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N°94 Settembre 2015 1 Newsletter N° 94 Settembre 2015 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 1 Le Nostre Sentenze 9 Cassazione 11 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Le Nostre Sentenze 12 Assicurazioni, Locazioni, Responsabilità 13 Il Punto su 15 Eventi 17 R. Stampa 18 Jobs Act, riforma conclusa Con la pubblicazione degli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act, in vigore dal 24 settembre scorso, la riforma del lavoro, almeno sulla carta, è conclusa. Già ad una prima lettura si coglie lo spirito della novella ed il grosso impegno che il Governo mette in campo per cercare di rendere più snello l’intero sistema lavoro e rispondere alle crescenti richieste di certezza e rapidità da parte delle imprese. Il D.Lgs. n. 151/2015 , infatti, punta alla “razionalizzazione e semplificazione” di procedure e adempimenti in materia di inserimento di persone con disabilità, ad esempio con la possibilità per i datori di lavoro privati di assunzione mediante richiesta diretta; introduce la modalità telematica per tutte le comunicazioni relative al rapporto di lavoro e per la tenuta del libro unico; esonera il datore di lavoro da varie incombenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro, affidandole direttamente ad INPS ed INAIL. A ciò si aggiunge la revisione delle sanzioni in materia di lavoro, tra cui la modifica della c.d. maxisanzione per il lavoro “nero” che vede ora la possibilità di regolarizzare le posizioni oggetto di sanzioni amministrative. Il decreto contiene, poi, un gruppo di disposizioni direttamente attinenti il rapporto di lavoro; tra queste la (già discussa) revisione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sui c.d. controlli a distanza, volta ad adeguare il dettato normativo all’evoluzione tecnologica, nel rispetto delle disposizioni in materia di privacy e la nuova regolamentazione delle dimissioni, che ora possono essere rese solo in via telematica, su appositi moduli resi disponibili dal Ministero. Nell’ultima parte, sono previste disposizioni in materia di “pari opportunità”, volte anch’esse a semplificare le procedure di nomina del Consigliere di Parità e, al contempo, a rafforzarne l’azione a livello locale e nazionale. Con il D.Lgs. n. 150/2015, il Governo mira, invece, a riordinare “la normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive”; viene, a tal fine, istituita una Rete Nazionale dei Servizi per le Politiche del Lavoro, coordinata dalla nuova ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive

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N°94 Settembre 2015 !1

Newsletter N° 94 Settembre 2015

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 1

Le Nostre Sentenze 9

Cassazione 11

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Le Nostre Sentenze 12

Assicurazioni, Locazioni, Responsabilità 13

Il Punto su 15

Eventi 17

R. Stampa 18

Jobs Act, riforma conclusa Con la pubblicazione degli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act, in vigore dal 24 settembre scorso, la riforma del lavoro, almeno sulla carta, è conclusa.

Già ad una prima lettura si coglie lo spirito della novella ed il grosso impegno che il Governo mette in campo per cercare di rendere più snello l’intero sistema lavoro e rispondere alle crescenti richieste di certezza e rapidità da parte delle imprese.

Il D.Lgs. n. 151/2015, infatti, punta alla “razionalizzazione e semplificazione” di procedure e adempimenti in materia di inserimento di persone con disabilità, ad esempio con la possibilità per i datori di lavoro privati di assunzione mediante richiesta diretta; introduce la modalità telematica per tutte le comunicazioni relative al rapporto di lavoro e per la tenuta del libro unico; esonera il datore di lavoro da varie incombenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro, affidandole direttamente ad INPS ed INAIL. A ciò si aggiunge la revisione delle sanzioni in materia di lavoro, tra cui la modifica della c.d. maxisanzione per il lavoro “nero” che vede ora la possibilità di regolarizzare le posizioni oggetto di sanzioni amministrative.

Il decreto contiene, poi, un gruppo di disposizioni direttamente attinenti il rapporto di lavoro; tra queste la (già discussa) revisione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sui c.d. controlli a distanza, volta ad adeguare il dettato normativo all’evoluzione tecnologica, nel rispetto delle disposizioni in materia di privacy e la nuova regolamentazione delle dimissioni, che ora possono essere rese solo in via telematica, su appositi moduli resi disponibili dal Ministero.

Nell’ultima parte, sono previste disposizioni in materia di “pari opportunità”, volte anch’esse a semplificare le procedure di nomina del Consigliere di Parità e, al contempo, a rafforzarne l’azione a livello locale e nazionale.

Con il D.Lgs. n. 150/2015, il Governo mira, invece, a riordinare “la normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive”; viene, a tal fine, istituita una Rete Nazionale dei Servizi per le Politiche del Lavoro, coordinata dalla nuova ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive

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N°94 Settembre 2015 � 2

Newsletter T&P del Lavoro), con l’obiettivo di collegare le Agenzie del Lavoro e le altre strutture regionali (e delle Province autonome), con gli istituti previdenziali, gli enti di formazione, le Camere di Commercio, le università e gli altri istituti di scuola secondaria superiore, nell’intento di valorizzare le sinergie tra soggetti pubblici e privati, da un lato, e di facilitare e rafforzare le possibilità di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, dall’altro. A tal fine, sono stati previsti un Albo nazionale dei soggetti accreditati a svolgere funzioni in materia di lavoro, un Sistema Informativo delle politiche del lavoro, il fascicolo Elettronico del Lavoratore, un Albo nazionale degli Enti accreditati a svolgere attività di formazione professionale che comunicheranno tra loro in via telematica. Sarà più semplice anche raggiungere i beneficiari di prestazioni di sostegno al reddito, che potranno essere chiamati a svolgere attività di servizio nei confronti della collettività nel territorio del Comune di residenza.

Il D.Lgs. n. 149/2015 è dedicato alla semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro. Viene istituito l’Ispettorato nazionale del lavoro, con la principale funzione di coordinare la vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria. Ulteriore obiettivo la semplificazione dei ricorsi amministrativi e giudiziari.

Il D.Lgs. n. 148/2015, infine, riordina l’intera materia dei c.d. ammortizzatori sociali. Tra le molte, complesse ed articolate disposizioni, meritano un cenno le norme che rendono strutturali alcune importanti misure di politica sociale tra cui la nuova NASpi (il sussidio di disoccupazione) a 24 mesi e le misure di conciliazione dei tempi di cura, di vita e di lavoro. Viene, inoltre, introdotto un unico testo normativo per cassa integrazione e fondi di solidarietà, che va a sostituire tutti gli interventi legislativi degli ultimi 70 anni. Significative semplificazioni sono state introdotte anche per le procedure di Cassa Integrazione ordinaria (CIGO) e straordinaria (CIGS).

