network in progress #13

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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #13 Marzo/Aprile2013

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Paesaggio. Città. Architettura. Rivista bimestrale di paesaggio, architettura e cultura contemporanea.

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Page 1: Network in Progress #13

Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #13 Marzo/Aprile2013

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Casa Editrice: ETS, P.za Carrara 16/19, PisaLegale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini

Network in ProgressIscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisan° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”

ISSN 2281-1176

[email protected]

Editing and graphics:Valerio Massaro

Enrico Falqui_ [email protected]

Direttore Responsabile

Stella [email protected]

Direttore Editoriale

Valerio [email protected]

Direttore Creativo

Francesca Calamita_ [email protected]

Responsabile eventi, attività culturali e tirocini

Silvia Ruzziconi_ [email protected]

Responsabile marketing e pubblicità

Paola Pavoni_ [email protected]

Responsabile network culturale

Vanessa Lastrucci_ [email protected]

Responsabile Social Networks

Page 3: Network in Progress #13

Editoriale

Due mesi sono passati, il tempo è volato, dall’u-

scita dell’ultimo numero della nostra rivista.

In questo tempo però molte cose sono cambia-

te nel nostro Magazine, un vento di novità e freschez-za ci ha accolto: un nuovo sito, nuovi articoli, nuove collaborazioni ed un sacco di amici con cui condivi-dere le nostre passioni e le nostre idee, per questo vi ringraziamo e continuia-mo a ricordarvi di parteci-pare e invitare altri amici ad unirsi a noi.

Questa fresca bocca-ta d’aria per il nostro

mondo virtuale purtroppo però non è rispecchiata nella situazione del nostro paese, che non smette mai di inciampare in pozzan-ghere incontrate lungo la strada che lo inzacche-rano, lo rallentano e lo appesantiscono. Ma non è questa l’unica visione possibile, noi della reda-zione ci vogliamo far tra-scinare dal vento fresco provocato dallo scorrere delle nostre pagine, cer-cando di guardare oltre e, nel nostro piccolo, di schi-vare le pozzanghere! Le pagine del nostro editoria-le non sono certo quelle di un magazine politico, ma nella nostra società e

cultura tutto è connesso, profondamente legato. Ecco perché nel nostro blog vi stiamo suggeren-do, con sempre maggiore frequenza, eventi e sugge-stioni che invitano al cam-biamento, ad un nuovo modo di pensare il futuro.

Il numero appena uscito è ricco di spunti positi-

vi, a partire dalla rubrica Architettura che ci pia-ce. Anche se siamo soliti alternare l’Architettura che ci piace a quella che non ci piace, questa volta la nostra scelta editoriale è ricaduta su un esempio a nostro giudizio positi-vo, come idea di apertura,

Editing and graphics:Valerio Massaro

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presentando un progetto che ci offre una fresca, in-telligente e colorata visio-ne multifunzionale per ri-generare la città.

Per lo stesso motivo, nelle nostre pagine

ospitiamo sia idee creati-ve come quelle dei giovani di Collectif etc che hanno voglia di sperimentare e di mettersi in gioco, sia inte-ressanti spunti di riflessio-ni da parte di chi possiede forti competenze, spazian-do da un luminare recen-temente andato in pen-sione come il prof. Luigi Zangheri, ad un professio-nista di chiara fama come Gianni Pettena, a Gabriele

Paolinelli, giovane paesag-gista e ricercatore presso il Dipartimento di Archi-tettura dell’Università de-gli Studi di Firenze.

Insomma spunti, idee, proposte e provocazio-

ni… Di nuovo non ci resta che augurarvi una buona lettura!

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ContentsContents #13RUBRICHE

Architettura che ci piaceSuperKilen #Multi[Città]

di Claudia Pinelli

Frames Il vuoto e la sostanza:

Breve visione sul paesaggio della Cappadociadi Giorgio Verdiani

FOCUS ONConsumo di suolo e paesaggioqualità che dipende da quantitàdi Gabriele PaolinelliINTERVISTAUn incontro con Luigi Zangheridal giardino al paesaggio, tra passato e futuroIntervista di Francesca Calamita

IL PROGETTOThe OthersEsperienze di partecipazionea cura di Collectif_Etc

CREATIVITÀ URBANANon-Profit ART Spaces a Firenzedi Gianni Pettena

LE RECENSIONI_il libro_ Apocalypse Town

Cronache dalla fine della civiltà urbanadi Vanessa Lastrucci

p7

p9

p13

p25

p39

p53

p63

Page 6: Network in Progress #13

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Architettura che ci piace/ non ci piace

Superkilen, spazio urbano pubblico nato della collaborazione creativa tra Super-

flex, Topotek 1 e Big, si estende all’interno di uno dei quartieri più etnicamente di-versi e socialmente sfidati di Copenaghen, Nørrebro. È un luogo che supporta le di-versità culturali attraverso l’esposizione di oggetti di uso quotidiano e design inno-vativi provenienti da tutto il mondo, tra cui panchine, lampioni, piante, elementi per il gioco e lo sport. Distinto in tre zone con tre colori ed atmosfere diverse (“Rosso”, in cui il colore e i materiali sono integra-ti completamente con il contesto creando

un’esperienza tridimensionale percettiva e visiva; “Nero”, che rappresenta la piaz-za, il punto di incontro, il salotto “urbano”; “Verde”, che offre uno spazio e un parco giochi arricchito con piante, erba e colli-ne) delinea un esempio creativo di unione tra architettura, architettura del paesaggio e arte. Con innovazione e creatività met-te in scena un continuum multiculturale e multifunzionale per rigenerare la città attraverso una variopinta ed intelligente coesione di oggetti, spazi, colori e funzioni per il libero uso collettivo.

foto di SuperFlex, Iwan Baanhttp://www.topotek1.de/http://www.big.dk/http://www.superflex.net

di Claudia Pinelli

Superkilen #MULTI[città]

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Giorgio Verdiani, nato a Carrara nel 1968, arriva a Firenze nel 1987 per gli studi universitari presso la Facoltà di Architettura, consegue la Laurea nel 1998, il dottorato di ricerca in “Rilievo e rappresentazione dell’Architettura e dell’Ambiente” nel 2003, entra in servizio come Ricercatore al Dipartimento di Progettazione dell’Architettura nel 2006. È stato ed è professore di numerosi corsi dell’Università degli Studi di Firenze e di varie altre istituzioni. Dal 2006 è stato molto attivo presso numerosi convegni internazionali dedicati alle tematiche Cultural Heritage e nuove tecnologie. Da gennaio 2011 è Direttore del Laboratorio Informatica Architettura. Da sempre attivo fotografo per passione e per supporto al proprio lavoro e alle proprie ricerche. Utilizza strumentazioni sia digitali che analogiche.

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Quando si è in Cappadocia ci si trova nel centro della Turchia, un centro geogra-

fico, distante dai mari, su un territorio di ori-gine vulcanica che con il tempo è stato sca-vato ed eroso fino a diventare un paesaggio impossibile e stupefacente all’occhio del visi-tatore. Il configurarsi di un ambiente natura-le dalla parvenza “costruita” ha sicuramente stimolato i primi abitanti di queste zone e la lunga stirpe di loro successori, nell’interve-nire sulle masse rocciose scavandovi rifugi, depositi, abitazioni, chiese ed intere città. La roccia si è così sbriciolata ed indebolita e l’in-sieme degli scavi, pur definendo riccamente il territorio ha accentuato il degrado e il con-sumarsi naturale del materiale, crollando e trasformando interni in facciate, mostrando bellissimi dettagli in procinto di dissolversi: un ricco campionario di fugaci meraviglie. Il patrimonio della Cappadocia appare oggi destinato ad una vasta perdita, incapace di sostenere l’ammirante carico turistico, pre-servabile solo in parte e per questo ancora più eccezionale nella sua ultima fase. Il lungo tempo dell’architettura rupestre è passato, ne resta la fase monumentale, l’eccezionale risonanza e visione, l’intersecarsi di una na-tura incredibile e di scelte incredibili, che nel proprio tempo sono sicuramente apparse lo-giche e risolutive. In un luogo che non per-mette il timore degli spazi chiusi e non per-mette il timore degli spazi aperti, offrendoli entrambi continuamente e selvaggiamente.

