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MARZO 2011 ANNO XXIV- N°1 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB/AL La Cittadella di Alessandria, testimone di tanti eventi risorgimentali Numero speciale in occasione dei 150° anni dell’Unità d’Italia SILVA ET FLUMEN TRIMESTRALE DELL’ACCADEMIA URBENSE DI OVADA nuovo angela:Layout 1 29-03-2011 15:51 Pagina 1

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MARZO 2011ANNO XXIV- N°1

Poste Italiane s.p.a.Spedizione in Abbonamento Postale

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46)art. 1, comma 1, DCB/AL

La Cittadella di Alessandria, testimone di tanti eventi risorgimentali

Numero speciale in occasione dei 150° anni dell’Unità d’Italia

SILVA ET FLUMEN

TRIMESTRALE DELL’ACCADEMIA URBENSE DI OVADA

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Page 2: Numero speciale in occasione dei 150° anni dell’Unità d’ItaliaD.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n 46) art. 1, comma 1, DCB/AL La Cittadella di Alessandria, testimone

Oggetto:Contributo del 5 per mille a sostegno delle organizzazioni non lucrative di uti-lità sociale, delle associazioni di promozione sociale e delle associazioni rico-nosciute che operano nei settori di cui all’Art. 10 comma 1 lettera a del D.L. n.460/1997 -

Come è noto il Ministero delle Finanze ha inserito l’Accademia Urbense nel-l’Elenco dei soggetti aventi diritto ai contributi previsti per le ONLUS, le Asso-ciazioni di promozione sociale e le Associazioni riconosciute.

Pertanto, oltre a porgere i nostri più sentiti ringraziamenti ai Signori Soci eSimpatizzanti che nell’anno 2008 hanno devoluto il loro contributo del 5 permille a favore di questo Sodalizio per un importo di Euro 5.600,00 (cinquemi-laseicento/00) (per questioni burocratiche non sono ancora note le devolu-zioni degli anni 2009 e 2010), rinnoviamo il nostro invito affinché, in occasionedella prossima dichiarazione dei redditi, venga indicata come beneficiaria ditale contribuzione questa Accademia Urbense.

D’altra parte ognuno di Voi certamente conosce le scarse risorse con lequali viene svolta la nostra attività: in diverse occasioni alcune iniziative sonostate accantonate per mancanza di fondi.

Quindi ci permettiamo di ricordare che il contributo può essere devoluto al-l’atto della compilazione della propria dichiarazione dei redditi inserendo il:

CODICE FISCALE dell’ACCADEMIA URBENSE:

01294240062

Grati per l’attenzione, rinnoviamo i ringraziamenti e porgiamo cordiali saluti.

IL PRESIDENTEIng. Alessandro Laguzzi

SOSTIENI LA NOSTRA ATTIVITA’ CULTURALECON IL TUO CONTRIBUTO

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SILVA ET FLUMEN

Periodico trimestrale dell’Accademia Urbense di OvadaDirezione ed Amministrazione P.zza Cereseto 7, 15076 OvadaOvada - Anno XXIV - MARZO 2011 - n. 1Autorizzazione del Tribunale di Alessandria n. 363 del 18.12.1987Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento PostaleD.L. 353/2003(conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB/ALConto corrente postale n. 12537288Quota di iscrizione e abbonamento per il 2011 Euro 25,00Direttore: Alessandro LaguzziDirettore Responsabile: Enrico Cesare Scarsi

SOMMARIO

Garibaldini ovadesi alla Spedizione dei Milledi Pier Giorgio Fassino p. 004La grande peste di Genova (1656/57) nelle testimonianze figurativedi Luisa Parodi p. 014L’oratorio di San Rocco al Mulino a Silvano d’Orbadi Gabriella Ragozzino p. 023Vegetazione dell’Ovadese: il castagno di Renzo Incaminato p. 027Il vecchio della Fuìa: storia di Mascatagliatadi Gianni Repetto p. 036Incontri al castello di Roccagrimaldadi Eros Palestrini p. 0432010, pioggia di riconoscimenti per Accademia Urbense di Giacomo Gastaldo p. 045Ricordo del Prof. Carlo Ferrarodi Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre p. 047

Redazione: Paolo Bavazzano (redattore capo), Edilio Riccardini (vice),Remo Alloisio, Giorgio Casanova, Pier Giorgio Fassino, Franco PaoloOlivieri, Lorenzo Pestarino, Giancarlo Subbrero, Paola Piana Toniolo.Segreteria e trattamento informatico delle illustrazioni a cura di Gia co mo Gastaldo.Le foto di redazione sono di Renato GastaldoSede: Piazza Giovan Battista Cereseto, 7 (ammezzato); Tel. 0143 81615 -15076 OVADAE-mail: info@accademiaurbense. itSito web: wwwaccademiaurbense.it

URBS SILVA ET FLUMENStampa: LITOGRAF srl. - via Montello - Novi Ligure:

Questo numero è quasi completamentededicato al 150° dell'Unità d'Italia, in parti-colare l'inserto allegato che ha la funzione dicompletare, attraverso la pubblicazione inte-grale di alcuni documenti, la visita della mo-stra sul Ri sor gimento ovadese: Viva l’Itölia,lveve ra brètta, che il Comune di Ovada,quelli dell’Ovadese e L'Accademia Urbensehanno realizzato presso la Loggia di San Se-bastiano. Per buona parte del nu mero, comedi consueto, si è mantenuta la normale im-postazione pubblicando contributi su argo-menti diversi,. Non poteva però mancare inapertura un articolo dedicato al Risorgimentoe ai garibaldini della zona che hanno presoparte alla spedizione dei Mille con esponentidi Ovada, Tagliolo, Ros si glione. Segue unparticolareggiato studio in centrato sulle te-stimonianze figurative legate alla grandepeste di Genova del 1657 e un’altrettanto do-cumentata ricerca sulla cappella di SanRocco, presso il mulino di Sil vano d'Orba,impreziosita da affreschi di grande interesse.Di argomento prettamente naturalistico l'ar-ticolo dedicato al castagno i cui frutti sonostati per secoli alla base dell'alimentazionedel ceto popolare delle nostre valli. Fedelialle testimonianze più vere scaturite dalla tra-dizione popolare, ecco entrare in ballo le stre-ghe di Mascatagliata. Inoltre la cronaca di unconvegno tenuto al Castel lo di Rocca Gri-malda e la relazione annuale dell'attività delsodalizio.

A pag. 47 i lettori troveranno un ricordodel prof. Car lo Ferraro che per anni ha colla-borato alla nostra rivista, mettendo in lucecon passione e competenza la figura del bo-tanico Giorgio Gal lesio.

Purtroppo la serie dei nostri lutti non sichiude qui. Fra un numero della rivista eun altro è scomparso Remo Giacinto Al loi-sio di Belforte che ci ha lasciato l'otto gen-naio scorso all'età di 80 anni. Con lui se n'èandato un altro fedele custode delle tradi-zioni dell'Alto Monferrato che sapeva farrivivere nei suoi versi semplici nel piùschietto dialetto del suo paese natale. Agri-coltore fedele alla sua terra e acuto osser-vatore della vita è stato definito il poetacontadino delle nostre valli e tante sono lepoesie da lui composte e delle quali ren-deva partecipe solamente la cerchia degliamici.

Ci auguriamo che il patrimonio dellesue poesie non vada disperso.

Alessandro Laguzzi Paolo Bavazzano

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La sera del 10 Maggio 1860, il capi-tano Paynter, comandante della nave diSua Maestà Britannica Independence,non era tranquillo. In vista di Marsala,aveva allertato il proprio equipaggio equello della HMS Argus con la quale siera diretto verso quel porto siciliano peragevolare l’attracco di due navi a vaporegenovesi: il Piemonte ed il Lombardo. Leinquietudini del capitano alla prova deifatti risultarono in parte giustificate: almattino seguente scorgerà la corvetta aruota borbonica Stromboli con a rimor-chio la Capri, evidentemente in avaria1,che incrociavano in quella zona. Ma piùtardi si erano allontanate verso il mareaperto per cui aveva acconsentito, sep-pure con riluttanza, che alcuni ufficialidell’Independence e dell’Argus scendes-sero a terra per recarsi a visitare lo stabi-limento vinicolo inglese “Ingham”confinante con la spiaggia e col molo.Quel ricevimento offerto ai compatriotidalla “Ingham” sarà, come vedremo, dinon trascurabile importanza per gli avve-nimenti legati allo sbarco dei nostri gari-baldini che si stavano avvicinando alporto di Marsala. Anzi i particolari del-l’episodio vennero puntualmente descrittidall’ ovadese Bartolomeo Marchelli chepartecipò alla spedizione dei Mille conaltri quattro conterranei. Partecipazioneproporzionalmente altissima poiché, se-condo lo storico Denis Mack Smith, su1.089 persone che composero i “Mille”, itorinesi furono solamente 7 (sette) mentrei romani 11 (undici).

Tuttavia per meglio inquadrare le fi-gure dei nostri cinque garibaldini e lasuccessione degli avvenimenti, occorrerisalire al clima in cui si sviluppò nel-l’ovadese la partecipazione alla spedi-zione in Sicilia.

Padre Giovanni Battista Perrandodelle Scuole Pie, grazie alle proprie me-morie ed al contribuito dato alla reda-zione del Dizionario del Casalis2, ci halasciato la descrizione di Ovada delineatacome un “Borgo agricolo e commerciale”di circa 6400 anime, per la metà sparsenelle campagne, collegata, soltanto dapoco, da una vera strada a Novi.

L’agricoltura era dominata dalla pro-duzione vitivinicola che trovava colloca-

zione non solo a Genova ma anche suimercati lombardi mentre la bachicolturadava lavoro a sei filande ed a una nutritaesportazione. Va sottolineato che questecaratteristiche da borgo rurale non esclu-devano però altre abitudini degne di unacittadina di provincia dell’epoca: esistevaun servizio giornaliero di posta e nel1832 era stata inaugurata l’illuminazionead olio. Unico retaggio di epoche passateerano rimasti i banditori che al rullo deitamburi annunciavano i proclami del-l’amministrazione cittadina.

E’ significativo il fatto che il Comunedestinasse una sostanziosa fetta delmagro bilancio alle scuole che i PadriScolopi3 e le Reverende Madri Pie4 ge-stivano sino dal 1826, senza trascurare itentativi, risalenti al 1838, messi in attodalla Comunità, pur fra infinite diatribe,per erigere un nuovo ospedale il cui pro-getto, unitamente all’altare maggioredella Parrocchiale, era stato eseguito gra-tuitamente da Alessandro Antonelli, par-ticolarmente legato ad alcuni Ovadesiresidenti a Torino5.

Sul piano politico, scomparsi nel1858 le due maggiori figure del Ri sorgi-mento Ovadese, Domenico Buf fa6 e Gio-vanni Battista Cereseto7, la pro se cuzionedell’attività era affidata a Francesco Gi-lardini8. L’iniziativa pa triottica passava almovimento democratico che sino ad al-lora era rimasto in ombra ma che avevavisto nella nostra cittadina l’opera di Be-nedetto Cairoli9 il quale, nel breve pe-riodo del suo esilio ovadese, ospite dellafamiglia Torrielli, aveva cercato di pro-muovere gli ideali risorgimentali. Anzil’Esule aveva allacciato una serie di rap-porti con gli Ovadesi ed in particolare un’amicizia con Antonio Rebora, musicista epoeta10.

L’efficacia della propaganda patriot-tica tra gli indigenti è attestata, per quantoriguarda l’Ovadese, dalla condizione so-ciale di coloro che risposero all’appellodi Garibaldi: Emilio Buffa era un bar-biere, Bartolomeo Marchelli11 si esibivanelle fiere come prestidigitatore, Dome-nico Repetto di Tagliolo era un conta-dino. Considerazioni diverse dobbiamofare per Angelo Cereseto nato a Genovada genitori con diverse proprietà a Ovadae per Gerolamo Airenta12 di Rossiglionela cui famiglia disponeva, tra l’altro, diuna lussuosa villa a Sestri Ponente.

Questo atteggiamento di attenzioneverso le classi meno abbienti, si era giàverificato nel 1848 quando, in occasionedella concessione dello Statuto, i notabiliovadesi avevano percepito la necessità dicoinvolgere nell’esultanza generalequella parte della popolazione che ver-sava in misere condizioni allargandoquindi la base del consenso.

Questo suggeriva il buon senso pater-nalista dei cattolico moderati-ovadesi,che trovava ulteriore argomento in vaghitimori di sommovimenti popolari cheogni cambiamento politico può innestare,per non parlare della predicazione maz-ziniana sempre pronta ad allargare la suapresenza fra le masse popolari. Inoltre,fattore non trascurabile, era l’ atteggia-mento minaccioso alle frontiere tenutodall’Austria ed in proposito il Buffa erastato esplicito sulle colonne del suo gior-nale «La Lega Italiana»: “Le armi! learmi! questo deve essere il grido di tutti;

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Garibaldini ovadesi alla Spedizione dei Milledi Pier Giorgio Fassino

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non è più tempo di indugiare; la guerrapotrebbe essere vicina prepariamoci!”

Di qui nacque l’idea di un grandiosopranzo da imbandirsi il 3 marzo 1848,giovedì grasso, per tutta la popolazioneovadese nell’attuale piazza Garibaldi, al-lora piazza del “gioco del pallone”13.

Ma lasciamo la parola ad un ignotocronista:

“Chi scrive di tutta fretta queste me-morie, e che ben conosce a fondo l’animode’suoi fratelli, per mostrare col fatto es-servi anche in Ovada vera e generaleunione, non che per promuoverla coipaesi circonvicini, confortò, rianimò i di-speranti, e coll’aiuto principalmente dell’amatissimo signor Prete Mongiardini,Padre Gio. Battista Torielli dei PadriScolopi e dell’egregio giovane signorPier Domenico Buffa, in due giorni,quasi per miracolo, si ebbero danaro,braccia, aiuto da tutti in tutto:

La Colletta si fece dai Sig. ri D. Mon-giardino Gerolamo, D. Prato, D. Malvi-cini, Pier Domenico Buffa, GiacomoIghina, Cannonero Gio. Battista, PrioloGio Battista, Frascara Giovanni, Reb-bora Antonio. Nè molti lavori poi si di-stinsero li Sig.ri Matteo Arata, GiuseppeOberti, Francesco Arata, Pietro Gajone,Lombardo Carlo, Cannobbio Domenico,

Salvi Matteo, Giovanni e Giacinto Mon-giardini.

A tacere dell’Ill.mo Sig.r Sindaco edel fiore de’ signori e delle signore Ova-desi che servivano alle mense, e chetroppo sarebbe lungo l’enumerare, meri-tano speciale menzione li Sig.ri D. Mon-giardini Andrea, D. Malvicini Fran cesco,Gio Battista Mongiardini, Pier Dome-nico Buffa, Scasso Vincenzo, Pesci Vin-cenzo, Timoleone Giangrandi.

Questo desinare, splendido per chiveniva destinato, diciamolo pure con or-goglio, tornerà sempre a somma lodedegli Ovadesi, che primi tentarono cosain niun’altra Città fosse possibile, di riu-nire cioè tutto un popolo fra l’abbon-danza delle vivande, e il vino generosod’Ovada, senza il benchè menomo disor-dine, col contenuto e l’ammirazione diquanti, anche forestieri, si trovarono pre-senti a sì lieta festa.

Ebbesi a lodare sommamente il Sig.rTeodoro Frascara capo de’ Sensali, chealla testa di tutti i facchini, li mantennenell’ordine più esemplare. Questi unita-mente a cento altri che faticarono pe’tanti e vari preparativi, ebbero un ispe-ciale banchetto nell’ampio cortile dellaLocanda la Corona; e quindi colla pro-pria bandiera si riunirono col popolo in-

tiero, sulla piazza del giuoco del pallone,ove era disposta la pubblica mensa e inOvada (in quell’ore tutte a festa, e collebotteghe chiuse) videsi lo spettacolocommovente di migliaia di persone chein modo al tutto nuovo segnavano un eranovella, e mostravano solennementequanto sia potente quella parola, unicosostegno d’Italia: Unione! Unio ne!Unione!

In sul finire lettasi ad alta voce dal-l’Autore la poesia qui unita, fra le accla-mazioni più vive, tutti ordinati indrappelli, preceduti dalle bandiere Na- zionali impugnate da’ Signori TommasoBuffa e Domenico Pesci, ambi distinticon vestire italiano, percorsero le princi-pali Contrade del Borgo fra il canto, e isuoni della Banda Civica, che gia da 3ore sur un eminente palco avea ralle-grato i gaudenti di lietissime armonie.”

Il senso politico dell’avvenimento eraaffidato alla poesia composta dal Reboraper l’occasione, che per essere megliocompresa da tutti, era in dialetto ed inbuona sostanza narrava come grazie allafratellanza portata dai tempi nuovi sa-rebbe derivata una prosperità per tutti ela minaccia dello straniero, desideroso diattentare alle nuove conquiste, sarebbestata vana se si fosse conservata l’unità:

Sci, i me cari me fradeiL’è finì l’affè e l’axei;amè, sucro ou deve cieuve, Finna i galli i faran euve,Presto presto i n’avrei preuve.Paxe, union e fratellansa,Tucci i avran da empis ra pansa; Vxin l’è ou tempo dr’abbondansa.Ivia mant-gnì sta santa union, Senza ruxe e confuxion,Che ai Toudeschi i vè er magon.

L’iniziativa era stata tempestiva,meno di una settimana dopo, il martedìgrasso, a seguito della mobilitazione del-l’esercito sabaudo, dovuta ai rumori diguerra che ormai percorrevano l’interaPenisola, i “Contingenti” partirono daOvada al comando del Tenente GerolamoOddini del 9° Reggimento di Fanteria“Regina”.

Racconta il cronista:

5Nella pag. a lato: giovane gari-baldino, particolare, di un qua-dro di Domenico Induno.

A lato: gruppo di garibaldini inuna raffigurazione di QuintoCenni (1892), il più rigoroso riproduttore di uniformi della seconda metà dell'Ottocento.

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“Prima della partenza udirono, schie-rati nella Parrocchiale, la S. Messa, ebrevi, ma consolanti parole del M. R. Sig.Prevosto, che loro pure impartiva la S.Benedizione; quindi nella sala del bene-merito Sig. Vincenzo Pesci, e a spese diparecchi amorevoli cittadini, s’ebberouna lauta colezione, e dopo la lettura diquesti versi, furono anche incoraggiaticon energica e patriottica allocuzione dalmedesimo Sig. Oddini; partirono accom-pagnati da tutto il Popolo, sempre, comein Chiesa, seguiti dalla Banda Civica, frail baciarsi vicendevole co’ Borghesi, igiuramenti, le promesse, gli Evviva al Re,all’Italia, all’Armata Piemontese.”

Ancora una volta il nostro Reboraconfortò con i propri versi quei giovani emeno giovani, considerata la lunga fermadi leva in vigore nell’Armata Sarda14, chepartirono per una guerra ormai quasicerta. Il poeta dedicò all’avvenimentodue sonetti: il primo per sdrammatizzareil pericolo reale di scontri armati, mentrenel secondo egli tentò di rassicurare i co-scritti sulla sorte delle loro famiglie du-rante la loro assenza:

Ma voi atri - A capiscio - im diraei:Tut va ben.., chi stà a sousto ou n’se bagna;Ma noi atri, ch’a soumma antra raeiOu n’tourmenta anche n’ atra magagna.

E lasciae moujè, fieui l’ae unpiaxei?E anti bseugni dra nostra campagna?Chi i cattrà ra polenta, i fidaeiQuand oui manca chi solo oui nan ouagna?

I aei raxon; L’ae un po’ agro ist cantin;Ma couraggio; ouv l’à diccio er Prevoste,Ous trouvrà per lou asci pan e vin

Per voi atri a laurae ous andrà,ed invece de zuae a paga l’oste,A ra Dmenia per vui ous saprò.

Se questo fu l’avvenimento più ecla-tante del Quarantotto ovadese non si deveimmaginare che all’appuntamento conquella epica svolta il borgo giungesse deltutto inconsapevole ed impreparato.

Dopo il periodo napoleonico duranteil quale era emersa la figura di Fran cescoBuffa15, medico e propugnatore dellavaccinazione antivaiolosa, la Re staura-

zione, con la sua assurda volontà di can-cellare gli ideali che la rivoluzione avevasuscitato, trovò, anche nell’Ova dese,l’opposizione degli spiriti liberi che malsi assoggettavano al grigiore po liziescodella repressione sabauda.

Ad Ovada era stato il colonnello An- drea Dania16, reduce dalle cento battaglienapoleoniche, a ribellarsi a questa situa-zione sofferta partendo per la Grecia cheproprio in quegli anni si batteva per ri-scattarsi dalla servitù ai Turchi. Morirà daeroe nel 1821 combattendo a Peta allatesta dei Filelleni.

La stessa rivendicazione di libertà eraalla base della nascita delle organizza-zioni segrete che pochi anni dopo ven-nero costituendosi in tutta la Peni sola.Nell’Ovadese spicca la figura di CarloCattaneo della Volta marchese di Bel-forte17, carbonaro dapprima poi conver-tito alla Giovine Italia dal pensieromazziniano; perseguitato dalla poliziadovette riparare in Francia sacrificandobuona parte del patrimonio di famiglia alfinanziamento dei moti risorgimentali.

Questi erano i tempi in cui erano ma-turati gli animi dei volontari ovadesi cheparteciparono alla Spedizione dei Mille:Bartolomeo Marchelli18, Emilio Buffa,Domenico Repetto, Gerolamo Airenta eAngelo Cereseto. Volontari che, come ve-dremo dalle loro brevi biografie, pur nonessendo tutti ovadesi di nascita in unaqualche maniera con Ova da avevanostretti legami.