L’impianto normativo è ora completo, ma per vincere la scommessa saranno indispensabili - come sempre - la collaborazione e l’impegno da parte delle Istituzioni e di tutti gli operatori del sistema.

Salvatore Trifirò e Barbara Fumai

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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N°94 Settembre 2015 !3

Newsletter T&P La prescrizione dei crediti retributivi nel contratto a tutele crescenti A cura di Damiana Lesce e Valeria De Lucia

Tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro debbono essere esercitati entro un certo periodo di tempo, pena la loro estinzione per prescrizione.

In particolare, la maggior parte dei crediti aventi natura retributiva e corrisposti con una periodicità annuale od inferiore, compresi gli eventuali interessi, soggiacciono alla prescrizione estintiva quinquennale.

Si prescrivono, quindi, in cinque anni il diritto alle retribuzioni ed alle differenze retributive dovute a vario titolo, le indennità spettanti in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, etc.

Vi è poi una prescrizione decennale per i crediti aventi natura risarcitoria.

In passato, l’istituto di che trattasi è stato oggetto di importanti interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione con riguardo al tema della decorrenza dei termini della prescrizione.

Significativa fu al riguardo la sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del lontano 10 giugno 1966: partendo dalla considerazione che, durante il rapporto di lavoro, il lavoratore si trova in una condizione di sudditanza psicologica che si concretizza “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere lo stesso sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti” la Corte affermò che i termini decorrevano dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Tale affermazione venne poi parzialmente corretta dalla stessa Corte Costituzionale a seguito dell’entrata in vigore della Legge 15 luglio 1966 n. 604 (“Norme sui licenziamenti individuali”) prima e dell’art. 18 della L. 20 maggio 1970 n. 300 (“Statuto dei Lavoratori”) dopo.

In particolare, con la sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972 la Corte Costituzionale concluse che il principio affermato con la decisione n. 66 del 1966 “non doveva trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.

Tale orientamento fu confermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1268 del 12 aprile 1976 nonché dalle pronunce successive.

Il principio oggi vigente è quello secondo il quale la disciplina della decorrenza della prescrizione ordinaria non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro.

Essa dipende dal grado di stabilità del rapporto “ritenendosi stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

L’applicazione del predetto comporta che la prescrizione decorre:

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N°94 Settembre 2015 !4

Newsletter T&P ✦in costanza di rapporto di lavoro, se a quest’ultimo trova applicazione l’art. 18 L. 300/1970 (c.d. tutela

reale); ✦dal momento della cessazione del rapporto se, diversamente, quest’ultimo è soggetto alla la c.d.

tutela obbligatoria, vale a dire quella per cui, in caso di licenziamento illegittimo, al lavoratore spetta una indennità risarcitoria di carattere economico e non il ripristino del rapporto del lavoro.

Quanto alla c.d. stabilità reale, già a decorrere dalla c.d. Legge Fornero (L. 92/2012) essa ha assunto un significato parzialmente difforme rispetto al passato. In precedenza (vale a dire, ante 2012), come noto, l’unica sanzione prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento dichiarato illegittimo era la reintegrazione in servizio. Oggi non è così: la legge prevede che, a fronte di determinate ipotesi di illegittimità, il recesso possa essere sanzionato solo con una tutela risarcitoria di carattere economico.

È, quindi, lecito chiedersi se la “sudditanza psicologica” ed il “timore del recesso”, su cui pose l’accento la Corte Costituzionale nel 1966 possano ritenersi insussistenti un rapporto di lavoro tutelato da una legge che, di fatto, non garantisce sempre, in caso di licenziamento illegittimo, la reintegrazione in servizio.

Le cose si complicano, anzi si sono già complicate con l’entrata in vigore del D.Lgs n. 23 del 2015: ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 trova applicazione il c.d. contratto a tutele crescenti. Per questi ultimi, fatta salve le ipotesi residuali previste dall’art. 2 del decreto legislativo (secondo la disciplina applicabile indistintamente a tutti i lavoratori, a prescindere dalla stabilità reale e/o obbligatoria e/o dalla data di assunzione, i licenziamenti discriminatori, nulli ed intimati in forma orale sono sanzionati con la reintegrazione nel posto di lavoro) ed il licenziamento disciplinare per fatto materiale insussistente, la c.d. tutela reale di cui all’art. 18 Stat. Lav. non trova applicazione. In caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo o giusta causa, al lavoratore spetta una indennità risarcitoria di carattere economico.

La giurisprudenza sarà, quindi, certamente chiamata ad affrontare il tema di quale regola trovi applicazione ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015.

Applicando i principi elaborati dalla giurisprudenza innanzi richiamata, da un lato si potrebbe concludere che non essendo più garantita, in caso di licenziamento illegittimo, la c.d. stabilità reale, il decorso dei termini della prescrizione dovrebbe decorrere, per tutti i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, a prescindere dal requisito dimensionale dell’azienda, a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro. Non può peraltro escludersi che la indennità risarcitoria prevista dal c.d. Jobs Act per la maggior parte dei casi di illegittimità del licenziamento (indennità che comunque, nel suo minimo e nel suo massimo, è superiore a quella prevista in precedenza per i casi di cd. tutela obbligatoria) potrebbe essere considerata mezzo sufficiente ad assicurare un adeguato strumento di tutela contro il licenziamento illegittimo e, di conseguenza, sufficiente anche a “controbilanciare” (annullandolo) il “timore” di un recesso ingiustificato.

Con la conseguenza, in questo caso, di dover ritenere che la prescrizione decorra anche in corso di rapporto. Peraltro, non può escludersi, per quanto detto innanzi, che lo stesso tema possa porsi anche per i lavoratori soggetti alla c.d. Legge Fornero.

In tale contesto, è forse auspicabile un intervento normativo che chiarisca la sorte della disciplina della prescrizione dei crediti retributivi, ad esito delle recenti riforme in tema di conseguenze del recesso datoriale.