Il vuoto e la sostanza: breve visione sul paesaggio della Cappadociafoto e testi di Giorgio Verdiani

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Giorgio Verdiani ©

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Gabriele PaolinelliArchitetto, è ricercatore in Architettura del Paesaggio presso il Dipartimento di Archi-tettura dell’Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato alla Facoltà di Agraria di Bologna ed alle Facoltà di Architettura e di Economia di Firenze. È revisore per le riviste scientifiche Land use policy, European planning studies, Agri-cultural engineering international, Territorio, Archivio di studi urbani e regionali e per il Ministero Italiano dell’Università e della Ricerca.Si occupa di alcuni temi, in relazione ai problemi di analisi e diagnosi ed alle opzioni di pianificazione e progettazione: sviluppo di scenari paesaggistici per la definizione di master plan e la valutazione di piani territoriali o urbani, semiotica del paesaggio, consumo di suolo, frammentazione dei paesaggi. [email protected]

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Consumo di suolo e paesaggio: qualità che dipendono da quantità

di Gabriele Paolinelli

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L’architettura e l’urbanistica degli ultimi decenni hanno asseconda-to o generato posizioni demagogi-

che sui temi della qualità della vita, pri-ve di indirizzi coerenti e trasparenti, ed espresse in termini autoreferenziali e talvolta pleonastici.

Ciò ha assunto concretezza nelle odierne conformazioni degli ha-bitat urbani e rurali, seppure si

debba risalire con talune dinamiche alla metà del secolo scorso, quando ancora le suddette posizioni non erano emerse ed agivano.

Per comprendere la nostra realtà rispetto ad una parte rilevante dei temi della qualità della vita è utile

il riferimento ad entità che più di altre fanno emergere elementi che è arduo

ignorare, se non in chiave omissiva o strumentale. Più che l’edificio per l’ar-chitettura, intesa come sua tradizionale disciplina tecnico-scientifica, e la città, allo stesso modo per l’urbanistica, i pa-esaggi, che edifici e città comprendono come loro componenti essenziali, forni-scono indicazioni di evidenza immediata.

Più posizioni contrarie ad alcune di quelle che si ritengono demagogi-che e si sono incontrate nel corso

degli anni sono pertinenti il ragiona-mento che si propone. Non è vero che “basta la qualità” dei singoli interventi, poiché i loro esiti paesaggistici e le re-lative qualità dipendono da più quanti-tà. Non esiste una “qualità del paesag-gio” identificabile in termini diretti ed unitari, bensì sono identificabili qualità distinte, attraverso criteri e processi de-

“Non è vero che “basta la qualità” dei singoli interventi, poiché i loro

esiti paesaggistici e le relative qualità dipendono da più quantità...”

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dicati. La mutuazione da altri contesti dell’espressione “qualità totale”, pe-raltro con una traduzione discutibile e fuorviante, è pleonastica ed autorefe-renziale. Nelle interpretazioni architet-toniche della realtà, così come in quelle paesaggistiche, non è infatti ipotizzabi-le una diversa indicazione di sintesi, che dovrebbe in tal caso essere relativa ad una supposta “qualità parziale” e po-trebbe comportare gravi difetti o totali omissioni di conoscenza e proposta ri-spetto ad essenziali qualità particolari.

Per anni, sul consumo di suolo si sono fatte per lo più chiacchiere, inutili, quando non dannose. Ca-

ratterizzano così il passato prossimo le carenze di misure delle condizioni e delle dinamiche di tali fenomeni e le strumentalizzazioni delle loro letture.

Sono state elaborate misure su basi di dati con caratteristiche di siste-maticità, per copertura geografica

e coordinamento tipologico delle mo-dalità di rilevamento ed elaborazione,

Nella pagina precedente:Il paesaggio urbano di margine di Potenza ripreso dal nucleo storico della città (G. Paolinelli, 2007)

In basso:Casa unifamiliare nella pianura centrale veneta (G. Paolinelli, 2007)

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ma con scala di acquisizione impro-pria rispetto alle dimensioni reali dei fenomeni, che spesso risultano anche minute in termini unitari; è accaduto con l’utilizzo dei dati Corine Land Co-ver, impropri per scala, ma anche con il rilevamento e l’elaborazione di dati relativi a singoli istanti o ancora con la descrizione di dinamiche rilevate su periodi recenti e brevi, quando della citata copertura europea è stata dispo-nibile la seconda soglia del 2000, oltre la prima del 1990. Si hanno poi misu-re sviluppate in modo contingente su ambiti geografici contenuti che, anche laddove abbiano sviluppato buone qua-lità informative per scala di rilevamen-to ed eventuale dimensione diacronica, comportano deficit informativi impor-tanti per la frammentarietà spaziale e l’assenza di sistematicità tipologica delle classificazioni, non concepite per il dialogo con ambiti limitrofi. Infine, la traduzione tecnica e politica dei dati disponibili è andata per lo più in due direzioni di lettura strumentale. In al-cuni casi si è scelto di riporre le analisi nel cassetto, provando che esse hanno capacità indicative piuttosto esplicite, ma al tempo stesso evitando di farsi ca-

rico di tali esplicitazioni. In altri casi, si è approfittato delle falle informative di dati con scale di acquisizioni improprie o dei differenziali rilevati rispetto ad in-tervalli temporali circoscritti per pro-durre falsificazioni mirate della realtà.

Oggi si è sempre più vicini ad un sostanziale affrancamento dai primi due difetti informativi a

cui si è fatto cenno ed una progressiva seppure lenta penetrazione culturale pare interessare in alcune realtà gli at-tori politici, amministrativi ed econo-mici, più facilmente inclini finora alle citate strumentalizzazioni.

Guardando avanti, con la fidu-cia necessaria nella possibilità di accesso a scenari migliori di

quelli che abbiamo praticato, queste condizioni, seppure in divenire, solle-citano a non rimandare la riflessione e la sperimentazione intorno ai problemi scientifici e tecnici della interpretazio-ne qualitativa dei dati che descrivono i fenomeni di consumo di suolo. I tradi-zionali rapporti e parametri sono infatti strumenti di analisi e descrizione sin-tetica dell’efficienza insediativa dei ter-

“Per anni, sul consumo di suolo si sono fatte per lo più chiacchiere,

inutili, quando non dannose.”

