norman zarcone

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GIOIA 99 IL CASO NON È CHIUSO D.R. Due lauree con il massimo dei voti, la tesi quasi finita, l’ambizione impossibile di vivere di ricerca filosofica. Invece di cambiare mestiere, Norman Zarcone si è buttato da una finestra della sua facoltà. Lasciando ai posteri un quesito molto italiano: in un sistema migliore, avrebbe avuto una chance? di Monica Ceci Morte dottorando di un Filosofo Norman Zarcone, 27 anni, si è ucciso all’Università di Palermo il 13 settembre 2010.

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Page 1: Norman Zarcone

gioia 99

Il caso non È cHIUsoD.

R.

Due lauree con il massimo dei voti, la tesi quasi finita, l’ambizione impossibile di vivere

di ricerca filosofica. Invece di cambiare mestiere, Norman Zarcone si è buttato da una finestra della sua facoltà.

Lasciando ai posteri un quesito molto italiano:in un sistema migliore, avrebbe avuto una chance?

di Monica Ceci

Mortedottorando

di un

FilosofoNorman Zarcone, 27 anni, si è ucciso all’Università di Palermo il 13 settembre 2010.

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NormaN, che portava quel nome perché suo padre malato di calcio aveva visto giocare un giovane talento irlandese di nome Norman Whiteside pochi mesi prima della sua nascita, il pomeriggio del 13 settembre uscì di casa per andare all’università come in un giorno qualunque. Salì al settimo piano, aprì la finestra, si sedet-te sul parapetto con la schiena verso l’esterno, fumò una sigaretta e senza un grido si lasciò cadere giù. Al settimo piano della facoltà di Lettere e filoso-fia dell’Università di Palermo c’è una rosa rossa appassita appoggiata al vetro e ragazzi seduti per terra che aspettano l’esame ripassando nei corridoi, dove ristagna l’odore dei libri e della paura. Norman Zarcone aveva 27 anni, sta-va finendo il dottorato in filosofia del linguaggio dopo la laurea trien-nale e la specialistica conseguite in tempo perfetto, con il massimo dei voti, due tesi pubblicate, su logica e filosofia del linguaggio e sulla filosofia della meccanica quantistica. Era sano, allegro, fidanzato, amatissimo dalla sua famiglia. Suonava la tastiera, il piano-forte, la chitarra, scriveva articoli per qualche giornale e d’estate faceva il bagnino per 25 euro al giorno, sempre con un libro in mano però. Dormiva ancora nel letto a castello della sua stanza da ragazzino, con i pupazzetti dei Simpson allineati sullo scaffale, ma da dieci anni almeno aveva deciso di vivere per la filosofia. all’università aveva saputo o capito che ricercatore non sarebbe diventa-to mai. Non c’era posto, o forse i posti erano già assegnati o, se invece fosse stato lui a non essere all’altezza, non ci sarebbe comunque mai stato un con-corso abbastanza trasparente da certifi-carlo con equità, tanto da lasciarlo in-timamente libero di scegliere un’altra strada. Non litigò con i professori che non riconoscendogli la borsa di studio avevano fatto di lui un dottorando di se-

rie B. Non se la prese con diversi asini in cattedra dal cognome illustre che co-nosceva, come se ne conoscono in tutte le facoltà d’Italia. Non fece politica con le organizzazioni degli studenti. Dato che non poteva vivere da filosofo, concepì l’idea di morire da filosofo. Non s’incupì. Non mise in ansia nessu-no. Fece il testimone alle nozze di suo fratello David, lasciando la sua faccia sorridente nelle foto ricordo. Scrisse sul suo quaderno un appunto per gli amici: “Con lucida e fredda de-terminazione mi accingo a fare una nuova esperienza che purtroppo non potrò commentare con voi”. E anche: “La libertà di pen-siero è libertà di morire, che poi è la libertà di vive-re”. Dice suo pa-dre Claudio: «Mio figlio ha fatto un gesto simbolico. Come il macchinista della Locomotiva di Guccini. Ricorda la canzone? Tutti pensano “un pazzo si è scagliato contro il treno”, ma lui sa perché l’ha fatto».Norman era cresciuto nel quartiere Brancaccio di Palermo, quartiere di mafia se mai ce n’è uno, quello dove don Pino Puglisi morì ammazzato nel 1993 per avere aperto centri giovanili e predicato contro i boss. Il fortino del-la famiglia contro i mali del mondo è una palazzina anonima come tutte le altre, ma piena fino all’inverosimile di libri, di dischi, di strumenti musicali, di computer, di film, di bandiere dell’In-ter. Ci vivono tre generazioni abituate a combattere le frustrazioni scambiando-si opinioni, canzoni, poesie, commen-tando i sistemi filosofici e le partite di calcio. Un rifugio caldo dove ciascuno

