network in progress #5

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Novembre/Dicembre2011 In memoria di Mario Ghio di Enrico Falqui EDITORIALE di Edoardo Salzano Crescita della città e consumo di suolo Patrimonio ed Abitare, breve storia di un libro di Carmen Andriani L’ INTERVISTA Non si può consumare il futuro Simona Beolchi incontra Domenico FIniguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano

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La rivista di Verdiana Network Novembre/Dicembre 2011

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Novembre/Dicembre2011

In memoria di Mario Ghio

di Enrico Falqui

EDITORIALE

di Edoardo Salzano

Crescita della città e consumo

di suolo

Patrimonio ed Abitare, breve storia di un libro

di Carmen Andriani L’ INTERVISTANon si può

consumare il futuro

Simona Beolchi incontra Domenico FIniguerra, sindaco

di Cassinetta di Lugagnano

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www.verdiananetwork.com

Presidente_prof. Enrico Falqui .........................................................................falqui@unifi.it Segretario Generale, Responsabile stage formativi e attività di tirocinio_arch. Francesca Calamita.........................................francesca.calamita@libero.itSegreteria organizzativa_Annalisa Biondi...................................................annalisa@verdiananetwork.comResponsabile editoria e comunicazioni_arch. Stella Verin...............................................................stellaverin@gmail.comResponsabile web e servizio inviato speciale_Valerio Massaro.......................................valerio.massaro@verdiananetwork.comResponsabile progetto di ricerca_dott.ssa Chiara Serenelli.......................................chiaras@verdiananetwork.com Responsabile progetti urbani_arch. Paola Pavoni...........................................................pavoni_paola@libero.itEditing and graphics: Valerio MassaroResponsabile Editoriale: Stella Verin

Contatti

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VerdianaNetwork

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Index Numero Tematico:Il Consumo di Suolo

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In memoria di Mario Ghiodi Enrico Falqui

di Edoardo Salzano

EDITORIALE

Crescita della città e consumo di suolo

L’ INTERVISTA

Patrimonio ed Abitare, breve storia di un librodi Carmen Andriani

Non si può consumare il futuroSimona Beolchi incontra Domenico FIniguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano

VOLUMI ZERO: UN PIANO SENZA DIMENSIONI

Workshop ACMA a MilanoLa progettazione dei sistemi ambientali

progetto di recupero paesaggistico di spazi pubblici tra Gallipoli e AlezioTra monasteri benedettini e cave di tufo:

LE MIE CITTA’ di Vezio De Luciadi Paola Pavoni

RECENSIONE

di Annalisa Cataldi

di Silvia Minichino

di Annalisa Biondi

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PhotoStoryRitroviamo il tema del consumo di suolo an-che nella Photostory di questo numero. Presen-tiamo un “viaggio fotografico” attraverso due opere di rigenerazione urbana: La High Line di New York e al Promenade Plantée di Parigi. I due progetti partono dallo stesso concetto e cioè la creazione di un parco sul tracciato di una antica linea della metropolitana sopraelevata.

La High Line era destinata al trasporto merci dal Meatpacking District su fino alla West 34th street, ovvero fino quasi alla Penn Station, la se-conda stazione ferroviaria di New York, nata nel 1934, ha visto passare l’ultimo treno nel 1980, per poi cadere in disuso. Dopo lunghi dibattiti nel 2006 è iniziata la riqualificazione della prima parte della linea, il recupero della seconda parte è termianato nel Giugno 2011. Le piattaforme ferroviarie sono divenute un parco sopraelevato con panchine, spazi verdi, nuova città.

La Promenade Planteé si situa nel XII arrondis-sement di Parigi. Anch’essa situata sul traccia-to di una vecchia linea ferroviaria sopraelevata dismessa - la ligne de Vincennes - e si estende per 4,7 chilometri da Place de la Bastille fino al Boulevard Périphérique. Costruita a partire dal 1988 su progetto del paesaggista Jacques Vergely e dell’architetto Philippe Mathieux ed è stata inaugurata nel 1993.Due progetti innovativi che propongono nuovi approcci al recupero del dismesso, buone prati-che, nuovo futuro.

©Martina De Siervo

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In memoria di Mario Ghiodi Enrico Falqui

EDITORIALE

Conobbi per caso Mario Ghio sfogliando le pagine di un libro scritto con Vittoria Calzo-alri, sua moglie, intitolato “Verde di città”edito da una casa editrice , la De Luca Editori dalla cui tipografia uscivano agli inizi degli anni 70 splendide pubblicazioni di Ridolfi, Portoghesi e Michelucci. Avevo anche da poco scoperto gli scritti appassionati di Antonio Cederna con-tenuti in due libri, oggi pressoché introvabili, “Vandali in casa” e “La distruzione della Natura in Italia”.Erano anni difficili per le Facoltà di Architettu-ra, quegli anni 70; tra tumultuose assemblee e creativi laboratori di sperimentazione, docenti e studenti vivevano quotidianamente il “gran-de sogno” di un cambiamento radicale di quella società italiana, ieri come oggi, arretrata, assai bigotta e soprattutto timorosa del futuro. Avevo appena iniziato il mio percorso accademi-co come assistente volontario presso la cattedra di Igiene ambientale nella facoltà di Architettu-

Presidente di Verdiana Network, docente presso l’ Università degli Studi di Firen-ze, Direttore del laboratorio di ricerca in Architettura ed Ecologia del paesaggio (Lab AEP), Facoltà di Architettura di Firenze

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ra di Firenze , condividendo molti intervalli tra una lezione ed un’altra con un mio coetaneo, oggi scomparso, Giuseppe Amante.Fu lui a parlarmi dello splendido rapporto che lo legava a Mario Ghio, nella stessa mia funzione , presso la Cattedra di Pianificazione territoriale. Così che, quando ebbi l’occasione di conoscerlo di persona, mi tornarono a mente i suoi solidi concetti sullo spazio pubblico e su una conce-zione della pianificazione paesaggistica decisa-mente “fuori scala” per i tempi che correvano, di cui avevo letto in quel bel libro del 1961.Quando la nostra frequentazione venne resa quasi quotidiana, a causa della comune passione verso cibi popolari ma prelibati che, allora a Fi-renze, si potevano gustare in una celebre tratto-ria del Mercato di San Lorenzo , da Mario, ebbi l’occasione di approfondire la conoscenza della sua persona e della sua attività.Spesso, il desco al Mercato di San Lorenzo, di-veniva l’occasione di veri e propri seminari ed interminabili “ brain storming “ sulle vicende della legge Sullo che lo avevano visto protago-nista nella sede dell’INU, insieme a Massimo Giannini, Vincenzo Cabianca e Aldo Sandulli.

Mario, nel suo lavoro di ricerca cui partecipai per tutti gli anni 80 , era tanto rigoroso e esigen-te con i suoi collaboratori, quanto era pronto a manifestare il suo inguaribile ottimismo verso il futuro e verso la comunità scientifica che lo circondava.Dotato di una straordinaria vis polemica, de-gna del suo amico Antonio Cederna, quando si accorgeva che le sue esternazioni creavano divi-sioni anziché una comune strategia, smorzava i toni con un ironico e indimenticabile sorriso, spesso accompagnato da una sonante risata che rimbombava come una campana tra le arcate e gli splendidi soffitti del Palazzo di San Clemen-te.

Come Archibugi, era strenuamente convinto della necessità di un “processo unificato della pianificazione” sul modello del celebre Progetto 80, contestando il fatto che i Piani Regolatori Comunali dell’epoca fossero privi di ogni valu-tazione economica e di qualsivoglia valutazione di carattere ambientale e paesaggistico.Oggi tali principi ci paiono scontati ma per quei difficili e terribili anni 70, erano veri e propri “cazzotti nello stomaco”, come lui amava ripe-tere. Mario Ghio era nel pensiero e nell’azione un “riformista radicale”, e dotato di un rigore scientifico e morale quale oggi è assai difficile rintracciarne l’esistenza, sia nelle università che nella società in cui viviamo.Mario possedeva una straordinaria curiosità per tutto ciò che intuiva essere una “ rottura degli schemi precostituiti “, così che quando negli anni 80 ebbe la piena consapevolezza che la crisi ecologica globale minacciava alla radice la con-cezione illimitata dello sviluppo, si lanciò con determinazione in una frenetica quanto fertile attività di conferenze e convegni internazionali per mettere al centro delle sue riflessioni il rap-porto tra sviluppo e ambiente, tra espansione dell’urbanizzazione e l’uso appropriato dei suoli rurali e naturali.Insieme, abbiamo visitato i più importanti Cen-tri di ricerca pubblici europei sulla conservazio-ne del paesaggio e sulla tutela dell’ambiente,, organizzando un importante evento internazio-nale a Pistoia nel 1981.