Bartolomeo Marchelli nacque inOvada il 24 agosto 1834 da Giacomo edAngela Costanzo ed ebbe due fratelli,Bernardo e Giuseppe. La madre, rimastavedova in giovane età, aprì un piccolo ne-gozio in Via S. Vincenzo a Genova ecercò di allevare il bambino nel migliormodo possibile benché, a causa delle pre-carie condizioni economiche della fami-glia, il fanciullo frequenterà solamente leprime classi delle scuole elementari. Nonsi sa esattamente a quale mestiere fossestato avviato ma verso i vent’anni era giàun esperto di prestidigitazione. Moltoprobabilmente partecipò nel 1855 allaGuerra di Crimea. Ne dovrebbe fare fedela lapide cimiteriale che cita, oltre allealtre quattro battaglie, anche “Sebasto-

poli” e da questa esperienza sarebbe de-rivata la sua notevole padronanza nel ma-neggio delle armi tanto che nel corsodella spedizione venne più volte utiliz-zato per addestrare i picciotti siciliani evolontari di altra provenienza.

Anche Emilio Federico Buffa nacquein Ovada il 19 novembre 1833 da Paolo eForno Caterina. Di professione barbiereera stato dichiarato inidoneo al serviziomilitare dal Consiglio di Am mi -nistrazione del 7° Reggimento di Fan teria“per carie estesa a tutti i denti”. Eraquindi esente da ogni obbligo militarequando decise di partecipare ugualmentealla Spedizione dei Mille.

Domenico Repetto, di Giuseppe fuGiovanni e di Virginia Calderone di Do-menico, nacque a Tagliolo Mon fer rato(Parrocchia di San Vito) il 10 Ag osto1829. Si ignora quali fossero i suoi pre-cedenti militari ma al momento in cui siarruolò con Garibaldi molto probabil-mente era un salariato agricolo.

Nacque invece a Rossiglione il 15Settembre 1842 Giovanni Battista Gero -lamo Airenta di Giovanni Battista, bene-stante, e di Paola Pizzorni: dal cognomedella madre risultano in modo inequivo-cabili le sue radici con la Valle Stura.

Parche le notizie su Angelo Ceresetoo Ceresetto: nacque a Genova nel 1839da una famiglia di Ovada, come lascia fa-cilmente intuire il cognome paterno. Par-tecipò alla campagna inquadrato tra iCarabinieri Genovesi19, divenuti celebrinel corso della spedizione per la preci-sione dei loro tiri che impietosamenteaprivano vuoti tra le truppe borbonichetanto che alcuni autori ritengono fonda-mentale il loro contributo alla battaglia diCalatafimi.

Si giunse così alla primavera del1860. Garibaldi era cauto ed anche la si-tuazione internazionale era tranquilla. E’vero che il Cavour aveva fatto seque-strare i fucili acquistati col “fondo del mi-lione” e si rifiutava solennemente direstituirli per evitare incidenti diploma-tici ma in compenso il forte di Tala mone,nei pressi di Orbetello, situato in una fa-vorevole posizione per chi lo vo lesse rag-giungere dal mare, era tenuto benrifornito di armi e munizioni e sorve-

Nella pag. a lato: Sbarco del generale Garibaldi nelle vicinanzedi Marsala il giorno 11 maggio1860. Litografia colorata di Bigoni, stampata nella LitografiaBaroffio di Milano

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gliato da un presidio poco più che sim-bolico. D’altra parte la fabbrica d’armiAnsaldo aveva concesso un piccoloquantitativo della propria produzione su-bito imitata dall’americana Colt cheaveva inviato un centinaio di nuovi re-volver rivelatisi assai efficaci. Qual chefucile inglese giunse dalla Royal Factoryunitamente a modeste somme di denarofornite da Lady Byron e dal Du ca di Wel-lington. Che si stesse preparando unaspedizione era nell’aria anche se i direttiinteressati negavano. Il 20 Apri le il Mar-chelli cominciò ad agitarsi e si recò varievolte a Genova ove in Piazza S. Matteoesisteva una sede del Comi tato che prov-vedeva agli arruolamenti.

Infine grazie ad una “soffiata” delconcittadino Alberti, che a Genova diri-geva il servizio di diligenze che collega-vano la Superba a Nizza, venneindirizzato a Villa Spinola a Quarto oveGaribaldi stava segretamente conclu-dendo i preparativi per la spedizione inSicilia. Rico nosciuto da un vecchio col-lega della legione anglo-italiana al tempodella guerra di Crimea20, venne arruo-lato. Il 5 Maggio, alle dieci di sera, iniziòl’ammassamento sulla scogliera di alcunifasci di fucili e materiale vario; versol’una il Piemonte ed il Lombardo, prove-nienti da Genova, accostarono a circaquattrocento metri dalla riva ed ebbe ini-zio l’imbarco.

Dopo una sosta davanti a Camogli,ove vennero imbarcati gli ultimi volon-tari, la navigazione riprese regolarmenteed alle nove del mattino del 7 giunsero

davanti a Talamone. Il forte venne rapi-damente raggiunto da una compagnia eBixio, accompagnato dal colonnello Turr,chiese al comandante della piazza, mag-giore Giorgini, la consegna di armi e mu-nizioni.

Quest’ultimo, nonostante l’estremaesiguità della guarnigione, recalcitrava edapparentemente rifiutava di assecondarele richieste. Ma l’arrivo di Garibaldi inuniforme da generale sabaudo lo con-vinse a consegnare quanto gli veniva ri-chiesto in cambio di una ricevuta e di unadichiarazione in cui si dava atto che il co-mandante del forte aveva ceduto in pre-senza di forze soverchianti.

Quindi il Generale, per confondere leidee sulle sue vere intenzioni, inviò unacolonna di una sessantina di volontariverso i confini dello Stato Pontificio perdare l’impressione di voler invadere queiterritori. Iniziativa avveduta ma in praticainutile poiché il governo borbonico erainformato sull’effettivo scopo della spe-dizione e l’Abba nel suo “Da Quarto alVolturno” scrisse “tra le carte del Pa-lazzo Reale fu trovato l’ordine dato daNapoli alla flotta, se ci avessero incon-trati - Colarli a fondo salvando le appa-renze -”. Quindi nel pomeriggio venneroreimbarcati i garibaldini, i materiali pre-levati dal forte e perlomeno due pezzid’artiglieria da campagna di piccolo cali-bro utilissimi in seguito a Calatafimi cheanche l’Abba racconterà di avere rivistoil 28 luglio a Torre del Faro, vicino aMessina: “Riconobbi tra quei ferravec-chi la colubrina che portammo da Orbe-

tello. La civet-tona stà la inbatteria, al- lunga il colloverde fuori del -la gabbionata.Ha una storiaessa!

Ma se i can-nonieri che lefanno la guar- dia e la li- s c i a n o ,sapessero leeresie che ci hafatto dire da

Marsa la a Piana dei Greci, la buttereb-bero in mare.”21. Poi i due piroscafi si di-ressero verso S. Stefano per rifornirsi dicarbone fornendo anche un “passaggio”ad alcuni bersaglieri, di guarnigione sul-l’isola.

La navigazione proseguì, accorta-mente, lungo le coste sarde per puntarepoi verso l’isola di Favignana onde evi-tare di incappare nel naviglio militareborbonico. Ed invero dall’esame dellungo elenco delle navi ad elica, a ruota oa vela che componevano la flotta borbo-nica nel 1860 appare singolare che soloil giorno 11, durante le ultime ore di na-vigazione, a poche miglia da Marsala ilPiemonte ed il Lombardo incrociassero lacorvetta Stromboli con al rimorchio laCapri. Tuttavia verso l’una del pomerig-gio la navigazione si concluse con l’en-trata nel porto di Marsala.

Vennero sol lecitamente iniziate leoperazioni di sbarco ed un drappello sidiresse subito verso la stazione del tele-grafo per impedire che la notizia venissecomunicata a Palermo. Ma anche sulledue corvette borboniche non erano pas-sati inosservati i due piroscafi, per cui icapitani avevano prontamente invertito larotta e a circa un miglio dal porto ave-vano iniziato a cannoneggiare le navi ge-novesi.

La situazione divenne problematicasebbene parecchi colpi, per l’impreci-sione degli artiglieri navali, finisserosulla spiaggia e sul vicino stabilimentoIn gham tanto che, narra il Marchelli, al-cuni proiettili demolirono non solo una

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torre di guardia ma perforarono anche iltetto del deposito dei vini sfasciando di-verse botti del prezioso “marsala”. Non-dimeno lo sbarco di uomini e materialiprocedeva ugualmente anche se per ac-celerarlo si tentò, quasi inutilmente, di in-gaggiare alcuni pescatori per effettuare iltrasbordo. Ma la fortuna era certamenteamica di Garibaldi, poiché ad un certopunto i comandanti delle navi inglesi In-dependence ed Argus chiesero imperio-samente ai borbonici di sospendere lebordate per poter recuperare i propri uffi-ciali che si erano trattenuti presso lo sta-bilimento vinicolo ed ora si trovavanocoinvolti nel bombardamento. DallaStromboli e dalla Capri acconsentirono asospendere il fuoco e durante la pausa igaribaldini poterono completare losbarco. Nel frattempo le avanguardie sierano impadronite della stazione telegra-fica sebbene l’addetto avesse già tra-smesso la notizia dello sbarco. Inutile sirivelò l’intervento del garibaldino Penta-suglia, esperto telegrafista, che inviò unmessaggio per annullare il precedentespiegando che non si trattava di rivoltosima di soldati inglesi in cerca di acqua.

La situazione divenne confusa: unabaracca in uso alle guardie del portovenne centrata in pieno da un colpo spa-rato dalle corvette o da un pezzo apparte-nente alla sparuta guarnigione degliArtiglieri Litorali, di stanza a Marsala.Ma nel complesso lo sbarco ottenne unpieno successo, vennero liberati 40 pri-gionieri dalle locali carceri e vennero ar-ruolati i primi picciotti. Tutti si atteseroper la notte del 12 una prima reazioneborbonica ma evidentemente la morte asoli 49 anni, a Maggio del 1859, di Fer-dinando II ossia dell’uomo che nel 1830aveva riorganizzato l’esercito borbonico,si fece sentire. L’imprepa ra zione del-l’esercito del Regno delle Due Sicilie, aldi qua ed al di là del Faro, politicamenteisolato, ebbe il suo peso nel confrontocon le forze garibaldine. Sorprende infattiche una forza di circa 25.000 uomini22

anche se comandata dal Tenente GeneralePaolo Ruffo di Castelcicala, Luogote-nente Generale nei Domini al di là delFaro, la cui ultima esperienza di guerrarisaliva alla battaglia di Waterloo, alla

quale aveva partecipato tra le file inglesi,non riuscissero a tenere testa ad un mi-gliaio di Gari baldini anche se aiutati dacontadini. In fatti il Brigadiere generaleLandi, al co mando di consistenti repartiintenti a di sarmare la popolazione di Al-camo, invece di affrontare direttamenteGari baldi con tutte le proprie forze, avevapreferito inviare tre distaccamenti in al-trettante direzioni mentre con il grossodei propri reparti si era ritirato a Cala-tafimi.

Tuttavia racconta il Marchelli, il cuidiario ci servirà per seguire le azioni ga-ribaldine sino a Palermo, anche a Tra panile truppe borboniche assunsero un atteg-giamento rinunciatario e a fronte di unapopolazione in rivolta la guarnigione sitrincerò nella propria caserma. Il 13 mag-gio venne raggiunta Salemi ove, oltre allapopolazione, alcuni frati del locale con-vento accolsero con grande giubilo i ga-ribaldini.

Anzi Fra Pantaleo, giovanissimo eparticolarmente entusiasta, diventò cap-pellano del Generale. Per assumere il piùpossibile l’aspetto di una unità militareGaribaldi incaricò il Marchelli, promossosergente l’11 maggio, di acquistare tuttala flanella rossa che fosse possibile tro-vare poiché ancora troppi garibaldinierano privi della camicia rossa regola-mentare. Sempre a Salemi il Generale,sull’onda dell’entusiasmo popolare, as-sunse le funzioni di “Dittatore” e iniziòad arruolare gli insorti guidati da uominiparticolarmente devoti alla causa italiana,come i fratelli Giuseppe e Stefano Triolodi San t’Anna, in un nuovo reparto chedenominò “Cacciatori dell’Etna”23. Ilno stro Marchelli, grazie all’esperienzaac quisita al tempo della Guerra di Cri- mea, venne assegnato all’addestramentodei volontari che quotidianamente si pre-sentavano e risultò talmente efficiente inquesta attività che da un documento con- servato presso la Biblioteca Am brosianadi Milano - Fondo Giuseppe Sirtori -pubblicato dall’Agrati si legge “Salemi,14 maggio 1860. Nell’assenza del baroneSantanna, Bartolomeo Mar chelli e Al-berto Naso sono incaricati di restare aSalemi per organizzare la 2^ Compagniadei Cacciatori dell’Etna. Sirtori.”

Il 15 maggio a Calatafimi si svolse ilprimo ed importante combattimento de-stinato a segnare le sorti della campagnapoiché una sconfitta garibaldina avrebbecreato una situazione difficilmente sana-bile. I garibaldini, rinforzati da diversi in-sorti di Mazzara, Castel vetrano, Alcamo,Partanna, S.Ninfa, Par tinico e di frazionie terre circostanti attaccarono il generaleLandi che si trovava su un’altura terraz-zata, in quella località collinosa, con circa2.000 uomini.

Forse la frase che la retorica volle at-tribuire a Garibaldi “Qui si fa l’Italia osi muore” non venne mai pronunciata maquel giorno l’ardore delle camicie rossee dei picciotti, all’assalto alla baionettasui fianchi di una collina per conquistareuna posizione sulla sommità che sem-brava imprendibile, non ebbe limiti. Unagrande animosità dimostrò in questa oc-casione il nostro ovadese Emilio FedericoBuffa, inquadrato nella 2^ compagnia,che nel corso dell’attacco venne grave-mente ferito alla gamba sinistra e si gua-dagnò la promozione a sergente. Anche iCarabinieri Genovesi con i loro micidialitiri non furono da meno e la vittoria ar-rise ai bravi garibaldini. Per i borbonicifu una giornata ne ra.

Ripiegarono su Alcamo, confermandoin tal modo la propria cocente sconfitta aCalatafimi, ma a Partinico vennero attac-cati nuovamente da rivoltosi e dovetteroaprirsi la strada attraverso il centro abi-tato battendosi duramente e riportandoulteriori perdite.

Tuttavia anche i borbonici avevanocombattuto con coraggio e Garibaldi ca-vallerescamente ebbe parole di elogioverso i componenti l’ 8° BattaglioneCacciatori di Linea24, facilmente distin-guibili grazie alla loro uniforme verdescuro come similmente erano i loro “bon-netti da quartiere” dai vistosi fiocchigialli, imperturbabili sotto il fuoco. Altermine del combattimento il ColonnelloSirtori, Capo di Stato Maggiore, ordinòal Marchelli di raccogliere i fucili dei ca-duti e dei feriti e di attivarsi perché que-sti ultimi fossero convenientementeassistiti dai medici di Calatafimi e Sa-lemi. Anzi il Sirtori gli consegnò un’or-dine scritto: “D’ordine del Ditta tore

Nella pag. seguente: Battagliadi Calatafimi, 15 maggio 1860.Litografia di Barbieri, stampata presso la Litografia Pedrinelli.

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Garibaldi si raccomanda ai sindaci chediano tutto l’occorrente che abbisognaall’ufficiale Marchelli appartenente alBattaglione 1° Cacciatori dell’Etna, co-mandato dal Barone di S.Anna. - firmatoSIRTORI”.

Il Landi, nonostante i continui attac-chi degli insorti riuscì a raggiungere Pa-lermo ove al posto del Castelcicala trovòun nuovo comandante ancora più anzianoe ancora più timoroso di un’insurrezionein città: il settantatreenne generale Lanza.Quest’ul timo però, grazie agli aiuti ap-pena sbarcati, era in grado di fare tallo-nare Garibaldi dai Cacciatori e daiCarabinieri Esteri al comando del Colon-nello svizzero Von Mechel e del Mag-giore Beneventano del Bosco, forse i duemigliori ufficiali borbonici dell’interacampagna25. Ma Ga ribaldi con un audacediversivo li indusse a credere di inseguiretutti i garibaldini in ritirata mentre invecesi trattava solo del carreggio e dei suoipochi pezzi di artiglieria.

In realtà, come raccontò il Marchelli,al Bosco della Ficuzza26 i Borbonici sfi-larono durante la notte nei pressi delgrosso dei garibaldini accuratamente na-scosto tra la folta vegetazione e certa-mente all’alba, lungo la carrareccia,scoprirono la verità ma reputando che ilDittatore della Sicilia con una “banda” di

un migliaio di uomini e qualche centinaiodi insorti non avrebbe mai avuto il co-raggio di attaccare Palermo, difesa dacirca 20.000 (ventimila !) regolari, pro-seguirono l’inseguimento. Il 26 i fucilierigaribaldini puntarono su Gibilrossaquindi da tale località verso la mezza-notte “ dopo che furono distribuite le mu-nizioni e un pane, scendemmo, lasciando,d’ordine di Garibaldi, vari contadini col-l’incarico di fare grandi fuochi su tutte ledirezioni e nel fare così comprendere aiborbonici che noi eravamo sempre sullealture scaglionati” (B. Marchelli) utiliz-zando sentieri impervi e passaggi dacapre, scesero nel massimo silenzio versola pianura palermitana. Le camicie rossepoterono così attaccare direttamente lacapitale dell’isola e all’alba del 27 Mag-gio, vinta la resistenza nemica al pontedelle Teste, dilagarono per le vie citta-dine.

Tra i palermitani divampò la ribel-lione rinfocolata da uno spregiudicatobombardamento della città dagli spaltidei forti ancora intatti in mani borboni-che. Gli scontri, sempre più accesi, dura-rono tre giorni sino a quando il mattinodel 30 un intervento, certamente assai in-teressato dell’Ammiraglio comandante lasquadra navale inglese che seguiva atten-tamente gli avvenimenti, convinse il

Lanza, già sfiduciato dal consistente nu-mero di caduti e feriti, a chiedere un’ar-mistizio. Garibaldi, i cui uomini eranoormai quasi privi di mu nizioni, accettòsenza indugi e due ufficiali borbonici an-darono incontro ai Cacciatori e Carabi-nieri Esteri sulla strada per Gibilrossa perordinare loro di deporre le armi. Con lacaduta della capitale la rivoluzione di-vampò in tutta la Sicilia ed in brevetempo, anche col concorso della spedi-zione comandata da Giacomo Medici,venne creato l’Esercito Meridionale.

Con la conquista di Palermo cala il si-pario sul periodo più eclatante ed eroicodella spedizione dei Mille che peraltroproseguirà al di qua del Faro con impor-tanti battaglie. Ma il diario di BartolomeoMarchelli si chiude con la conquista dellacapitale dell’isola poiché, per quanto at-tiene la prosecuzione della campagna inCalabria ed in Cam pania, il Nostro lasciòsolo brevi note e quindi per seguire le vi-cende dei garibaldini ovadesi occorreràrivolgersi ad altre fonti documentali.

Il Marchelli, ormai ufficiale dei Cac-ciatori dell’Etna entrò in conflitto colnuovo comandante del reparto, il baroneNicolò Saura, che sostituì il San tanna.Motivo dell’incompatibilità fu il ramma-rico del Saura per una condotta non deltutto specchiata ed all’altezza del grado

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rivestito da parte del Marchelli. Il 26 ago-sto il nostro garibaldino venne trasferitoai carabinieri, quindi il 28 dello stessomese al Deposito Generale di Palermo.L’11 settembre venne nominato luogote-nente nel 4 Reggimento, Brigata Assantidella Divisione Cosenz in cui fu incorpo-rato il 27 ottobre come luogotenente ef-fettivo con decreto dittatoriale. Trasferitoil 16 febbraio 1861 al Deposito Divisio-nale di Asti, transitò col grado di luogo-tenente, conferito con regio decreto, nelCorpo Volontari Italiani ma, non adattoalla vita di guarnigione, a fine anno rien-trerà nella vita civile. Riprese la sua atti-vità di prestidigitatore ma tornò tra lecamice rosse nel 1862, nel 1866 e nel1867. Divenuto vicepresidente della So-cietà dei Veterani e Militari in Congedodi Rapallo, morì a Nervi il 16 febbraio1903.

Emilio Federico Buffa, gravementeferito ad una gamba durante la battagliadi Calatafimi, come abbiamo visto, venneinizialmente trasferito alla neocostituitaXV Divisione del Generale Turr (3^Compagnia, II Battaglione, 1 Brigata) maa causa della ferita riportata fu congedatoil 6 agosto 1860. Entrato inizialmente nelCorpo dei Pompieri Cantonieri di Ge-nova si trasferì poi a Torino ove mori il23 Dicembre 1875 all’Ospedale Cotto-lengo. Il tagliolese Domenico Repetto in-vece a Talamone venne assegnato alla 3^compagnia comandata da FrancescoSprovieri. Il 16 maggio 1860, menomato“nella facoltà visiva dell’occhio destroper influenza di polvere calda “ vennetrasferito allo stato maggiore generale. Il31 gennaio 1861 fu promosso sergente“per la sua fedeltà e coraggiosi servizi”ed il 21 luglio “fu ammesso a fare valerei suoi titoli alla pensione per infermità in-contrate in servizio” (Miraglia). Vennecongedato il 20 aprile 1862 ma, pur es-sendo minorato, il 25 maggio 1866, du-rante la terza Guerra di Indipendenza,rientrerà tra le camicie rosse e verrà ag-gregato alla 7^ compagnia del 5° Reggi-mento Volontari. Dal 27 maggio diquel l’anno sarà aggregato allo stato mag-giore e dal 11 luglio al 20 settembre saràaddetto al carreggio. Congedato proba-bilmente col grado di furiere si spense a

Tagliolo il 18 novembre 1871.Una figura di spicco è certamente

quella del rossiglionese Gerolamo Ai-renta: ricco ed animato di grandissimaanimosità per la causa italiana: ..crebbe aRossiglione in una famiglia benestante ericevette un’educazione improntata suelevati sentimenti. Il padre era un riccoproprietario; dalla madre trasse, insiemecol fratello Giulio, saldi principi moralied un fervente amor di patria. Il ruolofondamentale di questa donna nella for-mazione del figlio l’accosta ad altre fi-gure femminili del Risorgimento, primafra tutte Maria Drago, madre di Giu-seppe Mazzini.

