numero 44

2
Se vuoi collaborare, spedisci un tuo pezzo a [email protected]. Allega due righe su di te. Se vuoi essere pubblicato sul pdf, cerca di non superare di troppo la cartella standard (1800 battute). Non spedirci poesie. Per il web facciamo 8000 circa, e morta lì. Scrivi a [email protected] per qualsiasi informazione. Il presente opuscolo è diffuso sotto la disciplina d e l l a l i c e n z a CREATIVE COMMONS Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. La licenza integrale è disponibile a questo url: http://tinyurl.com/8g7sw5. alessandro romeo:editoriale Un po’ di tempo fa la gente diceva quello che le passava per la testa e poi, alla fine di tutto, aggiungeva «ma anche no». Era divertente. Potevi dire la cosa più scema e priva di senso del mondo senza paura di perdere in un solo colpo tutti gli amici, perché al fondo della frase c’era sempre quel «ma anche no» che ti salvava. Era anche utile quando qualcuno stava per fare una cosa scema, tipo quella volta che un mio amico ha infilato un petardo in una merda di alano. Gli ho detto «ma anche no» e quello si è fermato. Per non parlare di quella volta che lo stesso mio amico ha tentato di infilare un petardo direttamente nell’alano. «Ma anche no», e non è successo niente. Forse a questo punto è dura collegare questa riflessione nostalgica con i nomi degli autori dei pezzi che compongono questo numero. Ma anche no: Maini racconta, Maggiolo micronarra, Boligol verseggia, Loretta consola, Miotto fotografa, Scandolin recensisce. Il mio amico firma l’editoriale. INUTILE opuscolo letterario maggio 2011, numero 44 supplemento al #1810 di PressItalia.net, registrazione presso il Tribunale di Perugia #33 del 5 maggio 2006. pubblicazione mensile a cura di INUTILE » ASSOCIAZIONE CULTURALE. la redazione giacomo buratti, viviana capurso {ufficio stampa}, ferdinando guadalupi, marco montanaro, virginia paparozzi, nicolò porcelluzzi, alessandro romeo {responsabile editoriale}, matteo scandolin {grafica e impaginazione} hanno collaborato a questo numero terry boligol, loretta “jesus” mcjagger, andrea maggiolo, valentina maini poster “bonjour tristesse”, di nicole miotto {www.flickr.com/photos/vinoplastica/} per abbonarti prepara 15e vai al link http://www.rivistainutile.it/?page_id=90 wild wild web rivistainutile.it, twitter.com/inutileonline, associazioneinutile.org, micronarrativa.com inut ile maggio 2011 la posta di loretta jesus mcjagger Cara Loretta, sono disperato. Un vecchio errore vuole inseguirmi e incatenarmi e trascinarmi lì davanti ad ogni specchio per dirmi: guardati. Ma io non mi guardo, per carità, anzi! Giro lo sguardo, ché la so a memoria fin trop- po questa storia. Allora, ci provi pure lo specchio, a inghiottire nell’apparenza l’orgoglio è quello che vo- glio, che diamine della mia assenza. Perché vedi, ca- ra Loretta, ho pagato già il mio soldo di verità. Un vecchio errore pagato caro, un gesto avaro, avevo il cuore duro allora… Ed ero più amaro, come dire, ero più giovane… Niente di niente, allora, spiega alla gente cosa vuol dire amare l’amore senza mai fare neanche un errore. Prova. E ci provi pure lo specchio maledetto a inghiottire nella sua acqua cupa non già l’apparenza, ma il volto che sciupa l’assenza. Io ho pagato già il mio soldo di verità un vecchio errore pagato caro, un gesto avaro, avevo il cuore duro allora, ecco. Spiegalo alla gente cosa vuol dire, cosa vuol dire amare l’amore, senza mai fare neanche un errore, cara Loretta. Provaci. Paolo37 da Asti via posta ordinaria Caro Paolo, per una volta voglio esprimere un dubbio. Ovvero: con queste vostre missive mi capita, non di rado, di sentirmi come Natalia Aspesi nella sua rubrica