Tornando insieme da uno di questi viaggi at-traverso l’Europa, soddisfatto per l’adesione ri-cevuta dai nostri interlocutori dello IAURIF di Parigi, mi disse: “Vedi, Enrico, hanno capito che non siamo solo degli studiosi seri , ma so-prattutto che siamo testardi. Tu devi esserlo per tutta la vita, se occorre”. Mi accorsi in quella occasione che mi stava insegnando non solo il mestiere ma che mi stava indicando un metodo di ricerca e uno stile di vita che, da allora, non

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ho mai più abbandonato, Amava vedere l’effetto che le sue parole produ-cevano nei propri interlocutori , inducendo-li sempre a rivelarsi con franchezza e lealtà e, quando questo avveniva, ne apprezzava con en-tusiasmo tale comportamento. Anche per que-sto, nei lunghi anni passati tra Firenze e Roma, Mario era sempre circondato da giovani, stu-denti o ricercatori che fossero, dei quali adorava la loro compagnia e dai quali si faceva volentieri coinvolgere in eclettiche discussioni.

Tuttavia, Mario ti entrava nel cuore non per la sua raffinata cultura o per il suo straordina-rio impegno di studioso e di docente; ti accor-gevi di averlo “dentro” di te quando arrivavi a catturare tutti i segnali della sua straordinaria e ricchissima umanità. Era capace di rinunciare a qualsiasi programma o scadenza, se avvertiva la necessità di un gesto di solidarietà o di affetto verso una persona in difficoltà.

Mario Ghio è stato per me un Maestro, un Amico vero ma soprattutto un Uomo Giusto, che lascia un segno indelebile nei cuori di chi lo circonda, aggiunge una goccia di speranza in un mare di indifferenza e di cinismo e lascia una Porta aperta, piena di Luce, laddove se ne è uscito.

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8PhotoStory ©Martina De Siervo

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Crescita della città e consumo di suolodi Edoardo Salzano

Eravamo pochi,oggi siamo moltiEravamo pochi, nel 2005, quando cominciam-mo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Di quei pochi, una parte si limitava a studiare il fenomeno nelle sue caratteristiche qualitative e ad analizzarlo dal punto di vista della possibi-le riqualificazione, riordinamento, riorganizza-zione delle vaste estensioni di campagna invase dalla “diffusione urbana”. Nessuno, in Italia, si preoccupava di quantificare (di conoscere esat-tamente nelle sue dimensioni articolazioni, cau-se) il fenomeno, né tanto meno di combatter-lo1. Quando con alcuni amici organizzammo la prima edizione della Scuola di eddyburg2 questi due elementi ci preoccuparono molto. La nostra osservazione del fenomeno da una pluralità di postazioni locali e disciplinari, e le prime analisi sui loro costi, ci inducevano a dare una valuta-

urbanista, Direttore della rivista Eddyburg, è stato Preside della Facoltà di pianificazione del Territorio a Venezia ed ha ricoperto importanti funzioni di Amministratore pubblico al Comune di Venezia e alla Regione Veneto.

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zione molto preoccupata delle conseguenze ter-ritoriali, sociali, economiche, culturali della sua espansione.Riuscimmo a creare una certa agitazione sul pro-blema, con l’aiuto soprattutto di due elementi: il successo che ebbe, da parte di alcuni gruppi politici, un testo legislativo idoneo a combatte-re il fenomeno che elaborammo3; la contempo-ranea reazione al fenomeno da parte di alcune associazioni protezionistiche (soprattutto Italia Nostra), di un certo numero di piccole ammi-nistrazioni locali, e di numerosi gruppi di cit-tadinanza attiva, soprattutto in Piemonte e in Lombardia. Questa ultime due componenti die-dero vita a un movimento (Stop al consumo di territorio) che ebbe un inaspettato successo di adesioni.Evidentemente, nonostante il lungo letargo del-la cultura urbanistica ufficiale (l’ultima ricerca significativa era stata quella coordinata da Gio-vanni Astengo4, ItUrb80, svolta nella metà degli anni Ottanta), una certa sensibilità alla questio-ne era maturata un po’ dovunque. Prova ne sia che, fin da allora, il “contenimento del consumo di suolo” è diventato un elemento della litania con la quale il politichese (la lingua dei politi-canti) rende omaggio alla idee suscettibili di col-pire l’opinione pubblica e, all’atto stesso, se ne impadronisce e le deforma utilizzandole ai pro-pri fini. Molti, che oggi invocano quel conteni-mento, mentre non praticano né attuano poli-tiche davvero capaci di ottenerlo, lo utilizzano come alibi per proporre “densificazioni” delle città esistenti senza nessuna preoccupazione per le reali necessità degli incrementi volumetrici.

La città della renditaCaratteristica strutturale determinante del pe-riodo che sta dietro le nostre spalle è il peso stra-ordinario che ha avuto – nel sistema economi-co e nelle politiche territoriali – l’acquisizione privata delle rendite: sia quelle finanziarie che quelle immobiliari (ricordo che gli “immobili” comprendono sia le “aree” che gli “edifici”, tal-ché la rendita immobiliare comprende la fon-diaria e l’edilizia). Se volessimo utilizzare una definizione coerente con quella che Luciano Gallino dà all’attuale fase del sistema economi-co, “finanzcapitalismo”5, dovremmo parlare di “urbanistica della rendita”. Questa è stata splen-didamente descritta da Walter Tocci nel suo sag-gio su “Il trionfo della rendita”6. A me sembra che tutte le tensioni che attualmente agitano la società civile e hanno generato i movimenti an-tagonisti nei territori italiani siano riconducibili al conflitto tra due usi alternativi del territorio: quelli che ho definito “città della rendita” e “cit-tà dei cittadini”7.La crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha modifi-cato in modo consistente il quadro, almeno per quanto riguarda i suoi aspetti di medio perio-do. C’è da chiedersi se il disastro che è avve-nuto negli scorsi decenni potrà proseguire negli stessi modi. Sembra ragionevole ipotizzare che i prossimi anni saranno invece caratterizzati da bassa domanda privata di alloggi e attività pro-duttive, da scarse risorse pubbliche, e da un’of-ferta di spazi sovrabbondante e priva (per carat-teristiche e localizzazione) di adeguati requisiti per qualsiasi utilizzazione. Insomma, il motore che sospingeva il consumo di suolo derivante dalla crescita della città (delle aree urbanizzate e urbanizzabili), non è forse entrato in stallo? Se così fosse, allora si porrebbe come primario il problema di come recuperare (socialmente, morfologicamente e paesaggisticamente, econo-micamente, funzionalmente) i territori devastati dallo sprawl.

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Guardiamo il consumo di suolodalla campagnaParallelamente si sta sviluppando però un al-tro fenomeno: le trasformazioni, patrimoniali e d’uso, dei terreni rurali. Consumo di suolo e riduzione del suolo agricolo sono certamente due fenomeni differenti per quantità, qualità, cause ed effetti. La riduzione del terreno agri-colo dipende anche dall’aumento dei terreni rinaturalizzati e degli incolti nonché (nei dati delle analisi quantitative spesso utilizzate) dal-la scomparsa di aziende agricole censite come tali8. Se guardiamo alle trasformazioni dell’uso del suolo dalla città, allora la questione centrale è il devastante “sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna”. Se le guardiamo invece a partire dal territorio rurale allora nascono preoccupazioni diverse, ma non meno rilevanti.Nel territorio lo sviluppo capitalistico provoca infatti, in modo sempre più esteso: il land grab-bing, l’accaparramento di suolo di una determi-nata comunità per costituire riserve alimentari per la nazione acquirente9; la pratica, tipica del colonialismo otto-novecentesco, della sostitu-zione delle colture tradizionali, legate a fabbi-sogni alimentari di prossimità; la più recente espansione dei suoli utilizzati la produzione di fonti energie alternative a quelle esauribili; in-fine, la specializzazione mercantile delle produ-zioni agricole: si produce là dove i costi di pro-duzione (a partire dal lavoro) sono minori. Le conseguenze di questi fenomeni sono di di-verso ordine. Aumenta l dipendenza del consu-mo di beni alimentari dai luoghi della produ-zione internazionale, il che comporta a sua volta un consistente aumento del consumo energeti-co dovuto al confezionamento e al trasporto. L’omogeneizzazione dei gusti dei prodotti indu-striali comporta la scomparsa delle caratteristi-