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Newsletter T&P La nuova disciplina dei controlli a distanza A cura di Tommaso Targa e Vittorio Provera

1. Da dove nasce l’esigenza di disciplinare i “controlli a distanza”?

Nell’ambito del proprio potere direttivo, il datore di lavoro ha diritto di verificare la diligenza del dipendente nello svolgimento delle proprie mansioni e nell’utilizzo degli strumenti aziendali, anche al fine di esercitare il potere disciplinare. Nell’espletamento di tali prerogative, il datore di lavoro deve, però, rispettare la dignità e la riservatezza del lavoratore, per cui l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori - norma appena riformulata dal Jobs Act (d.lgs. 151/2015) - disciplina le fattispecie in cui, attraverso strumenti tecnologici, l’azienda si trova in condizione di effettuare un controllo occulto del dipendente.

2. Com’era la vecchia disciplina?

In base all’originaria versione dell’art. 4 dello Statuto:

• era vietato l’utilizzo di impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori

• era consentito installare impianti audiovisivi e altre apparecchiature per esigenze organizzative e produttive o per garantire la sicurezza sul lavoro; in questi casi, se dall’utilizzo di tali apparecchiature poteva derivare un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, l’installazione era consentita solamente previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, su istanza del datore di lavoro, previa autorizzazione dei servizi ispettivi della Direzione Territoriale del Lavoro, la quale poteva dettare le modalità per l’uso di tali strumenti (da notare che il procedimento amministrativo di rilascio dell’autorizzazione, in assenza di accordo sindacale, era relativamente complesso e prevedeva un accertamento tecnico preventivo dei luoghi. Considerato l’elevato numero di richieste di semplificazione dell’iter, il Ministero del Lavoro, con una nota del 2012, aveva previsto una procedura più snella per l’installazione degli impianti di video controllo negli esercizi commerciali a rischio rapina).

3. Quali erano gli strumenti tecnologici che rientravano nell’ambito di applicazione della norma?

Nel 1970, l’art. 4 era stato introdotto pensando fondamentalmente agli impianti televisivi a circuito chiuso e ai microfoni. Senonché l’ampia formulazione - “altre apparecchiature” - ha consentito negli anni una interpretazione estensiva, da parte della giurisprudenza, a qualsiasi forma di controllo non riconoscibile che consenta la supervisione dell’attività lavorativa effettuata in luogo diverso rispetto a quello in cui si trova il lavoratore, nonché la registrazione di dati che consentano un controllo anche a posteriori della prestazione. Ed è così che la giurisprudenza - seppur con distinguo e oscillazioni - ha cominciato ad applicare la norma in esame a ipotesi quali:

• programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi ad Internet

• telefoni cellulari, tablet e computer palmari dotati di funzionalità di geolocalizzazione attivata

• tecnologie biometriche o informatiche che consentono di monitorare costantemente l’attività dei lavoratori

• centralini telefonici automatici in grado di registrare e riprodurre su tabulati la distanza, il tempo, il destinatario e il numero chiamante per ogni singola telefonata

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Newsletter T&P • impianti di intercettazione ed ascolto delle conversazioni

D’altro canto, con riferimento a strumenti di lavoro quali telefono cellulare, tablet, GPS sulle vetture e pc portatili, non sono stati molti i casi in cui, in questi anni, i sindacati hanno chiesto di contrattare preventivamente con l’azienda la loro assegnazione ai dipendenti.

4. Cosa accadeva, nella vecchia disciplina, in caso di installazione di apparecchi in violazione della normativa?

Le conseguenze della violazione dell’art. 4 dello Statuto erano potenzialmente di tre tipi: a) anzitutto, era esclusa la rilevanza probatoria, sia a fini disciplinari che risarcitori, delle informazioni acquisite attraverso apparecchiature installate illegittimamente; b) in secondo luogo, il mancato coinvolgimento delle RSA poteva esporre l’azienda al rischio di una azione per repressione della condotta antisindacale (anche se, come già detto, non è accaduto quasi mai che OO.SS. abbiano contestato la pretesa natura antisindacale dell’assegnazione ai dipendenti di strumenti di lavoro quali smarthphones, tablet, navigatori satellitari ecc.); c) infine, ai sensi dell’art. 38 dello Statuto, la condotta del datore di lavoro poteva integrare gli estremi del reato (anche se non sono numerose le pronunce penali che hanno ritenuto ravvisabile il reato, escludendolo nei casi in cui i dipendenti avevano dato il consenso all’installazione delle apparecchiature, pur in assenza di preventivo accordo sindacale o di autorizzazione della DTL).

Va detto che, per cercare di attenuare la rigidità della disciplina normativa previgente, la giurisprudenza ha introdotto una distinzione tra controlli inerenti l’attività lavorativa, per i quali valgono i limiti sopra illustrati, e controlli c.d. “difensivi”, che sono esclusi dalla disciplina. Questi ultimi sono finalizzati ad accertare eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione, ovvero rivolti esclusivamente alla tutela “di beni estranei al rapporto di lavoro”, dunque, diretti a preservare l’integrità del patrimonio aziendale.

5. Questi principi valgono anche per i controlli sulla posta elettronica?

In questa materia, la giurisprudenza è piuttosto rigida. I controlli preventivi non sono ammessi perché preclusi dall’insopprimibile diritto alla riservatezza del dipendente. Sono, invece, ammessi i controlli a posteriori, finalizzati ad accertare un comportamento illecito attribuito al lavoratore, nonché quelli giustificati dall’emersione di elementi di fatto tali da indurre l'avvio di una indagine.

6. Che relazione sussiste tra controlli a distanza e tutela della privacy?

La materia dei controlli a distanza, e in particolare della videosorveglianza, solleva anche problemi di privacy, disciplinata dal relativo Codice del 2003 e dai successivi provvedimenti del Garante.

La normativa in materia di privacy, al fine di tutelare il diritto alla protezione dei dati personali, subordina l’adozione di sistemi di videosorveglianza al rispetto dei principi di liceità, necessità, proporzionalità e finalità, stabilendo ulteriori adempimenti per il datore di lavoro, tra cui a) un’adeguata informativa agli interessati sulla presenza dei sistemi di videosorveglianza e b) i limiti per la conservazione dei dati raccolti tramite telecamere (che di norma non possono superare le 24 ore, salvo casi particolari di indagini di polizia e giudiziarie, sicurezza degli istituti di credito, ecc.).

Il Garante si è anche espresso nel 2014 (Provvedimenti del 3 novembre 2014, doc. web n. 3474069 e n.3505371) in materia di nuove tecnologie (smartphones e geolocalizzazione), affermandone la liceità, a

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Newsletter T&P condizione che siano rispettate una serie di garanzie per il trattamento dei dati (informativa ai dipendenti, rilevazione dei dati ad intervalli stabiliti, con l’esclusione di una continuità di tracciamento e senza la possibilità di archiviare le rilevazioni precedenti all’ultima). L’utilizzo di tali apparecchi è, infatti, necessario a soddisfare esigenze organizzative e produttive, non riconducibili a finalità di controllo.