è venuto a patti con i propri sogni. Non-no Pino, ex dirigente delle Poste, che ogni giorno alle tre va alla chiesa delle monache, per meditare la Passione di Nostro Signore. L’inquieto Claudio, che fa il giornalista freelance e il libero pensatore. Il primogenito David. che voleva studiare cinema ma poi si è tro-vato un posto al 118, per potersi sposare e trasferire al piano di sopra. Norman i sogni se li teneva stretti:

niente 118 per lui, niente raccoman-dazioni, che i po-litici gli facevano tutti un po’ schifo. Niente matrimonio finché non aves-se avuto almeno i 1.200 euro della borsa da ricercato-re. Il padre intui-va: «All’università l’avevano isolato. Non lo chiamava-no alle riunioni di dottorato, il relato-re si perdeva i ca-

pitoli della tesi che doveva correggere. Lo trattavano come un corpo estraneo, una metastasi».Il relatore di Norman era il professor Gianlazzaro Rigamonti, 70 anni. «È vero che gli ho perso dei capitoli», sospira. «Sono un distratto. Ma li ho sempre recuperati in versione elettroni-ca e corretti. Non è vero che Norman fosse un corpo estraneo. È vero che, a prescindere dal suo valore, in facoltà non aveva chance, perché il suo unico contatto ero io, che non avevo potere e adesso sono anche in pensione. Se vuole, era nella scuderia sbagliata. Lui era veramente un bravo ragazzo, un sognatore con ideali altissimi. Si faceva un po’ fatica a fargli mettere i piedi per terra. Non era fragile, ma non lo consi-dero nemmeno un martire del sistema. Quel che pesava su di lui pesa su tutti noi da quarant’anni: gli accordi delle consorterie, il clientelismo sfacciato che porta in cattedra molti incom-petenti e tiene fuori molte persone di valore. Io sono molto turbato dal suo gesto, ma non mi sento colpevole: ho fatto per lui più di qualunque altro docente. I suoi compagni di corso sono pieni di angoscia, ma il sistema di pote-re è troppo stabile. Non cambierà».Erica detta Ery, laurea triennale in Economia, niente lavoro, con l’univer-

due cose su: le dinastie e la memoria1 - Secondo la ricerca di Gianmarco Daniele, laureato in Economia all’Università di Bari con una tesi sulla percentuale di omonimia tra i docenti degli atenei italiani, le dinastie universitarie palermitane sono un centinaio, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti imparentati. A Lettere e filosofia, per esempio, ci sono quattro professori della famiglia Carapezza.2 - Il rettore dell’Università di Palermo ha dichiarato la sua intenzione di intitolare un’aula alla memoria di Norman Zarcone. Altre iniziative per commemorare lo studente suicida sono partite dall’europarlamentare Idv Sonia Alfano e dal presidente dell’Inter, Massimo Moratti.

“A prescindere dal suo valore,

in facoltà non aveva possibilità:

il suo contatto ero io, un professore

in pensione”

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D.R.