L’ideale patriottico fu vissuto in leinella dolorosa accettazione di un consa-pevole sacrificio. Alla Patria ella consa-crò i suoi due figlioli e ne sopportò ladolorosa lontananza: già nel 1859 avevalasciato partire Giulio volontario nel-l’esercito sardo, allo scoppio della IIGuerra d’Indipendenza, e nel 1860quando Gerolamo decise di partecipareall’impresa garibaldina, nonostante perquesto dovesse abbandonare gli studi giàavviati al seminario di Genova, non ci fu-rono opposizioni da parte dei suoi geni-tori, anzi questi gli affidarono una grossasomma di denaro per far fronte alle esi-genze sue e dei suoi compagni. In effetti,la disponibilità economica della maggiorparte dei volontari era piuttosto scarsa,sia perché molti erano di estrazione po-polare, sia perché altri, soprattutto i i piùgiovani , erano partiti all’improvviso, al-l’insaputa dei famigliari. (L. Bertuzzi).

Assegnato alla 6^ Compagnia, co- mandata da Giacinto Carini, Airenta in- contrò G.C. Abba, il futuro scrittore diDa Quarto al Volturno col quale condi-vise una fraterna amicizia.

D’altronde l’Abba ebbe sempre pa-role di ammirazione per la lucida calmache il rossiglionese dimostrava durante icombattimenti.

Valga per tutti l’episodio verificatosi aPalermo durante l’assalto al ponte del-l’Ammiraglio quando, sotto il fuoco ne-mico, l’Airenta soccorse un cacciatoreborbonico che per il dolore delle gravi fe-rite picchiava il capo contro un muric-ciolo. Assistito e confortato in qualche

modo il ferito, il rossiglionese riprese,con tranquilla naturalezza, a sparare con-tro un reparto di fanteria nemica.

I due grandi amici continuarono acombattere nella stessa compagnia sino aCaserta ove, al termine della campagna,l’esercito garibaldino venne sciolto. Si ri-troveranno tra le Camicie rosse dei Cac-ciatori delle Alpi27 a Bezzecca il21.7.1866 quando, durante la TerzaGuerra d’Indipendenza combatterannocontro gli Austriaci riportando l’enne-sima clamorosa vittoria. Purtroppo men-tre l’Abba venne decorato con unaMe da glia d’Argento, l’Airenta cadde pri-gioniero in mano austriaca e venne de-portato in Boemia.

Dopo la firma del trattato di pacevenne rimpatriato ma non era più l’au-dace garibaldino che tutti conoscevano.Anzi colpito da un accentuato declinopsicofisico al fraterno amico offrì di no-minarlo erede dei propri averi in cambiodi un’assistenza che gli avrebbe evitatoesasperanti ricoveri ospedalieri. Ma Abbanon accettò mai di cambiare una sinceraamicizia con denaro pur non negando ilproprio sostegno all’antico compagno ditante battaglie. Ma li divise il fato: a soli33 anni Airenta morì all’Ospedale SanLazzaro di Reggio Emilia. Nell’epigrafeAbba fece scrivere:

AGEROLAMO AIRENTA

LIGURE

UNO DEI MILLE

MORTO IL 21 DICEMBRE 1875FIGLIO, FRATELLO, CITTADINO DI TEMPRA

ANTICA

IN GUERRA DI CRISTIANA DOLCEZZA

ANIMA AVIDA DI LUCE DALL’ALTO

A 33 ANNI ACCETTAVA LA MORTE

COME COSA GENTILE E SANTA

RIPOSA OR QUI TRA LE DUE FEDI DE LA

VITA

L’ UMANITÀ E DIO

GIULIO FRATELLO POSE.

Solo nel 1961 in occasione delle ce-lebrazioni per l’Unità d’Italia l’Am mi -nistrazione comunale di Rossiglionevolle dedicare una via a questa figura di

Alla pag. seguente: Battaglia di Milazzo, 20 luglio 1860. Garibaldi guida una carica all'arma bianca contro i borbonici.Litografia colorata stampata a Milano presso la Litografia Pedrinelli.

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combattente garibaldino che tanto avevadato alla Patria.

Chiude la rassegna sui garibaldiniovadesi Angelo Cereseto. Nato, come giàdicemmo, a Genova ma di famiglia ova-dese, si arruolò appena ventenne tra i Ca-rabinieri Genovesi.

Splendidi combattenti ammirati daglistessi garibaldini che per il coraggio inbattaglia e per quelle inconfondibili edeleganti camicie rosse non avrebberoavuto nulla da invidiare. Lo stesso Abbaebbe parole di grande stima: “Anche iCarabinieri Ge no vesi come sono uscitibelli nelle loro divise! Un farsetto ed unberretto d’un azzurro delicato che rialzal’espressione di quelle facce signorili,non so se sciupate o abbellite dal bron-zeo che dan questi soli penetranti nelsangue. Tutti vorrebbero farsi Carabi-nieri, ma non tutti si è Genovesi. Si capi-sce. V’è una certa aristocrazia delvalore, e quelli là se la sentono nel cuore,e degnamente, vorrebbero star soli.” Ilnostro Angelo Cereseto combatté in que-sto reparto per tutta la durata della cam-pagna. Il 28 Luglio erano a Torre delFaro, nei pressi di Messina:”Il Dittatorese ne sta chiuso in una cameruccia a tetto

là nella Torre, e intorno a quella accam-pano i Cara binieri genovesi. Non sonopiù i quarantasette di Calatafimi, drap-pello insuperabile per coscienza, ardi-menti, virtù militare. Ma quelli hannoformato il quadro di un battaglione chea Milazzo corse il campo come un ura-gano, e lo tenne dovunque apparve. Nesono più tutti liguri. Le loro file si sonoaperte a giovani d’ogni parte d’Italia; equei cinque o sei sopravvissuti all’ecci-dio di Sapri, che appena liberati dallefosse della Favignana vollero vestirnel’uniforme, portarono nel battaglione unalito della grande anima di Pisacane.”(Abba)28. Il 19 agosto le truppe di Gari-baldi sbarcarono in Calabria, a Melito, ediniziarono la marcia verso Napoli cheavrebbe portato alla caduta della dinastiaborbonica ed all’Unità d’Italia attraversoduri scontri a Capua, Caiazzo, Maddalonied al Volturno ove in un epico scontroAngelo Cereseto cadde il 1° ottobre186029 .

Giuseppe Bandi, che durante il com-battimento gli era vicino, con queste pa-role ricordò la sua fine:

“……il povero Cereseto cadde ac-canto a me, colpito da una palla in

fronte, proprio nel momento in cui sisguainavano le sciabole”.30 La sua uni-forme ed un suo fucile vennero donati al-cuni anni or sono da un appassionato edesperto cultore di militaria, il Commen-datore Gian Carlo Costa, all’AccademiaUrbense di Ovada. Questi pregevoli ci-meli unitamente alla camicia rossa, aldiario ed un libretto di appunti del Capi-tano Bartolomeo Marchelli furono de-gnamente esposti a Genova in occasionedella mostra dedicata a Garibaldi, nelduecentesimo anniversario della nascita,grazie all’iniziativa ed all’esemplare or-ganizzazione dell’Istituto Mazziniano delCapoluogo ligure.

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Note1 Corvetta a ruota “Stromboli” : venne co-

struita in Inghilterra dai Cantieri Navali PitcherNorth e varata nel 1844. Entrata in servizio nellaMarina borbonica transitò nella Regia Marinaitaliana il 17 marzo 1861. Verrà radiata il 20marzo 1865.

Era armata da 2 cannoni da 60 libre, 3 obicida 30 libre, 2 da 20 libre. Lunghezza m. 50,03 -larghezza m. 8,44 - immersione m. 2.71 - dislo-camento 580 t. -

Equipaggio: 14 ufficiali e 87 tra sottufficialie comuni.

Si ignorano le caratteristiche e le sorti dellaCapri, una corvetta o un brigantino, poiché, perquanto è stato possibile appurare, la Legge17.3.1861, in base alla quale il Re di SardegnaVittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d’Ita-lia, non la inserì nell’elenco del naviglio trasfe-rito dalla Marina Borbonica o dalla DittatorialeSiciliana nella nuova Marina Italiana. Probabil-mente venne radiata prima dell’emanazionedella predetta legge.

2 Dizionario del Casalis: trattasi della pon-derosa opera composta da Goffredo Casalis (n.Saluzzo 9.7.1781 - m. Torino 10.3.1856) “Di-zionario geografico storico statistico commer-ciale del Re di Sardegna”. Lavoro, iniziato nel1834, che illustra le condizioni di ogni paese, i

caratteri morfologici, la posizione geografica, ilclima, vicende storiche ed altre notizie di carat-tere amministrativo. Per un maggiore approfon-dimento dell’Ottocento Ovadese si veda: PAOLO

BAVAZZANO, L’Ovada di P. Giambattista Per-rando: un contributo inedito al grande diziona-rio del Casalis, I – II, in «Urbs, silva et flumen»,, a. VI, n. 2, Giugno 1993, pp. 48 – 56 e «Urbs,silva et flumen», a. VI, n. 3, Settembre 1993,pp. 131 - 137. Sull’Ovada del periodo si vedaanche il primo capitolo di: GIANCARLO SUB-BRERO, Trasfor ma zioni economiche e sviluppourbano. Ovada da metà Ottocento a oggi,Ovada, Pesce Tip., 1988.

3 P. GIOVANNI CARRARA, Memorie sullaCasa Scolopica di Ovada (manoscritto in copiapresso l’Arch. Accademia Urbense)

4 MASSIMO ANGELINI, Profilo di Paolo Ge-rolamo Franzoni (1708-1778) sacerdote,Ovada, Istituto Madri Pie – Accademia Urbense,1998

5 ALESSANDRO LAGUZZI, La posa dellaprima pietra e una lettera di Alessandro An to -nelli sull’Ospedale di Ovada, in «Urbs, silva etflumen», A. XIX, n 3, Settembre, 2006, n. 3 pp.208 – 209; cfr anche SABINA LAGUZZI, Ovada ametà Ottocento e la nascita del nuovo Ospedaledi S. Antonio, in «Urbs, silva et flumen», A. XX,n. 2, Giugno 2007, pp. 111 - 123; EAD, Ovada difronte al Cholera Morbus del 1854, in «Urbs,silva et flumen», A. XX, n. 3, Settembre 2007,pp. 202 - 213.

6 EMILIO COSTA, La giovinezza di DomenicoBuffa (1818-1847), in Figure e gruppi dellaclasse dirigente piemontese, Torino, Istituto perla Storia del Risorgimento Italiano, Comitato diTorino, Palazzo Cari gna no, 1968; L’opera poli-tica di Domenico Buffa (1818 - 1858) nel Ri-sorgimento italiano in ID, Il Regno di Sardegnanel 1848 - 1849 nei carteggi di Domenico Buffa,Roma, Istituto per la storia del Risorgimento Ita-liano, vol. 3, 1966-1970; ID, Carteggio politicoinedito di Michelangelo Castelli con DomenicoBuffa (1851-1858), Santena, Fondazione Ca-millo Cavour, 1968.

7 EMILIO COSTA, Giambattista Cereseto edu-catore e letterato (1816-1858), tratto da Figuree gruppi della classe dirigente ligure nel Risor-gimento, Genova, Istituto per la Storia del Ri-sorgimento Italiano, Comitato di Genova, Casadi Mazzini, 1971.

8 EMILIO COSTA, Francesco Gilardini uomopolitico ovadese (1820- 1890), Ovada, Acca-demia Urbense, 1962

9 ALESSANDRO LAGUZZI, Un’amicizia ova-dese di Benedetto Cairoli (la Famiglia Torrielli),in «Urbs, silva et flumen», 2002, A. XV, n. 3 - 4,p. 233; ID, Benedetto Cairoli co spi ratore, nellelettere agli ovadesi “Cec china” e “Bigi” Tor-rielli, in «Nuova An tologia», anno 141 (aprile-giugno 2006), fasc. 2238, pp. 336-359

10 ALESSANDRO LAGUZZI, Ovada nel Ri sor-gimento: lo Statuto, in «Urbs, silva et flumen,Numero unico, Luglio 1987, pp. 16 - 20.

11 EMILIO COSTA, Bartolomeo Marchelli daprestidigitatore a combattente garibaldino, in«URBS» - anno XX - N° 3 - Settembre 2007,pp. 199 – 201.

12 G.C. ABBA, Da Quarto al Volturno, No- te relle di uno dei Mille, Bologna - ZanichelliEditore 1934; EMILIO COSTA, Giuseppe CesareAbba e Gerolamo Airenta. Storia di un’amici-zia. Rossiglione 1961; LILIANA BERTUZZI, Gero-lamo Airenta di Rossiglione, uno dei Mille (1842- 1875), amico di Giuseppe Cesare Ab ba, in«URBS» - anno XVI – n.° 2 - Giugno 2003, pp.120 - 126.

13 ALESSANDRO LAGUZZI, Ovada nel Ri sor -gimento cit.

14 Leva: l’arruolamento dei contingenti dileva nell’Armata Sarda, a metà Ottocento, eraregolato dalla legge 16 dicembre 1837 alla qualefece seguito la legge 20 marzo 1854. Quest’ul-tima soppresse il reclutamento regionale, con lasola eccezione della Brigata di Fanteria Savoia,probabilmente per meglio amalgamare liguri,sardi e piemontesi. Inoltre previde, in sostitu-zione di reparti di seconda linea, la costituzionedella Guardia Nazionale, eventualmente utiliz-zabile per il presidio di piazze o per attività diordine pubblico. Ogni anno veniva stabilito l’en-tità del contingente formato da reclute di 1^ e 2^categoria. Gli appartenenti alla 1^ erano tenutialla ferma di undici anni (5 sotto le armi e 6 incongedo illimitato) mentre quelli di 2^ dopo unaddestramento di 50 giorni venivano posti incongedo illimitato rimando a disposizione sinoal compimento del 26 anno di età. Ovviamentein caso di guerra tutti i tipi di congedo venivanosospesi sino alla conclusione delle operazionibelliche.

15 LAGUZZI ALESSANDRO, Il medico Fran-cesco Buffa e il suo tempo (1777-1829), 1993,VI, n. 3, p. 100 - 110; 1993, VI, n. 4, pp. 153 –160.

16 PIER GIORGIO FASSINO, Andrea Daniaovadese: Eroe dell’Indipendenza greca, in«Urbs, silva et flumen», 2006, A. XIX, n. 3, pp.180 – 191..

17 EMILIO COSTA, Il marchese di Belforteamico di Mazzini, Carlo Cattaneo della Volta(1781-1847) e la Giovine Italia, in «Urbs silvaet flumen», 2004, XVII, n. 1, pp. 6 – 15; LA-GUZZI ALESSANDRO, Cattaneo Della Volta Mar-chese di Belforte, in Mazzini e i primimazziniani in Liguria 1828 – 1834, Atti del Con-vegno – Savona 25 Novembre 2005, volume I,Savona 2006, p. 201 – 220.

18 EMILIO COSTA, Bartolomeo Marchelli ca- pitano garibaldino (1834 - 1903) - Ovada, 1961.

19 Corpo dei Carabinieri Genovesi: Volon -tari, comandati da Antonio Mosto e general-

Nella pag. a lato, Battaglia del Volturno, 1 ottobre 1860,stampa popolare riprodotta nel 1961 dal quotidiano L'Unità.

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mente armati con costose carabine di precisionedi loro proprietà, erano particolarmente temutitra le truppe borboniche per l’efficacia dei lorotiri. La Bandiera del Corpo è custodita presso ilPalazzo Municipale di Novi Ligure.

20 (EMILIO COSTA e LEO MORABITO, a curadi) B. MARCHELLI, Da Quarto a Palermo, me-morie di uno dei Mille, Comune di Genova, As-sessorato alle Attività Culturali - Tipogr.Priamar - Savona 1985, p. 40.

21 Ibidem, p. 49.22 Secondo la rivista La Guerra (Numero

di Ottobre 1860) nella primavera del 1860l’Esercito Borbonico in Sicilia contava 587 uf-ficiali e 24.227 tra sottufficiali e soldati di varieArmi e Servizi.

23 Cacciatori dell’Etna: Reparto costituito daGaribaldi il 14.05.1860 a Salemi con insorti sa-lemitani, vitesi e alcamesi. Il comando della 1^Compagnia venne affidato al barone StefanoTriolo di Santanna.

24 Cacciatori di Linea: fanteria leggera isti-tuita nell’esercito borbonico per la prima voltail 30 gennaio 1797, sull’esempio austriaco erusso. Per esservi ammessi gli aspiranti dove-vano avere una statura di almeno 5 piedi e 3 pol-lici ossia m. 1,70. Generalmente indossavanoun’uniforme verde scuro e calzoni grigio celestiche li distinguevano nettamente dagli apparte-nenti alla normale fanteria di linea indossantiuniformi blu.

25 GIANCARLO BOERI - PIERO CROCIANI,L’Esercito Borbonico dal 1789 al 1815, Roma -Stato Maggiore dell’Esercito - Ufficio Storico –1989; GIANCARLO BOERI - PIERO CROCIANI -

MASSIMO FIORENTINO, L’Esercito Borbonico dal1830 al 1861, Roma - Stato Maggiore del-l’Esercito - Ufficio Storico- 1998,Tomo I - II.

26 (EMILIO COSTA e LEO MORABITO, a curadi) B. MARCHELLI, Da Quarto cit., p. : “Le regietruppe, in numero di 6 milla sfilavano vicino albosco alla distanza di 200 metri e si sentì la vocedei ufficiali che davano gli ordini della marcia distare nel silenzio. Bastava una sola spia per ca-dere noi tutti nelle mani del Borbone”. In realtàil numero dei Cacciatori e dei Carabinieri Esteriera di gran lunga inferiore a quello citato dalMarchelli, forse ingannato dal tempo impiegato(circa due ore) da tutta la colonna per transitarenottetempo nel Bosco della Ficuzza in cui i ga-ribaldini si erano appiattiti tra la vegetazione.

27 Cacciatori delle Alpi: col personale af-fluito presso i Depositi di Cuneo (20.2.59),Acqui (17.3.59) e Savigliano (20.3.59) in attua-zione del Decreto 17.3.1859 venne costituito ilCorpo Cacciatori delle Alpi su di un 1° Reggi-mento. Il 2° Reggimento venne costituito il 7Aprile mentre il 17 Aprile 1859 con personaleconfluito in Acqui verrà costituito anche ilCorpo Cacciatori degli Appennini che pochigiorni dopo passerà alle dirette dipendenze delMinistero della Guerra. Il 4 maggio venne for-mato il 3° Reggimento Cacciatori delle Alpi cheunitamente ai due precedenti, ad una compagniaGuide a cavallo ed a una compagnia Bersagliericostituirono una grande unità posta agli ordinidel Gen. Garibaldi ed incorporata nell’Esercitopiemontese. Con decreto 14 maggio 1860 le tra-dizioni del Corpo passarono al 52° Reggimento(Brigata delle Alpi) che le esaltò partecipandoalle varie campagne legate alla Seconda e Terza

Guerra d’Indipendenza, al Brigantaggio, al-l’Eritrea, alla Libia, alla Prima Guerra Mon-diale, all’Africa Orientale e alla Seconda GuerraMondiale. Dopo la riforma attuata dal Gen. Fe-derico Baistrocchi, sotto se gre tario del Ministerodella Guerra, che, sul finire del 1933, con cinquesuccessive aggiunte e varianti al Regolamentosul l’Uniforme del 1931 aveva introdotto nel- l’Esercito l’uso della cravatta, al 52° Reg gi-mento Fanteria “Alpi”, quale testimonianzadella discendenza e delle glorie garibaldine,verrà concesso l’uso della “cravatta rossa”.

28 Carlo Pisacane: patriota ( Napoli 1818 -Sanza, Salerno 1857 ) già ufficiale dell’esercitoborbonico disertò e si rifugiò a Parigi. Rientratoin Italia nel 1848 allo scoppio della PrimaGuerra di Indipendenza ebbe contatti con C.Cattaneo e con G. Mazzini. Nel 1850 concertòcon quest’ultimo una spedizione insurrezionalenel Napoletano. Si imbarcò con G. Nicotera il25.6.1857 con una ventina di animosi ed aPonza liberò 300 detenuti nel locale penitenzia-rio. Sbarcati a Sapri vennero assaliti da una folladi contadini inferociti e solo pochi si salvarono.Il Pisacane, benché ferito, per evitare di esserecatturato preferì suicidarsi.

29 Vedasi in Supplemento alla Gazzetta Uf-ficiale del Regno d’Italia” n° 266 - 12.11. 1878- Elenco dei componenti la Spedizione deiMille:-288-Ceresetto Angelo di Gio Battista,nato a Genova, morto combattendo al Volturnoil 1° ottobre 1860.

30 GIUSEPPE BANDI, I Mille (Prefazione diArnaldo Frateili e note Luciano Bianciardi) Fi-renze, Parenti Editore, (s.d.).

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La peste è la malattia più rappresen-tata nell’arte europea, e sicuramente trale più catastrofiche della storia1.

Il decorso della peste era fulminantee spaventoso: si moriva in pochi giorni,con i linfonodi ingrossati (i bubboni) econ attacchi di vomito sanguinolento, op-pure con sintomi simili a quelli dellabroncopolmonite e le terapie erano di tipopalliativo.

La medicina del Medio Evo, cosìcome quella del Seicento, non trovava unposto per la nozione di contagio nel suostrumentario teorico. Che ci fossero ma-lattie contagiose si sapeva per senso co-mune, e la medicina araba aveva ancheelaborato un concetto di contagio, che ri-mase però poco seguito2; le malattie con-tinuavano a venire attri bui te a fattori insenso lato ambientali, accompagnati dauna certa do se di fattori “psi-cosomatici”: dalle congiun-zioni di astri al clima, allatemperatura, fino ad arrivarealla qualità dell’aria (cattivaera naturalmente quella maleo-dorante emanata dai malati;“impestata”, ap pun to) e anchealle di sposizioni d’animo dellepersone. La rea zione della me-dicina nei casi individuali eradi tipo palliativo: si cercava didepurare l’aria delle città edelle camere dei malati con fu-migazioni aromatiche e si som-ministravano bevande.