7. Quali sono le novità con il Jobs Act?

Il nuovo art. 4 dello Statuto, introdotto dal d.lgs 151/2015, afferma il principio generale di liceità dell’utilizzo di impianti audiovisivi e altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza, per: (i) esigenze organizzative e produttive; (ii) per la sicurezza del lavoro; (iii) per la tutela del patrimonio aziendale (quest’ultima fattispecie - seppur non prevista espressamente nel vecchio testo della norma - era stata affermata dalla giurisprudenza consolidata di legittimità e di merito). La vecchia norma stabiliva, al contrario, il divieto del loro utilizzo per attuare controlli a distanza, salvo i casi e fermi i limiti imposti per legge. L’affermazione di principio del nuovo art. 4 non modifica in modo sostanziale quella che era la precedente disciplina dei casi di ammissibilità, ma evidenzia un mutato atteggiamento del legislatore che, con la precedente versione della norma, esprimeva sfavore verso le apparecchiature di controllo a distanza. ✦La prima grossa differenza rispetto alla vecchia disciplina è la possibile modifica dell’interlocutore

(sindacale o amministrativo) a cui le aziende di grosse dimensioni devono rivolgersi per essere autorizzate ad installare gli impianti.

Per le aziende di piccole dimensioni, esattamente come prima, l’installazione delle apparecchiature richiede un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, ovvero l’autorizzazione della DTL. Le aziende di grosse dimensioni, ossia quelle con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni, possono stipulare un accordo sindacale con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Del pari, le aziende con unità produttive dislocate in ambiti di competenza di più Direzioni Territoriali del Lavoro (e quindi, sostanzialmente, le aziende che hanno sedi dislocate in più province), in assenza di accordo possono ottenere l’autorizzazione dal Ministero del Lavoro. Si tratta di una differenza notevole perché, mentre una volta l’accordo sindacale o l’autorizzazione della DTL dovevano per forza essere ottenuti singolarmente per ciascuno stabilimento, adesso le aziende di grosse dimensioni hanno la possibilità di stipulare un unico accordo sindacale a livello nazionale, ovvero di ottenere una autorizzazione del Ministero del Lavoro valida per tutte le proprie unità produttive coinvolte. ✦La seconda novità riguarda gli strumenti che vengono assegnati ai lavoratori ed utilizzati da questi

per rendere la prestazione lavorativa (ad es. tablet, smartphones, badge, navigatore satellitare).Secondo la vecchia disciplina, così come interpretata estensivamente dalla giurisprudenza, anche tali strumenti erano considerati come apparecchi attraverso i quali è possibile effettuare un controllo a distanza. Di conseguenza, la giurisprudenza tendeva a ritenere non utilizzabili a fini disciplinari le informazioni acquisite attraverso i dati ricavati dai suddetti strumenti. E ciò sebbene, nella prassi applicativa, i sindacati non abbiamo mai sollevato contestazioni circa il fatto che tali apparecchi venissero consegnati ai dipendenti pur in assenza di preventivi accordi o autorizzazioni amministrative. Secondo la nuova disciplina, l’assegnazione e l’utilizzo di strumenti di lavoro non può più - per definizione - essere considerata un controllo a distanza, il che esclude la necessità del rispetto dei limiti

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Newsletter T&P (finalità) e delle procedure (accordo sindacale o autorizzazione amministrativa) previste per gli impianti audiovisivi.

Inoltre, la norma prevede che le informazioni raccolte dal datore di lavoro attraverso legittimi impianti audiovisivi (per cui permane la necessità di un accordo sindacale o una autorizzazione), nonché dagli strumenti di lavoro (per cui non è più previsto alcuna limitazione) possono essere utilizzati a fini disciplinari, purché sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, e fermo rispetto della normativa in materia di privacy.

Quest’ultima è senz’altro la novità più eclatante. Infatti, una volta fornite tali informative ai propri dipendenti in merito alle discipline e regole aziendali inerenti l’utilizzo delle e-mail, dei telefoni cellulari, dei pc, degli smartphone ecc., gli elementi raccolti tramite tali apparecchiature potranno essere utilizzati anche in merito alla verifica della diligenza del dipendente nell’adempimento dei propri obblighi, superando la questione inerente i limiti di liceità dell’utilizzo degli stessi, quali prove anche a sostegno di procedimenti disciplinari.

In questo modo, il legislatore ha superato l’ondivaga giurisprudenza che si era formata in materia, collocandosi piuttosto sulla scia delle recenti pronunce del 2014 del Garante della Privacy.

VIDEO INTERVISTE: JOBS ACT

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JOB24 – Il Sole 24 Ore: 14/09/2015

VIDEO: Jobs Act – Controlli a distanza tra privacy, nuovi strumenti, nuovo lavoro

Intervista a Tommaso Targa

JOB24 – Il Sole 24 Ore: 28/09/2015

VIDEO: Jobs Act - La cassa integrazione e il nuovo assegno di ricollocazione

Intervista a Valeria De Lucia

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N°94 Settembre 2015 � 9

LA SENTENZA DEL MESE NON BASTA LA DEQUALIFICAZIONE A DIMOSTRARE LA NATURA RITORSIVA DEL LICENZIAMENTO INTIMATO AL DIRIGENTE (Tribunale di Milano, ordinanza 11 giugno 2015) Un dirigente ha impugnato il licenziamento per giusta causa comminatogli dall’azienda per motivi disciplinari, sostenendo la natura ritorsiva del provvedimento in quanto giunto all’esito di un periodo di dequalificazione professionale determinato dall’asserito ingiustificato accanimento del proprio superiore gerarchico. All’esito del giudizio sommario, svoltosi secondo il rito previsto dalla “Legge Fornero”, il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda di reintegrazione ex art. 18 Legge n. 30071970 avanzata dal dirigente, ritenendo che non fosse stato dimostrato il motivo illecito invocato dal ricorrente e dichiarando l’inammissibilità delle ulteriori domande risarcitorie proposte dal dirigente (che devono essere trattate in separato giudizio secondo il rito ordinario). Nel motivare la decisione, il Giudice ha rilevato come l’Azienda avesse dimostrato, attraverso la produzione di documenti non contestati, di avere posto in essere un’articolata riorganizzazione aziendale che aveva interessato anche la società controllante, ritenendo che fosse inverosimile che una significativa riorganizzazione fosse stata posta in essere al solo fine di danneggiare il ricorrente. Anche la proposta di modifica contrattuale, che l’azienda aveva avanzato al ricorrente nei mesi antecedenti al licenziamento, è stata ritenuta irrilevante dal Tribunale, in considerazione del fatto che la nuova politica retributiva prospettata dall’azienda aveva avuto carattere generalizzato ed era stata riferita a tutto il management aziendale. Con riferimento alle contestazioni disciplinari poste a base del licenziamento per giusta causa impugnato dal dirigente, infine, il Tribunale ha escluso che il provvedimento potesse avere un fondamento pretestuoso in quanto risultava fondato su circostanze oggettive, seppure diversamente interpretate dalle parti, che non avrebbero in ogni caso potuto fondare la natura ritorsiva del licenziamento invocata dal dirigente, ma, semmai, l’illegittimità del recesso, con le conseguenti tutele contrattuali. Causa seguita da Angelo Di Gioia

