, si legge nell’Enciclopedia, è “uno spirito di osservazione e di precisione, che riporta tutto ai suoi veri principi”100, osservazione ed analisi dominano il quadro, ed è in particolare un’osservazione ed un’analisi che si volgono contro l’ovvio, soffermandosi su qualsiasi dettaglio evitando di dar qualcosa per scontato. Questa affermazione si converte automaticamente nell’esigenza di educare all’osservazione ed all’intelligenza critica – esigenza presente in uno dei maggiori scienziati settecenteschi, il grande Lazzaro Spallanzani, che in qualità di professore di Scienze Naturali all’Università di Pavia, dovendo giustificarsi innanzi al governo di Vienna che non approvava il suo metodo d’insegnamento, affermava di porre come base del proprio magistero la “difficile arte di ben osservare” inquadrandola in questo senso: “per ben disporsi nell’osservare giova sovente l’essere, diciam così tavola rasa, intorno al soggetto da esaminarsi”, ma altrettanto sono necessarie conoscenze specifiche e riflessioni critiche perché “poco ci gioverebbe l’accumulare osservazioni, se non facessimo un corpo ragionato, un corpo sistematico. Accozzeremmo materiali senza alzar mai fabbrica” e “le osservazioni sprovvedute di riflessioni quasi non meriterebbero luogo nella Storia Naturale, giacché se le riflessioni filosofiche sono l’anima della Storia generale, per egual modo lo sono di quella della Natura”101.

Ma, come scrive Diderot, “tutto quello che ci circonda può fare oggetto d’osservazione. Le cose che ci sono più familiari possono diventare fonte di meraviglia; dipende tutto dal modo di guardarle. Se è distratto, ci inganna, se è penetrante e pensoso, ci accosta alla verità”102: dipende tutto dal modo di guardarle – per i philosophes (detectives ante litteram) e per i detectives (philosophes tout court), tutto ciò che è obvium si converte automaticamente in problema, in , stante l’identica etimologia di questi due termini opposti, in Latino ed in Greco, che concernono entrambi

98 E. QUEEN, Ventimila hanno visto, cit., p. 463.99 Ivi, p. 464.100 Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alembert , a

cura di P. Casini, Laterza, Bari 1968, voce Filosofo, p. 625.101 L. SPALLANZANI, Memoria all’Imperial Ministro Kaunitz (1780), in G. MONTALENTI, Lazzaro Spallanzani. Le

origini della biologia sperimentale, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 44–45.102 D. DIDEROT, La passeggiata dello scettico, trad. di M. Brini Savorelli, Serra e Riva, Milano 1984, p. 22.

18

Page 19: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

ciò in cui ci si imbatte o ci si trova di contro nella strada che si percorre. Quale prova migliore, per il nostro discorso, di un tour de force tipicamente holmesiano che il passo celeberrimo di Zadig? Zadig, ritiratosi a studiare la natura, “acquistò ben presto una sagacia, che gli svelava mille differenze dove gli altri uomini vedono tutto uniforme”103: in tal modo non si inganna con l’approssimazione tipica del senso comune ma riesce a scorgere ciò che usualmente non viene notato e, attraverso questo, a risalire all’intero processo.

È quanto ritroviamo tradotto da Holmes nella celebre affermazione “lei vede, ma non osserva” (Scan, p. 231 [118]) o “lei vede tutto, ma non riflette su ciò che vede. Non ha il coraggio di trarne delle deduzioni [inferences]” (Blue, p. 348 [203]). L’esercizio di attenzione implica l’evitare l’ovvio, che è sempre e solo una parvenza: Holmes non smette di interrogarsi e di non dare per scontato quanto vede (e quest’atteggiamento è ormai divenuto una seconda natura), “non vuole lasciarsi sfuggire a buon mercato il carattere problematico delle cose”104 ed è sempre teso a rilevare il particolare per se stesso, nelle sue possibili implicazioni, andandolo a cercare. In lui ritroviamo distillata la definizione che del pensiero diede Platone: “il discorso che l’anima svolge fra sé e sé riguardo a ciò che prende in esame”, che “non assomiglia a nient’altro che a un dialogare, ponendo a se stessa domande e traendo da sé le risposte, affermando e negando”105.

Ma è propriamente in Diderot che troviamo espressioni che – più o meno identiche – rinveniamo più tardi in Holmes, segno di una filiazione diretta dovuta alla vena sperimentale e scettica presente in entrambi. Contro i ciechi presupposti fideisti, quali ad esempio quelli empiristi e scientisti diffusissimi fra i suoi stessi colleghi, il grande philosophe affermava che “una sola dimostrazione mi colpisce più di cinquanta fatti. Poiché nutro una estrema fiducia nella mia ragione, la mia fede non è affatto alla mercé del primo saltimbanco. […] Vuoi che divenga tuo seguace? Abbandona tutti questi giochi di prestigio e ragioniamo. Sono più sicuro del mio giudizio che dei miei occhi” 106, perché quando “la testimonianza dei sensi contraddice o non riesce a controbilanciare l’autorità della ragione, non esiste possibilità di scelta: per buona logica bisogna attenersi alla ragione”107.