del cuore sul Venerdì di Repubblica (da lei ho solo da im- parare, per carità). E cioè: mi sento presa per i fon- delli. Non di rado leggo la Aspesi tutta preoccupata di avere a che fare, per usare un termine forse alla stessa Natalia sconosciuto, con dei veri e propri fa- ke. Diciamo che i fan del celebre Avvocato di Asti ca- piranno di cosa sto parlando, specie in questo caso. Perciò, caro Paolo, ti risponderò in questo modo: mangiar dovresti, ammazza questo pensiero, carne arrosto e caribù, carne arrosto e caribù, mettici anche un bicchiere di vino nero, è per non pensarci più, è per non pensarci più. Ma se davvero (davvero) vuoi dimenticartene: gettati a mare. Tua, Loretta OPUSCOL OLETTERA RIO numero 44 andrea maggiolo:micronarrativa Obi, seminarista ghanese, arrivò in Vaticano nel 1999. Poi Roma. La vita. Una ragazza di Ostia. Ora fa il bagnino e al Ghana e a Dio non pensa più. Alberto, ex pilota di Formula1, parte per il giro del mondo su una nave mercantile. Vuole giornate in cui il tempo non abbia più importanza. Gerardo, console italiano in un paese dell’Africa nera, non torna a Roma da 27 anni. La mattina, davanti allo specchio, a volte non si riconosce. Solo quando è nel suo uliveto, che cura con passione, Aldo non pensa alla figlia Sara, che non gli parla da 18 anni. Chissà se è già nonno. Fuma 17 sigarette al giorno, Riccardo, guardia giu- rata. Mai di più, mai di meno. 17 come gli incontri di pugilato che ha vinto in gioventù. valentina maini:lo stupido nome delle cose Andavamo sempre in metro. Questo me lo ricordo, insieme al caffè e alle tue scarpe sporche dello stesso fan- go o merda o smog, sempre. Mi chiedevo, ma la pioggia non gliele lava? Eppure c’era qualcosa che non voleva andarsene, sulle tue scarpe, qualche cosa che chiedeva di restare, ma lo chiedeva in silenzio, come se io dovessi obbligato- riamente capire. Che tipo. Dio, e dire che Parigi è grande. Avremmo potuto vedere, che ne so, il Louvre per esempio. Una banalità, una delle cose che fanno tutti. C’abbiamo avuto dodici mesi e cinque giorni per vedere il Louvre insieme, una coppia normale, il venerdì è gratis, poi si va a cena. Ma no, niente Louvre, niente cena. Alla fine bisogna sem- pre fare gli originali. Per volersi bene, dico. Una volta però c’abbiamo mangiato, in metro. Che ridere, robe da matti. Quel pa- nino col prosciutto a cinque euro, les bourgeois c’est comme les cochons, una fetta a me e una a te, centellinate come oro, quelle due fette di niente. Era il momento della nostalgia, il prosciutto. Era l’Italia. Avevo fame, a te sembrava ridicolo, voi italiani e questa stupida cultura del cibo. Tu non avevi mai mangiato i gamberetti, questo mi faceva ridere. Te li avevo infilati nel panino per vedere la tua faccia. Per tutti c’è una prima volta, ti ho detto. In metro ci stavamo delle ore. A te piaceva perché dicevi che a Madrid era diver- so. Io non potevo capire, evidentemente. Ne abbiamo incontrata di gente strana e i più strani ci parlavano, tutti. Tante di quelle storie, da restarci secchi. Pensavamo fosse qualcosa di speciale, una coppia speciale, io e te, nessuno passava le se- rate romantiche in metro a parlare agli sconosciuti. Non si parla con gli sconosciuti dice mamma. Che sovversivi. Che eroi. Noi sì che eravamo coraggiosi, diversi. Sì sì. Tutti se ne accorgevano, come avrebbero potuto non. Per questo, per cos’altro sennò, i barboni ci parlavano di Parigi, di com’era falsa e doppia quella città. Da una parte i ricconi à la Sorbonne, dall’altra, la miseria. La miseria di quelli che a Parigi ci lasciavano la pelle, la propria pelle, lì, sparsa sui marciapiedi di rue Mont- martre, appiccicata tra i rivoli di