che organolettiche dei beni; con la conseguenza ulteriore che gradi risorse vengono impiegate per la ricerca di “sapori” finti da aggiungere a mer-ci rese omogenee dalla produzione industriale per “aggiustarne” il sapore e l’odore. Vengono distrutte le economie locali legate alle produzio-ni legate al territorio, e con esse le culture culi-narie, profondamente radicate nella storia e nel paesaggio. Le fonti dell’alimentazione (le condi-zioni della produzione degli alimenti) vengono sottratte alla conoscenza diretta dei consuma-tori e affidate alle alchimie (e alle bugie) delle etichette e della propaganda. Infine, last but not least, i prezzi dell’alimen-tazione sono sempre meno controllati dal rap-porto tra produttore e consumatore. Rispetto ai rapporti produzione/consumo delle economie a filiera corta il prezzo è in costante aumento, grazie anche alle sempre più ingenti spese (in aggiunta al costo della terra e a quello del lavo-ro) impiegate per adulterare, confezionare, tra-sportare il prodotto e condizionare il consuma-tore. Con l’ulteriore conseguenza di contribuire all’aumento della povertà e, là dove la povertà giunge a determinati livelli, alla minaccia alla stessa sussistenza fisica. Perché dell’ultimo modello di telefonino la per-sona può fare a meno, del cibo no.

Che fare?Per comprendere che cosa fare oggi credo che si debba partire da un principio. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile. Questo principio deve condizionare ogni azio-ne di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è stret-tamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di

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quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malaugurata-mente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia pro-prietaria e di quella economica. Per quanto si possa guardar lontano, è difficile vedere un futuro nel quale la maggioranza dei decisori (locali, nazionali, globali) decida di ap-plicare quel principio con piena coerenza. Al-lora la prima necessità, oggi, è di far diventare quel principio una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di per-sone di verità che condizionano la vita di cia-scuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professo-re o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pia-neta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi. Combattere il consumo di territorio non signifi-ca solo, oggi, ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. E a questa necessità di difesa si aggiunge quella di sanare quello che il trionfo della rendita ha pro-dotto.Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenera-zione fisica ed estetica che il esso fornisce, ma anche la sua prima funzione: alimentare l’uma-nità in ciascuno dei suoi componenti. Significa perciò anche difendere l’agricoltura: non neces-sariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle col-ture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal merca-to globalizzato. Significa coinvolgere il più am-piamente possibile nella stessa grande vertenza

le numerose associazioni che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approv-vigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali. E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.

1 Anche studiosi intelligenti, spesso acuti nella descrizione del fenomeno, come Bernardo Secchi e Francesco Indovi-na, individuavano della dispersione urbana la nuova forma dell’insediamento umano (la “città diffusa”), con un atteg-giamento che oggettivamente ne giustificava la devastante prosecuzione, in una fase in cui il suo arresto doveva essere l’impegno prioritario. Si veda, in proposito, il mio Eddytoriale 114, http://eddyburg.it/article/articleview/11188/0/318/2 I materiali della prima edizione della Scuola estiva di pia-nificazione sono raccolti nel libro No Sprawl, a cura di Maria Cristina Gibelli ed Edoardo Salzano, Alinea, Firenze 20063 La proposta di legge è riportata in appendice del libro No Sprawl citato. I suoi materiali e i testi delle proposte scaturite da quel documento e presentate in Parlamento sono con-tenute nel sito eddyburg.it, nella cartella all’indirizzo http://eddyburg.it/article/archive/224/4 “Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia”, pub-blicato in Quaderni di Urbanistica Informazioni n.8, 1990. Un’analisi sulle ricerche sull’argomento sono negli scritti di Mauro Baioni contenuti nel libro No Sprawl citato.5 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011.6 Walter Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, in: “Democrazia e diritto”, n. 1/2009.7 Edoardo Salzano, Dualismo urbano. Città dei cittadini o cit-tà della rendita, in: “QT2, Quaderni del territorio”, n. 2, rivista on-line del laboratorio StoricaMente, Dipartimento di discipli-ne storiche, antropologiche e geografiche dell’Università di Bologna, http://eddyburg.it/article/articleview/17327/0/14/8 Nei dati sparati a proposito del consumo di suolo si fa moltissima confusione. Più volte su eddyburg siamo inter-venuti per precisare le grandissime differenze delle varie fon-ti adoperate. Si veda ad esempio il mio Eddytoriale n.108, http://eddyburg.it/article/articleview/10166/0/317/9 «Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono stati ceduti in concessione per venti, trenta, novant’anni alla Cina, all’India, alla Corea, in cambio di vaghe promesse di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati Arabi 1,3.» Carlo Petrini, Chi ruba la terra e il cibo dell’Africa, in: “La Repubblica”, 26 gennaio 2010

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13 PhotoStory©Martina De Siervo

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14PhotoStory ©Martina De Siervo

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Patrimonio ed Abitare , breve storia di un librodi Carmen Andriani

La vicenda di questo libro comincia nel 2008 nell’ambito della Biennale in occasione del concorso ad inviti per il progetto del Padiglio-ne italiano. Si trattava di individuare un tema rilevante e di rappresentarlo attraverso l’allesti-mento dello spazio interno del Padiglione. Pro-posi di rappresentare , attraverso una metafora spaziale, il dialogo difficile fra i paesaggi della contemporaneità ed il patrimonio dell’esisten-te. Usai uno slogan , patrimonio ‘incorruttibile’ verso la ‘corruttibilità’ del presente, per indicare il punto critico della questione : la fissità di un valore non più discutibile, contro la instabilità e la incessante mutevolezza del presente. Que-sto fu il centro del convegno che seguì a quel progetto non realizzato. Mi sembrava fosse par-ticolarmente urgente rivedere la nozione di pa-trimonio, nel suo significato più ampio, così come era stato fatto, a partire dagli anni ottanta con altri termini densi ed impegnativi quali cit-tà, paesaggio, territorio. Mi pareva importante riscrivere questa nozione alla luce del mutato rapporto con il Moderno entro un’angolazione

ordinario di Progettazione architettonica e urbana presso la Facoltà di Architettura di Pescara, ha vinto il concorso per la realizzazione di un progetto di itinerario turistico-monumentale tra il Pantheon e Fontana di Trevi a Roma, in corso di attuazione ed è stata invitata alla VI Biennale di Architettura a Venezia tra le voci emergenti dell’Architettura italiana.

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che sottolineasse lo scarto rispetto alle posizio-ni del Novecento. Rilevando una sorta di slit-tamento dei concetti centrali del progetto mo-derno, quali la nozione di pubblico, il diritto all’abitare, il concetto di patrimonio. Rifiutarsi di pensarle come nozioni ferme, immutabili, significava esercitare un’attenzione al presente, interrogarsi su dove esattamente ci si situa, par-tendo non dalla teoria del mondo ma dalle no-stre pratiche, anche le più minute.

Il libro ‘Patrimonio ed Abitare’ pone delle domande .