“Certo che Norman poteva

fare altro. Ma l’amore per

questa disciplina è un fatto

incondizionato”

sità ha chiuso: «È un meccanismo fuori controllo», dice. «La fortuna conta per l’80 per cento». Aveva chiacchierato con Norman la sera prima, come face-vano spesso, nel locale in cui lui incon-trava gli amici quasi tutte le sere alla fine della giornata sui libri. «Serio, in gamba, perbene, innamorato dei suoi studi, sempre pieno di cose da fare, gar-bato, allegro, mai demoralizzato. Vivo. Con quella capacità di tradurre in fi-losofia ogni minimo evento della vita, perché comunque per lui la filosofia era il centro di tutto. Nessuno poteva sospettare le sue intenzioni. Mi è rima-sto il senso di avere subito un furto e questa domanda: come fa una persona del genere a non essere oggetto di inte-resse per nessuno, in un’università?».L’università funziona a modo suo. «Se c’è una borsa “vuota”, capita anche che qualcuno la prenda per merito», spiega con la voce arrabbiata Alessan-dro, specializzando in filosofia. «Ma la maggior parte delle borse è già assegna-ta quando esce il bando. I baroni de-cidono il futuro dei giovani e intanto non si curano dei disservizi: sessioni di esame che sal-tano all’ultimo mi-nuto, lezioni dove il docente non si presenta. Alla manifestazione or-ganizzata dopo la morte di Norman i professori non hanno partecipato, ma subito sono comparsi quando una televisione è venuta a intervistarci in facoltà. Certo che Norman poteva fare altro: aveva mille interessi, era appena diventato giornalista pubblicista. Il suo non era un problema professionale. Però tutti noi sappiamo che l’amore per questa disciplina è un fatto incon-dizionato». Il professor Franco Lo Piparo, direttore del dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei saperi, quello dove studiava Norman, all’inizio è stato zitto. Poi ha deciso di scrivere una lettera aperta al padre di Norman, chiedendogli: “Sa-rebbe stato corretto fare una promessa che si sapeva di non poter mantenere? (...) Avrei potuto o dovuto fare qualcosa che non ho fatto?”. Oggi spiega: «Ho scritto perché sentivo montare un cli-

ma di contestazio-ne al cosiddetto sistema baronale e sapevo che la fac-cenda dei baroni non c’entrava nul-la. Il sistema baro-

nale non esiste, esistono le persone e le loro responsabilità. Se questo ragazzo ha subito un torto, il responsabile sono io. Ma Norman non ha subito nessun torto, chi commette gesti come il suo ha un abisso dentro se stesso. Oppure, se il sistema esiste, io barone sono, ma rispondo di quello che faccio. Il dottorato che coordino dal 1990 ha pro-dotto professori ordinari, associati e ri-cercatori sparpagliati in tutta Italia. Per me la selezione è sempre stata traspa-rentissima. Quel ragazzo non era emar-ginato. Io stesso convocavo i dottorandi alle riunioni e li convocavo tutti. Non c’è interesse oggettivo da parte dei do-centi a escludere un dottorando. Non ho nulla da rimproverarmi. Gli esper-ti possono leggere la tesi di Norman, che era quasi pronta. Se risulterà che

io non ho riconosciuto la sua genialità, sono pronto a dimettermi».Sicché il giovane filosofo del quartiere Brancaccio, ponderate attentamente le circostanze della sua vita, delibe-rò di scagliarsi contro il treno. Seduto sul parapetto del settimo piano, chiese una sigaretta a due studenti che passa-vano, i quali guardandolo notarono che tremava ed era molto pallido. Nonno Pino non smette di ripetere: «Perché non l’hanno fatto scendere dal parapet-to? Perché non gli hanno battuto una mano sulla spalla?». Sono discorsi da nonno, perché l’università funziona a modo suo. Vi si insegnano molte cose, ma di certo non a riconoscere il mo-mento in cui qualcuno ha bisogno di una pacca sulla spalla. Perciò Norman Zarcone finì la sigaretta, digitò sul te-lefono il numero della sua ragazza, le disse velocemente che l’avrebbe amata sempre. Spense il telefono prima che lei potesse rispondere e lo mise ordina-tamente dentro al casco del motorino, insieme alle chiavi di casa. Poi spinse leggermente la testa all’indietro. n