Nella pagina seguente:La pianura della Valdinievole in Toscana in un dettaglio ripreso

da Monsummano Alto, sul Montalbano (G. Paolinelli, 2013)16

Page 17: Network in Progress #13

ritori e della intensità dei fenomeni di occupazione di spazio e perdita di suolo per la produzione agricola e per l’effi-ciente conservazione ed evoluzione degli ecosistemi agrari e seminaturali. È evidente che già una considerazione coerente e concreta di tali informazio-ni non sarebbe trascurabile rispetto alla sostanziale latitanza mostrata dalle politiche e dagli strumenti di governo del territorio e di tutela paesaggistica. Ma è possibile anche contestualmente guardare oltre, alla ricerca di strumenti di indirizzo progettuale con più esplici-te e diversificate capacità di indicazio-ne qualitativa, che nei dati analitici di cui si parla possano trovare utili basi in-formative. Tutto ciò è per certi versi in corso mentre per altri programmabile ed esige risorse umane ed economiche appropriate. Sono in fase di sviluppo importanti basi informative sul consu-mo di suolo su scala regionale. In tale ambito di studio, le attività coordinate da Bernardino Romano presso l’Uni-versità dell’Aquila sono programmate per la copertura di settori subnazionali e la tendenza alla copertura nazionale

con una peculiarità informativa di rile-vante interesse, data dalla compresen-za delle dimensioni spaziali e temporali dei fenomeni, che sono letti per compa-razione delle due soglie storiche della metà del secolo scorso e della contem-poraneità. Una proposta di co-finanzia-mento del Ministero dell’Università di una ricerca di interesse nazionale coordinata da Daniela Colafranceschi dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, in corso di valutazione preli-minare di ateneo, affronta il profilo di ricerca delle indicazioni di qualità pa-esaggistica sopra ipotizzate con le atti-vità programmate dalle unità operative di Firenze, della quale è responsabile Enrico Falqui, e di L’Aquila, della quale è responsabile Bernardino Romano.

Con queste prospettive è intanto possibile ipotizzare una distin-zione tematica di letture paesag-

gistiche qualitative dei dati di consumo di suolo, seppure essa risenta del carat-tere preliminare del ragionamento e del relativo deficit di riscontro empiri-co.

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Sul piano della deduzione dei con-dizionamenti dei caratteri cultu-rali dei paesaggi un primo gruppo

tematico di elementi emerge in rela-zione alla permanenza ed integrità sto-rica delle strutture. La considerazione spaziale su base diacronica delle con-formazioni insediative ed infrastrut-turali in relazione a quelle agrarie alla metà del secolo scorso rispetto alla attualità consente di pensare e speri-mentare strumenti e criteri di diagnosi riferibili alla identificazione di relazio-ni con accertate capacità strutturanti e dei loro odierni stati di permanenza ed integrità. In termini diversi, andrebbe considerata l’integrità delle relazioni paesaggistiche dei complessi arche-ologici, per la salvaguardia di qualità paesaggistiche essenziali per una effet-tiva tutela di questi beni culturali, non limitata ai manufatti in quanto oggetti materiali e concepita come condizione essenziale per una loro efficace e sod-disfacente valorizzazione. Ancora su un piano antropico, i fenomeni di cui si sta

trattando sono responsabili di diffusi e notevoli disturbi visivi, acustici, talvolta atmosferici, e assai spesso funzionali. Per quanto concerne i disturbi visivi ed in certa misura quelli acustici, oltre il tema del disturbo diretto sull’indivi-duo, potrebbe rivestire interesse quello indotto sugli habitat sensibili. Rispetto a questo ultimo tema è oramai eviden-te e si può dire conclamata dalla realtà la morte diffusa del belvedere storico, che presenta in genere oggi relazio-ni visive di interesse invertite rispetto alle originarie: dalle pianure o dai fon-dovalle congestionati verso i borghi o i complessi collinari.

In tutti questi casi, si tratta di profili tematici e problematici per i quali potrebbe essere interessante avvia-

re sperimentazioni, con idoneo sup-porto di colleghi antropologi, sociologi e psicologi, per teorizzare e verificare mutuazioni a livello umano delle teorie e tecniche delle reti ecologiche animali ed identificare specifiche qualità degli

“…andrebbe considerata l’integrità delle relazioni paesaggistiche

dei complessi archeologici, per la salvaguardia di qualità paesaggistiche essenziali per una effettiva tutela di

questi beni culturali…”

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habitat dal nostro punto di vista specie-specifico. Questa ipotesi presenta ovvie connessioni con gli ambiti di studio svi-luppati e consolidati che trattano i con-dizionamenti dei caratteri naturalistici ed ecologici dei paesaggi di cui sono corresponsabili i fenomeni di consumo di suolo. Negli anni passati è stato gua-dagnato qualche risultato in termini di predisposizione di dati sintetici con proprietà di indirizzo per le politiche ed i piani e progetti per la loro attuazione, ma molto occorre fare ancora in ter-mini di sviluppo sistematico ed utilizzo pratico degli studi, in parallelo all’avan-zamento dei metodi.

Le immagini di questo articolo, seppure in numero contenuto, mostrano la rilevanza di quan-

to tratteggiato in termini teorici. Le aree periurbane di Potenza sono elo-quenti nel rappresentare le proprietà di incongruenza con il paesaggio e di frammentazione delle sue strutture, comuni a molti sistemi insediativi ed infrastrutturali italiani degli ultimi cinque decenni, seppure in forme e misure differenziate. L’edificio abita-tivo, quello produttivo e la strada sono le componenti paesaggistiche che nel loro diffuso e denso ricorrere più con-notano in modo caotico e disfunzionale i paesaggi con dispersione insediativa, che in talune realtà vanno colonizzan-do le colline, ma ovunque hanno per lo più occupato pianure, coste e fondoval-

le. Il Veneto, ed in particolare la pianu-ra centrale della regione, hanno costi-tuito un noto caso di studio di questi fenomeni, in ragione del policentrismo storico che connota il sistema insedia-tivo e del recente e repentino processo di passaggio di dominante socio-econo-mica da quella agricola rurale a quella industriale-artigianale e direzionale-commerciale. A testimonianza della critica normalizzazione insediativa ed infrastrutturale dei paesaggi italiani è significativo il caso della Toscana. Que-sta regione, dalle note qualità paesaggi-stiche naturali e culturali diffuse, pre-senta un esteso settore settentrionale, tra Firenze e Pisa nell’entroterra, e tra la Versilia e Livorno, sulla costa tirreni-ca, che comprende una serie di bacini planiziali fortemente e caoticamete ur-banizzati in una realtà pseudometropo-litana di scala regionale caratterizzata da evidenti deficit di controllo quan-titativo e qualitativo delle dinamiche insediative e di quelle infrastrutturali conseguenti. La Valdinievole ne costi-tuisce un campione esemplare, come si vede anche dalla elaborazione grafica delle relazioni tra spazi urbanizzati, in bianco, e residui della matrice rurale, in nero, progressivamente frammenta-ta ed in parte sostituita dalla diffusione caotica e congestionante dei sistemi insediativi ed infrastrutturali. Poiché questo tipo di elaborazione grafica non è idonea a letture quantitative nume-riche, è stato possibile spingere il con-

“L’edificio abitativo, quello produttivo e la strada sono le componenti paesaggistiche che

nel loro diffuso e denso ricorrere più connotano in modo caotico e disfunzionale i paesaggi con

dispersione insediativa…”19

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trasto della fotografia panoramica di base fino a produrre una rappresenta-zione per difetto della distribuzione e della consistenza degli spazi edificati o urbanizzati. Malgrado l’immagine in-tenzionalmente riduttiva ottenuta con tale forzatura, la matrice rurale risulta diffusamente ed intensamente fram-mentata, al punto da riconoscerne più appropriato lo stadio di eliminazione per avvenuta progressiva riduzione.

A fronte dei fenomeni descrit-ti, occorrerebbe assumere in modo sempre più normale e

diffuso i paesaggi come riferimenti di nuovi scenari, in luogo degli episodi che finiscono per connotarli in modo caotico. In altre parole, occorrebbe che piani e progetti si facessero carico per le proprie competenze della generazio-ne di una diversa matrice contempora-nea sostenibile, non dimenticando che

il paesaggio non è un giardino, ma una complessa risultante di relazioni fra fattori e processi che, oltre che ambien-tali e sociali, sono anche economici, e che il progetto paesaggistico, anche nei pochi casi in cui abbia un committente unico, ha in genere la necessità di inter-cettare più attori presenti sul territorio.