Il convegno prima e successivamente il libro si sono posti l’obiettivo di scardinare una visione univoca e sostanzialmente eurocentrica, di rac-cogliere frammenti di ragionamento da angola-zioni diverse, rivolgendosi a storici, architetti, urbanisti , paesaggisti, critici letterari. A queste si aggiungono le libere interpretazioni di alcune poetiche: dell’architettura , della musica, della espressione filmica. L’elenco degli oltre ottocen-to siti dell’Unesco selezionati in più di sessanta anni di attività , pone il problema dell’autenti-cità del rapporto con la Storia e rischia di co-stituire un firmamento di icone predeterminate amplificandone l’aspetto commerciale. Il libro si è posto la finalità di avviare una questione, non già di concluderla, anche pagando il prezzo della necessaria incoerenza delle sue fasi iniziali. La nozione di patrimonio è stato costruita per tutto il novecento in maniera autoreferenziale. Lo spiega bene Carlo Olmo nel suo testo Con-servare le storie descrivendola come un insieme di recinti chiusi e non comunicanti fra loro. Il fatto è che il patrimonio è ‘un insieme di patri-moni , di idee, di valori, di strategie politiche e culturali spesso fra loro in conflitto, difficili da ricondurre a ciò che Olmo definisce “la co-struzione dell’opinione pubblica”, tanto più ur-gente se le diverse idee di patrimonio portano

con sé differenti idee di tutela o quantomeno di scala di valori. La domanda attorno a cui ruota il libro

riguarda la questione del rapporto con il Mo-derno. Per tutto il novecento la nozione di patri-monio è stata compresa nell’ambito di una con-cezione moderna e la testimonianza di Vittorio Gregotti è una prova di militanza attiva e non nostalgica portata avanti fino ad oggi. Ma l’oggi è profondamente cambiato. C’è un saggio illu-minante (‘La fine del postmoderno’ di Alfonso Berardinelli, Quodlibet 2007), in cui, parlando della letteratura e della sua ‘mutazione ‘, l’autore ci dice che già intorno alla metà del secolo scor-so l’idea di progresso legata alla Modernità mo-strava sintomi di stanchezza e che il postmoder-no che ne è seguito sia già consumato. Potrebbe dirsi la stessa cosa per l’architettura e per l’abita-re contemporaneo , espressione postmoderna di pluralità, mescolanza, mutazione continua. Ci si chiede cosa significhi patrimonio in questo contesto, come si concili una nozione ancorata alla morale novecentesca, fatta di contrapposi-zione decise, ed una cultura divenuta ‘socializza-bile e seducente’.Quando Bernardo Secchi parla dei grandes ensembles parigini, li descrive come i nuovi monumenti di una diversa organizzazio-ne dello spazio fisico e sociale, altrettanto vitale quanto contraddittoria. Essi rappresentano una Parigi diversa che in molti vorrebbero demolire, perché considerata scarto, nonostante il senso di appartenenza maturato nel disagio . Il patrimo-nio, allora, non è un affare per tutti e ‘il giudi-zio che noi esprimiamo nei confronti del patri-monio, si legge nel testo di Secchi- non è neutro , ma profondamente marcato dagli stereotipi di una cultura che un tempo avremmo detto una cultura di classe”. La nozione di patrimonio che si cerca di riscrivere, appartiene dunque ad una visione ‘antipatrimonialista’ ed attiva nei proces-si di trasformazione della città e dei suoi modi di abitare, mescolati, ibridi , instabili. La inco-

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municabilità riguarda anche linguaggi profon-damente differenti: malleabile e flessibile quello del presente postmoderno, assertivo e resistente quello legato al Moderno novecentesco.

Patrimonio ed Heritage, Forme laterali di patrimonio L’idea di patrimonio non è solo riferita ai beni materiali ma anche a quelli immateriali. E’ l’in-sieme dei fattori consci ed inconsci, è il rap-porto dialettico fra la massa inerte della forma materiale e le aspirazioni sempre mutevoli degli individui. Più aderente dunque alla idea anglo-sassone di heritage che non a quella francese di patrimoine nationale : una cosa è ereditare la città, altro è ereditare il modo di abitare la città. La sovrapposizione del concetto di abitare con quello di patrimonio, è più evidente in alcune forme di patrimonio che abbiamo definito ‘late-rali’ . Sono modalità diverse di abitare lo spazio, forme di patrimonio non certificate, fuori dalle regole del mercato globale della conoscenza e dagli elenchi dell’Unesco. Si prenda ad esempio il caso della yurta, modello di abitazione iti-nerante delle comunità nomadi della Mongolia. L’idea della tenda , montata e rimontata in luo-ghi differenti, persiste per il suo forte contenuto ancestrale e si affianca agli insediamenti stanzia-li. Così documenta il video La gher sur le toit di Céline Pétreau e Michèle Pédezert . Nell’azione del montaggio e poi dell’allestimento interno è racchiuso un microcosmo di tradizioni materia-li ed immateriali , insieme di usi, consuetudini, rituali e relazioni familiari.

Abitare e Patrimonio convivono in assoluta coincidenza dei termi-ni e si ripetono quotidianamente nelle piccole azioni, nei gesti ripetuti , nel rituale degli spo-stamenti , nello smontaggio e rimontaggio della tenda in luoghi sempre diversi.Un abitare senza un ‘fuori’. Lo spazio dell’intimità della grande

tenda come della piccola stanza. La nozione di patrimonio si dilata o si comprime : può espan-dersi nello spazio e nel tempo , raccogliere una quantità smisurata di materiali, ma può inscri-versi anche nella intimità privata di una bolla che non conosce più esterni, o meglio che può fare a meno della dimensione esterna a sé, della dimensione pubblica e che rimane consapevole della sua irrilevanza.

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ARCHITETTURAviale Pindaro 42 - 65127

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©Martina De Siervo

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PhotoStory

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Non si può consumare il futuro

INTERVISTA

Intervista a Domenico Finiguerra, Sindaco di

di Simona BeolchiUrbanista

Cassinetta di Lugagnano

Martedì 8 Novembre 2011, Cassinetta di Lugagnano.

Passeggiando per Cassinetta di Lugagnano si re-spira l’aria di un tempo che si spande in un’at-mosfera moderna. In questo fazzoletto di terra, che si estende per 3,2 km, incontro case basse, stradine ciottolate, un piccolo ponte a schiena d’asino che collega le due sponde del Naviglio Grande, locande e ville di antichi nobili. Tut-to questo s’intreccia con un ordine dei nostri tempi e qualche elemento di modernità come i pannelli solari sui tetti dell’asilo e su altri edifici pubblici. Nessun fuori scala, si percepisce così una sensazione di buon equilibrio tra antico e moderno e tra naturale e opera dell’uomo.

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te distruggendo chilometri di terreno vergine che una volta erano il valore aggiunto dei loro luoghi. Cassinetta, stretta dalla morsa della peri-feria milanese, vuole resistere e mostrare che esi-ste un altro modo di fare politica ed economia. I nuovi amministratori decidono così, coeren-temente con il programma elettorale del 2002, di perseguire un rinnovamento generale della gestione del comune, che prevede anche una politica urbanistica molto semplice e chiara: la possibilità di realizzare nuovi insediamenti sol-tanto attraverso il recupero dell’esistente e delle zone già compromesse, in altre parole lo stop al consumo del territorio agricolo. Questo di per sé non vuol dire fermare l’edilizia e l’economia che ci gira attorno ma vuol dire circoscriverla solo in aree non libere; a Cassinetta, infatti, le gru sono presenti in tante zone ma tutte orien-tate al recupero dell’esistente. Questa visione politica si traduce concretamen-te in un Piano di Governo del Territorio, appro-vato nel 2007, a crescita zero. Il sindaco me lo presenta come “un grande piano di recupero”, accompagnato anche da un piano del colore che contribuisce a rendere più bella ed elegante la città, definendo non solo gli aspetti cromatici ma anche i dettagli architettonici e ricostruttivi per gli immobili. Un altro elemento che qualifica il cambiamento di Cassinetta è il fatto di aver coinvolto i citta-

Quando arrivo a Cassinetta si è concluso da po-chi giorni, proprio qui, l’incontro che ha dato vita al Forum Italiano dei Movimenti per la Ter-ra e il Paesaggio: “Salviamo il paesaggio, difen-diamo i territori”, che il 29 Ottobre 2011 ha visto circa seicento persone confrontarsi sullo stato di salute del suolo italiano e del suo pae-saggio e sulle urgenti azioni necessarie ad arre-stare il dilagare di asfalto e cemento a scapito dei terreni liberi. Non è un caso che questo forum si sia svolto qui, infatti, Cassinetta di Lugagnano è stato il primo comune in Italia a dotarsi di un Piano di Governo del Territorio a consumo di suolo zero. Di questa esperienza parlo con il Sindaco, Do-menico Finiguerra, con il quale condivido l’idea che la necessità, in questa fase storica, sia quella di sdoganare il problema del frenetico consumo di suolo libero che sta minacciando il nostro patrimonio naturale, quindi di far sì che tutti avvertano questo come un disagio e che tutti facciano la propria parte per fronteggiarlo.

1. La mia prima domanda è volta a capire in breve quali sono gli elementi qualificanti dell’esperienza di Cassinetta di Lugagnano nell’ambito del consumo del suolo.