La raccomandazione prin-cipale era tuttavia di tipo pre-ventivo: fuggire dai luoghiinfetti e tornare a epidemia fi-nita.

Il quadro della medicina intempo di peste era dunque diuna totale impotenza terapeu-tica.

Le reazioni a livello di sa-nità pubblica furono nono -stante tutto, se applicateri go ro sa men te, relativamenteefficaci: durante la peste delTre cento nacquero d’urgenzanu merosi ospedali3, che inqualche modo contribuivano aisolare i malati contagiosi, e fuinventata la quarantena delle

merci e delle persone. La distruzione colfuoco degli oggetti personali dei morti dipeste aveva, inoltre, l’effetto di ucciderele pulci che vi erano annidate e contri-buiva, anche se in misura non sufficiente,a diminuirne il numero.

Dal punto di vista esistenziale, comesi è visto la peste scatenava terrore acausa delle sue caratteristiche biologichedi “morte improvvisa”, oltre che ri pu -gnante. E la possibilità di una morte im-provvisa scatenava a sua volta la pau ra dimorire in stato di peccato mortale, oltre aesser vista essa stessa come un castigo di-vino. Un’ulteriore paura legata alla morteimprovvisa e in massa era quella di es-sere seppelliti anonimamente e senza ritofunebre. Queste paure della popolazioneprendevano la forma di pro cessioni in cuisi implorava la fine del flagello e anche di

ricerca di possibili colpevoli: gli ebrei fu-rono in più luoghi perseguitati come un-tori. Durante la peste del Trecentodivennero inoltre vi sibili per le strade igruppi dei flagellanti. L’as sistenza ai ma-lati ricoverati negli ospizi, immediata-mente percepita come pericolosa, diventòessa stessa un metodo di espiazione, oltreche di carità.

Genova, dopo la pestilenza descrittadal Boccaccio (che toccò anche il capo-luogo ligure) fu ripetutamente colpita dalmorbo, ma l’epidemia pestosa più gra vefu quella che si abbatté negli anni1656/57 e che fu definita dall’annalistaCasoni (di pochi anni posteriore allagrande peste anche se la sua opera fu dataalle stampe solo nel 1831) “la maggiorsciagura che abbia mai patito Genova”4

Alcuni ordini religiosi, so prattutto icappuccini e i camilliani, sidedicarono al l’assistenza deimalati, rappresentando unmodello di comportamentocompletamente opposto allaraccomandata “fuga”.

Secondo la testimonianzadi un medico del tempo, in-fatti, la cura più efficace, omeglio quella che lasciava unmargine di sicurezza eraquella suggerita dal motto:mox, longe, tarde, cede, re- cede, redi5, e proprio uno deipittori più attivi a Ge novanegli anni precedenti la pe sti-lenza del 1656, Gio vanniBattista Carlone, con la suanumerosa famiglia fug ge nel- l’ovadese, a Cade piaggio vi-cino a Parodi Li gure, doveaveva dei possedimenti.6

Una pala d’altare, custo-dita nella parrocchiale di S.Cristoforo di Gavi7, adun’ap profondita analisi ico-nografica si rivela una sortadi ex-voto di grandi dimen-sioni, realizzato per attestarela protezione divina (fig.1).Nella parte superiore dellatela Cristo sta per scagliaretre dardi infuocati, che rap-presentano il morbo pestilen-ziale, ed è affiancato dalla

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La grande peste di Genova (1656/57)nelle testimonianze figurative di Luisa Parodi

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Vergine e da San Giovanni Battista ingi-nocchiati sulle nubi in atteggiamento sup-plice. In basso un gruppo di santi,an ch’essi inginocchiati, volge lo sguardoal Salvatore ad impetrare la cessazionedella peste: S. Luigi di Francia, S.Rocco,S. Sebastiano, S.Carlo Borromeo, S.Ignazio e S. Nicola da Tolentino.

Nella parte inferiore del dipinto è raf-figurata in un paesaggio nebbioso unachiesa che è, molto probabilmente, lastessa parrocchiale di S. Cristoforo.

Dal recente restauro sono emersi i vi-vidi colori tipici del Carlone; la strutturacompositiva evidenzia il distacco fra ilgruppo dei santi e la divinità, distacco vi-sivamente percepibile anche per la lumi-nosità dorata che caratterizza la partesuperiore.

Una dettagliata analisi storico-docu-mentaria ha dimostrato che GiovanniBattista Carlone si era già cimentato inopere celebrative per la cessazione dellapeste.

Una tela, recentemente inserita nelsuo catalogo quale opera giovanile(1632), conservata nella chiesa di S. Lo-renzo a Lugano, presenta quasi lo stesso

impianto compositivodell’opera citata: in alto ladivinità, al centro i santi in-tercessori e in basso, qualesfondo un’immagine delluogo o del motivo per cuiviene implorata la grazia(fig.2).

La Madonna delle Gra-zie è implorata dai SantiLorenzo e Rocco inginoc-chiati su uno sfondo raffi-gurante la città sulle spondedel lago di Lugano ( città dicui S. Lorenzo è patrono).La tela fu eseguita a ricordodella peste debellata nel1494 per l’intercessionedella Vergine.8

Nell’Oltregiogo vi sonoanche altre testimonianzelasciate da pittori genovesiseicenteschi che testimo-niano la loro fuga dalla cittàper evitare il contagio pe-stoso; nella parrocchiale diRoccaforte Ligure si con-

serva un pala di attribuzione ancoraincerta, ma certamente di un pittoreligure, raffigurante la Madonna colBambino e i SS. Carlo Bor romeo9,Antonio da Pa do va, Sebastiano eRocco (fig.3) . Analizzando il di-pinto, dal punto di vista stilistico,sono stati proposti come data di ese-cuzione gli anni intorno al 1660.

La presenza, soprattutto, dei duesanti particolarmente invocati per lapeste e la probabile cronologia dellatela fanno pensare si tratti di un exvoto per la peste che nel 1657 scon-volse la città di Genova.10

Anche nella parrocchiale, dedi-cata a S. Martino, del borgo di Pa-sturana, è presente un dipintoriconducibile alla peste; Pasturana fucolpita dal morbo intorno al 1630, lapeste descritta dal Manzoni.

Nella tela, attribuita a Gioac-chino Assereto e alla sua bottega(fig.4), i SS.Rocco e Carlo Borro-meo sono in adorazione di Dio la cuipresenza si intuisce da una maggioreluminosità del cielo verso cui sonorivolti gli sguardi dei santi inginoc-

chiati su una nuvola rigonfia come un pa-racadute […] al cui riparo trovano postodue giovani trasognati che contemplanola visione, forse donatori anticonformisti(o miracolati) che vollero un’effigie fuoridai canoni consueti del ritratto di com-mittenza.11

Sotto la nube è raffigurato, quale ot-timo esempio di paesaggismo “reali-sta”del Seicento ligure, il borgo diPasturana sovrastato dalla mole del pa-lazzotto.

La convinzione secondo cui la pestefosse un castigo voluto da Dio ha fatto sìche fiorisse una intensa devozione a santiprotettori ed intercessori presso Dio a sal-vamento dal morbo.

La descrizione della divinità che, adi-rata per la corruzione del genere umano,si accinge a scagliare dardi apportatori dimorte, si trova sia in ambito pagano sianell’Antico Testamento.12

Il santo più antico investito del titolodi intercessore presso Dio e protettoredegli appestati è S. Sebastiano13 e le sueraffigurazioni che si ripetono numerosespecie in coincidenza con le pestilenze

151 . Giovanni Battista Car lone, La Vergine e iSanti Giovanni Battista,Luigi di Francia, Rocco,Sebastia no, Carlo Borro-meo, Igna zio e Nicola daTo lentino implorano daCri sto la cessazione dellapeste. Gavi, Chiesa di San Cristoforo

2 . Giovanni Battista Carlone, La Ma donna delle Grazie e i SantiLorenzo e Rocco. Lugano, Chiesa di San Lorenzo

3 . Pittore ligure, La Madonna colBambino e i Santi Carlo Bor romeo,Antonio da Padova, Seba stiano eRocco. Roccaforte Ligu re, Chiesa di San Giorgio

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si trovano anche in ambito letterario14.Anche a Bernardo Strozzi, pittore

nato a Genova nel 1582 ma che si spostòa Venezia a terminare la sua carriera, sidevono alcune tele rappresentanti ilSanto. Il S. Sebastiano curato dalle piedonne che si trova a Boston, databile al1631, fu dipinto quando ancora viva nelricordo dei veneziani era la pestilenza chesi abbattè sulla loro città negli anni1630/3115.

Il susseguirsi durante i secoli delleepidemie di peste ha fatto aumentare ilnumero di Santi promossi come protet-tori ed intercessori presso Dio.

Il santo maggiormente invocato, in-sieme a S. Sebastiano, è senz’altro S.Rocco; se il primo, piagato dalle frecce èquasi metafora di un male, di cui si ipo-tizza l’origine divina, il secondo presentale piaghe reali dovute alla peste che essostesso contrasse nel Piacentino, di ritornoda un pellegrinaggio alla città eterna16; leraffigurazioni dei due Santi in tele di ca-rattere devozionale legate al dilagare delmorbo sono numerosissime : in ambitogenovese sono da ricordare le due tavole

dipinte daLuca Cam-biaso per lachiesa di S.Maria dellaCastagna e perun oratoriodella zona oras c o m p a r s o ;quest’ultimodipinto (fig.5)è oggi in col-lezione pri-vata 17.

Dal puntodi vista icono-grafico, l’im-magine delcorpo ignudo di S. Seba stia no, segnatodal le ferite ma non alterato (che in pe-riodo rinasci men tale diventa an che pre-testo per la rappresentazione della fi guraumana secondo i ca noni di bellezza clas-sici) è figura pura e idealizzata del mar-tire che leva gli occhi al cielo e implora ladivina misericordia, ma l’immagine delcorpo piagato di S. Rocco documenta il

reale segno della peste18.“I due santi, l’antico e il mo-

derno, conviveranno ancora inuno stesso spazio figurativo siaperché ci si sentiva maggior-mente tutelati da più taumaturghicelesti che da uno solo, ma ancheper una sorta di slittamento se-mantico del loro ruolo: da quelloper così dire profilattico di S. Se-ba stiano in quanto la sua fun-zione è quella di scongiurare lapeste e quello terapeutico di sanRocco che ha il compito di farguarire chi ne è colpito.”19

Flaminio Corner alla metà delSettecento scrive che nel Conci-lio di Costanza “fu approvata[…] la venerazione del gloriosoSan Rocco, e la di lui interces-sione riconosciuta efficace pressoDio contro i pericoli del morbocontagioso [….]20

Nelle epidemie di peste è in-vocata anche S. Rosalia; il suoculto, nato a Palermo, ebbe unagrande risonanza in ambito geno-vese, e più specificatamente ri-

vierasco proprio in occasione della pesteche flagellò il ponente ligure nel 1631.La città di Nizza, a seguito del voto fattoalla Santa, nel 1655 eresse un altare nellaChiesa Cattedrale dove S. Rosalia ap-pare, accanto a S. Rocco, a supplicare laVergine perché cessi la terribile epide-mia21. Secondo uno schema ormai tradi-zionale, troviamo operante ValerioCastello che, scampato al morbo, dipingeper il nobile Gio Maria De Franchi S.Ro-salia in gloria (fig.6).

Nel dipinto compare il ritratto delcommittente “havendovi effigiatol’istesso Signore naturalissimo”22 cheriuscì a scampare alla terribile peste del1657 . Sempre di Valerio Castello è latela del Credito Bergamasco che nellaparte inferiore presenta oltre alla raffigu-razione del carro dei monatti e dei muc-chi di cadaveri appestati, come nell’altrasua opera sopra citata, il golfo di Genovacon la lanterna (fig.7). E’ quasi certo sitratti del dipinto,23 eseguito intorno aglianni 1656-57 per un ignoto committentegrato all’opera prodigata dai Padri Ca-milliani durante la Grande Peste, e ad essidonato per la loro chiesa genovese.24

Si affianca alla devozione alla santapalermitana il culto in onore di S. Nicolada Tolentino che per le sue doti tauma-turgiche viene anche invocato a difesadella peste.

Le raffigurazioni di S. Nicola da To-lentino, che presentano il santo come in-tercessore presso la divinità a scongiurarel’epidemia, risalgono alla prima metà delQuattrocento25. Corredato dei suoi pecu-

16 4 . Gioacchino Assereto e bottega, I Santi Rocco e CarloBorromeo implorano la protezionedivina sul borgo di Pa sturana. Pasturana, Chiesa di San Martino

5 . Luca Cambiaso, I Santi Seba-stiano, Rocco e Antonio Abate. Collezione privata

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liari attributi iconografici26, il Santo neldipinto quattrocentesco San Nicola salvaPisa dalla pestilenza nella chiesa pisanadi S Nicola, si presenta stante, con lamano destra impugna libro e giglio, conla sinistra un fascio di frecce sottrattedalla pioggia di dardi sulla sottostantecittà di Pisa.

Nella parte alta del dipinto è raffigu-rata la figura allegorica della peste. 27

Al 1445 risale un altro dipinto, S. Ni-cola salva Empoli dalla pestilenza delpittore Bicci di Lorenzo. Anche questa ta-vola è quasi totalmente occupata dal per-sonaggio, chiaramente riconoscibile peri suoi attributi, che frena con la mano lefrecce dirette verso la città, al posto dellafigura simboleggiante la peste compare,però, il Cristo che, sebbene con la sini-stra stia scagliando i dardi, sta anche be-nedicendo; « Con la sua duplice azione,Cristo è mostrato come punitivo e mi se-ricordioso, in quanto concede a Nicola lafacoltà di proteggere la città».28

Ancora dedicato al l’azione taumatur-gica del santo vi è un dipinto, conservatoa Genova nella chiesa dedicata a S. Ni-cola, opera di Gio vanni Andrea Car lone,che illustra il “miracolo di Cor doba”(fig.8) le gato anch’esso alla in tercessione

del santo ri-guardo ad unarovinosa pesti-lenza.

Si narra che il7 giugno 1602nella città di Cor-doba, funestatada una grave pe-stilenza, fu por-tato in pro-cessione un Cro-ci fisso che, in-contrandosi conla statua di S. Ni-cola si schiodòdalla cro ce e laab bracciò, po- nendo fine allaterribile epide-mia 29.

A Genova il contagiopestoso, di origine orien-tale, entrò portata da va-scelli di contrabbando,provenienti da zone con-tagiate, che sbarcaronodue tipi di merci, alcunigrano e cereali, altri lanestracci e panni di recu-pero. Con le merci dei ce-reali sbarcarono i topiappestati. Con i panni, lelane e gli stracci, sbarca-rono le micidiali pulci in-diane, che con i rattisono le vere responsabilidel tremendo contagio.30

La maggior partedelle opere figurative,scultoree ed architettoni-che, inerenti alle variepestilenze che hanno col- pito l’umanità sono di ca-rattere devozionale, comegli ex-voto per la guari-gione o per l’evitato con-tagio; nella Chiesa di S.Pietro in Banchi la Re-pubblica di Genova fece

erigere un altare dedicato all’Immacolataa ricordo dell’aiuto ricevuto dalla Verginein occasione della pestilenza del 1579. Inarea nord-europea vi sono opere architet-toniche de dicate al ricordo di epidemiepestose; famose in Austria le «colonnedella peste».

Scene di peste fanno da sfondo al di-pinto che Domenico Piola realizzò neglianni successivi alla Grande Peste: Ma-donna con angeli e S.Simone Stock, chesi conserva nella chiesa di N.S. del Car-mine ed è databile intorno al 165731. Latela (fig.9) presenta una iscrizione che necertifica la paternità dell’artista anche se,è quasi certo, vi è stata apposta in un mo-mento più tardo. Sembra potersi identifi-care nel dipinto citato da Ratti32.

Nella parte inferiore dell’opera si pos-sono scorgere alcuni edifici che assicu-rano l’ambientazione a Genova.

6 . Valerio Castello, La Vergine colBambino, Santa Rosalia eGio.Maria De Franchi. Genova,Chiesa di N.S. delle Grazie e SanGerolamo di Castelletto

7 . Valerio Castello, La Vergine colBambino e Santa Rosalia. Bergamo,proprietà del Credito Bergamasco

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Vi si può vedere la mole dell’Albergodei Poveri nelle fondamenta del qualetrovarono sepoltura circa 9000 vittimedella Grande Peste33. Evidente è la cupoladella chiesa appartenente al complessoappunto dedicata alla Vergine Immaco-lata come ex voto34.

Della decorazione ad affresco dellafacciata, ormai perduta, si conosce ilbozzetto preparatorio di Giovanni Batti-sta Carlone conservato nella quadreria diBanca Carige con L’esaltazione dell’Im-macolata (fig.10). La Vergine è suppli-cata dai SS. Giovanni Battista, Giorgio,Lorenzo e Bernardo, protettori della cittàdi Genova, disposti quasi a ricalcare il se-micerchio di luna sotto i piedi di Mariama la città ai loro piedi appare tenebrosaforse proprio in riferimento alla dramma-tica epidemia35 .

Anche ad Andrea Ansaldo si devonodelle raffigurazioni di scene di peste; unadi esse compare, in una tela ancora con-servata nella sua collocazione originaria,nella chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo aGenova-Voltri e un’altra in un affrescodella cappella dedicata a S. Carlo nellachiesa parrocchiale di Albisola Marina.

Per la chiesa di Voltri Ansaldo dipingela Processione di S. Carlo Borromeo(fig.11) che si svolge per le vie di Milanoappestata; l’intento è celebrare la figuradi S. Carlo patrono dei voltresi36.

In basso a destraviene raffiguratol’episodio del lattanteche tenta, ma invano,di succhiare ancora illatte dal seno dellamadre ormai morta;questa immagine, de-sunta da uno scritto diFederigo Borromeo,diventa ca ratteristicanelle de scrizioni pit-toriche secenteschedella pe ste37.

Alcune opere si ri- velano molto interes-santi perché al di là diuna funzione pretta-mente devozionale,so no connotate daun’im pronta di carat-tere più “laico”e

stanno ad illustrare la realtà quasi comeun do cumento dell’epoca.

Attribuita ad un pittore genovese, Do- menico Fiasella, scam pato al contagio, sideve la realizzazione di una tela recente-mente ritrovata sul mercato antiquario e

attualmente di proprietà della FondazioneFranzoni (fig.12); scrive R. Soprani nelleVite: “nella quale (tela) l’anno 1657,espresse al vivo l’atrocità del mal conta-gioso di cui rappresentò alcuni casimolto compassionevoli in quel temposucceduti38 .

Sembra documentato che la tela inquestione, di notevoli dimensioni ( 288 x175), in un primo tempo fosse stata espo-sta nell’atrio di Palazzo Ducale39, ma nonse ne conoscono al momento ulteriori no-tizie.

Sebbene per convalidarne l’attribu -zione al Fiasella sia necessaria una piùampia documentazione ed un’analisi sti-listica, che risulterebbe ulteriormentecomplicata dalle numerose e pesanti ridi-pinture, la tela presenta una singolare so-luzione compositiva che, dal punto divista iconografico, permette una partico-lareggiata lettura dei singoli episodi dicui si compone la scena.

Il formato della tela rende possibile losviluppo consequenziale di alcune im-magini, sia paesaggistiche, sia di edifici,che testimoniano trattarsi della città diGenova. Si scorgono, infatti, la lanterna,

8 . Giovanni Andrea Carlone, Il miracolo di Cordoba. Geno va, Chiesa di San Ni cola da Tolentino

9 . Domenico Piola, Ap parizione dellaMa donna a San Si mone Stock. Geno va,Chiesa di N.S. del Car mine

12 . Domenico Fiasella, La peste di Ge nova. Genova, Pinacoteca della Fon dazione Franzoni

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la chiesa di S. Domenico, ora distrutta maa quel tempo presente nel sito ove sorgeil teatro Carlo Felice ed un edificio, chenella sequenza proposta dal dipinto sitrova tra la lanterna e la chiesa di S. Do-menico, sembra potersi identificare conla Loggia di Banchi.

In alcune costruzioni si possono ve-dere loggiati e balaustre che testimonianoil carattere di molta architettura nobiliarecaratteristica dell’epoca e la citazione pit-torica della lanterna conferma senzaombra di dubbio che si tratti di un episo-dio successo a Genova.

Sul lato destro della tela è raffiguratoun personaggio che cala un cesto dalla fi-nestra per essere rifornito di cibo senzaentrare in contatto con alcuno. Per tentaredi arginare il contagio il Magistrato di Sa-nità ordinò, infatti, di chiudere la casadove era presente l’appestato, da cui nonpoteva più uscire nessuno e: “calare dallefinestre un ca nestro, una cesta o un sec-chio con una fune, et in quella, quelli difuori ponere la robba senza toccare funeo cesta…” 40.

In basso a destra, è riproposta l’im-magine della madre ormai morta al cuiseno il lattante tenta di succhiare. La

donna è raffigurata con evidenti segni chene distinguono la nobiltà e la ricchezza; ilmonatto alla sua destra, incurante del fe-tore, del pericolo di contagio, e delladonna (forse una della famiglia) che su diessa veglia, ne ruba gli ori e le suppellet-tili preziose che sono presso di lei 41.

Sempre in basso ma sul lato sinistrosi possono vedere le persone addette alloscavo per seppellire i cadaveri e nel cen-tro i monatti che trascinano e accumulanoi morti con fare cinico e noncurante; unodi loro fuma la pipa e reca con sé un fia-sco di vino.

Il Casoni nota infatti: “Mi è ancorastato detto che questi becchini […] com-mettevano moltissime insolenze e ruberie,e fossero quasi sempre ubriachi […] ve-derli seduti sopra i medesimi carri, anzisopra gli stessi cadaveri trinciar vivande ,e formaggi, tracannar vino…”42 .

In alto e in posizione centrale cam-peggia la figura allegorica della peste, unessere volante con sembianze femminili,di carnagione scura, nuda e col senovizzo.