piscio di un gatto parlante o congelata a brandelli sui tracciati invisibili della cenere di una Gauloise. Dicevano che facevamo parte della miseria, noi. Forse per la mia sciarpa da terrorista o il tuo eschimo troppo grande. Forse l’avevano vista lì da qualche parte, la mia pelle. La cosa più brutta è stata la tua mano. La tua mano nella mia, prima di partire. Non me l’avevi mai presa, la mano. Troppo banale, troppo borghese, siamo qual- cosa di più. Io e te. Questi sentimentalismi poi. Però nell’ultima metro, verso l’ae- roporto, me l’hai presa, la mano. Chissà perché. Forse pensavi, Tanto ormai. For- se era da un po’ che lo volevi fare. Tutte le capriole del tuo cervello, cosa ne pote- vo sapere. Io. Stavi zitto e mi tenevi la mano. Una cosa normale. Meravigliosa- mente normale. Una cosa stupida, di quelle che fanno tutti. Chissà perché. Come stringevi poi. Come una valigia pesante, come stringevi con l’altra mano i miei bagagli. Ho pensato, Magari resto. Ho pensato, Chissenefrega del biglietto, io resto qui, mica parto. Anche mentre camminavamo zitti verso l’aeroporto pen- savo, Io resto. Anche col sapore dell’ultima sigaretta in bocca, pensavo, Chisse- nefrega del biglietto. Anche quando ci siamo seduti per terra, nella sala d’aspetto, con tutti i posti vuoti, ma noi per terra, col culo freddo e gli sguardi altrui stupiti, chissà cosa mi dicevi tu. Io pensavo, Io resto. Quando ho attraversato la porta scorrevole, mi son girata a guardarti. Un attimo. Non ho neanche visto se ridevi o piangevi, se mi guardavi la faccia, le gambe, le mani. Questa cavolo di miopia. Però anche in quel momento ho pensato, Io resto. Giuro. Per quelle mani tanto stupide, resto. La porta si è richiusa poi, è stato come la metro. Come scendere alla fermata sbagliata, mentre tu eri rimasto su. terry boligol:il sabato del Villaggio Sveglia caffè, barba bidè. Ha la barba lunga e il caffè non lo beve, Paolo. Fa male alla pressione. Il bidè sì. In piedi. E poi niente tram. Un tendone da circo e due mocassini. Coi fantasmini sotto. E la passeggiata. Qualche comparsata, un po’ di saluti. «Fantocci!» «Vadi vadi!» Cena leggera, un po’ di tivù. La vita di un pezzo di merda. Letto. matteo scandolin:piove all’insù di Luca Rastello (recensione) Il romanzo parla di un’infanzia e un’adolescenza nell’Italia degli anni ‘60 e ‘70. Vadano aggiunti: una Torino incazzata che neanche piazza Statuto, un padre militare con le palle, il Patto dell’Uomo Nuovo, il calderone della sinistra studentesca, un’infarinatura di Urania (quelli lì, sì: te li ricordi?) e una valanga di comprimari che sembra di stare in mezzo a Dickens, a chiudere. Fantascienza da edicola come prospettiva giovanile di fuga, Torino cittàmamma dai labirintici misteri invisibili e tallonati, il gran corpo della contestazione alla perpetua ricerca d’una chiave di lettura per capire il mondo senza sgarrare dalla dottrina. Episodi da ridere, episodi da piangere. Il tutto viene fatto scattare da una lettera di licenziamento, lo spettro della mobilità dei nostri giorni che insidia il protagonista: e da lì a ricostruirsi la propria storia, e con quella una fetta del paese, testimone senza saperlo delle trame–dietro che andavano disegnando e cancellando quel che piaceva a quelli che avevano soldi e potere (e che ce li hanno ancora, entrambi). I nomi: Luca sgrana i nomi e i cognomi dei morti ammazzati di quegli anni, civili militari politici, noti e dimenticati. Questo non me lo tolgo, questo particolare m’inchioda. Ahia, l’ho chiamato per nome, sono fregato. Addio distacco critico: vuol dire che il libro m’ha preso, che il libro è bello. Luca Rastello, Piove a! ’insù, Bollati Boringhieri, 2006, 18