Nel 2002 ci sono le elezioni politiche, il gruppo di cui fa capo l’attuale sindaco, ha un sentire co-mune: un senso di oppressione nei confronti del cemento che, giorno dopo giorno sta lentamen-

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dini nelle scelte. Gli amministratori hanno vo-lontariamente portato avanti un processo par-tecipato, apprezzato dagli abitanti che hanno riconfermato il sindaco e la sua squadra nelle elezioni del 2007 dopo l’approvazione del PGT.Nel 2009 Cassinetta ha fatto scuola, quelle che erano delle idee nate da sensazioni istintive nel 2002 dopo sette anni hanno preso corpo in un progetto. Nasce la campagna nazionale “stop al consumo di territorio” alla quale partecipa-no anche altre amministrazioni che mettono in campo le stesse decisioni. A questa esperienza prendono parte esperti, amministratori, cittadi-ni, associazioni ambientaliste, che per la prima volta si mettono insieme per confrontarsi su questo tema.

2. Con la seconda domanda chiedo al sindaco che tipo di battaglia sia quella che prevede lo “stop al consumo di suolo”, come si declina e quale concetto di paesaggio urbano voglia proporre. All’inizio del mandato l’idea di puntare su temi come questi è un proposito di cuore, una re-

azione di rigetto a una gestione arrogante del bene comune, che solleva una serie di obiezioni rispetto alla leggerezza con cui spesso si procede al consumo di territorio.Dal 2002 a oggi gli amministratori incontrano tante altre esperienze e realtà, grazie a questo la loro scelta matura all’interno di un percorso in cui non sono soli e che li rende consapevoli che le loro scelte assumono un significato culturale di resistenza a un modello di sviluppo ormai lo-goro che ha portato alla depredazione del bene comune.La battaglia è una scelta politica, è un grande messaggio, molto articolato che rende concreto il concetto “pensare globalmente, agire local-mente”. Da un lato punta a preservare a salva-guardare e tutelare la terra, perché è un bene che serve a tutte le popolazioni e ci servirà sempre di più, “è necessario”, mi dice il sindaco, “fare i conti con le risorse che abbiamo e avere uno sguardo lungimirante assumendo un comporta-mento responsabile per le generazioni future”. E’ una scelta, inoltre, che nasce da problemi ambientali che si palesano ogni giorno ma che fino ad ora abbiamo voluto ignorare. E’ una bat-taglia economica che contrasta l’idea, che è stata venduta all’opinione pubblica, del consumo di territorio come una necessità dell’economia che avrà certamente ricadute positive sui cittadini. Il consumo di suolo è anche una questione che riguarda l’identità dei luoghi, il sistema di re-lazioni che vengono distrutti ed il patrimonio culturale e paesaggistico che perde qualsiasi si-gnificato e valore. Il modello di sviluppo che gli amministratori di Cassinetta perseguono punta quindi sulla tenuta dei legami sociali, che sono invece annientati da questi grandi non luoghi, scatoloni vuoti e finti, dove si va soltanto per es-sere consumatori perdendo il legame con il pa-esaggio e il territorio. Uno degli obiettivi della politica di recupero dell’esistente è di far riemer-gere quel senso di comunità che si sta perdendo, soprattutto nei grandi agglomerati urbani, dove l’anonimato comincia a essere la regola. La battaglia infine è una strenua difesa del no-stro paesaggio di pregio, punto cardine dell’i-

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dentità del nostro paese, una lotta agli agglome-rati urbani del tutto simili e sovrapponibili che non restituiscono la storia del luogo ma sono modelli preconfezionati.

3. Volenti o nolenti il suolo è diventato or-mai un salvadanaio per i comuni che versano in situazioni imbarazzanti e che ricorrono al miraggio della produzione edilizia per ali-mentare le casse comunali ormai sguarnite. Chiedo perciò al sindaco come si possa soste-nere una scelta politica che prescinda dagli introiti degli oneri di urbanizzazione e quali misure il comune di Cassinetta abbia preso per ovviare a questa mancanza.

L’obiettivo primario dell’amministrazione è sta-to proprio quello di emancipare il bilancio co-munale di parti corrente dagli oneri di urbaniz-zazione, sono ormai quattro o cinque anni che il comune è “disintossicato” da questa dinamica. Per fare questo, gli amministratori hanno messo in campo un nuovo modo di fare politica pun-tando principalmente su quattro asset. Il primo è stato chiedere ai cittadini un sacri-ficio a fronte di una scelta comune, facendo leva sulla fiscalità. Una delle prime azioni è sta-ta quella di aumentare l’ici sulle seconde case, portandolo al massimo sulle attività produttive e inserendo nuove fasce di reddito per i cittadi-ni più benestanti, chiedendo loro di partecipare in maniera più importante alle spese dei servizi. Contemporaneamente il comune stesso ha vo-luto dare l’esempio puntando su scelte dettate dalla sobrietà, dal risparmio, dall’attenzione a ogni piccola spesa. La terza leva è stata quella di guardare altrove e di fare proprie delle buo-ne pratiche di altri comuni virtuosi. Infine, un altro ingrediente della nuova politica è stato la fantasia. A Cassinetta di Lugagnano hanno in-ventato i “Matrimoni per la terra”, un pacchetto di bel paesaggio, di animazione e di fasce orarie che messi insieme permettono al Comune di incassare un terzo di quelli che erano gli introi-ti degli oneri di urbanizzazione. Questa buona

politica ha portato nel comune un nuovo senso civico, un nuovo spirito e una nuova partecipa-zione degli abitanti alla vita della città.

4. Prima di lasciare il sindaco, gli chiedo di lanciare uno sguardo al futuro, illustrandomi quali prospettive si sono aperte a conclusione dell’assemblea fondativa del forum nazionale “Salviamo il paesaggio, difendiamo i territo-ri”.

Le premesse sono buone, alla giornata hanno partecipato circa seicento persone, provenienti da diciotto regioni, trecentocinquanta associa-zioni, tra loro personalità importanti della cul-tura, dell’educazione, delle amministrazioni. E’ stato un momento che ha fatto partire un mo-vimento di opinione che punta a elaborare una proposta di legge nazionale che, tra le altre cose, intende rendere obbligatorio, per ogni Comu-ne, un censimento delle aree edificate vuote o non utilizzate.

Ringrazio il sindaco a lascio Cassinetta di Lu-gagnano seguendo il corso del Naviglio Grande con la sensazione che un altro mondo è possibi-le, basta volerlo.

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Tra monasteri benedettini e cave di tufo:progetto di recupero paesaggistico di spazipubblici tra Gallipoli e Aleziodi Annalisa Cataldi

Pietro Maisen Valtellinese nel 1870 scrisse:

“Nel riposto seno del mare Ionio, […] , sopra un alto scoglio che si pronuncia nel mare e da que-sto tutto circondato, siede Gallipoli, [… ]; La città è edificata su d’uno scoglio, consistente in una massa di pietra calcare tenera, la quale dopo i primi strati dà luogo ad un fondo argilloso. E di tal natura sono pure le collinette che con fa-cile china al suo levante si estendono, ricoperte d’un strato leggero di terra arenosa silicea [ … ]. Ad oriente, e dove le colline ad attingere inco-minciano la loro massima elevazione, profonde cave osservasi, donde nei secoli che furono, la pietra si estrasse per edificar la città, pietra della natura stessa di quella che le serve di base”.