ALTRE SENTENZE

PROVA SPECIFICA PER L’INDENNITÀ DA RISCHIO RADIOLOGICO (Corte d’Appello di Milano, 3 settembre 2015, n. 705)

Occorre una prova specifica e rigorosa per vedersi riconosciuto il diritto all’indennità da rischio radiologico. È quanto affermato dalla Corte d’Appello di Milano in una recente decisione, pronunciata in un giudizio promosso da alcuni lavoratori, che assumevano di avere diritto a tale indennità, perché, nello svolgimento della loro attività, sarebbero stati esposti a radiazioni ionizzanti. Il diritto all’indennità da rischio radiologico è per legge (L. 27 ottobre 1988, n. 460, art 1, comma 2) riconosciuto al personale di radiologia professionalmente esposto (medici e tecnici), per il quale opera una presunzione assoluta circa l’esposizione al rischio per il solo fatto della qualifica rivestita. I ricorrenti avevano sostenuto di trovarsi in situazione analoga a detto personale, in quanto, in qualità di infermieri e operatori tecnici sanitari, lavoravano presso sale operatorie e reparti della loro Azienda ospedaliera ove erano installati amplificatori di brillanza e altre apparecchiature a raggi x; inoltre, i

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dipendenti pretendevano l’indennità perché era stata loro già corrisposta in periodi precedenti. L’Azienda convenuta aveva contestato la domanda e, in principalità, aveva osservato che i lavoratori non avevano indicato con quali modalità e frequenza sarebbero stati esposti alle radiazioni, soggiungendo, altresì, che la circostanza che in passato - ma in differenti contesti - tale indennità era stata loro riconosciuta non era un valido argomento su cui fondare le attuali pretese. Il Tribunale, accogliendo le eccezioni dell’Azienda, aveva respinto il ricorso per carenza di prova, osservando che le circostanze indicate a supporto della domanda erano inidonee a dimostrare che ogni singolo ricorrente fosse stato esposto a radiazioni ionizzanti per i periodi lavorativi per cui l’indennità era stata rivendicata. La Corte d’Appello, richiamata la giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. 20 luglio 1992, n. 343) e della Corte di Cassazione (Cass. 24 febbraio 2011, n. 4525. Conf. Cons. Stato, 17 ottobre 2014, n. 5155), ha confermato la sentenza di primo grado, sulla base delle seguenti argomentazioni: i) la mancata contestazione da parte dell’Azienda di aver corrisposto l’indennità da rischio radiologico in favore dei propri dipendenti in periodi precedenti non costituisce ammissione, da parte della stessa Azienda, dell’esistenza dei presupposti del diritto all’indennità per i diversi periodi per i quali il giudizio era stato promosso; ii) l’indennità da rischio radiologico presuppone l’effettiva esposizione alle radiazioni nell’esercizio non occasionale né temporaneo di determinate mansioni e può essere riconosciuto, indipendentemente dalla qualifica rivestita, a quei lavoratori che siano esposti - per intensità e continuità - ad un rischio equiparabile a quello normalmente sostenuto dal personale di radiologia; iii) occorre, quindi, la prova che le situazioni lavorative concrete del personale diverso da quello adibito alla radiologia comportino un’esposizione a siffatto rischio in misura continuativa e permanente, considerati le modalità, i tempi e l’intensità dell’esposizione, non essendo sufficiente sostenere genericamente - come avevano fatto gli interessati - di prestare attività presso le sale operatorie di varie specialità o reparti, diversi da quelli di radiologia, nei quali venivano utilizzati strumentazioni emananti radiazioni. Causa seguita da Stefano Beretta e Marina Olgiati

IL GIORNALISTA CHE RIVENDICA LA SUBORDINAZIONE DEVE PROVARE SPECIFICAMENTE LA SOTTOPOSIZIONE AL POTERE DIRETTIVO (Corte d’Appello di Milano, 19 agosto 2015)

In ipotesi di domanda di riqualificazione del rapporto, l’onere di provare la subordinazione incombe sul lavoratore che deve dimostrare di essere stato assoggettato al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. A nulla rileva, in mancanza di tale prova, la presenza dei c.d. indici “sussidiari” della subordinazione, quali l’inserimento continuativo nell’organizzazione aziendale, il vincolo di orario, la forma della retribuzione, l’assenza di rischio. Con riferimento al rapporto di lavoro giornalistico, la Corte d’Appello di Milano ha escluso la subordinazione poiché il collaboratore - limitandosi a rivendicare lo svolgimento dell’attività di corrispondente - non ha dedotto elementi fattuali specifici, idonei a dimostrare l’effettiva messa a disposizione delle energie lavorative, la sussistenza di un obbligo in tal senso e l’esistenza di vincoli concreti nelle gestione dei tempi di lavoro. In particolare, la Corte ha ritenuto coerenti con la forma del contratto di co.co.co., e quindi irrilevanti ai fini della prova della subordinazione: a) il fatto che il collaboratore operava in una determinata zona, ricevendo indicazioni dal caporedattore; b) l’invio quotidiano alla redazione di una mail con le notizie di maggior interesse; c) la redazione di articoli sugli argomenti scelti dalla redazione, secondo il taglio e la lunghezza da questa indicati. Causa seguita da Angelo Di Gioia

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE A cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE: FATTISPECIE VARIECon sentenza n. 17117 del 24 agosto 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di una dipendente che, durante l’orario di lavoro, svolgeva attività promozionale e vendeva ai colleghi prodotti dimagranti; nel caso di specie, peraltro, è risultato che la dipendente aveva continuato ad occuparsi di tale attività nonostante due precedenti lettere di contestazione disciplinare. Con sentenza n. 17435 del 2 settembre 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva creato tensioni in azienda con comportamenti minacciosi; nel caso di specie, il lavoratore non aveva contestato l’esistenza di tali comportamenti, ma aveva dedotto che gli stessi erano stati posti in essere come reazione ad un atteggiamento datoriale persecutorio, che, al contrario, non è stato provato. Nel caso di specie, inoltre, il CCNL prevedeva espressamente il comportamento ingiurioso o minaccioso durante il servizio come ipotesi di licenziamento per giusta causa. Con sentenza n. 17366 del 15 settembre 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di un direttore di banca, che aveva autorizzato la concessione di anticipi sulla base di semplici fotocopie di fatture ed aveva deliberato mutui per importi superiori a quelli consentiti, permettendo inoltre a terzi di accedere alla postazione del terminale con sessione aperta per l’immissione di dati riferibili a mutui fondiari.