Upload: inutile-opuscolo-letterario

Post on 21-Feb-2016

217 views

Category:

Documents


0 download

DESCRIPTION

inutile opuscolo letterario numero 44 maggio 2011

TRANSCRIPT

Page 1: numero 44

Se vuoi collaborare, spedisci un tuo pezzo a [email protected]. Allega due righe su di te. Se vuoi essere pubblicato sul pdf, cerca di non superare di troppo la cartella standard (1800 battute). Non spedirci poesie. Per il web facciamo 8000 circa, e morta lì.Scrivi a [email protected] per qualsiasi informazione.

Il presente opuscolo è diffuso sotto la disciplina de l la l i cenza CREATIVE COMMONS Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. La licenza integrale è disponibile a questo url:http://tinyurl.com/8g7sw5.

alessandro romeo:editorialeUn po’ di tempo fa la gente diceva quello che le passava per la testa e poi, alla fine di tutto, aggiungeva «ma anche no». Era divertente. Potevi dire la cosa più scema e priva di senso del mondo senza paura di perdere in un solo colpo tutti gli amici, perché al fondo della frase c’era sempre quel «ma anche no» che ti salvava. Era anche utile quando qualcuno stava per fare una cosa scema, tipo quella volta che un mio amico ha infilato un petardo in una merda di alano. Gli ho detto «ma anche no» e quello si è fermato. Per non parlare di quella volta che lo stesso mio amico ha tentato di infilare un petardo direttamente nell’alano. «Ma anche no», e non è successo niente. Forse a questo punto è dura collegare questa riflessione nostalgica con i nomi degli autori dei pezzi che compongono questo numero. Ma anche no: Maini racconta, Maggiolo micronarra, Boligol verseggia, Loretta consola, Miotto fotografa, Scandolin recensisce. Il mio amico firma l’editoriale.

INUTILE opuscolo letterariomaggio 2011, numero 44supplemento al #1810 di PressItalia.net, registrazione presso il Tribunale di Perugia #33 del 5 maggio 2006.pubblicazione mensile a cura di INUTILE » ASSOCIAZIONE CULTURALE.la redazionegiacomo buratti, viviana capurso {ufficio stampa}, ferdinando guadalupi, marco montanaro, virginia paparozzi, nicolò porcelluzzi, alessandro romeo {responsabile editoriale}, matteo scandolin {grafica e impaginazione}

hanno collaborato a questo numeroterry boligol, loretta “jesus” mcjagger, andrea maggiolo, valentina maini

poster“bonjour tristesse”, di nicole miotto {www.flickr.com/photos/vinoplastica/}

per abbonarti prepara 15€ e vai al linkhttp://www.rivistainutile.it/?page_id=90

wild wild webrivistainutile.it, twitter.com/inutileonline, associazioneinutile.org, micronarrativa.com

inutile

maggio 2011

la posta di loretta jesus mcjaggerCara Loretta,sono disperato. Un vecchio errore vuole inseguirmi e incatenarmi e trascinarmi lì davanti ad ogni specchio per dirmi: guardati. Ma io non mi guardo, per carità, anzi! Giro lo sguardo, ché la so a memoria – fin trop-po – questa storia. Allora, ci provi pure lo specchio, a inghiottire nell’apparenza l’orgoglio – è quello che vo-glio, che diamine – della mia assenza. Perché vedi, ca-ra Loretta, ho pagato già il mio soldo di verità. Un vecchio errore pagato caro, un gesto avaro, avevo il cuore duro allora… Ed ero più amaro, come dire, ero più giovane… Niente di niente, allora, spiega alla gente cosa vuol dire amare l’amore senza mai fare neanche un errore. Prova.E ci provi pure lo specchio maledetto a inghiottire nella sua acqua cupa non già l’apparenza, ma il volto che sciupa l’assenza. Io ho pagato già il mio soldo di verità – un vecchio errore pagato caro, un gesto avaro, avevo il cuore duro allora, ecco. Spiegalo alla gente cosa vuol dire, cosa vuol dire amare l’amore, senza mai fare neanche un errore, cara Loretta. Provaci.Paolo37 da Asti via posta ordinaria

