nichilismo giuridico

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  • 8/18/2019 Nichilismo giuridico

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    IRTI, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2004

    “Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche

    dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenerequella ragionevole prudenza del pensiero  , quel paradigma di pensiero obliquo e

    prudente , che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della

    precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra ,

    nella negazione tra un gruppo di interessi e un altro. Dopo la caduta delle

    trascendenze e l’entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la

    corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la

    sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo

    (…)”. Con queste parole si conclude l’ampia campitura di Volpi su Il nichilismo 

    (Laterza, Roma-Bari, 1996,2004) .Sembra che i saggi raccolti da Natalino Irti in

     Nichilismo giuridico prendano l’avvio proprio da questo punto, quasi a sviluppare

    idealmente quegli assunti , per portarli alle loro estreme conseguenze in un

    campo che i filosofi puri non frequentano volentieri, il mondo del diritto. Un

    diritto post-moderno, in cui, per l’appunto, sono venuti a mancare i dogmatismi

    che si erano incrostati con l’ingresso della Pandettistica e poi del formalismo più

    crudo, sono crollate le ideologie del positivismo giuridico e del giusnaturalismo, si

     vive all’insegna della precarietà, cioè della mutevolezza, della necessità quotidiana,

    della a-sistematicità, in cui è venuto meno quel Paradigm  di cui parla Volpi. Ora

    dunque ci si chiede se il filosofo – qui, il giurista – debba o no sostituirlo con altri

    punti di riferimento “fermi” e “ordinanti”, e, nel caso di risposta positiva, dove

    possa – il giurista - trovare l’armamentario per ricostruire ciò che è stato,

    finalmente, spazzato via.

    E’ un “viaggio esplorativo” :Irti non ha ancora deciso quale strada

    prenderà, e per questo avverte il lettore che il libro tratta solo dell’avvio di un

    discorso che si dovrà poi tramutare in un manuale (sempre che sia possibile

    confezionare un manuale con i caratteri tradizionali muovendo da una premessa

    per l’appunto nichilista nel senso sopra accennato). Eppure il rigore scientifico

    con cui si srotolano questi pensieri già consente di riconoscere nella prima parte

    del volume un manuale in nuce. Il tono è asciutto e cadenzato, le frasi compatte e

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    in sé conchiuse, assertive più che dimostrative, perché ciascuna di essa è il

    distillato di una lunga meditazione che si offre al lettore nei suoi passaggi

    essenziali e talvolta sincopati. Sono pensieri che hanno la sostanza dell’acciaio

    tipica della pagina di Juenger , ma come d’incanto lasciano cadere di tanto in tantoe con tocco sublime la parola del poeta.

    La prima partesi apre con una riflessione sul metodo, necessariamente

    storicizzato,e poggia su alcune premesse: l’incessante produzione e consumo di

    norme, la perdita dell’identità dei luoghi e dell’identità degli uomini, nel senso del

    superamento del geo-diritto  e del pan-economicismo; l’indifferenza delle norme ai

    propri contenuti ; il culto fallace della pura volontà della legge; l’essenza tecnica

    del diritto ( artificialità, macchinalità, proceduralità  ) ; la scomparsa dello Stato

    “machina machinarum”; l’incapacità dei giuristi di accettare la caducità dei loro

    strumenti di lavoro , a cominciare dai “concetti”. In questo contesto, la riflessione

    sui concetti appare come un’isola felice circondata dai flutti infidi: tre giuristi, in

    pieno tempo di guerra ( non si sa se per amore della scienza, se per far procedere

    comunque il pensiero anche in mezzo alle distruzioni o se per un atteggiamento

    superiore alla miserabile quotidianità) discutono dei concetti giuridici. Irti

    ripercorre, recuperandola da un ingiusto oblìo, la polemica tra uno Jemolo che

    oggi ci appare “giusrealista”, un Pugliatti avvinto per contro nella sua logica

    astratta e un Calogero felicissimo, perché assolutamente moderno, se già nel 1939

    ha modo di osservare che “qualsiasi tentativo di costruire il sistema universale dei

    diritti, e di ricercare il suo fondamento in un mondo di concetti oggettivamente e

    teoricamente determinabile, naufraga contro l’elementare dato di fatto, che non

    c’è al mondo nessun diritto se nessuno vuole che esso ci sia(…)”.