RISARCIMENTO DEL DANNO DA SUPERLAVOROCon sentenza n. 17438 del 2 settembre 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto che il dipendente stakanovista non ha diritto al risarcimento del danno da superlavoro in mancanza della prova che sia stata l’azienda ad imporgli dei carichi di lavoro eccessivi. Nel caso di specie, infatti, è emerso che il datore di lavoro non aveva mai preteso lavoro straordinario oltre i limiti di legge, né il raggiungimento di risultati oltre le normali possibilità umane. Inoltre, il lavoratore non aveva dimostrato l’esistenza di diffide in base alle quali sarebbe stato ritenuto personalmente responsabile in caso di disfunzioni dell’ufficio, ma è risultato, invece, che egli - per far funzionare meglio l’ufficio - si era addossato alcuni oneri che spettavano ad altri dipendenti.

MANCATA PROMOZIONE DELLA LAVORATRICE ASSENTE PER MATERNITÀCon sentenza n. 17832 del 9 settembre 2015 la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di una lavoratrice, la quale aveva dedotto che la mancata promozione ad un livello superiore, concessa ai colleghi di sesso maschile, era conseguenza di una discriminazione di genere collegata alla sua assenza per maternità. A tal riguardo, la Suprema Corte ha ribadito il suo costante orientamento, secondo cui la discriminazione non può essere solo lamentata o invocata, in quanto occorre una rigorosa dimostrazione. In particolare, la Corte di Cassazione ha rilevato che l’assenza per maternità non può dar luogo a progressioni di carriera tout court, salvo il caso, non dedotto nella fattispecie esaminata, in cui la progressione di carriera sia collegata esclusivamente alla mera anzianità, e non anche alla maggiore professionalità acquisita nel corso del rapporto di lavoro.

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Civile, Commerciale, Assicurativo

La quietanza sottoscritta solo dall’agente non prova il pagamento del premio assicurativo (Tribunale di Lecco, 4 giugno 2015)

La quietanza di pagamento, redatta su un modulo prestampato predisposto dall’assicuratore e recante la sola sottoscrizione dell’agente, non ha valore confessorio nei confronti della compagnia assicurativa e, pertanto, non è di per sé idonea a dimostrare il pagamento del premio da parte del contraente. Così ha statuito il Tribunale di Lecco, con la sentenza in epigrafe, all’esito di un giudizio promosso dall’assicurato nei confronti della propria compagnia assicuratrice. In particolare, l’attore aveva convenuto in giudizio l’assicuratore lamentando l’illecita appropriazione - da parte dell’agente - dei premi versati per la stipulazione di polizze che non risultavano ritualmente emesse, chiedendo, in via principale, il riconoscimento della validità delle stesse e, in subordine, il risarcimento del danno, ex art. 2049 cod. civ., commisurato ai premi versati per la stipulazione di detti contratti assicurativi. La Compagnia - in via preliminare - si è difesa sostenendo che, nella fattispecie, l’attore non aveva in alcun modo provato il pagamento dei premi, limitandosi a produrre una serie di quietanze non sottoscritte in modo autografo dall’assicuratore ma riportanti solamente una sigla indecifrabile, asseritamente riconducibile all’agente. Stante la carenza della prova del pagamento del premio, la domanda dell’attore doveva, quindi, essere respinta sia sotto il profilo contrattuale (in quanto, in mancanza del pagamento dei premi, la stipulazione delle polizze non si era perfezionata), sia sotto il profilo extracontrattuale (per omessa prova del danno asseritamente subito). In subordine, la Compagnia sosteneva che tra l’assicurato e l’agente era intercorso un parallelo rapporto privato, estraneo al rapporto assicurativo, idoneo a rompere il rapporto di occasionalità necessaria tra l’attività dell’agente ed il mandato assicurativo conferitogli dall’assicuratore (presupposto minimo per poter sostenere la responsabilità della compagnia per l’illecito dell’agente ai sensi dell’art. 2049 cod. civ.). Il Tribunale, in accoglimento alle tesi difensive della Compagnia, affermava il principio in epigrafe, precisando che la quietanza di pagamento (peraltro nemmeno sottoscritta dalla Compagnia) non può certo costituire, da sola, valida prova del trasferimento di denaro dall’assicurato all’assicuratore . Accertata, per quanto sopra detto, la carenza di prova del pagamento dei premi, il Giudice ha poi ritenuto - in virtù del principio della c.d. “ragione più liquida” - di non esaminare le ulteriori numerose questioni sollevate dalle parti (inerenti, ad esempio, la responsabilità solidale della compagnia assicurativa per l’illecito dell’agente o l’eventuale concorso di colpa dell’assicurato) in quanto, in mancanza della prova del danno, la domanda attorea non avrebbe potuto, comunque, essere accolta. Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti

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Newsletter T&P ASSICURAZIONI, LOCAZIONI, RESPONSABILITÀ

A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

LOCAZIONE

In materia di locazione, la rinuncia al compenso per il periodo di preavviso non può desumersi dal mero silenzio del locatore - conformemente del resto ai principi generali in materia contrattuale, per cui il silenzio non è normalmente significativo, quale dichiarazione di volontà - ma avrebbe dovuto risultare da dichiarazioni, atti o comportamenti inequivocabili in tal senso. Tale non è la mera accettazione in restituzione delle chiavi dell'appartamento: comportamento in certa misura necessitato, a fronte dell'abbandono dei locali da parte del conduttore, e comunque inidoneo di per sé solo a dimostrare la rinuncia del locatore al pagamento del corrispettivo per l'intera durata del periodo di preavviso al quale avrebbe avuto diritto per legge.(Cassazione, 27 luglio 2015, n. 15769)