Fonte iconografica di primaria impor-tanza per gli artisti a partire dalla fine delCinquecento, fu l’Iconologia di Cesare

Ripa, ben conosciuta anche a Genova. Laraffigurazione dell’allegoria della pesteche ci presenta il pittore in questo casosembra un misto fra la descrizione della“peste” e quella della “eresia” fatta dalRipa. Forse può essere considerata comeun ossequio all’allora imperante correntecontroriformistica e quindi anti-eretica43.

Nel dipinto si possono scorgere al-cuni personaggi appartenenti agli ordinireligiosi che più si prodigarono a soc-corso dei contagiati della Grande Pestedi Genova.

Alcuni monaci domenicani compa-iono sulla soglia della chiesa dedicata alloro fondatore; dietro la carretta carica dicadaveri che campeggia al centro dellatela, si scorge un padre cappuccino e alcentro si può vedere un religioso (e dal-l’abito sembrerebbe trattarsi di un padrecamilliano) che, pur turandosi il naso, im-partisce l’ultima benedizione ad un mori-bondo.

La presenza di un maialino con il col-lare che scorrazza per la strada, più chedenotare la carenza pressoché totale diigiene, ci informa sulla presenza nellacittà dei monaci dell’ordine di San t’Anto-nio Abate che, or mai da anni, avevano il

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per messo di al le vare i sui ni perché trae- va no dal loro gras so un guenti con pro -prietà curative per il “fuo co di S.An tonio”44. Inol tre il grasso di maiale erausa to, in sieme ad altri ingredienti, nellecure adot tate dai “bar bieri-chirurghi”proprio durante la Grande Pe ste 45.

In più punti del dipinto so no raffigu-rate le pire sulle quali si bruciavano i ca-daveri secondo un decreto del Magistratodi Sanità del 1657 che così sanciva, datala saturazione dei luoghi di sepolturafuori della città. Scrive il Ca soni: “Per di-vorare i cadaveri, fu bisogno, anco nellacittà, farne cataste nelle piazze e nellestrade magnifiche, e con pece e catrameapplicarvi il fuoco” 46 . Nel dipinto citatosi può, infatti, scorgere la raffigurazionedi un pontile fumante; data la sua posi-zione rispetto alla Lanterna è ipotizzabilesi tratti del Molo Vecchio 47.

Fra le misure igieniche in trodotte dalgoverno della Repubblica,vi fu il rimediodelle cosiddette “profumazioni”; eragiunta notizia che un gruppo di cappuc-

cini francesi ave-vano messo apunto, ri scuo-tendo un certosuccesso, una so-luzione per disin-fettare le case e lacittà.

«Giudicaronoi due Col legj, chesi do vesse chia-mare di Fran ciapersone at te a taliministeri, cheavessero già ve-duto, e provato ilcontagio. […]persone pratichea comporre, e ap-plicar pro fumi, con quantità grande dimedicamenti, droghe, e altri ingredientiper i profumi » 48 .

Questi co siddetti “profumi”altro nonerano che dei potenti e velenosi insetti-cidi. Il cappuccino Padre Maurizio da To-

lone, al quale va il me rito diaver intuito la ne ces sità di eli-minare i vettori della peste,scampato al mor bo che colpìGenova e tornato a Marsiglia,descrisse queste misure da te-nere in caso di epidemia pe-stosa 49. Esse si rivelarono,però, di scarsa efficacia, ancheperché adottate quando ormai ilmorbo era già troppo esteso.

Anche alla luce dellascienza moderna se ne può af-fermarne la utilità, condi-zionata ovviamente alla tempe-stività dell’attuazione; in certamisura si possono considerareantesignane delle moderne mi-sure preventive.

La diffusione della peste fu,dunque, sempre collegata, aGenova come altrove, a parti-colari indirizzi devozionali; al-cuni dei quali sostenuti dagliordini religiosi che più si pro-digarono all’assistenza agli am-malati, come il culto a S.Rosalia , palermitana, portata aGenova dai Camilliani. Maanche la committenza aristo-

cratica volle proporre ai fedeli alcune fi-gure di santi taumaturghi, come il gran-dioso S. Sebastiano marmoreo (fig.13)scolpito da Pierre Puget nel 1664-68 perla chiesa gentilizia della nobile famigliaSauli sulla collina di Carignano 50 .

Accanto all’immagine del martire lostesso scultore realizzò la statua di Ales-sandro Sauli, vescovo di Aleria in Cor-sica (fig.14), che durante la peste del1580 si era prodigato per gli appestatidella sua diocesi, unendo così il ricordodell’imperversare del morbo alla glorifi-cazione di un membro della famiglia 51 .

NOTE

1Gli sviluppi della peste a Genova negli anni1656/57 sono stati recentemente analizzati inROMANO da CALICE, La Grande Peste. Ge-nova 1656-1657, Genova 2004. Dal punto divista biologico l’uomo nella catena della tra-smissione della peste non è che una tappa occa-sionale e non necessaria: si tratta infatti di unamalattia dei roditori causata dal microrganismoyersinia pestis, che si propaga dal ratto all’uomose le pulce del ratto (Xe nopsylla Cheopis), in-fetta per averlo punto, passa sull’uomo. Nelleepoche delle grandi epidemie storiche non si sa-peva nulla di yersinia pestis (isolata alla finedel l’Ottocento, proprio durante l’ultima com-parsa della malattia in Europa, che coincise conl’epoca della batteriologia di laboratorio), maera stato correttamente osservato che la malattiaera legata al contatto con cose e persone infette,cioè che era contagiosa. Gli storici ritengono chele epidemie di peste si siano ripresentate con in-sistenza e con invariata virulenza perché dopoogni ondata epidemica il numero degli individui

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guariti, e quindi immunizzati, era troppo bassoper garantire un’immunizzazione diffusa nellapopolazione. Una spiegazione della scomparsadella peste dall’Europa si può ricavare da unamutazione del microrganismo yersinia: i ratti daun certo momento sono risultati immuni alla va-riante mutata, e quindi i loro parassiti, anche nelcaso che passino sull’uomo, non provenendo daanimali malati non diffondono la malattia. Lapeste è rimasta nelle lingue europee come me-tafora di flagello improvviso, diffuso e irrime-diabile.

2 Storia del pensiero medico occidentale.Antichità e Medioevo, vol. I, M. GRMEK (acura di), 1993 Roma-Bari, p. 195.

3 A Venezia si deve la nascita dell’istituzionedel “lazzaretto” e di strutture atte alla quaran-tena delle merci.

Il primo lazzaretto fu fondato nel 1423 nel-l’isola di S. Maria di Nazareth, da cui il nomederiva dopo alcuni volgarizzamenti: Nazareth,Nazaretum, Lazaretum e infine “lazzaretto”. Ve-nezia e i lazzaretti mediterranei, N.E. VANZANMARCHINI (a cura di), catalogo della mostradi Venezia, Mariano del Friuli (Go) 2004, pp.22-23.

4 CASONI, Successi del contagio della Li-guria negli anni 1656-57 , Genova 1831, p.9.

5 Vale a dire mox cede,vai via al più presto,longe recede rifugiati lontano, tarde redi, ritornatardi….; Scienza e miracoli nell’arte del Sei-cento –Alle origini della Medicina Moderna, S.ROSSI (a cura di), catalogo della mostra diRoma, Milano 1998, p.52.

6 « La famiglia possedeva, infatti, nella zona[…] diverse proprietà immobiliari, tanto da farassumere la denominazione di “Car lona”, an-cora oggi attuale, alla località da essi abitata»,A. CABELLA TONCINI, La Pittura, in La Par-rocchiale dei Santi Rocco e Sebastiano di Pa-rodi Ligure tra medioevo ed età contemporanea,C. PAOLOCCI (a cura di), Genova 1995, p. 38;“la maggior parte delle famiglie benestanti […]si sono ritirate dalla città ed anno schivata lamorte” CASONI, 1831, p. 40.

7Il restauro della tela risale al 2005, D.SANGUINETI, Giovan Battista Carlone; laPala restaurata della Chiesa Parrocchiale di S.Cristoforo, in “URBS Silva et Flumen”, XIX,n°2, 2006, p.130.

8 M.BARTOLETTI, L. DAMIANI CA-BRINI, I Carlone di Rovio, 1997, p.165;L. DA-MIANI CABRINI, Seicento Ritrovato. Pre senzepittoriche “italiane” nella Lombardia Svizzeratra Cinquecento e Seicento, catalogo della mo-stra di Rancate, L.DAMIANI CABRINI (a curadi), Milano 1996, pp. 124-125.

9 Carlo Borromeo fu arcivescovo di Milanonegli anni della peste del 1576, distinguendosiper la sua abnegazione.

10 F. CERVINI, L’altra Liguria. Pittori ge-novesi fra l’Oltregiogo e il Po, in Maestri ge-novesi in Piemonte, catalogo della mostra di

Torino, P. ASTRUA, A.M. BAVA, C.E. SPAN-TIGATI (a cura di), Torino 2004, p. 54.

11 P. ASTRUA, A.M. BAVA, C.E. SPANTI-GATI ( a cura di ), Torino 2004, p. 52.

12 Ad esempio tra le varie citazioni vetero-testamentarie riguardanti la peste l’episodioche vede protagonista il re Davide castigato daDio con tre giorni di pestilenza tra la sua gente,è stato scelto da P. Puget come incisione perl’antiporta del trattato sulla peste del P. Mauri-zio da Tolone F.FRANCHINI GUELFI, La scul-tura del Seicento e del Settecento. Statue earredi marmorei sulle vie del commercio e delladevozione, in Genova e la Francia. Opere, arti-sti, committenti, collezionisti, P. BOCCARDO,C. DI FABIO, P. SENECHAL (a cura di), Mi-lano 2003. Nel primo libro dell’Iliade è partico-larmente evidenziato il ruolo del morbopestilenziale come castigo divino.

13 Egli subì il martirio nei primi secoli delcristianesimo sotto la persecuzione di Dio cle-ziano, e la forma di supplizio cui fu sottopostofu di essere legato ad un albero e trafitto dafrecce. S. Sebastiano fu curato da S. Irene e so -lo dopo altri tormenti trovò la morte nel circo.Il suo cadavere fu poi gettato nella Cloaca. S.Sebastiano apparve poi in sogno a S. Lucina persvelare dove si trovavano le sue spoglie che fu-rono tumulate nelle catacombe che da lui pre- sero il nome.

S. Sebastiano divenne così anche co-pa-trone, insieme ai SS. Pietro e Paolo, della città diRoma.

L’immagine della “freccia” come simbolo dieventi negativi che possono travolgere l’uomo,compare nell’iconografia della Madonna di Mi-sericordia. Una tavola conservata nella chiesa diS. Maria dei Servi a Genova, dipinta da Barnabada Modena presenta, infatti l’immagine dellaVergine che apre il manto sotto cui trovano ri-fugio i suoi fedeli, che fa da scudo ad una piog-gia di dardi.

14 Da studi recenti pare controversa la veri-dicità del martirio di S. Sebastiano tramite lefrecce; è però certa la sua esistenza.

Lo studioso Hippolyte Delehaye sostieneche la vita leggendaria di S. Sebastiano fu com-posta solo in torno al 486 d. C; .K. RESSOUNI-DEMIGNEUX, La vita “immaginata” di SanSe ba stiano, Guido Reni- Il tormento e l’estasi, P.BOCCARDO, XAVIER F. SALOMON (a curadi), catalogo della mostra di Genova, Milano2007, p. 17.

15 F. SPADAVECCHIA, S. Sebastiano cu-rato dalle pie donne, olio su tela, cm 167 x 118,Fine Arts Museum, Boston, scheda n. 71, Ber-nardo Strozzi, catalogo della mostra di Genovae Venezia, E. GAVAZZA, G. NEPI SCIRE’, G.ROTONDI TERMINIELLO (a cura di), Milano1995, p. 240; se ne conserva una replica nellachiesa dei SS. Benedetto e Scolastica (vulgo S.Beneto) a Venezia.

16 S. Rocco nell’arte. Un pellegrino sulla

Via Francigena, catalogo della mostra di Pia- cenza, Milano 2000.

17A. MANZITTI, I SS. Rocco, Sebastianoed Erasmo, olio su tavola, cm 149 x 144, S. M.della Castagna – Genova-Quarto ( proprietàdella confraternita di S. Rocco), scheda n. II 16,L. MAGNANI, I SS. Rocco, Sebastiano e Anto-nio Abate, olio su tavola, cm 140 x 122, colle-zione privata, scheda n. II 15, in LucaCambiaso - un maestro del Cinquecento euro-peo, catalogo della mostra di Genova, P.BOC-CARDO, F. BOGGERO, C. DI FABIO, L.MAGNANI (a cura di ), 2007 Milano, pp.236-237 e 234-235.

18 Il bubbone pestoso, raffigurato con rea-listica crudezza, ha dato la possibilità agli stu-diosi di storia della medicina di poter analizzaree conoscere meglio lo sviluppo e la cura del lamalattia nei secoli passati.

Solo in ossequio alla decenza il bubboneche, in effetti dovrebbe trovarsi nella zona in-guinale, è tradizionalmente posizionato al l’in-terno della coscia che S. Rocco mostra ai devotiquale monito alla penitenza ma anche come in-vito alla confidenza in Dio Salvatore.

19S. MASON RINALDI, Le immagini dellapeste nella cultura figurativa veneziana, in Ve-nezia e la peste -1348/1797, catalogo della mo-stra di Venezia, Venezia 1980, p.215.

20 F. CORNER, Ecclesia venetae…, decasnona e decima, VI, Venetiis 1749, p. 375.

21 Le notizie sulla vita della Santa sono in-certe e forse addirittura leggendarie, mancandoprove documentarie. La venerazione popolarevuole S. Rosalia eremita, nel XII secolo, pressouna grotta del monte Pellegrino dove furono rin-venute nel 1624 le sue presunte spoglie. F.FRANCHINI GUELFI, S. Rosalia in Ligu ria.Una devozione venuta dal mare, in “La Ca sana”,Speciale Sicilia-supplemento al n. 1/2001, annoXLIII, Genova, pp. 22-29; Tigul lio antico - Allariscoperta del culto di S. Rosalia. Arte, storia,tradizioni, B. BERNABO’ (a cura di), Genova2002.

22 Così il biografo dell’artista. R.SOPRANI,Vite de’ pittori, scoltori et architetti genovesi,Genova 1674, p.234.

23Per la scheda redatta sul quadro da M. Ca-taldi Gallo si veda La Chiesa di Nostra Signoradelle Grazie e S.Gerolamo fra storia e arte, C.OLCESE SPINGARDI (a cura di), Genova2004, pp.28-29; Valerio Castello 1624-1659.Genio moderno. Catalogo della mostra di Ge-nova, M.CATALDI GALLO, L.LEONCINI,C.MANZITTI, D.SANGUINETI (a cura di),Milano 2008, pp.247, 391 n.98.

24 Comparso sul mercato antiquario e pro-veniente dalla Francia dove era giunto a seguitodelle spoliazioni napoleoniche, appartiene ora alCredito Bergamasco ma è in deposito pressol’Accademia Carrara. C. MANZITTI, ValerioCastello, Torino 2004, pp. 211-212.

10. Giovanni Battista Carlone, L’Immacolata con i Santi Giovanni Battista, Giorgio, Lorenzo e Bernardo. Genova, Collezioni della Banca CARIGE

11. Andrea Ansaldo, La processione di San Carlo Borromeo. Genova, Chiesa dei Santi Nicolò ed Erasmo di Voltri.

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25 “Del nobile sacrificio che facean dellalor vita nella teribile pestilenza del 1656”,F.ALIZERI, Guida illustrativa del Cittadino edel Forestiero per la Città di Genova e sue adia-cenze, Genova 1875, p. ; a S. Camillo si devel’istituzione dei Chierici Regolari Ministri degliInfermi; P. SANNAZZARO, Camillo de Lellis,in Dizionario degli Istituti di Perfezione, II,Roma 1974-1997, coll. 5-10; ad essi si deve laparticolare devozione a S.Rosalia. Una statua li-gnea che rappresenta S.Rosalia morente pressoil monte Pellegrino, si conserva nella chie sa de-dicata alla S.Croce e S.Camillo a Genova. F.FRANCHINI GUELFI 2001, pp. 22 – 29.

25 S. Nicola da Tolentino nasce a S. Angeloin Pontano nel 1245 e muore a Tolentino nel1305; nel 1446 è canonizzato da papa Euge-nio IV.

26L’abito nero dell’Ordine Agostiniano a cuiappartenne, con un sole raggiato sul petto (le-gato al fatto secondo cui ancora fanciullo ebbe lavisione dell’ostia raggiante come il sole al mo-mento della elevazione, durante una celebra-zione eucaristica), il libro, il crocifisso e ilgiglio.

27 M. BURRESI, S .Nicola salva Pisa dallapestilenza, 1420 circa, tempera e oro su tavola,165 x 80cm, Pisa, chiesa di S. Nicola, scheda n.5, in Immagine e Mistero. Il Sole, il Libro, ilGiglio. Iconografia di S. Nicola da Tolentinonell’arte italiana dal XIV al XX secolo, catalogodella mostra della Città del Vaticano, M. GIAN-NATIEMPO LOPEZ (a cura di), Roma 2005, p. 3.

28 L. MARSHALL, S. Nicola salva Empolidalla pestilenza, Tempera su tavola, 150 x 64cm, Empoli, chiesa di S. Stefano, scheda n. 6 inGIANNATIEMPO LOPEZ 2005, p. 36.

29 Scheda n.57 in GIANNATIEMPOLOPEZ 2005, p. 162; è probabile che la tela siastata commissionata come ex-voto dal padre An-tero.

30 ROMANO da CALICE, 2004, p.76.

31 T. GAZZOLO, La Chiesa di Nostra Si-gnora del Carmine a Genova, 1997 (ristampa)Geno va, p. 44; D. SANGUINETI, Dome nicoPiola e i pittori della sua “casa”, Soncino2004, scheda I.28, fig. 161, p. 384.

32 “[…] a’ padri carmelitani di S. Anna v’àpinto quello di San Simeon Stok che riceve loscapulare”C.G. RATTI, Storia de’pittori, scul-tori ed architetti genovesi – secondo il mano-scritto del 1762, M. MIGLIORINI (a cura di),Genova 1997, p. 47.

33 “si decise di gettare i morti nelle fonda-menta del costruendo Albergo dei Poveri”, RO-MANO da CALICE, Genova 2004, p.87.

34 E. PARMA, De peculio meo…Arte e pietànell’assistenza genovese, in Genua abundat pe-cuniis-Finanza,commerci e lusso a Genova traXVII e XVIII secolo, catalogo della mostra, Ge-nova 2005, pp. 137-149.

35 E. CASTELLI, L’Immacolata con i SSGio vanni Battista, Giorgio, Lorenzo e Ber nardo,scheda n.48, in G. ROTONDI TERMINIELLO,Il patrimonio artistico di Banca Carige – dipintie disegni, Cinisello Balsamo 2008.

36 Ansaldo muore nel 1638 e non potè,quindi, illustrare la “Grande Peste” di Genova;F. FRANCHINI GUELFI, La devozione am bro-siana in Liguria: la storia, le immagini in Am-brogio- Le immagini e il volto. Arte dal XIV alXVII secolo, catalogo della mostra di Milano,Venezia 1988, pp. 144-145. L’illu strazione chequi si riproduce è stata cortesemente concessadall’Archivio Fotografico della Banca CARIGES.p.a., che ringrazio.

37 Un pittore genovese del Seicento. AndreaAnsaldo 1584-1638. Restauri e confronti, cata-logo della mostra, F. BOGGERO ( a cura di ),scheda n. 5, fig. n. 23 e nota n.8.

38SOPRANI 1674, p.250; il dipinto è citatoanche nella monografia dedicata a DomenicoFiasella come certamente esistito, sebbene almomento della pubblicazione del libro non sene conoscesse l’ ubicazione. P.DONATI, Dome-nico Fiasella “ il Sarzana”, Genova 1974, p. 50.

39 ROMANO da CALICE, 2004, p.236.40 Ms. Campasso in ROMANO DA CA-

LICE 2004, p.11.41“Non vi è più distinzione, né di sesso né di

merito: uomini, donne, secolari e religiosi, ric-chi e poveri di ogni conditione, tutti alla rinfusa“. ANTERO M. MICONE DA S. BONAVEN-TURA, Li lazzaretti della Città, e Riviere di Ge-nova nel MXCVII, Genova 1658; in ROMANOda CALICE, 2004, p.95;“non pativano peròscrupoli quando avevano da prendere li pen-denti dalle orecchie di qualche donna”AN-TERO M. MICONE DA S. BONAVENTURA,Li lazzaretti della Città, e Riviere di Genova nelMXCVII, Genova 1658; in ROMANO da CA-LICE, 2004, p.

42 CASONI, 1831, .p. 73.43 “Una vecchia estenuata, di spaventevole

aspetto […] Getterà per la bocca fiamma affu-

micata […] le mammelle asciutte e assai pen-denti[…] colla mano destra mostri di spargereserpenti” figurazione dell’ ERESIA secondoRipa, p. 350, tomo II; la descrizione dellaPESTE in pp. 375-376, tomo IV; C. RI PA, Ico-nologia, accresciuta da Cesare Orlandi, Perugia1764-1767.

44 Suor Maria Francesca Raggi, testimoneoculare in quanto monaca nel convento di S.Brigida, nel popoloso quartiere di Prè, scrive:Nelle strade pubbliche si trovano monti di ca-daveri, anche pascolo degli stessi porci; in RO-MANO da CALICE, 2004, p. 93.

45 Le cure ai bubboni attuate dai barbieri-chirurghi si rivelarono molto dolorose e presso-ché inutili; “ Passando al medicinale; dico inprimo luogo che in questo contagio si è perprova conosciuto che i medici non avevano al-cuna cognizione del modo di curare questa sortedi morbo” CASONI, 1831, p. 59.

46 CASONI, 1831, p. 36 . 47 CASONI, 1831, p. 47.48 CASONI, 1831, p. 37.49 PADRE MAURIZIO DA TOLONE, Trat-

tato politico da praticarsi ne’ tempi dipeste….composto dal Padre Mauritio da ToloneSacerdote Cappuccino…,Genova 1661 (ed.cons. Genova 1721) ; vedi qui anche nota 11; laRepubblica di Genova donò, quale ringrazia-mento per il sollecito aiuto prestato dai PadriCappuccini francesi, una statua raffigurante laVergine, conservata nella Cattedrale di SaintMaximin, FRANCHINI GUELFI, 2003, p. 171.