Da tali parole si evince che la storia del sito in oggetto, localizzato a circa 2 Km dal centro abi-tato di Gallipoli (Lecce) in direzione Alezio e a circa 50 m s.l.m. risale a tempi antichissimi. È la storia di un territorio denominato “Mater Gratiae”, le cui caratteristiche geologiche sono,

laureanda in Architettura, Università degli studi di Firenze

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in buona parte, industrialmente sfruttabili. E’ la storia di generazioni di cavatori, che avvalendosi di differenti metodi di escavazione a seconda del periodo storico di appartenenza, hanno “colti-vato” e commercializzato in campo edilizio, le risorse offerte dal territorio. E’ la storia del “tufo di carparo”, la pietra dalle buone caratteristiche fisico-meccaniche e dalle gradevoli tonalità cro-matiche, che ha condizionato e caratterizzato nei secoli l’architettura e l’edilizia locale, il cui uso, insieme a quello della “pietra Leccese”, ha dato vita alle meraviglie del Barocco nel Salento. E’ però anche la storia di una continua attività di invasione e di consumo del suolo, dell’ero-sione “antropica”, che a causa delle incessanti escavazioni, ha compromesso irreparabilmente il territorio. Le conseguenze della devastazione emergeranno fra pochi anni nella loro comple-tezza e irreversibilità, quando, al momento della completa dismissione dei siti, ai problemi di or-dine ecologico e paesaggistico, si aggiungeranno

quelli di carattere antropologico e urbanistico legati alle prospettive del riuso.Nelle cave di “Mater Gratiae”, a partire da 1200 fino al secondo dopoguerra, è stata praticata la coltivazione delle calcarenite attraverso la tecni-ca dell’escavazione in “sotterraneo”. Dopo gli anni ’50 però, il crescente fabbisogno di “tufi” utili tanto all’attività edilizia quanto alla costru-zione di infrastrutture, insieme alla meccanizza-zione delle pratiche estrattive, hanno favorito l’escavazione “a cielo aperto”, agevolando inevi-tabilmente l’estensione delle cave, il cui bacino è arrivato così ad assumere dimensioni smisurate.E’ sconcertante oggi il paradosso fra l’invisibilità del bacino, ottenuta attraverso recinzioni, sbar-ramenti e siepi fittissime che ne impediscono la visuale e la reale ampiezza dell’enorme ferita aperta che si estende per 209.400 mq nel suolo, mettendo a dura prova da decenni l’equilibrio ambientale del luogo. La Regione Puglia con riferimento alla legge

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n°37/85 sulle “Norme per la disciplina dell’at-tività delle cave”, ha redatto il P.R.A.E. , un “Piano Regionale delle Attività Estrattive”, ap-provato nel 2006 e adottato nel 2007, indivi-duando le aree da sottoporre alla redazione di un Piano Particolareggiato (P.P.). Il bacino di “tufo di carparo” presente a Gal-lipoli, valutato come particolarmente compro-messo dall’attività estrattiva, è rientrato nell’e-lenco delle aree “da salvare”, ma ad oggi un P.P. per l’area in questione non è ancora stato re-datto.

Esso dovrà essere conforme al Piano Paesag-gistico Territoriale Regionale, prodotto dalla giunta regionale grazie alla L.R. 20/2001 in quanto a “Norme generali di Governo e uso del territorio”, avente come finalità la tutela dei va-lori ambientali, storici e culturali del territorio e naturalmente dovrà coincidere con i principi cardine della Convenzione Europea del Paesag-

gio.Quest’ultima è stata adottata nel 2000 da tren-tacinque stati della Comunità Europea con l’o-biettivo di promuovere l’adozione di politiche di salvaguardia, di gestione e di pianificazione dei paesaggi, intesi come “una determinata par-te del territorio, così come è percepita dalle po-polazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interazio-ni”. Il concetto, così definito, comprende “sia i paesaggi che possono essere considerati ecce-zionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati”. La Convenzione Europea ribadisce dunque che non esistono paesaggi privilegiati rispetto ad altri in tema di diritto di tutela e che quindi, le cave gallipoline, pur essendo state considerate spesso e volentieri un’area degradata o uno spazio di rifiuto, è co-munque un luogo da proteggere e valorizzare.Come ha affermato l’architetto urbanista e pa-esaggista Domenico Luciani, “Una cava, non è

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soltanto un fatto fisico, ecologico, merceologico o tecnico, e il nostro modo di percepire questa ferita diventa decisivo per il nostro modo di agi-re su di essa”.Il “Mater Gratiae” , è un oggetto sociale, antro-pologico, culturale. È un grande patrimonio di esperienze, di lavoro e professionalità traman-dato per secoli di padre in figlio nella manualità materializzata nelle pareti quasi architettoniche del bacino. Redigere un Piano Particolareggiato in linea con i principi della Convenzione Europea del

Paesaggio è un dovere sociale oltre che natura-le nei confronti del “Mater Gratiae”. Fare delle scelte progettuali sostenibili che tengano conto della dimensione economica, naturale e sociale e che alimentino dinamiche di crescita per tut-to il territorio è la responsabilità che le autorità locali devono assumersi per garantire nel tempo le risorse naturali a beneficio delle generazioni future.

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VOLUMI ZERO: UN PIANO SENZA DIMENSIONIRadiografia della crescita urbana nel nuovo Piano strutturale di Firenzedi Annalisa Biondi

Fino agli anni ‘70 i processi di crescita che hanno investito le città, dalla rivoluzione in-dustriale in poi, si possono identificare di pari passo con la crescita demografica1. Successiva-mente si iniziano a registrare i primi fenomeni di arresto demografico a cui non corrisponde però un ridimensionamento del costruito. In-fatti la crescita fisica delle città non si arresta: i principali contesti metropolitani continuano ad espandersi e cresce costantemente lo spazio occupato dagli insediamenti. Sono proprio i contesti urbani più maturi a registrare saldi de-mografici più negativi e contemporaneamente le maggiori crescite insediative; questa tenden-za rilevabile a scala nazionale e internazionale raggiunge dimensioni più evidenti in quei con-testi dove i processi di urbanizzazione si sono

laureanda in Architettura, Università degli studi di Firenze

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manifestati con un certo anticipo. Dopo la crisi del modello fordista, si inverte il rapporto che tradizionalmente aveva legato dinamiche inse-diative e demografiche: la complessità dei risul-tati territoriali prodotti da questo fenomeno dà luogo negli anni successivi ad un’ampia produ-zione lessicale che tenta di iscrivere questi feno-meni all’interno di nuove categorie analitiche e interpretative (urban sprawl, città dispersa, città diffusa, etc.). Infatti, i nuovi assetti insediativi scardinano il dualismo città/campagna renden-do i confini tra i due sistemi sempre più labili e i territori antropizzati occupano spazi sempre più crescenti. L’accentuarsi del carattere diffuso del-le città diviene un tratto che accomuna un nu-mero crescente di contesti metropolitani ed è il risultato dell’interazione di numerosi fattori, tra cui predominano quelli di natura macro-econo-mica, come la crescita fisica degli insediamenti, la diffusione di nuove tecnologie di comunica-zione e di attività che non richiedono localizza-zioni centralizzate; a questi si aggiungono micro fattori peculiari per ogni contesto, come i nuovi

stili abitativi, la diffusione della mobilità privata e le rendita fondiaria. Anche Firenze segue, se pur con le dovute spe-cificità, lo stesso percorso e le trasformazioni che la città subisce sono di notevole portata e riguardano sia le dimensioni della città, che si espande in modo significativo verso nord-ovest, sia la struttura interna, che vede per prima, la dismissione di molte aree ed edifici industria-li, e poi il loro radicale riuso, fenomeno ancora oggi in atto. Alla metà degli anni ‘70 Firenze ha una struttura morfologica molto diversa non solo da quella antica ma anche da quella otto-centesca e dei primi del ‘900. Infatti la città si è notevolmente estesa e i nuovi tessuti urbani non sono più dominati dalla continuità delle cortine edilizie ma dall’edificazione aperta, che ha nel singolo edificio, isolato nel suo lotto di perti-nenza, il suo principale modulo. A differenza del decennio ‘50-’60 però, il processo di espan-sione urbana avviene in concomitanza di una forte contrazione demografica: si passa infatti dai 457.417 abitanti del 1978 ai 368.901 abi-

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tanti del 2007, con un saldo negativo di 88.000 abitanti. Al di là degli aspetti quantitativi quello che contraddistingue l’espansione edilizia di questo periodo è il risultato che essa produce: l’imma-gine di una città priva di un disegno d’insieme, frammentata e disordinata dove i nuovi tessuti edilizi travalicano i confini comunali saldando-

si a quelli dei comuni circostanti che intanto si accrescono in modo altrettanto segmentato. Il controllo della crescita urbana diventa così uno dei temi dominanti nei Piani dal secondo dopo-guerra in poi provocando spesso difficoltà tecni-che e politiche nel pianificare un territorio che non è più prettamente fiorentino ma che appar-tiene ad altre Amministrazioni2. Tralasciando la