ASSICURAZIONE

SANITARIA

In materia di interpretazione del contratto, viola i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362, 1363, 1369 e 1370 cod. civ., l’interpretazione della clausola di un contratto di assicurazione sanitaria che pretenda di individuare gli interventi rimborsabili (nella specie, di resezione, incannulazione antiblastica, epatotomia e rimozione di adenomi maligni) sulla base delle tecniche utilizzate e non dell’obiettivo terapeutico perseguito, assumendo la rimborsabilità esclusivamente di interventi di natura chirurgica e non radioterapica. (Cassazione, 20 agosto 2015, n. 17020)

CONCORRENZA

In materia di violazione della normativa antitrust, spetta alla compagnia assicuratrice, per la quale l'Autorità Garante per la concorrenza ha accertato la sussistenza di un illecito concorrenziale, fornire la prova contraria del nesso causale tra l'illecito e il danno tramite precise indicazioni su circostanze e comportamenti concernenti essa e l'assicurato idonei a dimostrare che il livello del premio è stato determinato da fattori diversi dalla partecipazione all'intesa illecita. (Cassazione, 11 settembre 2015, n. 17996)

TRA LE NOSTRE

SENTENZE:

RESPONSABILITÀ EX

ART. 2049 C.C.

Con ricorso per decreto ingiuntivo, Alfa chiedeva l’emissione, nei confronti della Compagnia Omega, di un decreto ingiuntivo per l’importo di euro X, assumendo di aver stipulato, tramite un agente della stessa, una polizza vita, versando il relativo premio mediante il riscatto di altra polizza emessa dalla medesima Compagnia.

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Successivamente, Alfa avrebbe appreso che il contratto non si era mai perfezionato. Pertanto, Alfa deduceva la responsabilità ex art. 2049 c.c. della Compagnia e chiedeva emettersi l’ingiunzione di pagamento sia nei confronti dell’agente, sia nei confronti di Omega. Quest’ultima proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo, eccependo l’inammissibilità e infondatezza delle domande formulate nei suoi confronti e chiedendo, in subordine, di essere autorizzata alla chiamata in causa dell’agente. In particolare, la Compagnia eccepiva che nel caso di specie il pagamento del premio era del tutto indimostrato, essendo avvenuto, a dire del ricorrente, con un pagamento virtuale o una “partita di giro”; peraltro, la polizza “riscattata” non risultava neppure intestata ad Alfa. Con sentenza del 19 agosto 2015, il Tribunale accoglieva l’opposizione, ritenendo non dimostrato il versamento dell’importo a titolo di premio. In particolare, il Giudice evidenziava che, avendo la Compagnia contestato il pagamento effettivo del premio, era onere dell’opposta, attrice sostanziale, provare, i fatti posti a sostegno della domanda e, in particolare, il versamento del premio. Onere che la ricorrente non aveva assolto; della vecchia polizza riscattata non vi era alcuna traccia scritta; le dichiarazioni rese dal teste erano da considerarsi inattendibili, visto il rapporto di parentela con l’opponente e la circostanza che il teste era stato, per un certo periodo, collaboratore dell’agenzia; la dichiarazione scritta resa dall’agente era priva di data certa e di elementi chiaramente indicativi della polizza riscattata. Sulla base di tali circostanze, il Tribunale revocava, quindi, il decreto ingiuntivo opposto. (Tribunale di Avellino, 17 aprile 2014) Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

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IL PUNTO SU A cura di Vittorio Provera

L’ABUSO DELLO STATO DI DIPENDENZA ECONOMICA DA PARTE DI IMPRESE PRODUTTRICI - DISTRIBUTRICI VERSO IMPRESE CLIENTI

Nelle moderne economie - ove si registra una concentrazione delle attività produttive in capo ad imprese spesso di dimensioni multinazionali e, per contro, la volontà di modificare rapidamente reti di vendita stravolgendo sistemi distributivi consolidati - non è infrequente il tentativo di “bruciare le tappe” attraverso condotte complesse, finalizzate a disarticolare con effetto immediato i canali esistenti. È questo il caso di cui ci si occupa, in cui sono coinvolti molteplici soggetti protagonisti dell’attività produttiva e commerciale con, ovviamente, gradi diversi di importanza economica e, quindi, di condizionamento anche verso aziende con cui non si hanno formali relazioni contrattuali.

Si tratta, nello specifico, di una causa decisa dalla Suprema Corte con sentenza 23 luglio 2014 n. 16787 e che ha come protagonisti: (i) da un lato una nota fabbrica straniera di vetture (che identificheremo come Società K) ed una società di importazione e distribuzione dei modelli prodotti dalla prima (che identificheremo come Società Y), tra le quali intercorreva un contratto di importazione e distribuzione in Italia di vetture; (ii) dall’altro una serie di imprese interessate alla vendita, sul territorio italiano, degli autoveicoli prodotti dalla Società K e che, a tale scopo, avevano concluso altrettanti contratti di concessione di vendita con la Società Y di distribuzione e importazione.

Ad un certo punto il fabbricante decide di cambiare totalmente il sistema commerciale, costituendo una propria azienda di distribuzione sul territorio. Quindi, la Società K scioglie il contratto di importazione e distribuzione di autoveicoli con la Società Y, la quale aderisce a tale scioglimento ricevendo, peraltro, un rilevante indennizzo in denaro. Perfezionata tale operazione, l’Azienda importatrice interrompe tutti i contratti in essere con le concessionarie presenti nel territorio nazionale, senza riconoscere alle medesime il preavviso di 24 mesi pure previsto. Al riguardo, la stessa motivava tale recesso con effetto immediato sulla base di una clausola contrattuale che disponeva la non applicabilità del preavviso, qualora il recesso fosse stato giustificato dall’avvenuta risoluzione del rapporto tra il fabbricante e l’importatore. Contestualmente, la nuova Società di distribuzione, creata proprio dalla produttrice K, sottoponeva ai concessionari (che avevano subito il recesso) la possibilità di stipulare nuovi contratti di concessione, ma a condizioni molto più onerose di quelle in vigore in precedenza con il vecchio importatore Y.

Tale complesso di condotte ha indotto le aziende che avevano subito tali iniziative ad agire giudizialmente, per far accertare la illegittimità delle condotte del produttore e dell’importatore.