La pianura della Valdinievole in Toscana: elaborazione fotografica delle relazioni spaziali e delle morfologie delle

componenti paesaggistiche principali (G. Paolinelli, 2013)

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Giorgio Verdiani ©

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Francesca CalamitaArchitetto e paesaggista, responsabile della promozione eventi ed attività culturali di NIP, svolge la libera professione nell’ambito dell’Architettura del Paesaggio, disciplina per la quale è cultrice della materia presso l’Università degli Studi di [email protected]: francesca.calamita

Luigi Zangheri Architetto, già docente di “Storia del giardino e del paesaggio” e del “Laborato-rio di restauro dei parchi e giardini storici” alla Facoltà di Architettura dell’Uni-versità degli Studi di Firenze. Membro onorario del Comitato Scientifico Inter-nazionale per i Paesaggi Culturali ICOMOS-IFLA, di cui è stato presidente dal 2005 al 2008, è attualmente presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno. Si è occupato dello studio e del restauro di numerosi parchi storici tra cui quello di Villa Torrigiani a Scandicci insieme a Pietro Porcinai, il Parco di Villa Demidoff a Pratolino e il giardino del Chiostro di Santa Chiara a Napoli. È autore di oltre 200 pubblicazioni di storia dell’architettura, storia del giardino e del paesaggio e restauro degli edifici monumentali.

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INTERVISTA

UN INCONTRO CON LUIGI ZANGHERI:DAL GIARDINO AL PAESAGGIO, TRA PASSATO E FUTURO

di Francesca Calamita

Un incontro, un dialogo libero e coinvolgente nello studio del prof. Luigi Zangheri, presso la sede di quello che fino a pochi mesi fa era il Dipartimento di Restauro, oggi confluito nel DIDA (Dipartimento di Architettura) di Firenze, per comprendere, con uno dei protagonisti, l’evoluzione del pensiero che ha portato ad allargare lo sguardo dal giardino storico al paesaggio culturale.

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Prof. Zangheri, una vita dedicata alla ricerca, allo studio e al restauro dei giardini storici, ci vuole raccon-tare come si è avvicinato a questo affascinante tema, quando lo stesso era poco conosciuto e considerato?

Fino da quando ero studente ho avuto attenzione e inte-resse alla storia dell’architettura e in particolare per il set-tore definito come “effimero architettonico”, intendendo il giardino e gli apparati delle feste.

Delle circostanze mi hanno particolarmente favorito: ancora studente, dopo l’alluvione del 1966, Firenze era un grande cantiere con la Soprintendenza ai Monumenti im-pegnata nel restauro dei maggiori complessi architetto-nici. Tra questi le chiese più importanti come Ognissanti, Santo Spirito, San Remigio, ecc., che avevano ampie sche-de descrittive e storiche pubblicate in tedesco dai coniugi Elisabeth e Walter Paatz in Die Kirchen von Florenz. Per i restauri avviati da poco, la Soprintendenza ritenne oppor-tuno di disporre dei testi dei Paatz in italiano, ed io studioso della lingua tedesca fino dai tempi del liceo venni coinvolto nella loro traduzione. Attraverso questa esperienza impa-rai moltissimo, ad esempio su come descrivere un edificio storico, apporre le note, compilare una bibliografia, ecc., tutte cose che in Facoltà nessuno mi aveva mai insegnato. Successivamente, sostenni l’esame di Restauro dei Monu-menti con il prof. Marco Dezzi Bardeschi a cui presentai elaborati compilati correttamente secondo il modello dei Paatz con le note e la bibliografia, una cosa assolutamente insolita tra gli studenti di quel periodo. Dezzi Bardeschi ap-prezzò talmente quella relazione che mi “catturò” facendo-mi, seduta stante, collaboratore al suo studio.

Poi, debbo ricordare un altro episodio importante: dopo

Il prof. Zangheri nel suo studio all’Università

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Page 27: Network in Progress #13

due o tre mesi dalla laurea, il preside di allora, che era San-paolesi, mi ha offerto la possibilità di lavorare per conto dell’assistenza tecnica italiana in un’equipe di tecnici ope-rativi in Congo. Sono stato quindi un anno nella Repubbli-ca Democratica del Congo, l’attuale Repubblica dello Zaire, impegnato nel cantiere del nuovo edificio del Ministero degli Affari Esteri come capo-disegnatore responsabile di una squadra di otto elementi. Anche in questo caso ho im-parato tantissimo sotto il profilo professionale, così come ho appreso bene il francese, o meglio il belga.

Dopo cos’è successo? La Facoltà di Architettura bandì una borsa di studio per la Storia dell’Architettura, ed io l’ho vinta... In quel momento, avviarsi alla carriera universitaria non era nell’ordine delle idee dei neolaureati, e al concorso mi trovai l’unico iscritto! Ricordo come il presidente della commissione, Giovanni Koenig, mi abbia ringraziato per non avergli fatto perdere il finanziamento della borsa. Da quel momento ho cominciato la mia carriera accademica come borsista, poi sono passato ricercatore e infine profes-sore associato.

Qualche anno prima era nato il mio interesse per il giar-dino, legato alla storia e testimoniato dal mio primo artico-lo: ero stato a Praga, avevo consultato i documenti dell’Ar-chivio Lorena e trovato un repertorio con le planimetrie degli acquedotti dei giardini medicei databile attorno alla metà del ‘700. Allora collaboravo con Dezzi Bardeschi e con Gurrieri e scrissi un articolo sui condotti delle ville di Castello e della Petraia, fondandolo su questi documenti inediti. Eravamo nel ’71, e fu considerato insolito illustra-

Il Gigante dell’Appennino

del Giambologna nel Parco di Villa

Demidoff a Pratolino 27

Page 28: Network in Progress #13

re il giardino sotto aspetti tecnici che, allora, erano trascu-rati e non oggetti di studio. Immediatamente dopo, il caso ha voluto che io sia stato chiamato da Pierluigi Spadolini a studiare il Parco di Pratolino acquistato dalla Società Ge-nerale Immobiliare per realizzare nuovi insediamenti edi-lizi. Di questi progetti la Società aveva incaricato Spadolini che, sorpreso di non vedere approvate le sue lottizzazioni, se ne domandò la ragione e ritenne opportuno uno studio sul parco per comprenderne il valore monumentale. In seguito la Società Generale Immobiliare autorizzò la pub-blicazione del dossier che avevo raccolto su Pratolino, e fui ancora una volta fortunato a trovare la Libreria Antiquaria

Villa Medicea La Petraia sulle colline di Firenze

in basso:Il Giardino della Villa Medicea di Castello sopra Firenze

nella pagina successiva:Veduta della Rometta nel Giardino di Villa D’Este a Tivoli

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Page 29: Network in Progress #13

Gonnelli che, gratuitamente, stampò i miei studi corredati da una ricca documentazione iconografica. Avere la pos-sibilità di pubblicare un volume senza oneri fu un fatto del tutto insolito perché io ero giovane e sconosciuto. La Libreria fu comunque compensata perché, in pochi anni, il volume su Pratolino ebbe due edizioni, ed io grazie alla pubblicazione e alla diffusione di questo testo, sono stato riconosciuto storico del giardino.

Lei è stato però anche un interprete di un approccio nuovo, che attraverso una visione olistica, ha saputo trasformare l’arte dei giardini nell’architettura del paesaggio. La stessa Carta di Firenze pone in eviden-za che “il giardino storico non può essere separato dal suo intorno ambientale urbano o rurale, artificiale o naturale”. Quali sono stati, a suo parere, i passaggi principali che hanno portato a questo cambiamento culturale?