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dimensione metropolitana in cui andrebbe inse-rita la città per comprenderne meglio le dinami-che di espansione, e osservando Firenze ristretta ai suoi confini amministrativi, si può osservare che i Piani che si sono succeduti hanno comun-que dovuto fare i conti con un organismo urba-no in continua crescita che ad oggi può essere quantificato in 5.752 ettari su una superficie co-munale di 10.241, ossia il 56,17 % di territorio urbanizzato.Anche il Piano Strutturale approvato pochi mesi

fa (con deliberazione n. 2011/C/00036 del 22 giugno 2011) si confronta con questa tematica, proponendosi di arginare il consumo di suolo: “volumi zero” è lo slogan con cui l’attuale Sinda-co ha presentato il nuovo strumento urbanistico che, tra i molti, ha anche il compito di deter-minare le nuove quantità edificatorie massime . Andando a leggere i vari documenti di Piano si possono ricavare alcuni dati indicativi che pur-troppo non confermano nella pratica la teoria dei “volumi zero”: infatti se da un lato si stima

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che la superficie da recuperare senza nuovo im-pegno di suolo (che comprende aree dismesse, in via di dismissione ed edifici “incongrui”), raggiunge quasi 1.200.000 mq, dall’altro si deve necessariamente fare i conti con le capacità resi-due del PRG precedente. Quest’ultime sono ri-partite in aree di nuova edificazione residenziale (100.000 mq), dei servizi (73.000 mq) e indu-striale/artigianale (50.000 mq), per un totale approssimativo di 240.000 mq. A questo propo-sito si sottolinea che solo il futuro Regolamento Urbanistico potrà fissare con precisione i nuovi interventi, tenendo conto degli indirizzi e delle prescrizioni contenute nel Rapporto Ambienta-le e nella Valutazione Integrata. Inoltre, nei rela-tivi documenti (Norme Tecniche di Attuazione) anche se si fa appello al dimensionamento come «principio fondante del Piano Strutturale» a cui si affida «la trasformazione della città» futura, in realtà, ad una prima analisi, questo intento non viene esplicitamente sviluppato. Il dimen-sionamento di un piano è uno degli elementi che può permettere una valutazione in termini di popolazione (ossia di fabbisogno di abitazio-ni, infrastrutture e servizi) e consumo di suolo, ossia una verifica diretta delle risorse disponibili e dunque della sostenibilità dell’intero piano. A questo punto ci si chiede se lo slogan “volumi zero” sia riferito invece ad un piano senza di-mensioni, incapace quindi di confrontarsi con un sistema sempre più complesso come la città.

1 ll modello a cui ci si riferisce è noto come modello degli stadi di sviluppo o del ciclo di vita urbano ed è stato formu-lato inizialmente negli anni ‘70 negli Stati Uniti per spiegare l’arresto della crescita demografica e industriale delle grandi aree urbane; successivamente è stato ripreso e messo a punto in Europa negli anni ‘80 da Hall P. e Hay D.(in Growth Centres in the European Urban System, London, 1980) e da . Van den Berg L. (in Urban Europe: A Study of Growth and De-cline, , Oxford, 1982) Il modello si fonda su l’interpre-tazione e la comparazione dei vari stadi di urbanizzazione, definiti in termini di variazione demografica delle città e delle rispettive periferie, con le successive fasi della industrializza-zione. In MARTINOTTI G., Metropoli. La nuova morfologia sociale della città. Ed Il Mulino, Bologna 1993.

2 A partire dal secondo dopoguerra i piani che si susseguo-no propongono annessioni al territorio di Firenze, cercando anche di organizzare, con scarsi risultati, una pianificazione a livello intercomunale. Vedi le esperienze dello Schema di Pianificazione Intercomunale del 1951, del Piano di E. Detti del 1962 e le sue successive revisioni, fino ad arrivare allo Schema Strutturale di G Astengo del 1990 e al piano Strate-gico di Firenze 2010.

BIBLIOGRAFIAComune di Firenze, Piano Strutturale. Elabo-rato B, Norme Tecniche di Attuazione. Firenze, 2010Comune di Firenze, Piano Strutturale. Valuta-zione Integrata Intermadia, Terza Parte. Firen-ze, 2010Giorgieri P. (a cura di), Firenze il progetto urbanistico. Scritti e contributi 1975-2010. Alinea, Firenze , 2010Martinotti G., Metropoli. La nuova morfolo-gia sociale della città. Ed. Il Mulino, Bologna 1993.Regione Toscana, Indagine sui territori model-lati artificialmente in Toscana. Firenze, 2008

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Workshop ACMA a Milano, la progettazione dei sistemi ambientalidi Silvia Minichino

Dal 5 al 9 ottobre scorso si è tenuto a Milano il workshop “Ecologia e Paesaggio. La costru-zione di sistemi ambientali” condotto dalla pro-fessoressa Isabelle Aguirre (Escuela Gallega del Paisaje, EGP - Fundación Juana de Vega, coor-dinatrice del Máster en Arquitectura del Paisaje con le Università di Santiago de Compostela e di A Coruña, Spagna) nell’ambito delle attività del Master in Architettura del paesaggio ACMA diretto dall’arch. Antonio Angelillo.La costruzione del workshop è partita da una attenta riflessione sulla situazione della città di Milano dal punto di vista urbanistico. La piani-ficazione alla scala regionale (PTR), provinciale (PTCP),comunale (PGT) è ora sottoposta ad una revisione e l’occasione di poter introdurre all’interno di questi strumenti idee nuove, che mirino alla costruzione di relazioni tra le aree edificate, o di possibile nuova edificazione, at-traverso il sistema degli spazi aperti, è stato il tema ricorrente nella discussione della fase teo-rica del workshop.Il caso proposto è stato quello dell’area desti-

laureata in architettura con indirizzo Architettura del paesaggio Università di Firenze, attualmente Phd student DUPT, Università di Firenze

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nata alla realizzazione dell’EXPO 2015: nutri-re il pianeta, energie per la vita. La questione fondamentale che emerge è come sia possibile attraverso il progetto di questo spazio creare un intervento che prenda spunto dall’evento dell’esposizione internazionale per la creazione di spazio pubblico andando oltre il carattere di installazione temporanea che i progetti, vari e non ancora definitivi, propongono. In effetti il problema centrale che emerge è quello del con-sumo di suolo nelle aree più prossime al centro di Milano, soprattutto in relazione gestione del-la risorsa idrica. Le edificazioni massicce che si sono realizzate negli ultimi venti anni, e quelle che il meccanismo della perequazione fa intuire prossime con l’approvazione del PGT, presen-tano notevoli problemi di impermeabilizzazio-ne del suolo che provoca dissesti nella falda e continui allagamenti. Milano è città d’acqua e questa risorsa, che ha contribuito alla costru-zione del paesaggio padano, sembra essere vista sempre più come un ostacolo per le politiche della città. L’interpretazione dell’arch. Aguirre parte pro-

prio dalla lettura del paesaggio della pianura pa-dana e di Milano, strutturati dall’acqua, come spunto conoscitivo sul quale impostare il pro-getto per un ripensamento dell’ EXPO 2015. Ecologia e Paesaggio, idromorfologia e strutture paesistiche che si possono ricondurre a questa tematica, costituiscono la metodologia indicata per la costruzione di un sistema ambientale che attivi relazioni forti tra l’area Nord di Milano e Milano stessa, attraverso il nodo dell’ area expo. Un secondo spunto progettuale viene dalla let-tura della proposta di Carlo Petrini, fondatore

Area destinata al progetto Expo 2011. Il pianeta, energie per la vita

Paesaggio della marcita padana

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di Slow Food e tra i consulenti per l’Expo 2015. L’idea è quella di riattivare la filiera agroalimen-tare locale, scomparsa da decenni, che vede come principali risorse il tessuto rurale ancora presente intorno alla città, in particolare il siste-ma delle cascine, in funzione dell’ospitalità lega-ta all’evento. Il proposito principale è quello di evitare lo sviluppo di meccanismi immobiliari per tutta l’area contigua a quella destinata alla realizzazione delle strutture dell’esposizione.Il territorio padano è delimitato a nord dalle Alpi, a sud dalla pianura. In prossimità del li-mite tra alta e bassa pianura è presente la fascia delle risorgive. La geomorfologia dell’ambito fa si che una parte delle acque provenienti dai ghiacci alpini filtrino all’interno del terreno e ri-affiorino in pianura. Questo meccanismo natu-rale ha giocato un ruolo molto importante nella costruzione dei caratteri del paesaggio lombar-do. L’interpretazione antropica di questo carat-tere idrogeomorfologico del territorio si manife-sta nel fontanile che ha prettamente uno scopo

agricolo di regimazione e distribuzione delle acque di falda. Il fontanile è un microsistema naturale, originato da una primitiva risorgiva, imbrigliata e gestita dall’uomo. Il captare attra-verso appositi meccanismi l’acqua di falda, in-canalandola crea un vero è proprio canale, asta, che si sviluppa a partire dalla così detta testa, piccolo specchio d’acqua con una sua propria vegetazione. Questo sistema porta alla bonifica dell’area circostante la risorgiva. La gestione del-le acque di falda ha reso possibile lo sviluppo di tecniche agricole che hanno fatto il paesag-gio agrario padano. Una di queste è la marcita padana: allagamento controllato dei campi cioè un prato irriguo polifita che ha una funzione sia nutrizionale che termormoregolatrice.Il paesaggio della marcita padana oggi è quasi del tutto scomparso, ma le nuove modalità di gestione non son riuscite a risolvere a pieno le problematiche legate alle acque.Il workshop ha puntato l’attenzione su di un possibile utilizzo del fontanile come elemento che, attraverso il progetto di paesaggio, possa porsi sia come una delle molteplici possibili-