La Corte d’Appello di Torino accoglieva le domande di tali soggetti, dichiarando la nullità della clausola del contratto di concessione (stipulato tra l’importatore e le concessionarie) che legittimava la cessazione del rapporto con effetto immediato e senza obbligo di preavviso, in quanto in contrasto con l’articolo 5.2 del Reg. CEE 1475/95. Detta norma attribuiva all’operatore del settore automobilistico il potere di sottrarre i loro accordi di distribuzione ai divieti stabiliti dall’allora art. 85 trattato CEE, a condizione che tali accordi fossero conformi alle norme dettate dal Regolamento.

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Newsletter T&P Fra tali norme rientra la disposizione secondo la quale il recesso da intese stipulate a tempo indeterminato può avvenire solo con la concessione di un termine di preavviso di almeno due anni. E ancora, il comportamento del produttore dei veicoli è stato ritenuto integrante l’illecito di abuso di dipendenza economica in danno delle concessionarie (in concorso con quello dell’importatore) ai sensi dell’art. 9 Legge 18 giugno 1998 n. 192. Più precisamente, l’illecito è stato determinato dalla condotta attraverso la quale si sono offerte alle concessionarie condizioni fortemente peggiorative rispetto a quelle in essere con l’importatore Y (esempio: target di vendita più elevati, obbligo di ampliamento degli spazi dedicati alla vendita, rilascio di gravosa fidejussione bancaria, ecc.), approfittando delle difficoltà in cui queste aziende si erano venute a trovare verso la clientela a seguito della sospensione, senza preavviso, delle forniture di automobili. Infine, sempre secondo la Corte d’Appello, il produttore, in concorso con l’importatore, ha violato anche i doveri di buona fede nei rapporti commerciali ai sensi degli articoli 1337 e 2043 c.c..

La Corte di Cassazione, nel giudizio di impugnativa, ha confermato la valutazione di illegittimità dei comportamenti del fabbricante e dell’importatore, ma con una parziale modificazione delle motivazioni.

Più precisamente, i Giudici di legittimità hanno convenuto che l’interruzione improvvisa del rapporto contrattuale di concessione, deciso dall’importatore; così come le più onerose proposte economiche formulate dal produttore agli stessi concessionari, dovevano qualificarsi come abuso di dipendenza economica ai sensi del già citato articolo 9 Legge 192/98. A ciò si aggiunge la circostanza che l’esercizio del recesso senza preavviso (anche se previsto contrattualmente nel solo caso in cui detto recesso fosse conseguenza della cessazione del rapporto di importazione), nella fattispecie era il risultato di una condotta combinata e concertata contraria a buona fede. L’importatore, infatti, non aveva subito detta situazione ma aveva concordato la medesima a fronte del pagamento di un indennizzo e senza alcun beneficio per i concessionari. Tutto ciò, come detto, aveva consentito allo stesso produttore (attraverso la Società costituita direttamente per la distribuzione delle vetture) di porre in essere un tentativo di ottenere rilevanti vantaggi economici, sottoponendo ai concessionari (quale condizione per proseguire l’attività consolidata) nuove condizioni contrattuali ben più onerose di quelle precedenti.

Da ultimo, si è precisato che i contratti di concessione di vendita possono includersi nell’ambito dei rapporti di sub fornitura, di cui alla Legge n. 192/1998; considerato che il concessionario si impegna a fornire alla Casa Madre “servizi di distribuzione destinati ad essere ……….. utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente ..….”. In relazione a detti contratti, la normativa prevede la nullità dei patti mediante i quali sia concesso ad una delle parti la facoltà di recesso senza preavviso; pertanto, anche sotto questo profilo, la clausola del contratto invocata dall’importatore per sciogliere i rapporti con i concessionari non poteva operare legittimamente.

La pronuncia della Suprema Corte ha posto, quindi, taluni “paletti” in relazione all’eventuale pianificazione di operazioni (anche articolate) tese a “forzare” le norme sulla concorrenza e lesive anche di Aziende terze, con le quali il soggetto protagonista (ed in posizione dominante) non ha, formalmente, relazioni contrattuali.

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Eventi

✦Bergamo, 1 Ottobre 2015, ore 16. Sala Giunta di Confindustria Bergamo Seminario Confindustria Bergamo: Jobs Act La nuova disciplina delle mansioni Relatori: Avv. ti Francesco Autelitano e Francesco Cristiano

✦Parma, 16 Ottobre 2015, ore 9. Palazzo SoragnaConvegno UPI: Jobs Act Novità in materia di lavoro alla luce della pubblicazione degli ultimi 4 decreti attuativi Relatori: Avv. ti Stefano Beretta, Giorgio Molteni, Luca Peron, Damiana Lesce

✦Milano, 23 e 30 Novembre 2015, ore 17.30 – 19.30. ALDAI, via Larga n. 31Incontro ALDAI: Il dirigente e il suo contratto di lavoro oggi Come cambia il rapporto di lavoro dei manager alla luce delle nuove norme legislative Relatori: Studio Trifirò & Partners

Labour Awards 2015 Milano, Museo Diocesano, 28 Settembre 2015

✦AVVOCATO DELL’ANNO CONTENZIOSO: Giacinto Favalli Motivazione della Giuria

✦STUDIO DELL’ANNO TOP MANAGEMENT: Trifirò & Partners Avvocati

Motivazione della Giuria

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Rassegna Stampa

JOB24 – Il Sole 24 Ore: 28/09/2015 VIDEO: Jobs Act - La cassa integrazione e il nuovo assegno di ricollocazioneIntervista a Valeria De Lucia

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 28/09/2015 Pubblicati gli ulteriori decreti del Jobs Actdi Damiana Lesce, Tommaso Targa e Valeria De Lucia

Finanza e Diritto: 23/09/2015 Jobs Act. Pregi e difetti della riforma del lavoro analizzata da 10 giuslavoristiIntervista a Stefano Trifirò

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 21/09/2015 La prescrizione dei crediti retributivi nel contratto a tutele crescentidi Damiana Lesce e Valeria De Lucia

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 17/09/2015 La quietanza sottoscritta solo dall’agente non prova il pagamento del premio assicurativodi Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 15/09/2015 Prova specifica per l’indennità da rischio radiologicodi Stefano Beretta e Marina Olgiati

JOB24 – Il Sole 24 Ore: 14/09/2015 VIDEO: Jobs Act - Controlli a distanza tra privacy, nuovi strumenti, nuovo lavoroIntervista a Tommaso Targa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 14/09/2015 Non basta la dequalificazione a dimostrare la natura ritorsiva del licenziamento intimato al dirigentedi Angelo Di Gioia

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