Il mio primo contatto con il Comitato Internazionale ICOMOS-IFLA, allora dei “giardini storici”, risale al 1981, quando i maggiori paesaggisti del tempo si riunirono a Firenze per la formulazione della Carta di Firenze, ovvero una Carta sul restauro dei giardini storici. Collaborai all’or-ganizzazione della manifestazione ma, avvertite le tensioni tra gli italiani su un testo proposto dai francofoni, favorii una tavola rotonda all’Accademia delle Arti del Disegno che portò alla redazione di una Carta “italiana” sul restauro dei giardini storici. Fu una bella esperienza che mi permise di conoscere Pierfausto Bagatti Valsecchi, Piero Porcinai, Carmen Anon Feliu e tanti altri illustri operatori con cui,

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poi, ho avuto rapporti di amicizia. Qualche anno più tardi, ricevetti una telefonata da Carmen Anon Feliu che mi chie-se di accompagnarla a Pratolino in una sua imminente gita in Toscana. Ovviamente mi misi a disposizione di Carmen, che apprezzò i miei studi su quel parco e mi propose mem-bro corrispondente del Comitato ICOMOS-IFLA nel 1991. Da quel momento, ho partecipato a quasi tutti gli incontri annuali del Comitato dove veniva affrontato il tema dei paesaggi storici e culturali, rurali e urbani, fino a quando a Coimbra in Portogallo nel 2006, durante la mia presiden-za del Comitato, il nome dello stesso Comitato assunse la denominazione dei “paesaggi culturali”. Il passaggio dalla qualificazione di “giardini storici” a “paesaggi culturali” è stato lento ma costante, ha trovato molte difficoltà ma le ha sempre superate perché nella logica e nella necessità delle cose.

Analogamente è accaduto nella legislazione italiana per il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che è stato inte-grato due anni più tardi la sua prima edizione con i disposi-tivi delle convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro parlamento, e in particolare da quelli afferenti alla Conven-zione del Patrimonio Mondiale dell’Unesco.

Un altro fondamentale contributo culturale è stato poi quello della Convenzione Europea del Paesaggio, soprattutto in relazione al rapporto tra uomo e pae-saggio. Quali sono le sue considerazioni al riguardo?

Nella Lista del Patrimonio Mondiale l’Italia ha visto com-prese le ville palladiane del Veneto, le residenze sabaude, le ville di Tivoli, la reggia di Caserta, ecc. che possiamo con-

Il cosiddetto “Ripiano delle Cariatidi” nella parte superiore del Giardino di Palazzo Farnese a Caprarola

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siderare veri e propri paesaggi culturali e non più come beni culturali o giardini storici. Ma che cos’è un paesaggio culturale? La definizione data dall’UNESCO prevede tre categorie di paesaggio culturale, ovvero, i giardini storici, il paesaggio evolutivo, e il paesaggio fossile1 , con delle in-dicazioni precise. Il primo articolo della CEP è ripreso qua-si pari pari da quello delineato dal Centro del Patrimonio Mondiale, in quanto il «“Paesaggio” designa una determi-nata parte di territorio, così come è percepita dalle popo-lazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Una definizione che non sarebbe stata possibile senza il Documento di Nara del 1994, con cui si chiariva cosa si doveva intendere per “au-tenticità” e per “integrità”. Un documento originato dal fatto che dagli occidentali i giapponesi erano spesso con-siderati dei “falsari” per abbattere e ricostruire periodica-mente i loro templi in legno, in particolare quelli della città di Nara. Una circostanza dovuta ad una diversa cultura e a un diverso sentire perché per gli abitanti di Nara i templi rinnovati erano “autentici” e non venivano concepiti come dei falsi o delle copie.

Prima ci ha accennato alla sua lunga esperienza maturata nel Parco storico di Pratolino, che è senz’al-tro un esempio mirabile di integrazione tra arte e pa-esaggio, e che lei più volte, nei suoi scritti, ha defini-to un vero e proprio laboratorio di sperimentazione scientifica e tecnica. Crede che ancora oggi il giardi-no possa essere considerato un’occasione di ricerca e innovazione, assumendo la funzione di “paesaggio pe-dagogico” per ricostruire con gli abitanti delle varie comunità un linguaggio comune sul significato dei luo-ghi, sulle identità dimenticate e su una nuova estetica della bellezza?

Ricordo che nel Giardino di Boboli, durante il principato di Pietro Leopoldo, una porzione delle aiuole sottostanti il Forte di Belvedere era curata dai suoi 16 figli, i quali aveva-no un orticino personale da coltivare. Lo stesso Pietro Leo-poldo aveva ricevuto da bambino un’esperienza analoga a Schönbrunn in una sorta di laboratorio sperimentale. Un approccio con la natura che portò i suoi frutti perché sia Pietro Leopoldo che tutti i suoi figli sono passati alla storia come ideatori e costruttori di parchi e giardini di notevole importanza. Oggi, tutto questo è solo una curiosità storica e, piuttosto che confidare in principi illuminati, occorre cre-dere negli attuali e futuri architetti del paesaggio capaci di conservare gli esempi del passato e di corrispondere con nuove soluzioni progettuali e gestionali alle esigenze della nostra società, che è soggetta ad un’evoluzione costante.

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La grande scultura del Drago nel Sacro

Bosco di Bomarzo

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Quali crede che possano essere quindi gli strumen-ti e le strategie per cercare di tutelare e valorizzare il nostro paesaggio e che ruolo pensa possa avere in que-sto caso l’Università?

In Italia l’Architettura del Paesaggio è materia recente,

al contrario dei paesi del Mitteleuropa dove l’insegnamen-to del paesaggismo è stato un vanto secolare. Nel 1994, col sostegno della Regione Toscana io ho potuto organizzare il Primo corso di formazione professionale per architetti restauratori di giardini e parchi storici. A questo hanno fatto seguito, nel 2001, l’avvio dei corsi di laurea in Archi-tettura del Paesaggio a Roma e a Genova e, poi, anche a Fi-renze, accompagnati da master e dottorati. La nostra espe-rienza è troppo recente, e dovremmo batterci per avere un riconoscimento specifico a livello di ordine professionale, tale da assicurare il restauro di un giardino storico o la pro-gettazione di un paesaggio affidata solo a chi ha competen-ze specifiche.

Purtroppo l’Università con tutte le sue attuali riforme sembra operare in maniera incerta e non adeguata. La bon-tà dei corsi dovrebbe essere garantita da docenti di provata esperienza e la continuità degli insegnamenti dovrebbe es-sere assicurata da assistenti, borsisti e ricercatori in modo da valorizzare un patrimonio e un’esperienza che altrimen-ti non avrà futuro.

1La Convenzione UNESCO sui Paesaggi Culturali del 1992 individua tre categorie: “clearly defined landscape” nei quali considera anche parchi e giardini, “organically evolved landscape” e “associative cultural landscape” (n.d.r.). 33

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The aim of the groupCollectif Etc is a group of young architects and graphic designers that work on the issue of civil society’s autonomy in the transformation of their living envi-ronment. We tend to think that everyone is able to be active in the making of the city. However, building and occupying space is a political matter and deals with power that some groups in society don’t have or don’t know they have. Thus, physical space transformation is a tool we use and share to experiment and ac-compagny self-managed urban situations.