50 L. GEORGET, in Pierre Puget (Mar si glia1620-1694). Un artista francese e la cultura ba-rocca a Genova, catalogo della mostra di Ge-nova, Milano 1995, pp. 112-117.

51 Alessandro Sauli fu beatificato nel 1742e canonizzato nel 1904; nella basilica di Cari -gnano anche un quadro attribuito a DomenicoFiasella e datato 1630, illustra l’opera del ve- scovo..

13 . Pierre Puget, San Sebastiano.Genova, Basilica di Santa MariaAssunta di Cari gnano

14 . Pierre Puget, Sant’AlessandroSauli, Genova, Basilica di SantaMaria Assunta di Carignano

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L’oratorio versa oggi in uno stato ditotale e vergognoso abbandono. Posto aldi fuori del paese, nei pressi del mulino,quasi sulla riva del fiume Piota pocoprima che affluisca nell’Orba, esso si pre- senta come un semplice edificio qua dratodi circa 4x4 metri, con una fac ciata a ca-panna in cui si apre l’accesso ad arco,chiuso da un precario cancello ed espo-sto alle intemperie, che anno dopo annonon mancano di cancellare gli affreschidella facciata e rovinare quelli interni piùprossimi all’entrata.

Molto rovinata è, infatti, la figura diSan Cristoforo sulla facciata, a sinistradell’entrata, di cui resta scarsamente vi-sibile soltanto la forma della testa (non lafisionomia), l’aureola, parte del bastonee la poco più leggibile testa di Cristo sullaspalla del grande Cristo foro, il quale,come a Lerma e a Molare, trova una spie-gazione nella vicinanza della struttura adun corso fluviale.

Nonostante siano alquanto rovinati,gli altri affreschi della facciata, al di sopradell’entrata, sono ancora parzial mente

leggibili; tuttavia, se si confronta lo statoattuale con le fotografie presenti nel vo-lume di Sergio Basso1, scattate nel 1972si può avere un’idea della rapidità di de-perimento degli stessi.

Il timpano è diviso in tre scomparti:al centro è raffigurata la Crocifissione, af-fiancata a sinistra da un santo diffi -cilmente identificabile (forse SanFran cesco) e dalla Vergine (molto rovi-nata), a destra da San Sebastiano2 e SanRocco.

Sullo sfondo si stagliano le mura mer-late di Gerusalemme, nello scom parto didestra si trovano il lacerto di un San Bar-tolomeo spellato e una Santa Martire dicui si vede soltanto un pezzo di un ra-metto di palma; nello scomparto a sini-stra si possono intuire un santoilleggibile3 e un Santo vescovo.

Nei volti dei santi, soprattutto SanBartolomeo, San Rocco e San Sebastianosono riconoscibili i tratti del maestro diLerma, sia nell’analogia dei lineamenti,sia nel modo di lumeggiare gli zigomi ela fronte.

L’interno è interamente affrescato econtiene – si può dire – una summa ditutti i santi rappresentati nella zona e ve-nerati dal popolo fin dal Medioevo. Essivengono rappresentati stanti, frontali e ri-gidi nei movimenti, per lo più privi diqualsiasi caratterizzazione ambientale,rientrando così nell’ambito di quella co-municatività solenne, immediata e pret-tamente simbolica di cui si è già parlato,distanti invece dalla narratività minuziosadelle Storie della Passione di Lerma edalla loro carica emozionale e coinvol-gente.

Mentre sugli intradossi dell’arco diaccesso sono presenti a sinistra Sant’A -gostino e a destra un vescovo bene -dicente molto abraso che secondo Ben soè da identificare con San Gregorio, le pa-reti interne sono divise in scom parti, chedescriverò brevemente.

La parte sinistra è la più rovinata ed èdivisa in tre scomparti grandi e quattropiccoli.

Nel primo scomparto grande partendoda sinistra si trova Santa Lucia, che regge

L'oratorio di San Rocco al Mulino a Silvano d'Orbadi Gabriella Ragozzino

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con la mano destra il piatto coi propriocchi e con la mano sinistra la palma delmartirio; l’elegante veste a melograni ri-corda lo sfondo dell’edicola di SantaLimbania a Castelletto d’Orba, mentre ilvolto della Santa risulta ormai illeggibile.

Nel secondo riquadro un santo moltoabraso con saio e pastorale, che Basso in-dica come San Bernardo, ma che se-condo Benso è San Benedetto; nel terzotrova posto San Martino4 con la spada esul dorso di un cavallo, nell’atto di rico-prire col proprio mantello una piccola fi-gura nuda che gli sta accanto; vi è qui untentativo di descrizione paesaggistica,con l’erba in primo piano5 e sullo sfondole colline solcate dagli aratri e coltivate afilari, forse di vigneti, così come si pre-sentano ancora oggi quelle che si vedonoalle spalle dello stesso oratorio.

Nel quarto scomparto vi è una nicchiacon cornice in pietra scolpita, attorno allaquale sono affrescate figure di piccole di-mensioni: in alto si trova un angelo cheregge due candele, a destra San Gia-cinto6, e sotto due riquadri con S. Allexiuse San Rocco, che mostra la piaga sullacoscia e tiene in mano il bastone, al qualesembrerebbe essere attaccato il cappello7.In entrambi si vede un paesaggio stiliz-zato e semplice, con le colline e qualchealbero. Basso ritiene che queste due fi-gure siano cronologicamente più avan-zate, ma personalmente trovo che essisiano coerenti con il resto della decora-zione, bilanciando insieme agli altri ri-quadri piccoli con l’Angelo e SanGiacinto, lo spazio occupato dai trescomparti più grandi. Inoltre, le due cor-nici in cui sono inscritti San Rocco e San-t’Alessio non presentano salti di intonacorispetto alla porzione di parete sopra-

stante. Infine, un esempio analogo di unacollocazione autonoma di due santi inpiccoli riquadri rettangolari, si trova nellachiesa di San Giacomo a Gavi8.

Nella parete di fondo, la parte cen-trale al di sopra dell’altare è oggi vuota,poiché un tempo conteneva, entro unasontuosa cornice anch’essa scomparsa,una tela raffigurante la Madonna con ilBambino tra i Santi Rocco e Sebastiano.Al di sopra dello spazio vuoto, un fregioa racemi verdi e fiorito di rosso9 contieneal centro un medaglione con la scrittaIHS, che si ritrova anche nella chiave divolta scolpita al centro del soffitto.

Sulla sua sinistra si trova San Fran-cesco, relativamente ben conservato, conun libro nella mano destra, la croce nellasinistra ed uno sfondo bicromo verde erosso. Questo santo rivela tangenze evi-denti con il Maestro di Lerma per il mododi lumeggiare il volto e per la descrizionenitida delle dita della mano.

Sul lato destro è ben conservataun’immagine di San Domenico di Guz-man, il quale è rappresentato con il tradi-zionale abito bianco sormontato dalmantello nero e reca nella mano destra unlibro e nella sinistra il giglio; in mezzoalla fronte risplende la stella. Anche inquesto caso, la fisionomia del santo, congli occhi grandi e ben delineati nella pal-pebra inferiore, ricorda molto da vicino iSanti, il Pantocratore e la figura dellaMadonna col Bambino presenti nell’ab-side di San Giovanni al Piano a Lerma.

La decorazione della parete di destraè divisa in cinque scomparti verticali, didiversa grandezza poiché seguono laforma a lunetta della parete.

Sulla sinistra si trova San GiovanniBattista10, con il cartiglio “Ecce agnus

dei” e un libro chiuso con sopral’agnello tenuto nella mano sinistra; leaffinità con l’analogo soggetto nellapieve di Lerma sono lampanti. Su unosfondo vegetale, il santo indica con lamano destra l’agnello tenuto sul libronella sinistra, il quale regge tra lezampe uno stendardo di uguale fattura.L’anatomia del santo di Silvano è pres-soché identica a quella di medesimosoggetto a Lerma11, si veda ad esempioil modo di rendere gli incavi dello

sterno e la sottolineatura marcata delleclavicole.

Anche l’abbigliamento e la caduta deipanni sono pressoché gli stessi, cosìcome il modo di reggere il libro e il car-tiglio; quest’ultimo riporta lo stessomodo di fare i riccioli che si ritrova neicartigli retti dal bue nella volta del catinodi Lerma e le sue volute sono esattamentespeculari a quelle del cartiglio retto dal

Nella pag precedente, Maestro diLerma, Parete sinistra, da sinistra adestra: S. Agoatino, S. Lucia, S. Mar-tino, Arcangelo Gabriele, tabernacolo,S. Domenico ,

Maestro di Lerma, Parete difondo, S. Francesco, S. Domenico,Silvano d’Orba, Oratorio di SanRocco al Mulino

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profeta nel riquadro sotto a quello occu-pato da Amos.

Al fianco si trovano Sant’Antonio daPadova con un giglio in mano e nell’altraun libro con sopra un cuore ardente12 epoi Sant’Antonio Abate13 in atto benedi-cente, che impugna un pastorale cui sonoappesi i campanelli. Gli attributi di San-t’Antonio Abate sono il maialino e/o ilbastone con i campanelli che servivano arichiamare i maiali: la tradizione vuoleinfatti che dal grasso del maiale venissericavato un unguento che curava l’herpeszoster, comunemente detta fuoco di San-t’Antonio. La diffusione di questa malat-tia era alta nel medioevo, tanto che gliabitanti dei villaggi erano obbligati a nu-trire i maiali destinati a questo scopo, iquali giravano liberamente per le stradeed erano di proprietà comune. Di conse-guenza l’iconografia di Sant’Antonioabate era certamente una fra le più rico-noscibili anche da parte del volgo, dimo-strando come queste pitture siano diimmediata lettura, con una comunicati-vità molto diversa da quella “a più livellidi intelleggibilità” che invece caratteriz-zano le Storie della Passione.

Accanto si trova un Santo pellegrinocon bordone ricurvo e libro (forse SanGerolamo) ed infine un Santo vescovobenedicente con anelli d’oro, identificatosia da Basso sia da Benso come S. Giu-liano.

Sulla volta a crociera sono dipinti iquattro Evangelisti, uno per ogni vela eciascuno col proprio simbolo, nell’atto discrivere appoggiati su dei banchi ricurvi

(perché seguono l’andamento del sof-fitto) e separati l’uno dall’altro da costo-loni in rilievo e dipinti a spina di pescecon strisce bianche e rosse o verdi e az-zurre. San Giovanni e San Marco sono sufondo rosso, mentre San Matteo e SanLuca sono su fondo giallo arabescato14.Ognuno di essi aveva anche un cartiglio,ormai illeggibile. Al centro della volta sitrova una chiave circolare scolpita condei motivi simili a raggi e al cui centrosono incise le lettere del trigramma IHS;da essa partono i quattro costoloni scol-piti e dipinti che poggiano su altrettantemensole scolpite incastrate negli spigoliparietali15.

Sergio Basso ritiene che lo stile deidipinti non presenti tratti marcatamenterinascimentali, ma che sia invece da ri-condurre all’arte tardo-gotica lombarda einscrive la decorazione dell’oratorio in unperiodo che va dal 1450, anno della ca-nonizzazione del frate rinnovatore del-l’Osservanza, cui si legano i trigrammi diCristo, agli inizi del XVI secolo, cui rife-risce gli affreschi della pieve di SantaMaria di Campale a Molare e quelli diSan Giovanni al Piano di Lerma16.

La costruzione dell’oratorio vieneascritta al 1446, per volere della famigliaAdorno, feudataria di Silvano d’Orba, maBasso ipotizza che essa sia da collegarsicon la figura di Caterina Adorno – di cuile due formelle scolpite ed inserite nellafacciata recanti le iniziai A e C sarebberotestimonianza – posticipandone dunquegli interventi decorativi agli anni attornoal 1523, anno della morte di Francesco

Adorno, rettore della pievania. La figura di Caterina Adorno, cano-

nizzata nel 1578 e conosciuta come SantaCaterina da Genova, quale committentedell’opera o come destinataria dell’operavotiva, trova un ampio ri scontro se sitiene conto del fatto che Caterina, appar-tenente alla potente fa miglia genovesedei Fieschi e nipote del papa InnocenzoIV, in seguito alla morte del padre, vicerédi Napoli, venne data in sposa nel 1463 aGiuliano Adorno, il quale possedeva Sil-vano d’Orba già dal 1460. Dopo un pe-riodo di dissipatezza provocata da unmatrimonio infelice, Caterina ebbe unavisione del Cristo e da quel momento sidedicò ad opere di pietà: in principio siimpegnò nell’ospedale di Pammatonedove

«Incontravasi co’ lebbrosi, incanche-riti, impiagati, rifaceva loro il letto; net-tatali colle proprie mani da ogniimmondezza e lordura; portava seco so-vente a casa gli abiti sucidi di quei me-schini, ed esattamente pulitali da schifosianimaletti, dei quali talvolta erano ri-pieni, restituendoli poi netti e mondi allistessi poveri, senza che mai, per ispecialprovvedimento del Signore, neppure unodi quegli immondi vermiccioli si attac-casse alle sue vestimenta»17.

In seguito anche il marito venne con-tagiato dalla smania misericordiosa dellamoglie e si fece terziario francescano,aiutando Caterina nelle sue opere dipietà, per poi morire nel 1497.

Caterina sopravvisse fino al 1510,anni durante i quali, si dedicò anche alla

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stesura di testi asce-tici18.

Per quanto ri-guarda la cronolo-gia degli affreschidi San Rocco alMulino e dei suoilegami con quelli diLerma e Castelletto,essi sono da rite-nersi realizzati neiprimi due decennidel XVI secolo,ossia nel periodo incui le famiglie degliSpinola di Lerma egli Adorno di Sil-vano e Castelletto d’Orba si fecero piùstretti, creando i presupposti per scambiculturali e transiti di persone ed artisti al-l’interno dei rispettivi territori19.

NOTE1 S. Basso, Dove l’Orba si beve il

Piota, Ovada, 2006, p. 198.2 R. Benso sottolinea l’affinità tra que-

sto santo e quello presente nella chiesa diSan Rocco a Felizzano, riferibile alla “tem-perie d’arte lombarda e vagamente bosilie-sca”. R. Benso, Gli affreschi dellacappelletta di San Rocco al Mulino di Sil-vano d’Orba, in “Urbs, silva et flumen”,XVII, 3-4, 2004, p. 213.

3 Secondo Benso si tratta della Madda-lena. R. Benso, Gli affreschi della cappel-letta di San Rocco al Mulino di Silvanod’Orba, in “Urbs, silva et flumen”, XVII,3-4, 2004, p. 212.

4 Benso accosta la figura di San Martinoa quella presente nella pieve di Sant’Inno-cenzo a Castelletto d’Orba, che presentastilemi riconducibili alla cultura ligure. R.Benso, Gli affreschi della cappelletta diSan Rocco al Mulino di Silvano d’Orba, in“Urbs, silva et flumen”, XVII, 3-4, 2004,p. 213.

5 Il modo di fare l’erba, a strisce paral-lele orizzontali su fondo giallo, è identicoa quello già citato presente nell’Oratoriodella Purificazione a Castelletto d’Orba,nella scena del Bacio di Giuda.

6 Per Benso si tratta di San Domenico.7 Cuttica di Revigliasco riferisce erro-

neamente che i santi di questi due riquadrisiano da identificarsi come due San Rocco,ma il santo di sinistra ha un’iscrizione checonferma il suo nome, ossia S. Alessio. G.Cuttica di Revigliasco, La pittura delle

pievi nel territorio diAlessandria dal XII al XVsecolo, Cinisello Bal-samo, 1983, p. 169.

8 Si veda il piccoloaffresco raffigurante SanRocco e San Sebastianoche si tro va in controfac-ciata.

9 Come quello che in-corniciava almeno supe-riormente le Storie dellaPassione in San Giovannial Pia no a Lerma.

10 Già Benso nota l’af-finità esistente tra questosanto e l’omologo nellapieve di Lerma, aggiun-gendo che esso rimandaanche alle pitture della

chiesa della Santissima Trinità a Grondona,entrambi ascritti dall’autore alla correntedei Bosilio. R. Benso, Gli affreschi dellacappelletta di San Rocco al Mulino di Sil-vano d’Orba, in “Urbs, silva et flumen”,XVII, 3-4, 2004, p. 214.

11 Dico ciò nonostante mi sembra certoche il santo di Lerma sia stato ridipinto,poiché esso è manchevole di quelle om-breggiature che caratterizzano tanto co-stantemente l’opera del Maestro di Lerma.Il braccio del San Giovanni, infatti, apparecompletamente monocromo e la sua piat-tezza stona col resto della produzione.

12 Cuttica di Revigliasco identifica que-sta figura come “un frate”. G. Cuttica diRevigliasco, La pittura delle pievi nel ter-ritorio di Alessandria dal XII al XV secolo,Cinisello Balsamo, 1983, p. 169.

13 Benso indica per questo santo un ri-mando agli affreschi più antichi presentinella chiesetta di Santa Trinità da Lungi aCastellazzo Bormida, nonché alle Storie diSant’Antonio Abate presenti nel palazzo ve-scovile di Mondovì. R. Benso, op. cit., p.214.

14 Il motivo dell’arabesco mi sembra si-mile a quello che adorna lo sfondo dellaMadonna nell’edicola di Santa Limbania aCastelletto d’Orba.

15 Lo stesso motivo di fasce verdi-az-zurre a spina di pesce si ritrova nel sot-tarco d’accesso.

16 S. Basso, op. cit., pp. 202-203.17 Anonimo, Vita di santa Caterina Fie-

schi Adorno, 1737 (ed. Genova, 1981), p.70, cit. in M. Rescia, Una santa a Silvanod’Orba, Caterina Fieschi Adorno, in “No-vinostra”, XXVIII, 4, 1988, p. 25.

18 M. Rescia, Una santa a Silvanod’Orba, Caterina Fieschi Adorno, in “No-vinostra”, XXVIII, 4, 1988, pp. 22-27.

19 Un approfondimento sulla cronolo-gia di questi affreschi si presenterà in unarticolo successivo.

26 Nella pag. precedente Maestro diLerma, Parete destra, S. Giovanni Bat-tista, S. Antonio da Padova, S. AntonioAbate, S. Gerolamo, S. Giuliano, Sil-vano d’Orba, Oratorio di San Rocco alMulinoA pag. 24, in basso, S. Giovanni Batti sta.

In basso, Maestro diLerma, I quattro evan-gelisti, Volta, Sil vanod’Or ba, Ora to rio diSan Rocco al MulinoA lato, S. Giulia no ve- sco vo e martire

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I boschi di castagno (Castanea sa-tiva) sono molto diffusi nel nostro Ap- pennino, ricoprono fittamente moltiversanti dei nostri monti evidenziando unpaesaggio forestale assai carat teristico.

Nei mesi invernali, con le foglie ca-dute e con la presenza della neve, si fapiù appariscente e suggestivo lo spetta-colo dei molti castagni con i loro fusti la-terali (polloni) che, ricacciati dallaceppaia, si innalzano dritti verso il cielo.In tarda primavera ammiriamo l’esplo-sione dei numerosissimi pennacchi giallo– oro delle infiorescenze maschili e si dif-fonde nel l’ambiente l’intenso profumodel polline. In estate il poderoso apparatofogliare raggiunge il massimo sviluppo ec’è grande ombrosità nel bosco.

All’inizio dell’autunno i ricci, ormaiformati e gonfiati, cadono sul terrenoaprendosi per far uscire le lucenti castagne.

Nel contempo assistiamo alle incan-tevoli colorazioni fogliari: con la degra-dazione della clorofilla le fogliediventano dapprima di un bellissimogiallo – vivo, poi assumono colorebronzo – dorato e infine arancio – mar-rone quando cadono.

Tuttavia quando ci addentriamo neicastagneti notiamo poca “naturalità” ese questi nostri boschi sono trascuratidall’uomo c’è disordine vegetazionale.Più volte quello che si presenta alla no-stra vista è desolante: alberi con pol-loni malati o secchi in piedi, nei terreniacclivi castagni sradicati e ribaltati,polloni spezzati lungo la loro altezzaper il fenomeno del “disgelo veloce”della galaverna, presenza dei rovi eanche della liana vitalba (la “liosa”)che ricopre e disturba seria mente lagermogliazione degli alberi.

Il castagneto è un bosco “debole”che può subire facilmente l’invasionedella robinia e del pinastro e nellaparte alta delle nostre valli viene già ri-conquistato dal faggio.

È quindi un tipo di bosco che non siarrangia da sé quando viene abbando-nato dalla cura dell’uomo e si inselva-tichisce perché fu introdotto, propagatoe propriamente coltivato dai nostri an-tenati montanari.

Recentemente su questa precaria si-tuazione forestale è appena arrivato circa3 – 4 anni fa, l’insetto galligeno del ca-stagno (Dryocosmus kuriphilus), unimenottero cinipede originario della Cinache provoca la formazione di numerosegalle su foglie, germogli e infiorescenzee così compromette lo sviluppo vegeta-tivo della pianta.

Il Dryocosmus è considerato l’insettopiù nocivo del castagno a livello mon-diale.

Storia del Castagno

Il castagno è una specie di antica ori-gine Terziaria, si ritiene sviluppato nelPliocene (da 5 a 1,8 milioni di anni fa)come risulta dalla datazione delle suetracce fossili ritrovate in Francia e qui danoi dalle sue foglie fossili dei depositi diS. Giustina di Sassello. Poi durante leglaciazioni del Pleistocene (da 1,8 mi-lioni a 12.000 anni fa) fu sterminatocome gran parte della flora arctoterziaria.

Successivamente il nostro albero, par-tendo dai rifugi del sud (Sicilia. Grecia,Anatolia) riuscì a riconquistare solo pic-

cole parti del territorio europeo perchésovrastato dalle competizione di speciemolto più adattabili a costituire, secondoi fattori ecologici, boschi e foreste inmodo “naturale”, ovvero le querce e ilfaggio.