    I fili che Irti annoda in questi capitoli tessono una tela piena di colore ma

    consapevolmente esilissima Il giurista dal sapere è ormai trasportato al “saper

    fare” , alla specialità dei saperi giuridici e alla loro frammentarietà, è obbligato a

    convertire il suo linguaggio distillato da una saggezza plurisecolare in un

     vocabolario burocratico, economico e tecnico che lo allontanano dalla scienza e lo

    avvicinano per l’appunto al tecnicismo pragmatico.

    Fin qui potremmo riconoscere l’ Irti della “decodificazione”, dell’ “ordine

    giuridico del mercato”, del “geo-diritto”, dell’argomentare dialogico con Severino

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    su “diritto e tecnica”, e molti altri riferimenti che , come bagliori violacei nella

    notte ormai oscura del mondo giuridico, tagliano le tenebre portando intelligenza,

    riflessioni, dubbi, che si sostanziano in un totale disincanto. “Il vorticoso

    succedersi di norme giuridiche, emanate modificate abrogate in tutte le officinedella terra, attesta la “nientità” del diritto, la convinzione che esso sia producibile

    con la forza esclusiva e arbitraria della volontà”. Non c’è più verità, tutto è forma,

    quindi artificio.

    Ma il volume non s’arresta qui: il lettore, che pure riconosce in queste

    pagine i rivoli dell’ermeneutica, del giusrealismo, dell’antidogmatismo, si attende

    ancora qualcosa. Ed è soddisfatto, servito, direi, attraverso Camus, le cui pagine,

    osserva l’A. en passant   e con fare indulgente, valgono intere biblioteche

    giuridiche. E’ il Camus de L’homme revolté , che risale alla gnosi per trarne alimento

    in un nichilismo metafisico che alla condizione umana lascia solo una virtù:

    l’attitudine alla rivolta. Attraverso Camus ( ma anche attraverso Nietsche, Simmel,

    Heidegger,Schmitt, Juenger) il diritto mostra, attraverso le pagine di Irti, il suo

     vero volto: è il sistema del più forte, un sistema im-posto e irrazionale, chiuso

    nella temporalità della storia, concentrato nel consumo di norme e nel nichilismo

    del mercato, che – dice Irti – “ misura uomini e cose secondo la logica della

    quantità , sopprime le differenze soggettive, e tace sul perché di questa macchina

    immensa – mortifica e distrugge le individualità”.Tutto ciò porta al nichilismo

    normativo, da cui il giurista non può uscire, ingabbiato nel suo solipsismo,

    consapevole dell’assenza di senso, unità, scopo del diritto, e del declino dei

    “monismi”- unità totalità organicità. Vani quindi sono gli sforzi per colmare

    questa assenza, non potendo il diritto essere oggi diverso da quel che è, vano pureè il vagheggiare diritti universali, vano cercare di sottrarre il diritto alla tecnica.Ciò

    che rimane al giurista è dunque lottare per la diversità, contro l’omologazione,

    contro l’inglobamento, contro l’ignoranza. Perché l’uomo di Camus è l’uomo che

    sa. Ma non si arresta al sapere, procede nel fare.

    Le parole conclusive sembrano dare la cifra dell’intera opera: “ Il

    nichilismo ci salva e protegge; smaschera falsi idoli, da cui pensavamo di trarre il

    nostro valore. E tutto risolve nelle differenze della volontà, nel loro conflitto, nel

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    loro vincere o soccombere.Esso non è rinuncia, ma accettazione; non è inerte

    angoscia, ma serena fraternità con il divenire”.

    Non credo, non voglio credere che il suo messaggio sia concentrato tutto

    in queste ultime battute: e il lettore, memore della “persecuzione della scrittura”,

    crede, spera, ambisce, anzi, ardisce di guardare più a fondo: Irti non è solo uno

    spettatore implacabile e severo, metallico e cartesiano. Recupera (magari senza

     volerlo, o senza volerne dare l’apparenza) una nota positiva,perché il nichilismo

    in cui crede non è quello tragico, luttuoso, senza fiducia, remissivo e rinunciatario

    che costituisce peraltro solo un segmento, e neppure il più affascinante, di quell’

    indirizzo di pensiero. Ha pure i suoi idoli, che ha eretto dopo aver distrutto gli dei

    falsi e bugiardi: si chiamano “responsabilità”, “scelte politiche”, “feconda

    molteplicità [della a-sistematicità]”, lotta al liberismo “profondamente e

    radicalmente illiberale ”. Chi scrive vorrebbe ancor di più: un maggior afflato

    sociale, una cultura della differenza che passi attraverso la protezione degli

    interessi deboli. Ma non possiamo chiedergli troppo. Almeno, per il

    momento.( Guido Alpa)