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The OthersEsperienze di partecipazione

di Collectif_Etctraduzione a cura di Stella Verin, Paola Pavoni

Con lo scopo di aumentare l’unione sociale e rafforzare i legami tra le

comunità locali e i realtivi spazi pub-blici, noi di Collectif etc includiamo nei nostri progetti le persone che utilizza-no direttamente lo spazio in questione. Cerchiamo di costruire con loro un ra-porto coinvolgente e reciproco. Questo scritto si concentra prevalentemente su tre punti principali che descrivono questa relazione che rappresenta uno degli elementi più importanti del no-stro lavoro, racconta come consideria-mo noi stessi e gli altri.

In order to enhance social grouping and strengthen links between local

communities and public space, we in-clude in our projects people that are direct users of the space. We try to bu-ild an involved and mutual relationship with them. This essay focuses on three main points that describe this rela-tionship that stands for one of the main element of our actions. It’s about how we consider ourselves and the others.

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Shared experience

We consider the people we meet or work with on projects as sharers of a life experience. That means that we are transforming the space as we would think it’s comfortable to experience it right now because we are part of it. Our projects diminish the importan-ce of working for the well-being of the others for the next 20 years, and give priority to work for our own well-being with the others for the next 20 days. The whole question is how to make this experience opened and shared with the people. We want to focus on the experience rather than the building in itself. By sharing a living moment with him, the relation we have with the user is totally different than if we were doing something for him. It deals both with experience designing and urban planning.

For example in Hénin-Baumont, we participated in the project of a local as-sociation (www.les-saprophytes.org), who where conducting an urban stu-

dy in order to rethink public spaces of the city. In the middle of the town, we worked on a heap, a hill of black tai-lings which now offers a 1000 square meter wasteland at 15 meters above the ground. Our aim was to make the heap accessible to people from the neighborhood and show an otherway of using it. We organised a traditional folk festival up on the hill in a moon-like atmosphere. Faithful to this topic stimulating people’s imagination, a stair case and tobbogan both shaped as a spaceship launching ramp, were built from the street to the top of the hill. It helped old people climbing or children sliding but it also served as a sceno-graphy for the short movie we produ-ced, in which the actors were the locals. Moreover, we made this place live day and night since we were camping the-re. This total immersion on the field in-volved us in the neighborhood life and in the uses of the urban artefacts we builded. This project was a matching point between the timescale of a cul-tural event and the one of urban plan-ning.

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Una esperienza condivisa

Consideriamo le persone che incon-triamo o con cui lavoriamo attraverso i nostri progetti, come partecipi di una esperienza di vita. Questo significa che ogni qual volta trasformiamo uno spa-zio, lo facciamo in modo che sia più co-modo, migliore da vivere nel momento stesso in cui ci agiamo, proprio perché siamo parte di esso. I nostri progetti di-minuiscono l’importanza del lavorare per il bene degli altri nell’ottica ven-tennale, e danno priorità all’importan-za di lavorare per il nostro stesso stare bene con gli altri per i successivi venti giorni. Il punto nodale sta nel come fare in modo che questa esperienza risulti aperta e condivisa con le altre persone. Noi vogliamo concentrarci principal-mente sull’esperienza stessa piuttosto che sulla realizzazione finale di per se stessa. Attraverso la condivisione di un momento di vita, la relazione che abbiamo con le persone che la useran-no è completamente diversa rispetto a quella che sarebbe se noi facessimo qualche cosa per loro. Questo ha a che fare sia con l’esperienza della progetta-zione che con la pianificazione.

Per esempio a Hénin-Baumont, ab-biamo partecipato ad un progetto di una associazione locale (www.les-sa-prophytes.org), che stava facendo una analisi urbana con lo scopo si ripensa-re uno spazio pubblico della città. Nel centro della città abbiamo lavorato su un mucchio, una collina di detriti neri

che adesso non è altro che 1000 metri quadrati di terra abbandonata a 15 me-tri dal suolo! Il nostro scopo era fare sì che la collina divenisse accessibile alle persone del quartiere e mostrare loro un possibile uso alternativo.

Abbiamo organizzato una festa po-polare tradizionale in cima alla colli-na ambientandola in una atmosfera lunare. Fiduciosi di questo tema che stimolava l’immaginazione delle per-sone, abbiamo costruito una scala ed un toboga, entrambi con forme che ri-chiamassero una rampa di lancio per navicelle spaziali, che connettessero la strada con la cima della montagna. Le scale e il toboga hanno aiutato le persone anziane a salire o i bambini a scendere giù, ma sono servite anche come scenografia per un breve corto-metraggio che abbiamo prodotto, in cui gli attori erano le persone locali. Il luo-go è stato reso vivo sia di giorno che di notte, poiché noi stessi siamo rimasti a dormire in cima alla collina in tende da campeggio. Questa totale immersione sul campo ci ha coinvolti nella vita del quartiere e nell’uso degli artefatti ur-bani che avevamo costruito noi stessi. Questo progetto era un punto d’incon-tro tra le tempistiche di realizzazione di un evento culturale e quelle di una pia-nificazione urbana.

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Co-production

In addition to implementing an atmo-sphere and sharing an experience of convivality, we also like to consider pe-ople we meet as producers and not just as users. That means we try to count on capabilities already there and include them in the design and the construc-tion phase. As we told formerly how we try to get ourselves involved in desi-gning an experience, we are now talking about getting the other people involved in the production of something.

For example, we worked for a local cultural association in an old district of Brest, called Vivre La Rue (www.vivre-larue.net). They are used to organise music festivals and art exhibitions in old houses in rubble made of stones.

We intervened in one of those houses and turned it into an open air theatre. It was a response to a specific need of these people. We strengthened the space where this local community was growing. The idea was to organise car-pentry and painting workshops opened to public, in order to build a footbridge going through the first floor windows, some chairs, a new gravel ground and a stage. The association gathered some motivated workers but we were also helped by passersby. First, we desig-ned in advance a general concept, the basic materials and the main technical points, in agrement with the associa-tion. Then we left space for improvisa-tion depending on people and oppor-tunities on the field.

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Co-produzione

Inoltre con lo scopo di implementare un’atmosfera e condividere un’espe-rienza di convivialità, ci piace anche considerare le persone che conoscia-mo come produttori e non solo come utilizzatori delle realizzazioni stesse. Questo significa che noi proviamo a dare importanza a capacità che già esi-stono e cerchiamo di includerle nella fase di progettazione e in quella co-struttiva. Avendo raccontato fino ad ora come cerchiamo di farci coinvolge-re nella progettazione di un’esperien-za, adesso parliamo di come coinvolge-re le altre persone nella realizzazione di qualcosa.

Per esempio, abbiamo lavorato per un’associazione culturale locale nell’antico distretto di Brest, chiama-ta Vivre La Rue (www.vivrelarue.net). Quest’associazione è solita organiz-

zare festival musicali e mostre d’arte in ruderi di vecchie case in pietra. Noi siamo intervenuti trasformando una di queste case in un teatro a cielo aperto, rispondendo a una specifica esigen-za delle persone. Abbiamo rafforzato lo spazio in cui è cresciuta questa co-munità locale. L’idea era di organizza-re workshop di carpenteria e pittura per costruire una passerella pedonale, che passasse attraverso le finestre del primo piano, qualche sedia, un nuovo pavimento in ghiaia e un palco. L’as-sociazione ha riunito alcuni lavoratori motivati, ma siamo stati aiutati anche dai passanti. Come prima cosa abbia-mo disegnato in anticipo un concept generale e i particolari tecnologici più significativi in accordo con l’associa-zione. Poi abbiamo lasciato spazio libe-ro per l’improvvisazione proveniente dalle persone e dalle occasioni che si presentavano sul campo.