Questa evoluzione vegetazionale è di-mostrata dai progressi dei vari metodi distudio di tipo geologico, palinologico efisico: analisi di rocce sedimentarie, ri-cerca e analisi di pollini, metodo di data-zione radioattiva del Carbonio C14.[PALINOLOGIA è la scienza che studia i re-perti pollinici fossili, dopo averli prele-vati nei vari strati del terreno conopportune tecniche di “carotaggio”.

Per le piante con i fiori il polline (gra-nulo pollinico) costituisce la cellula ma-schile che deve andare a fecondarel’ovocellula femminile; ogni antera difiore libera milioni di granuli polliniciche si diffondono nell’aria e poi si accu-mulano nel terreno. La parete esterna delgranulo è caratteristica di ogni specie eresiste nei sedimenti anche per migliaiadi anni].

Molto esplicativi sono i risultati di ri-cerche palinologiche effettuate nel- l’Appennino Settentrionale: dai restifossili e dai reperti pollinici si è docu-mentata la presenza del castagno in-torno al 5500 a. C, cioè primadell’arrivo dell’uomo, ma con lo stu-dio dei vari profili pollinici, in succes-sione nel tempo, comparati anche coni reperti di polline estratti nelle vici-nanze di siti archeologici, si è anche ri-levato un rapido aumento del castagnoin epoca storica. Pertanto il castagno siè propagato soprattutto per opera deinostri antenati, interessati alle castagnecommestibili e alla varie utilizzazionidel suo legno, nonché dalla grande ca-pacità che questo albero manifesta nel-l’emettere polloni dalla ceppaia dopoil taglio e di svilupparsi bene in pochianni.

Inoltre una importante ricerca suiquerceti e sui castagneti della nostrapenisola (PIGNATTI E. e S, 1987) ana-lizzando la distribuzione del casta-gneto concepita come intera comunitàvegetale, e/o come sistema complessoautoorganizzante, considerando cioè i

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Vegetazione dell'Ovadese: il castagno.di Renzo Incaminato

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fattori ecologici principali (luce, acqua,temperatura, continentalità, pH del suolo,nutrienti) ha rilevato che la distribuzionedel castagno non può essere messa in re-lazione ad un fattore ecologico o a unacombinazione di fattori ecologici, quindiè presente dove è stato deliberatamenteintrodotto dall’uomo.

Per di più la vegetazione del sottobo-sco del castagneto è caratterizzante soloin senso ambientale e non vegetazionale:non esiste sottobosco tipico perché lepoche specie vegetali riscontrabili sonoquelle del rovereto e delle faggete e seabbandonato il bosco di castagno“evolve” nel tempo, attraverso l’operadegli arbusti pionieri delle roveri e delfaggio, verso questi nostri boschi naturali.

Dunque il castagno è probabilmenteindigeno, ma in condizioni naturali essosarebbe raro e localizzato, è un alberopoco vagile e poco capace di liberarsi innatura, la sua grande diffusione è recenteed è dovuta all’uomo. Furono i Romaniche ne importarono la coltura dalla Gre-cia e dalla Anatolia. Qui da noi nell’Ap-pennino Settentrionale, intorno a XI e alXII secolo, si iniziò a tagliare buona partedei querceti a rovere e delle faggete perdiffondere la coltura del castagneto.

Civiltà del castagno

Il legame tra l’uomo e il castagno sifece forte… Tutto era utile di questo al- bero!

Attorno alle cascine si svilupparonoattività silvocolturali che consentivanouna economia agromontana abbastanzabuona ma regolata, come sempre nellaStoria, da ingiustizie sociali come lagran de debolezza contrattuale dei conta-dini. I proprietari davano in affitto i ca-stagneti e il canone era costituito daiquantitativi di castagne secche e moltevolte i contratti erano di “colonia parzia-ria” secondo cui i due terzi del prodottoandavano al padrone, al contadino an-dava comunque la legna e il foraggio.Come al solito per molte famiglie conta-dine era garantita una “povertà digni-tosa”.

Molta importanza aveva il castagnetoda frutto. Questo non era certo un bosco:

ampie radure erbose, prive di arbusti in-termedi, con alberi di castagno tozzi econ la chioma maestosa. Vennero sele-zionate piante che fornivano frutti conparticolari caratteristiche di pregio e sipropagarono con la tecnica dell’innesto.Quasi ogni località aveva i suoi ecotipi ele sue cultivar di castagne domestiche. AMarcarolo si selezionò la ROSSINA chedava castagne adatte alla produzione difarina dopo l’essicazione, ma anche altrecultivar come la BUNINA e la VERDONA ot-time secche; in valle Stura si coltivavanomolte varietà come la VEZZULLANA chedava castagne grosse e tondeggianti, laROSSARINA, la PELOSA; in valle Orba dif-fuse erano le varietà PELOSA, MORETTA,SIRIA.

Attorno a questi frutteti c’erano gliestesi boschi governati a ceduo che do-vevano fornire il legname con i tagli pe-riodici dei polloni dalla ceppaia.Intercalati nel bosco ceduo si conduce-vano con molta cura tratti di castagnetoa fustaia con grossi alberi ad unico fusto.

Il legno di castagno, ottimo da lavo-rare e resistente alle intemperie per il suocontenuto di tannino (composto chimicodalle grandi proprietà antisettiche), si pre-stava a moltissimi usi: mobili, attrezziagricoli e utensili domestici, copertura ditetti con le tavolette (le scandole),gronde, canaletti d’irrigazione, arnie perle api, ecc. Come combustibile il legnosprigiona un buon rendimento caloricodopo almeno due anni dal taglio, ma ve-niva ampiamente utilizzato per produrrecarbone. In alcune radure boschive detteciazze si allestivano le carbonaie con ipali accatastati più o meno a cono, si co-priva tutto con terra e al centro di questaformazione si accendeva il fuoco che do-veva carbonizzare il legname molto len-tamente per diversi giorni (la carbonaiasembrava un piccolo vulcano). Verso lafine del 1800 dal legno si estraeva il tan-nino necessario per la concia delle pelli evi fu, sempre a partire da quegli anni, lagrande produzione e il commercio di palidritti e robusti (le carasse) per i vignetidel Monferrato.

La ceduazione era attenta, scrupolosacon rilascio di castagni porta seme (ma-tricine) e con turni regolari che potevano

effettuarsi anche ogni 10 – 15 anni nellaforma breve. [Il castagno è un albero chedopo il taglio evidenzia ottima capacità evigore nel ricacciare i giovani pollonidalle ceppaie e li fa crescere bene inpochi anni. Permette così di ottenere le-gname con turni di taglio più brevi diquelli del faggio e molto più brevi diquelli delle querce].

Il bosco e il frutteto erano consideratiun bene prezioso e il loro sfruttamentoera severamente disciplinato dagli Statutidi ciascuna Comunità. Le piante coltivateper i frutti venivano opportunamente po-tate nella chioma e tutti i castagneti eranotenuti “puliti” con l’asportazione dal sot-tobosco delle foglie secche (servivanocome lettiera nelle stalle), dei ricci spi-nosi e degli arbusti indesiderati.

Anche il bosco ceduo con polloni ma-turi (dopo 8 – 10 anni dal taglio) fornivabuone castagne “selvatiche” (sono le ca-stagne che raccogliamo oggi!) e ovvia-mente si otteneva ogni anno abbondanteproduzione di frutti dai castagneti a fu-staia. Per molti secoli le castagne hannocostituito, in alternativa a pochi altri cibi,l’alimentazione invernale dei montanarima anche di tanti umani nelle borgate enelle città… [Se esaminiamo il loro con-tenuto in amidi e zuccheri (43%), in pro-teine (3,5%), in grassi (1,8%), in acqua(41%) e in sali minerali (abbondante è ilpotassio mg 500 su 100 grammi) e in vi-tamine, le castagne sono un alimento tut-t’altro che tra scurabile…].

La raccolta impegnava interi nucleifamigliari e iniziava ai primi di ottobre esi protraeva per tutto il mese. Per conser-vare i frutti era necessario disidratarli equesta operazione avveniva in caratteri-stici casolari costruiti con pietra e fango:gli aberghi o seccatoi.

L’abergo, formato da due piani, erasituato vicino alla cascina o anche nellostesso castagneto. Sul pavimento si fa-ceva un fuoco lento e continuo e supe-riormente c’era un piano a griglia fatto diassicelle e rami intrecciati per far passarecalore e fumo, su questa “griglia” veni-vano poste le castagne fino ad uno spes-sore di 60 cm. Era utile bruciare ceppi dicastagno adatti a sprigionare fiamme pic-cole per far sì che i frutti, opportuna-

A pag 27: Tavola botanica sulcastagno del Fenaroli (1945).A pag 29 : Tavola sulla lavora-zione delle castagne ricavatada "Associazione Amici di Sassello" (1992)

A pag 30- 31: 1) Strada OlbicellaPiancastagna: il castagneto a fineestate; 2) Cascina Moglioni (sededell'Ecomuseo Parco di Capanne diMarcarolo): castagno da frutto cultivar Verdona; 3) Costad'Ovada, castagneto a fustaia inautunno;

4) Rossiglione, Alta Val Berlino: coloriautunnali del castagneto condotto aceduo; 5) Infio rescenze maschili e femminili (piccoli ricci) del castagno;6) Galle del cinipide Dryocosmus sui piccioli fogliari. 7) Colori autunnali del

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mente mescolati, seccasserobene in un tempo di 30 – 40giorni. Suc cessi va mente i fruttiposti in un robusto sacco di tela,venivano battuti su un grossoceppo, per far andare via la buc-cia e ottenere le cosiddette “ca-stagne bianche” che siconservavano bene per dei mesie potevano essere trasformate infarina.

A partire dai primi anni del1900 “questo mondo” iniziòlentamente a declinare.

Durante la prima GuerraMondiale gran parte dei boschifu tagliata in modo sconsideratoe quindi distrutta per fornire le-gname agli apparati bellici. Peril timore del mal dell’inchio-stro, causato da un fungo paras-sita e per la crescente domandaindustriale del tannino si proce-dette al taglio dei castagnetinegli anni 1920 – 1930. Poi ar-rivò, intorno al 1938, un’altramalattia fungina: il cancro cor-ticale e ci fu la tragedia della secondaGuerra Mondiale. Dal 1950 in poi laforza lavoro si spostò nelle industrie dellecittà… e i nostri monti si spopolarono.

Il castagneto oggiRimangono delle testimonianze della

nostra “Civiltà del Castagno” come i ru-deri degli aberghi e di molte cascine. Inomi abergo e piancastagna, moltousati per appellare località e cascine, per-mangono oggi frequentemente in ognivalle del nostro Appennino (qualcheesempio: rio dei Tre Aberghi, contri-buente del rio Visone che scorre tra To-leto di Ponzone e la frazione Valle diMorbello, Bric degli Aberghi, sopra illago Badana in alta val Gorzente; la fraz.Piancastagna, nel comune di Ponzone,tra le valli Orba ed Erro).

Possiamo incontrare dei castagneti dafrutto che nonostante l’abbandono evi-denziano ancora le loro ca rat te ri stichecon alberi monumentali. I più suggestivisi trovano nelle seguenti località: cascinaNespolo (situata praticamente alla basedel versante sud del m. Tobbio, poco

prima del guado sul rio Gorzente), ca-scina Moglioni (vicino al Sacrario dellaBenedicta, è sede dell’Ecomuseo delParco di Capanne di Marcarolo), localitàReitta (in val Berlino, versante sud delm. Colma), cascina Bardotto (versantenord del m. Colma), località Frate Santo(a Costa d’Ovada, sulla vecchia strada S.Lucia – Termo), località la Col (in fraz.Cimaferle di Ponzone, in valle Erro).

In valle Orba è da segnalare presso lafraz. S. Luca di Molare, il castagnetodetto “il granaio”, oggi è inselvatichito,ma fino a qualche tempo fa producevaannualmente molti quintali di pregiate ca-stagne e la vendita di queste “rendevamolto” come il grano.

Quando attraversiamo questi luoghidurante le nostre passeggiate ed escur-sioni, siamo indotti ad acquisire senti-menti di ammirazione e di riconoscenzasulla vita e sul lavoro che facevano i no-stri vecchi montanari.

Il castagneto abbandonato e inselva-tichito presenta oggi una situazione di de-grado forestale.

La pratica della ceduazione intensivae ripetuta con turni di taglio brevi (ogni

10 anni circa) ha portato ad ungenerale indebolimento dell’ap-parato radicale, sempre più vec-chio e già per sua natura pocoprofondo con le ceppaie che, acausa dei tagli ricorrenti eranocostrette a spremere risorseenergetiche a scorte d’amido perricacciare e ricostituire il fusto ela chioma.

Così l’abbandono della ce-duazione ha portato ad avere perogni ceppo 5,6 o anche più pol-loni altissimi e pesanti su di unapparato radicale debole e su-perficiale, pertanto nei terreni inforte pendenza l’azione prolun-gata delle piogge, del peso dellaneve e di forte vento causano ilfrequente scalzamento e sradica-mento delle ceppaie e il ribalta-mento degli alberi.

Anche il fenomeno della ga-laverna, con l’accumulo dighiaccio sui rami, seguito da unbrusco aumento della tempera-tura, può far spezzare più o

meno a metà gli altissimi polloni, fa-cendo conferire al bosco “selvatico” unaspetto desolante.

Queste brutte situazioni sono anchefavorite dalla concorrenza tra i fusti chesi alzano sempre più per conquistare laluce e che vicinissimi non sviluppano unasufficiente chioma, con ulteriore loro in-debolimento e facile attacco del cancrocorticale, così riscontriamo polloni mortiin piedi che poi si inclinano e cadono eanche le ceppaie meno vigorose allalunga disseccano.

Circa il fungo Cryphonectria (Endo-thia) parasitica, agente del cancro cor-ticale, possiamo notare già da qualchetempo che per ogni ceppaia ci sono 4 o 5polloni sani e in diversi casi i polloni ma-lati hanno totalmente o in parte rimargi-nato e cicatrizzato le ferite.

Si è difatti verificata una autoregola-zione naturale perché il parassita fungoè stato a sua volta attaccato da un virus!Pertanto oggi se si effettuano tagli fitosa-nitari con asporto della necromassa edelle parti malate il nostro albero mani-festa resistenza a questa micosi corticale.

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castagneto a Olbicella; 8)Esplosione di pennacchi maschili ai primi di giugno;9) Piancastagna di Ponzone,aspetto invernale di castagnoda frutto in ottime condizionivegetative; 10) Ceduo di

castagno, attaccato dal cancrocorticale, evidenziante i pollonisani; 11) Le lucenti castagne neiricci aperti; 12) Costa d'Ovadastrada del Termo: aspetto invernale del castagneto.

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Il castagneto deve essere continua-mente accudito. Possiamo difatti incon-trare un certo ordine solo nel boscocondotto a fustaia con alberi distanziatiper consentire lo sviluppo della chioma onei boschi cedui regolati oggi con turnodi taglio non breve (sui 15 anni e più) edeffettuati con rilascio di matricine agruppi (ovvero qua e là come una scac-chiera si rilasciano gruppi di castagni adunico fusto con ampia chioma.

Una ottima tecnica di valorizzazionedel bosco è quella del diradamento se-lettivo che ha l’obiettivo di costituire unceduo a turno prolungato con rinnova-zione mista di castagni ricacciati dallaceppaia e di castagni nati da seme per ilrinnovo del patrimonio genetico (la ri-produzione sessuale da seme permetteagli individui di rispondere ed adattarsialle variazioni ambientali che si verifi-cano con il trascorrere del tempo…).

Ma su tutti questi buoni propositi dicura dei boschi è appena arrivato il ca-priolo che solo recentemente ha reso persé appetibili i giovani polloni dalla primaannata dal taglio e le plantule nate daseme; prima per la presenza del tannino lirifiutava come cibo… ma la fame è lafame! Così aumenta ulteriormente l’irre-sponsabilità di chi ha voluto e introdottoquesto ungulato mangiatutto nella nostrazona poco più di 20 anni fa.

Inoltre per una buona armonia del ca-stagneto lo spesso strato di foglie cadutedovrebbe formare una lettiera e decom-porsi lentamente in humus, ma questaevoluzione del rinnovamento del sotto-bosco è oggi frequentemente ostacolatadalle “arature” del cin ghialoide porca-stro, un ibrido allevato e ripetutamenteimmesso per scopi venatori…

E il nuovo regolamento forestale dellaRegione Piemonte (L.R. n. 4/2009)?Detta le nuove regole per i tagli boschivi,con l’obiettivo di favorire la produzionedurevole di legno e le altre importantifunzioni di interesse generale svolte daiboschi; disciplina con buone intenzionil’argomento, ma troppe norme sono bu-rocratiche e creano confusione.

Dovrebbe essere più esplicativo sultaglio del castagneto e sulla sua condu-zione a ceduo o a fustaia e sull’impor-

tanza della cura continua che l’uomodeve fare su questa categoria forestale…

Comunque per la sistemazione idro-geologica dei versanti in forte pendenza,nei Piani Forestali Territoriali occorreràseguire le regole dell’Ecologia Vegetale,trasformando i castagneti puri, che se ab-bandonati sono ecosistemi fragili e insta-bili, in fustaie di altre latifoglie come larovere, l’acero di monte, l’orniello e ilfaggio, ovvero le assenze arboree che ve-getavano sui nostri monti prima dell’in-troduzione del castagno.

Ecosistema del castagneto

Un castagneto abbandonato e inselva-tichito è comunque un ecosistema bosco.Al suo interno sono presenti tanti esseriviventi che instaurano preordinate catenealimentari tra loro.

Lo spesso strato di foglie cadute vieneattaccato dai Bioriduttori (Batteri, Fun-ghi saprofiti, larve di insetti, ecc.) per es-sere decomposto molto lentamente inhumus (questa lentezza è probabilmenteprovocata dalla presenza del tannino cheè un composto antisettico).

Le specie di Funghi simbionti con leradici del castagno sono numerosissime,il castagno è forse l’albero che più di ognialtro sviluppa micorrize con i Funghi.Molte sono le specie di Insetti e degli Uc-celli che vivono in questo bosco e benrappresentati sono gli Anfibi e i Rettili.

Ed è per questo che i castagneti sonoconsiderati un importante habitat per laconservazione della BIODIVERSITÀ e rien-trano, ai sensi delle direttive europee,nella rete Natura 2000 come habitat “Fo-reste di Castanea sativa” (Cod. NATURA

2000, 9260) compreso tra gli habitat del-l’allegato I della direttiva HABITAT.

Tuttavia dal punto di vista della Dina-mica della Vegetazione tendono ad evol-vere, attraverso la fase intermedia dellaspecie pioniere verso boschi misti (nondimentichiamoci che i nostri antenati tol-sero roveri e faggi per coltivare il casta-gno).

La flora del sottobosco non è tipicama è essenzialmente quella vegetazionaledel rovereto e della faggeta. Tro viamo lepiante vernali cioè quelle a fioritura pre-

coce, poiché in primavera la copertura fo-gliare della chioma dei castagni non è an-cora completata e si permette alla lucesolare di raggiungere il terreno. Tra lebellissime fioriture spiccano il campa-nellino (Lencojum vernum), gli anemoni(Anemone hepatica, A. nemorosa), ildente di cane (Erytronium dens canis),la primula e la scilla (Scilla bifolia). Piùavanti intorno a fine maggio, quindi giàall’ombra degli alberi fiorisce, a gruppidi individui, il bellissimo mughetto(Conval laria majalis) e questa rara piantaè presente in piccole stazioni lungo i ver-santi nord del monte Colma e del monteBeigua. Tra i pochi arbusti notiamo lespecie compagne del faggio: il brugo(Calluna vulgaris), l’agrifoglio (Ilexaquifolium), il mirtillo e le felci presentilungo i rigagnoli di acqua.

In molti castagneti abbandonati e ma-lati, o tagliati sconsideratamente, notiamoil sorgere delle infestazioni dei rovi edella vitalba e la facile invasione dellarobinia e del pinastro. [La robinia in-vade e si propaga con successo e moltovigore e sostituisce il castagno; il pina-stro nasce molto bene da seme, ma poidopo questo successo iniziale frequente-mente si ammala, vivacchia e ultima-mente muore].

Negli ultimi anni assistiamo al giustoritorno del faggio e tutto questo è suc-cesso per la funzione pioniera di arbusticome il brugo e l’agrifoglio, come pos-siamo osservare in alta val Berlino e inalcuni tratti dei versanti nord di Costa La-vezzara e del monte Beigua. In pochicasi, ma molto esplicativi sull’azionedella Dinamica della Vegetazione Natu-rale, è stato possibile constatare come sulcastagneto abbandonato è oggi ricom-parsa la rovere dopo il lavoro svolto daisuoi arbusti pionieri brugo, erica arborea,ginepro.

La fauna dei nostri castagneti pre-senta ovviamente notevole affinità conquella delle faggete e dei rovereti. Tragli Anfibi è frequente incontrare, nellegiornate piovose e buie, o di notte, la sa-lamandra giallonera, il rospo comunee la rana temporaria (animali in fortediminuzione). Ben rappresentati i Rettilicon il comune biscione biacco e il ra-

L’autore ringrazia il Corpo Forestale dello Stato - ComandoStazione di Ovada - le informazioni sul Cinipide galligeno.

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marro mentre la vipera che ama le ra-dure dei boschi è in forte diminuzioneperché predata da uccelli come il ghep-pio, la poiana e l’aquila biancone.

Notevole è la presenza di Insetti edegli Uccelli loro predatori come il pet-tirosso e nelle radure dopo la ceduazionedel castagno si vedono e si sentono il suc-ciacapre e l’usignolo.

Le castagne sono cibo per piccoliMammiferi: è molto facile vedere il to-polino di bosco, il moscardino, il ghiroe lo scoiattolo tutti predati dalla faina eda qualche volpe.

Dietro indicazioni delle Direttive Eu-ropee (Natura 2000), per questi equilibridelle catene alimentari nell’ecosistemabosco e per la Biodiversità (ovvero tantediverse forme di vita che consentono unbuon funzionamento dell’ecosistemastesso), si è finalmente orientati a diver-sificare la struttura del castagneto omo-geneo con la creazione di raduretemporanee o permanenti tra gli alberi ereintroduzione di altre specie forestali ca-paci di integrare l’alimentazione deglianimali e/o di fornire supporti per la ni-dificazione come i sorbi, il nocciolo e isoliti faggio e rovere.