Nella sua applicazione al campo della ricerca investigativa del criminale, queste convinzioni si ritrovano perfettamente identiche in Holmes. Il brillante philosophe francese ed il brillante detective inglese: entrambi personalità straordinarie, che di un’intelligenza concreta, non verbosa ed astratta, hanno saputo essere superbe incarnazioni, sovente con superba ironia. Un’intelligenza infaticabile e continuamente assetata, che vuole vedere e mettere alla prova, esecrando le battute di arresto e le opinioni pregiudizievoli, le conoscenze facili ed i pigri accomodamenti. Sappiamo dell’inesausta attività della sua mente. Forse nessuna frase può esplicitarla meglio di questa: “io sono un cervello, Watson. Il resto del mio corpo non è che una semplice appendice. Quindi, devo prendere in

103 VOLTAIRE, Zadig, in IDEM, Romanzi e racconti, trad. di R. Bacchelli, intr. di A. Pizzorusso, Mondadori, Milano 1990, p. 53. Si può supporre che il nome Sherlock sia una sorta di omaggio a Voltaire, dal momento che uno dei suoi ultimi racconti filosofici, scritto nel 1774 e pubblicato a Ginevra l’anno successivo, porta il titolo di Storia di Jennì ovvero L’ateo e il savio, ed il grande philosophe lo immagina narrato da un certo Monsieur Sherloc (Thomas Sherlock (1678–1761), decano di Chichester e poi vescovo di Londra, celebre e ferreo sostenitore della tolleranza). È altresì curioso che nella letteratura illuministica ricorra anche il cognome Holmes, nella Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono di Diderot, con un tale Gervase Holmes, rettore di Frieslingfield, Fellow all’Emmanuel College di Cambridge, che conversa col cieco Saunderson (ma a leggere il testo, ritengo che non si tratti di un antenato del nostro detective). Tornando a Voltaire, si potrebbe supporre che l’ottocentesco Sherlock vanti fra i suoi antenati francesi non solo Vernet, ma eziandio questo sommo philosophe, stante lo spirito d’inchiesta che egli manifestò in più occasioni, ad esempio nel terribile affair Calas, nel quale l’ugonotto Jean Calas venne condannato a tortura e morte sotto la falsa accusa d’avere ucciso un figlio deciso a convertirsi al cattolicesimo. Nei primi capitoli del Trattato sulla tolleranza, Voltaire riporta l’indagine e la demolisce punto per punto, con un tale modo di procedere e di argomentare, con quella sua ineffabile ironia, che fa andare la memoria al suo probabile discendente inglese.

104 F. W. NIETZSCHE, La gaia scienza, in IDEM, La gaia scienza e Idilli di Messina, trad. di F. Masini, nota intr, di G. Colli, Adelphi, Milano 199510, V, § 375, p. 311.

105 PLATONE, Teeteto o Sulla Scienza, trad. di L. Antonelli, intr. di S. Natoli, saggio critico di D. Spanio, Feltrinelli, Milano 1994, 189 e 6–190 a 1, p. 171. Cfr. anche PLATONE, Il Sofista, a cura di M. Vitali, Bompiani, Milano 19962, 263 e 4, 264 a 8–10, p. 149.

106 D. DIDEROT, Pensieri filosofici, in IDEM, Opere filosofiche, a cura di P. Rossi, Feltrinelli, Milano 1967, n. L, p. 42.107 Ivi, n. LII, p. 43.

19

Page 20: Mr. Sherlock Holmes, the philosopher

considerazione il cervello” (Maza, p. 222 [970]). E “per che cos’altro vale la pena di vivere, del resto?” (Sign, cap. II, p. 12 [67]). Il motto platonico è lo stesso di Holmes: “là dove il ragionamento come un soffio di vento ci porta, ivi bisogna andare”108.

Almeno uno degli elementi con cui Holmes viene usualmente identificato è esatto: la lente. Egli va alla ricerca delle minuzie, dei particolari, diffidando di qualsiasi impressione immediata. La lente, amplificatrice dell’occhio, lo aguzza e lo rende più accorto. Ma essa non basta, come attesta Il costruttore di Norwood: è in primo luogo necessario pensare senza sosta, continuamente, senza mai smettere. Una delle più belle illustrazioni di Sidney Paget ritrae entrambi gli aspetti: mostra Holmes disteso sul terreno intento ad esaminare l’erba. Nell’edizione dello “Strand”, viene riportata la frase del testo: “for a long time he remained there” (Bosc, p. 300 [169]).

In questo disegno sono presenti le due anime ereditate da Dupin: “il tranquillo pensatore, l’uomo dalla logica stringente, di Baker Street” ed il detective sul campo, col “viso imporporato da un cupo rossore, le sopracciglia aggrottate in due scure linee diritte, sotto cui gli occhi brillavano con un bagliore d’acciaio, il volto chinato in avanti, le spalle curve, le labbra compresse e le vene che si gonfiavano come corde sul collo lungo e muscoloso” (Bosc, p. 299 [168]).

Forse nessun elogio è più adatto per un encomio a Holmes di quello che Borges redasse per Valéry: “Paul Valéry ci lascia, morendo, il simbolo di un uomo infinitamente sensibile a ogni fatto e per il quale ogni fatto è uno stimolo che può suscitare un’infinita serie di pensieri. Di un uomo che trascende le caratteristiche differenziali dell’io e di cui possiamo dire, come William Hazlitt di Shakespeare, He is nothing in himself. Di un uomo i cui mirabili testi non esauriscono, e neppure definiscono, le sue multiformi capacità. Di un uomo che, in un secolo che adora i caotici idoli del sangue, della terra e della passione, preferì sempre i lucidi piaceri del pensiero e le segrete avventure dell’ordine”109.

108 PLATONE, La repubblica, trad. di F. Gabrieli, intr. di F. Adorno, Rizzoli, Milano 199610, III, 394 d 8–9, p. 90.109 J. L. BORGES, Valéry come simbolo, in IDEM, Altre inquisizioni, cit., p. 80.

20