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Transmission

We want our projects to be the con-tinuity or the birth of self-managed urban situations. That is to say spaces that can be handled by local communi-ties whose actions can go beyond their own interests and bring pertinent so-lutions for social, cultural and urban issues. Transmitting the management or continuing transformation enhance the link between those different com-munities. This philosophy of transmis-sion is about confidence, pedagogy and research of self-reliance.

In Grenoble, we were invited by an as-sociation (www.arpenteurs.fr) who are developping participation processes and organising debates with the preca-rious to find collective solutions. They wanted to transform a former swim-mingpool commercial hangar into a place of experimentation and DIY wor-king, aiming at finding solutions for ha-bitat. In collaboration with other local groups (www.les4jeudis.com, www.ate-lier-esca.blogspot.fr, www.craterre.org, www.glaneursdepossible.over-blog.fr,

www.zoomarchitecture.fr) , we did the first transformation of the empty bu-ilding during one week. The idea was to make the place quickly functionnal, good looking, and easy to re-arrange afterwards. In addition to the organisa-tion of debates with different concer-ned people, we tried to set the tools that made easier later to build new ideas and pieces of furnitures. For example, we settled a recycling depot, gathering different second hand construction materials. We also hanged small labels on pieces of furnitures we made, indi-cating useful tips to reproduce them. In the same idea, another group drew on the ground and on the walls, basic measurements and some sections of tables and chairs at a one to one scale.

At the beginning, Les Arpenteurs carried out the project then we made it ours for one week. Now one of the group we invited is handling the place with Les Arpenteurs ; they are still wor-king on making it helpful and opened to people interested in habitat and self-building.

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Trasmissione

Vorremmo che i nostri progetti fosse-ro in continuità o l’inizio di situazioni urbane autogestite. Intendiamo degli spazi che possono essere gestiti dalle comunità locali, le cui azioni possano andare oltre il loro proprio interesse e fornire soluzioni adatte a risolvere problemi di tipo sociale, culturale e ur-bano. Trasmettere la gestione o creare continuità con le trasformazioni rende più forte il legame tra queste diverse comunità. Questa filosofia della tra-smissione riguarda la confidenza, la pedagogia e la ricerca di fiducia in se stessi.

A Grenoble, siamo stati invitati da un’associazione (www.arpenteurs.fr) che stava sviluppando processi di par-tecipazione e organizzando dibattiti con i precari per trovare soluzioni col-lettive. Volevano trasformare un han-gar di un’ex piscina commerciale in un luogo di sperimentazione e lavoro fai da te, con l’obiettivo di trovare solu-zioni per l’ambiente. In collaborazione con altri gruppi locali, (www.les4jeu-dis.com, www.atelier-esca.blogspot.fr, www.craterre.org, www.glaneursdepos-sible.over-blog.fr, www.zoomarchitec-

ture.fr), abbiamo trasformato l’edificio vuoto in una sola settimana. L’idea era di rendere il luogo in breve tempo fun-zionale, piacevole e facile più flessibile in seguito.

Oltre all’organizzazione dei dibattiti con differenti persone interessate, ab-biamo provato a creare gli strumenti che rendessero più facile realizzare nuove idee e parti di arredo nei mo-menti successivi. Per esempio abbia-mo creato un deposito per il riciclo, raccogliendo differenti materiali da costruzione di seconda mano. Abbiamo anche appeso piccole etichette a parti di mobili da noi realizzati, indicandovi consigli utili per riprodurli. Sulla scor-ta della stessa idea un altro gruppo ha disegnato sul pavimento e sulle pareti le misure standard e alcune sezioni di tavoli e sedie in scala uno a uno.

All’inizio il progetto è stato realizzato da Les Arpenteurs, poi noi lo abbiamo fatto nostro per una settimana. Adesso uno del gruppo che abbiamo invitato sta gestendo il posto insieme a Les Ar-penteurs, che stanno ancora lavoran-do per renderlo disponibile e aperto per persone interessate all’ambiente e all’autocostruzione.

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In generale quando parliamo di rima-nere vicini a ciò che le persone vogliono e fanno, non miriamo alla completez-za, cerchiamo persone con cui andare d’accordo. Pensiamo che quanto più le nostre azioni siano rivolte a tutti, non dovremmo preoccuparci di aver favori-to relazioni con un gruppo di persone e di conseguenza di incrementare la sua personalità e opinione nella sfera pub-blica. Non crediamo nello spazio pub-blico anonimo fatto per tutti, vogliamo comunità con interessi specifici, per comprenderle, tanto quanto loro sono aperte e connesse con le altre. L’idea è di vedere una molteplicità di comunità che si pongono, come un contrappeso, nell’affrontare lo stato e il mercato.

In general, when we talk about getting closest to what people want or do, we are not aiming at exhaustivity, we are looking for some people with whom we get along. We think that as long as our actions are opened to everyone, we don’t mind having privileged rela-tionships with a group of people and therefore enhance his personality and opinion in the public sphere. We don’t believe in anonymous public spaces made for everyone, we want communi-ties with specific interests to seize them as long as they are opened and linked to others. The idea is to imagine a net-work of a multiplicity of those commu-nities that stands as a counterweight facing state and market.

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Gianni PettenaInsieme a Archizoom, Superstudio e Ufo, Gianni Pettena appartiene al nucleo originario dell’architettura radicale italiana. Ha studiato architettura all’Università di Firenze co-struendo, negli anni ‘60 con altri il clima che produsse quel movimento, origine di buona par-te della contemporanea sperimentazione nel campo dell’architettura e del design italiano. Nel 1973 è tra i fondatori della Global Tools, scuola e sistema di laboratori che rappresentò il momento di massima intensità dell’Architettura Radicale. Nel corso degli anni ’70, Pettena partecipa comunque attivamente al dibattito tra i “radicali” e i “razionali” ed è presente con opere, scritti e attività didattica nel panorama della critica internazionale. Pettena continua a insegnare, all’Università di Firenze, alla Domus Academy di Milano, alla California State University, tiene seminari, allestisce mostre pubblica articoli e saggi su riviste d’arte e d’ar-chitettura contribuendo a mantenere vivo il dibattito sul rapporto tra le due discipline e sul ruolo del ‘radicale’; partecipa come critico, al dibattito internazionale e riflette queste espe-rienze nella sua attività didattica.

Franz West- Viennoiserie 1998

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NON-PROFIT ART SPACES A FIRENZE

NON-PROFIT ART SPACES A FIRENZE

di Gianni Pettena 53

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Già dai primi anni ’70 Firenze ha in molte occasioni rivestito un ruolo attivo, se non centrale, nell’attività di produzione ed esposizione nelle arti visive, nel

dibattito e nella comunicazione tra i tanti aspetti della ricerca che si traducevano in linguaggio visivo, dall’architettura di ricerca al cinema e teatro sperimentale, alle installazioni in dialogo con la città esistente, interni o esterni di questa complessa aggregazione.