Caro Paolo,per una volta voglio esprimere un dubbio. Ovvero: con queste vostre missive mi capita, non di rado, di sentirmi come Natalia Aspesi nella sua rubrica del cuore sul Venerdì di Repubblica (da lei ho solo da im-parare, per carità). E cioè: mi sento presa per i fon-delli. Non di rado leggo la Aspesi tutta preoccupata di avere a che fare, per usare un termine forse alla stessa Natalia sconosciuto, con dei veri e propri fa-ke. Diciamo che i fan del celebre Avvocato di Asti ca-piranno di cosa sto parlando, specie in questo caso. Perciò, caro Paolo, ti risponderò in questo modo: mangiar dovresti, ammazza questo pensiero, carne arrosto e caribù, carne arrosto e caribù, mettici anche un bicchiere di vino nero, è per non pensarci più, è per non pensarci più. Ma se davvero (davvero) vuoi dimenticartene: gettati a mare.Tua,Loretta

OPUSCOLOLETTERARIO numero44

andrea maggiolo:micronarrativa

Obi, seminarista ghanese, arrivò in Vaticano nel 1999. Poi Roma. La vita.

Una ragazza di Ostia. Ora fa il bagnino e al Ghana e a Dio non pensa più.

Alberto, ex pilota di Formula1, parte per il giro del mondo su una nave mercantile. Vuole giornate in cui il tempo non abbia più importanza.

Gerardo, console italiano in un paese dell’Africa nera, non torna a Roma da 27 anni. La mattina, davanti allo specchio, a volte non si riconosce.

Solo quando è nel suo uliveto, che cura con passione, Aldo non pensa alla figlia Sara, che non gli parla da 18 anni. Chissà se è già nonno.

Fuma 17 sigarette al giorno, Riccardo, guardia giu-rata. Mai di più, mai di meno. 17 come gli incontri di pugilato che ha vinto in gioventù.

valentina maini:lo stupido nome delle coseAndavamo sempre in metro.Questo me lo ricordo, insieme al caffè e alle tue scarpe sporche dello stesso fan-go o merda o smog, sempre.Mi chiedevo, ma la pioggia non gliele lava?Eppure c’era qualcosa che non voleva andarsene, sulle tue scarpe, qualche cosa che chiedeva di restare, ma lo chiedeva in silenzio, come se io dovessi obbligato-riamente capire.Che tipo.Dio, e dire che Parigi è grande. Avremmo potuto vedere, che ne so, il Louvre per esempio. Una banalità, una delle cose che fanno tutti. C’abbiamo avuto dodici mesi e cinque giorni per vedere il Louvre insieme, una coppia normale, il venerdì è gratis, poi si va a cena. Ma no, niente Louvre, niente cena. Alla fine bisogna sem-pre fare gli originali. Per volersi bene, dico.

Una volta però c’abbiamo mangiato, in metro. Che ridere, robe da matti. Quel pa-nino col prosciutto a cinque euro, les bourgeois c’est comme les cochons, una fetta a me e una a te, centellinate come oro, quelle due fette di niente. Era il momento della nostalgia, il prosciutto. Era l’Italia. Avevo fame, a te sembrava ridicolo, voi italiani e questa stupida cultura del cibo. Tu non avevi mai mangiato i gamberetti, questo mi faceva ridere. Te li avevo infilati nel panino per vedere la tua faccia. Per tutti c’è una prima volta, ti ho detto.

In metro ci stavamo delle ore. A te piaceva perché dicevi che a Madrid era diver-so. Io non potevo capire, evidentemente. Ne abbiamo incontrata di gente strana e i più strani ci parlavano, tutti. Tante di quelle storie, da restarci secchi. Pensavamo fosse qualcosa di speciale, una coppia speciale, io e te, nessuno passava le se-rate romantiche in metro a parlare agli sconosciuti. Non si parla con gli sconosciuti dice mamma. Che sovversivi. Che eroi. Noi sì che eravamo coraggiosi, diversi. Sì sì. Tutti se ne accorgevano, come avrebbero potuto non. Per questo, per cos’altro sennò, i barboni ci parlavano di Parigi, di com’era falsa e doppia quella città. Da una parte i ricconi à la Sorbonne, dall’altra, la miseria. La miseria di quelli che a Parigi ci lasciavano la pelle, la propria pelle, lì, sparsa sui marciapiedi di rue Mont-martre, appiccicata tra i rivoli di piscio di un gatto parlante o congelata a brandelli sui tracciati invisibili della cenere di una Gauloise. Dicevano che facevamo parte della miseria, noi. Forse per la mia sciarpa da terrorista o il tuo eschimo troppo grande.Forse l’avevano vista lì da qualche parte, la mia pelle.