Attraversando a piedi il lotto destinato a expo 2015

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tà per contribuire alla gestione delle acque, sia come strumento per incrementare la biodiver-sità nell’area metropolitana milanese, sia assu-mere una valenza didattico-scientifica.Il parco agricolo sud di Milano ha avviato nel 2002 una indagine conoscitiva sui fontanili e ne ha recuperati alcuni come prime sperimentazioni. L’arch. Alessandro Caramellino (Parco Agrico-lo sud Milano) nei sui interventi ha messo in evidenza il ruolo che l’ente parco può avere nel progetto di paesaggio per il territori milanese. L’area expo si trova in adiacenza di quella del-la Nuova Fiera. La collocazione è strategica dal punto di vista della logistica. Questa zona peri-urbana è caratterizzata da una forte frammenta-zione del paesaggio dovuta alla presenza di in-frastruttura (alta velocità ferroviaria, autostrada

dei Laghi e Torino, Milano, tangenziale nord) e di un abitato diffuso. All’interno di questo qua-dro si evidenziano comunque ambiti con diver-se qualità: il parco delle Groane (area protetta regionale), il parco dei Fontanili, Il Bosco In città e Parco delle Cave, Villa e Parco Arconati.La sfida del workshop, sfida progettuale e so-prattutto culturale, è stata quella di proporre un’ottica sistemica attraverso la quale lanciare idee in grado di creare relazioni tra i diversi luo-ghi di questo territorio per cercare di risolvere forti conflittualità presenti e di evitare la nascita di nuove, partendo dall’idea che ecologia e pae-saggio sono i punti fondamentali per il progetto della città.

Schema delle parti costi-tuenti il fontanile

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Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in ItaliaVezio De Luciadi Paola Pavoni

RECENSIONE

Ab assiduis non fit passio. Senza passione sono i pedanti. Con questa frase latina Vezio De Lu-cia riassume il senso di quarant’anni della sua carriera di urbanista: «Non si può fare degna-mente l’urbanista – scrive De Lucia – e nessun altro lavoro intellettuale, senza passione».Ed è proprio grazie alla sua passione per l’ur-banistica che De Lucia, nel suo recente libro “Le mie cittá - Mezzo secolo di urbanistica in Italia”, Edizioni Diabasis 2010, regala a noi tutti un dettagliato racconto di mezzo secolo di storia della condizione urbana e del paesaggio dell’Italia.Dagli anni del P.C.I guidato da Enrico Ber-linguer, al Neo liberismo di Margaret Tatcher e Ronald Reagan, passando per il crollo della Prima Repubblica italiana degli anni Novanta fino ad arrivare al più recente Berlusconismo, Vezio De Lucia descrive, svelando i retroscena politici, sociali ed istituzionali, i più importanti momenti e progetti urbanistici italiani a cui si è dedicato, sia come funzionario pubblico sia come libero professionista o, come meglio preferisce definire il lavoro degli anni più re-centi, nell’esercizio della “professione privata di

Le mie citta – Mezzo secolo di urbanistica in Italia

Autore Vezio De LuciaPrefazione di Alberto Asor Rosa

Edizioni Diabasis 2010Costo 18,00 €

Architetto

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urbanista pubblico”.Sin dall’inizio della carriera De Lucia ottiene incarichi di pregio come quello di urbanista per il Ministero dei lavori Pubblici, nel 1967, che lo porta a Roma e che caratterizza quelli che lui stesso definisce gli anni di “Porta Pia”, segnati dal suo contributo alla redazione delle leggi urbanistiche più importanti.In quegli anni iniziano anche i primi rappor-ti con la città di Venezia, con la redazione di un documento degli indirizzi, che lo portano a contatto con l’urbanista Edoardo Salzano, all’epoca assessore all’urbanistica del comune, e il successivo incarico di coordinatore nella formazione del Piano Comprensoriale della città, strumento innovativo e fuori dalle logi-che del capitalismo e, come spesso accade, mai approvato.Probabilmente la città che più gli appartie-ne, per origine e per dedizione professionale, rimane Napoli. Le battaglie per l’approvazione, mai riuscita, del primo piano urbanistico della città, la ricostruzione dopo il terremoto dell’80, il Piano delle periferie. E ancora la battaglia all’abusivismo in qualità di assessore all’Urba-nistica, con lo sguardo sempre volto a garantire la qualità degli spazi della città, la dotazione di standard e a combattere contro l’urbanistica contrattata, sono solo alcuni episodi del suo periodo napoletano. « L’urbanistica è una ma-teria che non può sopportare mediocri discus-sioni dettate dalla tattica e dai vantaggi imme-diati. Non esiste l’urbanistica prêt à porter», scrive riferendosi a Napoli.La passione verso il senso vero di questa profes-sione è oggi l’unico mezzo rimasto per svolgere correttamente i propri compiti in una situazio-ne priva di speranze, in cui secondo De Lucia,

non resta che «evitare il peggio». Un’opinione disincantata, inaspettata al lettore, di chi la storia urbanistica l’ha vissuta sulla sua pelle ed é giunto alla conclusione che una vera riforma non arriverà.

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47PhotoStory©Annalisa Biondi

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Associazione di promozione sociale senza fini di lucro che diffonde una cultura della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale, della conservazione e gestione del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale, secondo i principi della Convenzione Europea sul Paesaggio (Firenze, ottobre 2000) e il modello di città creativa definito dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE, Potsdam, maggio 1999). Verdiana Network svolge progetti di ricerca, formazione e sensibilizzazione sui parchi, le aree protette e le reti ecolo-giche, gli itinerari culturali, gli ecomusei, i distretti culturali, la riqualificazione dei quartieri urbani e periurbani, la Valutazio-ne Ambientale Stategica (VAS) e la pianificazione urbana e territoriale a partecipazione pubblica, anche in collaborazio-ne con Università, Istituti di ricerca ed Enti pubblici, con la possibilità di coinvolgere studenti e giovani laureati attraver-so tirocini e stage formativi. Verdiana Network offre al pubblico interessato la possibili-tà di riflettere e creare dibattiti sugli argomenti oggetto della propria attività tramite la pubblicazione periodica di articoli scientifici e divulgativi nella rivista on-line Network in Pro-gress.

Nel territorio di Marche e Umbria, in collaborazione con le Fondazioni Cassa di Risparmio di Loreto, Macerata, Foligno e Perugia, Verdiana Network ha svolto un progetto di ricer-ca per il recupero dei cammini di pellegrinaggio al Santuario di Loreto e la sua menzione a Itinerario Culturale Europeo, unendo all’indagine storiografica e cartografica un approc-cio paesaggistico alla progettazione.In Lunigiana (Toscana), con la collaborazione dei Comuni di Fivizzano, Aulla, Bagnone, Fosdinovo, Licciana Nardi e Vil-lafranca, il patrocinio della Regione Toscana, Verdiana Net-work ha promosso e coordinato il Corso di Formazione e Aggiornamento professionale Parchi naturali, aree protette e reti ecologiche per lo sviluppo del territorio, che ha porta-to all’elaborazione e all’esposizione di interessanti proposte progettuali per il territorio.Per la città di Firenze Verdiana Network è impegnata in un’i-niziativa, denominata Progetto Cartoline, di sensibilizzazio-ne al tema del degrado, dell’abbandono e della necessità del recupero degli spazi della città contemporanea, nata all’interno della ricerca per un Urban Center nell’area me-tropolitana fiorentina, oggetto di pubblicazioni convegni ed esposizioni.

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