Esistevano gallerie private come Schema e Area e Art Tapes 22 e Zona, uno spazio gestito da artisti, tra cui i Nannucci, Masi, Mariotti e io stesso, tutti già con ampi

contatti nazionali e internazionali, che in questo non-profit art space di via S. Nicco-lò facevano convergere i più interessanti aspetti della ricerca del tempo: eventi che avevano un ruolo di scambio e informazione con i migliori artisti e le più innovative proposte non solo sul piano nazionale. A Maurizio Nannucci, artista visivo anche oggi di notorietà internazionale, si deve fin da allora la regia di questa sequenza di mostre e interventi che hanno connotato Zona come il canale di informazione che più attivamente ha mantenuto Firenze in contatto con il resto del mondo nel campo dei linguaggi artistici più vitali ed innovativi del contemporaneo. Tra gli artisti invi-

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tati a Zona ci fu Bill Viola (1975), che in quel periodo lavorava come tecnico per Art Tapes 22 (fondato a Firenze da Maria Gloria Bicocchi), che avrà in seguito grande notorietà con i suoi video, James Lee Byars (1975); il gruppo Ecart (1976) di Gine-vra, un gruppo di artisti simili a quelli di Zona; i General Idea con la loro rivista File (1978), Joseph Kosuth (1978), Sten Hanson (1979), Robert Lax (1979), Ulises Carrion (1979), Michael Erlhoff e Uta Brandes (1978, 1980, 1982, 1984), Bernard Hedesieck (1980), Henry Chopin (1980), Logos Gent (Godfried Willem Raes e Moniek Darge, 1981), John Giorno (1983), Eldon Garnet (1983) James Coleman (1984) e le Guerrilla Girls (1985).Ogni artista di Zona influiva sull’attività facendola dipendere dalle pro-prie competenze e dalle proprie specializzazioni. Il contributo di Nannucci si notò dalle sue iniziative, come la piccola stampa(1975-6; 1984), il film d’artista (1976; 1980;

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in alto:Massimo Bartolini “Basement”2011nella pagina precedente:Copertina di “Architettura corretta”a cura di Gianni Pettena 1981

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1984), la poesia sonora (1978-80), l’uso dei materiali non tradizionali in arte come il timbro o la lettera (1977); e all’approfondimento delle ricerche legate a territo-ri geografici periferici rispetto al dibattito internazionale, come l’Islanda (1979-80), L’Australia (1983), il Brasile (1984); infine dall’affrontare tematiche specifiche come le mostre sui documenti dell’Internazionale Situazionista (1977),del gruppo fluxus (1976), della Patafisica (1981). Il gruppo produsse una rassegna chiamata Per Cono-scenza, che voleva fotografare la situazione artistica sperimentale toscana. Durò tre mesi, durante i quali più di trenta artisti, fotografi, architetti, musicisti esposero il loro lavoro e i collegamenti di questo con le altre discipline della comunicazione visiva.

Esaurita negli anni questa impostazione di collegamento tra le arti, sarà Base, sempre nel quartiere di S. Niccolò, a sostituire Zona, questa volta con connota-

zioni più specialistiche all’interno delle vaste fenomenologie relative al campo del-le arti visive. Fondato nel ’98, con Maurizio Nannucci quale motore e regista, cui si accompagnano artisti come Mario Airò, Remo Salvadori, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Paolo Masi, e molti altri, Base diviene fondamentale luogo di incontro per

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giovani artisti e giovani critici che si raccolgono attorno a questo spazio dove per ogni mostra l’artista è invitato a confrontarsi con il contesto anche esterno, sempre sulla strada, come avveniva per Zona. Un art space dunque che intenzionalmente informa e coinvolge il passante, anche distratto, che periodicamente si trova ad esse-re partecipe di questa sequenza di eventi. Zona si inseriva anch’essa in un contesto di dibattito artistico molto fecondo, come quello fiorentino, che negli anni Sessan-ta aveva dato origine a movimenti come la Poesia Visiva e l’Architettura Radicale, “in un clima sociale caratterizzato da uno scontro politico aspro e generalizzato come quello dell’Italia della seconda metà degli anni Settanta”.

A cadenze regolari Base ha già ospitato maestri del contemporaneo come Sol Lewitt, Lawrence Weiner, Robert Barry, Franz West, così come artisti italiani

come Luca Pancrazzi, Marco Bagnoli, Luca Vitone, Liliana Moro, Massimo Bartolini, Grazia Toderi, Stefano Arienti, Maurizio Mochetti. Base così continua anche oggi, anche in continuità ideale con Zona un’attività insostituibile d’informazione sulle arti contemporanee.

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Lawrence Weiner“A bit beyond”

2008

nella pagina precedente:Maurizio Nannucci

“Something happened”2009

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il lib

ro

di Alessandro Coppola

Laterza, 2012

Vanessa LastrucciArchitetto, responsabile social network e comunicazione di Network in Progress.

[email protected]

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Le recensioni di

il libro“Ma di fronte all’insuccesso decennale di politi-

che che promettevano di fare nuovamente grandi queste città, il modo di guardare ai problemi sem-bra essere definitivamente mutato. Nelle menti di molti amministratori sembra imporsi la dolorosa ma indispensabile coscienza di un cambiamento epocale dal quale non si tornerà indietro. Il declino continuerà e si allargherà. Con mezzi nuovi, seppu-re con fini non raramente ancora equivoci, l’obiet-tivo è ora quello di cercare ancora fra le pieghe del declino le strade per una vita migliore.”

Lo shirinkage è un fenomeno che non ha colpito il territorio italiano negli anni ‘70 e ‘80, ma vedia-

mo adesso affiorarne gli aspetti, basta pensare a casi come la controversa ILVA o le acciaierie di Piombino. Un problema che anche l’Italia dovrà affrontare a bre-ve tempo. Questo ha spinto Alessandro Coppola a stu-diare con accuratezza il “restringimento della città” proprio dove il fenomeno ha sconvolto l’ambiente ur-bano così come lo conosciamo.

In Apocalypse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana l’autore descrive appassionatamente come nelle città del Nord Est degli Stati Uniti (New York, Detroit, Buffalo tra le altre) alla deindustrializ-zazione, l’abbandono dell’industria pesante in favore dello sviluppo del terziario in altre aree geografiche degli USA, ha corrisposto una deurbanizzazione, un progressivo abbandono della città, in favore del su-burbio prima e al seguito delle nuove opportunità di lavoro poi, che hanno portato le città ad avere una po-polazione dimezzata (to shrinke: restringersi) nel giro di un paio di decine di anni. Il panorama che si con-templa oggi a Yongstone o a Baltimora è il rovinarsi di edifici e case, il desolante abbandono della inner city e di interi quartieri, dove solo pochi residenti resi-stono sparsi tra le macerie di edifici crollati o bruciati dagli incendi. Pochi cittadini sparsi comportano costi

Apocalypse Towndi Vanessa Lastrucci

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il lib

rodi gestione sproporzionati per le amministrazioni che devono garantire almeno i servizi minimi (asfaltatura delle strade, approvigionamento di acque ed elettrici-tà) a chi rimane.

Anche il restringimento va pianificato, tra i modi che ci sono per affrontarlo Coppola presenta tre casi studio: Youngstone che dispone un piano per spostare i residenti e ricompattarli nel vecchio centro, lascian-do che la campagna si riappropri della fu città; Buffalo che ri-avvia l’economia sull’impresa della decostru-zione, lo smontaggio e il riciclo delle parti degli edifici vuoti; Baltimora che ha puntato su una sorpassata ri-qualificazione del waterfront senza ottenere i risultati sperati, a differenza di New York.

Le prospettive di rivitalizzare le città sono possibili solo abbandonando la logica della crescita economica e dell’espansione, e così molte amministrazioni han-no requisito i lotti abbandonati e fornito incentivi alle forme di agricoltura urbana, da sempre presenti negli USA, diventate vere e proprie imprese che sfamano gli abitanti dei ghetti (Chicago, Cleveland).

Nuclei urbani più piccoli, più concentrati, commi-sti a porzioni di campagna che provvedono al sosten-tamento; l’autore, supportato da anni di ricerca sul campo, propone come il possibile obiettivo della città in contrazione il paradigma della città arcipelago: a contare non è tanto la realizzabilità di un tale scena-rio, ma il fatto che una porzione crescente dell’opinio-ne pubblica inizi a crederci, e che qualche città in crisi irreversibile ci creda abbastanza da farne una ricetta plausibile per il proprio avvenire.

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