La cosa più brutta è stata la tua mano. La tua mano nella mia, prima di partire. Non me l’avevi mai presa, la mano. Troppo banale, troppo borghese, siamo qual-cosa di più. Io e te. Questi sentimentalismi poi. Però nell’ultima metro, verso l’ae-roporto, me l’hai presa, la mano. Chissà perché. Forse pensavi, Tanto ormai. For-se era da un po’ che lo volevi fare. Tutte le capriole del tuo cervello, cosa ne pote-vo sapere. Io. Stavi zitto e mi tenevi la mano. Una cosa normale. Meravigliosa-mente normale. Una cosa stupida, di quelle che fanno tutti. Chissà perché.Come stringevi poi. Come una valigia pesante, come stringevi con l’altra mano i miei bagagli. Ho pensato, Magari resto. Ho pensato, Chissenefrega del biglietto, io resto qui, mica parto. Anche mentre camminavamo zitti verso l’aeroporto pen-savo, Io resto. Anche col sapore dell’ultima sigaretta in bocca, pensavo, Chisse-nefrega del biglietto. Anche quando ci siamo seduti per terra, nella sala d’aspetto, con tutti i posti vuoti, ma noi per terra, col culo freddo e gli sguardi altrui stupiti, chissà cosa mi dicevi tu. Io pensavo, Io resto.

Quando ho attraversato la porta scorrevole, mi son girata a guardarti. Un attimo. Non ho neanche visto se ridevi o piangevi, se mi guardavi la faccia, le gambe, le mani. Questa cavolo di miopia. Però anche in quel momento ho pensato, Io resto. Giuro. Per quelle mani tanto stupide, resto. La porta si è richiusa poi, è stato come la metro. Come scendere alla fermata sbagliata, mentre tu eri rimasto su.

terry boligol:il sabato del VillaggioSveglia caffè,barba bidè.

Ha la barba lunga e il caffè non lo beve,Paolo.Fa male alla pressione.

Il bidè sì.In piedi.

E poi niente tram.

Un tendone da circo e due mocassini.Coi fantasmini sotto.E la passeggiata.

Qualche comparsata,un po’ di saluti.

«Fantocci!»«Vadi vadi!»

Cena leggera, un po’ di tivù.La vita di un pezzo di merda.Letto.

matteo scandolin:piove all’insù di Luca Rastello (recensione)Il romanzo parla di un’infanzia e un’adolescenza nell’Italia degli anni ‘60 e ‘70. Vadano aggiunti: una Torino incazzata che neanche piazza Statuto, un padre militare con le palle, il Patto dell’Uomo Nuovo, il calderone della sinistra studentesca, un’infarinatura di Urania (quelli lì, sì: te li ricordi?) e una valanga di comprimari che sembra di stare in mezzo a Dickens, a chiudere.Fantascienza da edicola come prospettiva giovanile di fuga, Torino cittàmamma dai labirintici misteri invisibili e tallonati, il gran corpo della contestazione alla perpetua ricerca d’una chiave di lettura per capire il mondo senza sgarrare dalla dottrina. Episodi da ridere, episodi da piangere. Il tutto viene fatto scattare da una lettera di licenziamento, lo spettro della mobilità dei nostri giorni che insidia il protagonista: e da lì a ricostruirsi la propria storia, e con quella una fetta del paese, testimone senza saperlo delle trame–dietro che andavano disegnando e cancellando quel che piaceva a quelli che avevano soldi e potere (e che ce li hanno ancora, entrambi). I nomi: Luca sgrana i nomi e i cognomi dei morti ammazzati di quegli anni, civili militari politici, noti e dimenticati. Questo non me lo tolgo, questo particolare m’inchioda.Ahia, l’ho chiamato per nome, sono fregato. Addio distacco critico: vuol dire che il libro m’ha preso, che il libro è bello.

Luca Rastello, Piove a! ’insù, Bollati Boringhieri, 2006, €18

Page 2: numero 44

rivis

tain

utile

.itdi

Nic

ole

Mio

tto |

ww

w.fli

ckr.c

om/p

hoto

s/vi

nopl

astic

a