Per garantire la presenza di biomassaal suolo alcune disposizioni forestali, tral’altro comprese nel contestato L.R.4/2009 del Piemonte, consigliano di man-tenere qua e là degli alberi morti e/o contronchi marcescenti (evento molto facileper il castagno), tali da favorire la ric-chezza delle varie forme degli Inverte-brati Bioriduttori (insieme ai Batteri eFunghi saprofiti) e quindi dei numerosiVertebrati dipendenti da questi per la loroalimentazione.

Il castagno e tutte le altre specie fore-stali dovrebbero rinnovarsi da seme mala presenza odierna dei caprioli, voracis-simi di plantule e di germogli ostacola epuò interrompere il funzionamento del-l’ecosistema.

Caprioli e cinghialiPare che il capriolo sia arrivato per

opera dell’Homo cacciatores var moder-num, come espediente per fare inquadrareil nostro Appennino ligure - piemontesenel Comparto Alpino e/o Zona Alpi e ot-tenere così vantaggi nei Nuovi Regola-menti Venatori… il tutto è statoaccompagnato da relazioni scientifiche diBiologi della selvaggina (Homo procac-ciatoris ecologicus) secondo cui questoungulato ha riconquistato il suo areale ap-penninico e impreziosito così con la suagraziosa presenza il nostro ambiente na-turale… prima non c’era perché circa 500– 600 anni fa, i nostri avi affamati si man-giarono tutti i caprioli (!?)… fa dannisolo se in soprannumero (!?)… calcolodella sua presenza tollerabile in numeroN capi ogni 100 ettari… gestione (!?)delle specie basata su accurati censi-menti, caccia di selezione e piani di ab-battimento…(!?) il recupero di questabellissima specie è dovuto a reintrodu-zioni (!?) con soggetti provenienti dalCanton Ticino, dal Vallese, dal Tarvi-siano, dalla Slovenia e anche dalla Dani-marca (!?).

Il capriolo è un erbivoro dai grandiappetiti: per il suo stomaco proporzional-mente piccolo deve cibarsi continua-mente, anche 10 – 12 volte al giorno! Oraaver inserito questo energico mangiatuttoproprio nel I° livello della PIRAMIDE ALI-

MENTARE dei nostri boschi, quello tra iVEGETALI VERDI (PRODUTTORI) e gli ERBI-VORI (CONSUMATORI di I° ordine) è statotutt’altro che coscienza ecologica… Maci dicono che sta arrivando l’amico lupo,formidabile predatore del capriolo cheriequilibrerà l’ecosistema (!?) e che stacomparendo anche l’aquila (!?).

Intanto tutti possiamo notare l’azionediffusa del brucamento, operato da pochicaprioli, sui giovani polloni (quelli vigo-rosi e ben formati) che la ceppaia dell’al-bero (quercia, faggio e da poco anchecastagno) aveva ricacciato nella primaannata dal taglio; la ceppaia reagisceemettendo apici secondari di modesto vi-gore vegetativo che difficilmente vannoverso l’alto e, se anche questi non ven-gono divorati dai caprioli, sono meno ro-busti e producono un cuscinetto frondosobasso, inadatto a produrre adeguata Fun-zione Cloro filliana necessaria a nutrire laceppaia e l’apparato radicale, e l’alberocosì si ammala e può morire…

Inoltre è molto raro vedere una plan-tula nata da seme che si sviluppa natural-mente; se il bosco non si rinnova fraqualche tempo morirà.

Pertanto la presenza del capriolonella nostra zona con i danni che questaspecie arreca al patrimonio forestale su-pera di gran lunga il valore del concettodi biodiversità, inteso come incommen-surabile ricchezza di specie animali chepopolano i nostri boschi.

Ritenere che aumenta la Biodiversitàcon gli anelli trofici capriolo – lupo e ca-priolo - aquila, oggigiorno costituisce sol-tanto un “alibi scientifico” di parte, indifesa della incoscienza di chi lo ha in-trodotto e cerca ancora di giustificarsicon gli assurdi piani di assestamento fau-nistico in campo forestale…

Il lupo poi, in un ambiente fortementeantropizzato, si orienterà volentieri versola predazione di greggi di pecore e dimucche come si è già puntualmente ve-rificato… (comunque sono 2500 anni,cioè da quando è arrivato l’uomo sui no-stri monti, che il lupo assale preferibil-mente greggi e armenti).

Anche il cinghialoide porcastro,ibrido tra cinghiale e maiale, impediscecon le sue “arature” la Bioriduzione

33A lato, I tre tipi di nutrizione dei funghi nel bosco (disegno di Aurora Falco)

micorrize

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dello strato di foglie cadute e dei ramettisul terreno, non si forma la lettiera delsottobosco e anche così non c’è rinnovodel sottobosco.

Oggi è raro vedere un castagneto conle foglie compattate sul terreno dallatarda primavera alla prima neve dell’au-tunno – inverno: tutto il fogliame è rovi-stato e messo all’aria dai cinghialoidi.

E guarda caso questi porcastri, nono-stante il loro sterminio venatorio autun-nale, compaiono “puff!” dal nulla innumerosi e grossi esemplari all’iniziodell’estate successiva… (immissione pe-riodica e/o annuale).

Qualche “scienziato” afferma che learature dei cinghialoidi nei boschi sonobenefiche perché possono permetterel’ossigenazione delle radici degli alberi(!?) e causare anche la germinazione deisemi (!?).

Castagno e Funghi.Oltre al mal dell’inchiostro (qui da

noi poco presente) e al cancro corticale(praticamente oggi trascurabile nel casta-gno selvatico curato, ma ancora efficacenella zona d’innesto nei nuovi castagnida frutto) possiamo osservare altri funghiparassiti nel nostro ecosistema casta-gneto: la lingua di bue (Fistulina haepa-tica) che provoca la carie e il marciumedel legno, il chiodino o famigliola (Ar-millarea mellea) che può causare il mar-ciume radicale, il mal bianco(Microsphaera quercina) ovvero quellapatina bianca presente sulle giovani fo-glie dei polloni, ricacciati nella prima an-nata dopo il taglio.

Vi sono poi i funghi saprofiti che sinutrono della parti morte della piantacome il famoso peven (Clitocybe nebu-laris) che appunto sfrutta il legno dei ra-metti e dei piccioli fogliari caduti sulterreno e la stessa famigliola che attaccail legno morto. Questi funghi saprofitisono importanti per la funzione di Biori-duzione nel ciclo della materia del bosco.

Ma nel nostro ecosistema castagnetosono estremamente importanti le SIMBIOSI

MICORRIZICHE che il nostro albero svi-luppa tra le sue radici e i funghi.

Simbiosi micorrizichecastagno – funghi

Il castagno è un albero che sviluppamolto bene la sua attività nutrizionale dalsuolo attraverso un intenso rapporto diSIMBIOSI MICORRIZICA con moltissime spe-cie di funghi superiori.

C’è grande cooperazione tra le radicidel nostro albero e i funghi: nella ECTO-MICORRIZA il fungo, che avvolge come unmantello i peli radicali, permette alle ra-dici un migliore e più efficace assorbi-mento di acqua e dei sali minerali (linfagrezza) e riceve da questa i nutrimentiprodotti nelle foglie dalla FUNZIONE CLO-ROFILLIANA cioè carboidrati e sostanze or-ganiche di crescita (linfa elaborata). Inquesto modo l’apparato radicale del ca-stagno, che è poco sviluppato e superfi-ciale, è reso formidabile per la suafunzione del nutrimento dal terreno etutto questo può anche dare spiegazionisulla grande vitalità del nostro albero:longevità, crescita celere, grande capacitàdi ricacciare i polloni dalla ceppaia dopoil taglio e turno di ceduazione che si puòripetere per qualche secolo.

Alcune osservazioni micologiche, re-lative ai funghi più apprezzati e più ri-cercati come gli ovuli (Amanitacaesarea) e i porcini (Boletus aereus, B.edulis) ci permettono di confermare l’im-portanza di questa SIMBIOSI MUTUALISTICA

per la vitalità del castagno.La comparsa dei corpi epigei dei fun-

ghi (gambo e cappello) ovvero i corpi de-stinati alla funzione riproduttiva dellaspecie (sotto il cappello si formano lespore fungine) dipende innanzitutto dallabuona circolazione della linfa negli alberie poi dai vari fattori ecologici del bosco:imbibizione di molta acqua nel sottobo-sco e nel terreno dopo abbondante piog-

gia, temperatura, durata del dì (le ore diluce solare), spessore dello strato fogliareche condiziona la lettiera e la formazionedi humus, arature dei cinghialoidi porca-stri, stato di salute degli alberi, stato dibosco curato o abbandonato, anno di ve-getazione dopo il taglio per i boschicedui, venti prolungati freddi da nord op-pure i venti violenti e caldi da sud che in-fluiscono sulla TRASPIRAZIONE FOGLIARE

e quindi sulla circolazione della linfadegli alberi… tutti questi fattori sullabuona proliferazione dei miceli funginisotterranei che incontrandosi for merannoun “glomerulo” (embrione fungino) quasisuperficiale che poi uscirà fuori nellaforma di gambo e cappello (i funghi vi-vono tutto l’anno sottoterra nelle micor-rize presso le radici degli alberi, ciò chevediamo e raccogliamo sono i loro corpiriproduttivi sporigeni).

Orbene quando il castagneto abban-donato è molto malato e sta seccandoanche se si verificano le condizioni eco-logiche ottimali, non compaiono piùovuli e porcini perché si sta già verifi-cando la necrosi di buona parte delle ra-dici con scomparsa anche dellemicorrize. Se però c’è un singolo casta-gno molto malato e morente (o pochi al-beri) all’interno di un bosco in discreto ebuono stato di salute, possiamo osservareintorno ad esso abbondante presenzaprima dei boleti e poi degli ovuli: il fungoha attuato una “fuga generale” dalle mi-corrize (alla “si salvi chi può”) per venirefuori a riprodursi prima della morte del-l’albero ospite.

Più o meno lo stesso fenomeno si ve-rifica nella stessa annata del taglio del ca-stagneto: il fungo “intuisce” la situazionedi shock e allora produce molto micelioper scappare fuori e riprodursi. Poi nelle

34 A lato, Costa d'Ovada: castagnata (2001) alla Saoms.

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2 - 3 annate successive al taglio scomparela presenza epigea dei funghi… tutto ilvigore linfatico delle micorrize radicali èimpegnato per alimentare la ceppaia e lacrescita dei giovani polloni ricacciati…Ma già 3 – 4 anno dopo il taglio ricom-paiono gli ovuli (e ovviamente altre spe-cie di funghi) e questo è indice di unaulteriore buona micorrizazione e il boscoancor giovane ci appare sano, rigogliosoe ben formato.

Dopo circa 8 - 9 anni dal taglio con ipolloni ben sviluppati compaiono anche iporcini con optimum verso il termine delturno breve cioè 12 – 15 anni dal taglio.

La presenza epigea di ovuli e porcinidiminuisce molto nel castagneto maturo eombroso con spesso strato di foglie nelsottobosco, soltanto il porcino bertone(Boletus edulis) conserva più a lungo lacapacità di uscire fuori dal terreno per ri-produrre le sue spore. Probabilmente inostri apprezzati funghi diventano dor-mienti nelle micorrize radicali e atten-dono negli anni le condizioni ecologichepiù favorevoli per formare in superficie iloro corpi sporigeni.

Arriviamo pertanto sempre alla stessaconclusione sul castagneto introdotto epropagato dall’uomo, coltura che deveessere continuamente accudita, diradatae tenuta “pulita” nel sottobosco. E in pro-posito ricordiamoci la frase dei nostrinonni: “Una volta, quando i boschi di ca-stagno erano governati e puliti, i funghivenivano ogni anno, anche se non pio-veva tanto, e si vedevano bene perfino dauna certa distanza”.

Patologie dovute agli insettiIn questo nostro ecosistema molte

sono le specie di insetti che parassitiz-zano il castagno causando varie patolo-

gie con danni più o meno quasi trascura-bili. Danni di una certa rilevanza sonoperò dovuti agli attacchi delle larve dellafarfalla Cydia (Cydia splendana) e diquelle del coleottero balanino (Curculioelephas) che si sviluppano all’internodelle castagne rendendole non comme-stibili. Le loro infestazioni sono per for-tuna riguardanti almeno una piccolapercentuale del prodotto anche se in qual-che anno si è arrivati al 40 – 50%.

Considerata l’abbondanza di casta-gne, il rimedio è la vecchia pratica della“novena”: si immergono per più giorni(almeno nove) le castagne in acqua, sicambia l’acqua quotidianamente, si im-pedisce così alle piccole uova di questiinsetti di svilupparsi e per di più i fruttiinfettati vengono a galla, quindi si tol-gono e si distruggono.

Purtroppo tra gli Insetti patogeni è giàarrivato un nuovo e vero flagello.

Nelle operazioni di recupero dei ca-stagneti da frutto e di rilancio della ca-stanicoltura italiana, nel tentativo dirimediare all’attacco di malattie funginecome il cancro corticale, si è introdottomateriale propagativo (marze per l’inne-sto e altro) di specie di castagno orientali,resistenti al fungo, provenienti dalla Cinae dal Giappone.

Ed ecco che insieme a questo mate-riale è arrivato anche il cinese cinipidegalligeno (Dryocosmus kuriphilus), se-gnalato per la prima volta in Italia (e inEuropa) nel 2002 in alcune valli a sud diCuneo. Rapidamente questo imenotterosi è diffuso in tutta la zona castanicola ita-liana, qui da noi è comparso nel 2007sulle alture tra Molare e Costa d’Ovada(località Faiello e località Termo) e aRossiglione. È comunque presente qua elà in zone ancora circoscritte; è stato se-

gnalato anche in val d’Orba (Olbicella em. Beigua) e in val Lemme. Il cinipidegalligeno attacca anche i nostri castagniselvatici inducendo la formazione di galleprimaverili di diverso tipo su germogli,foglie e infiorescenze compromettendo inmodo grave lo sviluppo vegetativo del-l’albero e la sua fruttificazione.

I servizi fitosanitari e forestali regio-nali sono messi a dura prova e si sta ten-tando di contrastarlo con l’immissionedel suo limitatore e parassitoide delle suelarve (Torymus sinensis) cioè attuando lalotta biologica, anche questo parassitoideproviene dall’Estremo Oriente.

Così con gli effetti della globalizza-zione mondiale continua la storia tral’uomo e il castagno… qui nella nostraCiviltà Occidentale era iniziata nell’An-tica Grecia, per i Greci le castagne eranoritenute le ghiande di Zeus.

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35A lato, Il ciclo dei funghi simbionti nel sottobosco (disegno di Aurora Falco)

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Qui pareva che i vecchi c’avesseropiacere a raccontare storie di spiriti. E ilpiù contamusse di tutti era proprio Tognude Nègge. Lì a casa sua non facevanoaltro che parlare di vedere e di sentire. Ecosì anche quelli dell’Albergo. Uno diloro, che si chiamava Nicola, faceva bol-lire i vestiti di quelli che si pensava fos-sero stregati e magari, meschini, eranocosì soltanto perché avevano patito lafame.

Bisognava portarglieli all’Ave Mariae lui si faceva dare un franco e mezzo -due franchi per tutta quanta la funzione.Diceva che così gli stregati avrebberoquetato, perché bollendo i vestiti sareb-bero bollite anche le streghe.

Un’altra cosa era quella dei fuochi: sidiceva che fossero anime che giravanoperché avevano bisogno di preghiere, eallora si consigliava ai parenti di far direloro delle messe. Io mi ricordo che aiFadi, una cascina qui di fronte, un annoerano morti il padre e due figlie e pocodopo tutti avevano cominciato a dire chedi notte ci si vedevano tre fuochi. Io, perla verità, mi sono alzato tante volte anotte fonda per fare un viaggio con ilcarro o per andare a caccia, ma di fuochinon ne ho mai visto. Anzi, una volta chetornavo a piedi da Campo, il sentieropassava proprio là sotto, un po’ perchéinfluenzato da quelle voci e un po’ per-ché era una notte scura come la pece adun certo punto ho sentito un sibilo som-messo e allora sono rimasto paralizzatodalla paura.

Per fortuna dopo il primo momentoho cercato di ragionare e guardando me-glio, nonostante fosse buio pesto, hovisto che si trattava di una biscia che, at-torcigliata a una radice, faceva quelverso. Ma se per caso fossi scappato onon avessi avuto il coraggio di guardaresarei rimasto con la paura addosso che cifosse chissà quale mistero. Ma ritor-nando ai fuochi, devo dire che il fratellodelle due ragazze morte ai Fadi, si chia-mava Giacomo, se mi ricordo bene, è an-dato da don Pedemonte, il parroco delleCapanne, per far dire delle messe per isuoi morti, raccontandogli questa storiadei fuochi. E don Pedemonte, c’ero iopresente, dopo aver scrollato un po’ la

testa gli ha risposto: - Sta’ a sentire, Gia-como: far dire delle messe ai nostri mortiè sempre una bella cosa, garantito. Ma tuhai quattro figli, e allora pensa prima adar da mangiare a loro che i morti non nehanno bisogno.

Persino il prete dunque non ci cre-deva, che pure c’avrebbe avuto anche in-teresse. Ma è che erano troppo grosse eun prete non le poteva accettare. - Ep-pure la Chiesa ne ha accettato anche dipiù grosse, pensi un po’ alla questionedelle streghe. Centinaia di povere donnemandate sul rogo soltanto perché qual-cuno diceva che gettavano addosso ilmalocchio. Lei ne sa niente delle ma-sche? - Oh sì che lo so, e anche quella èuna brutta storia. - Del resto a Lermac’abbiamo Mascatagliata, che di sicuroc’ha a che fare con la storia delle ma-sche. Forse si riferisce ad una masca cheè stata uccisa proprio lì. - Può essere, puòessere. Ma forse c’è un’altra spiega-zione. - E sarebbe? Francesco non ri-spose, ma spostò la sedia come sevolesse avvicinarsi. Poi, con il viso chesfiorava quello di G., cominciò a rac-contare sottovoce: - Lei lo sa dov’è la ca-scina Giasséttu? È proprio qui vicino, avalle della strada che porta alla Leviatta.Sono ormai tanti anni che non ci abitapiù nessuno e il bosco se l’è bell’e man-giata. Bene. Deve sapere che agli inizidell’800, o forse del ‘700, ma tanto contapoco saperlo, ci viveva una famiglia disette persone, padre, madre e cinquefigli.

Un giorno uno della Leviatta chestava tornando da Lerma ha incontrato lìdove ci sono ora le sorgenti dell’acque-dotto un agnello che pascolava sul bordodella strada. Subito non ci ha fatto caso,ma dopo un po’ si è girato e ha visto chel’agnello lo seguiva. Non solo, si è ac-corto anche che lo guardava e che ab-bassava gli occhi come un cristianoappena lui si girava. Ha continuato cosìper quattro o cinque volte, poi ha provatoanche a rincorrerlo, ma appena hasmesso l’agnello ha ricominciato a se-guirlo. Allora, stufo di perdere tempo, luiè andato avanti per la sua strada senzapiù preoccuparsi della bestia. Sicché,quando è arrivato a casa l’agnello gli era

sempre dietro. Ora si da il caso che lìfuori ci fossero i suoi figli che, appenahanno visto l’agnello, gli sono corsi in-contro tutti contenti. Lui, d’istinto,avrebbe voluto dirgli di non toccarlo, chec’aveva qualcosa dentro che glielo sug-geriva. Ma poi non se l’è sentita di to-gliere ai suoi figli quella gioia e allora liha lasciati fare, anche se quello sguardodell’agnello che continuava a fissarlonon lo lasciava star tranquillo.

Finché, ad un certo punto, l’agnello èsgusciato via di mano ai ragazzi e, dopoavergli dato un’ultima occhiata, è sparitodentro il bosco. L’uomo è rimasto lì unattimo interdetto, ma poi, visto che do-veva ancora dare recatto alle bestie, è an-dato giù nella stalla e ha finito perdimenticare tutto. E così la serata è pas-sata normalmente, due fondine di mine-stra e poi a letto. Sembrava tuttotranquillo. Ma all’improvviso, sarannostate circa le due. Sara, la più piccola, s’èsvegliata con un urlo tremendo. SubitoGiommo, si chiamava così quell’uomo,e sua moglie sono corsi a vedere co-s’aveva e l’hanno trovata in uno statoche faceva paura: aveva gli occhi bell’erovesciati, come quando si spella un co-niglio, e perdeva un mucchio di bavadalla bocca. Non c’era verso di calmarla,e sua madre se la stringeva inutilmenteal petto.

Ha provato anche a segnargli i vermi,ma non c’è stato niente da fare, lo spagonon si muoveva. Allora Giommo è corsoalla Merlina a chiamare una donna chefaceva un po’ di medicona. Quando que-sta è arrivata, la bambina s’era un po’calmata, ma aveva sempre gli occhi ro-vesciati a quel modo. La donna l’ha visi-tata e quando ha visto in che condizioniera ha cambiato colore. - Io non possoguarire questa bambina, non ce la faccio- e mentre lo diceva le tremavano le lab-bra come se avesse paura. Poi, scusan-dosi in modo esagerato, ha detto chedoveva andare a casa e neanche il tempodi risponderle che era già sulla strada. Ementre se ne andava continuava a farsidei segni della croce e ogni tanto si vol-tava indietro con una faccia che parevaspiritata. Giommo era disperato, e alloraha deciso di prendere su la bambina e di

Il vecchio della Fuìa: storia di Mascatagliatadi Gianni Repetto

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portarla a Lerma dal dottore. Ma quandoè arrivato alla Cappellana la bambina haavuto come un attacco e alla fine è rima-sta lì senza fiato, fredda come il marmo.Giommo ha provato in mille modi a chia-marla e a scrollarla, ma non c’è statoniente da fare, lei non rispondeva. Poi leha messo una mano sul cuore e s’è resoconto che non le batteva più e che forseera morta. Subito non ci voleva credere econtinuava a scrollarla, urlando che pa-reva un insensato. Ma poi s’è fatto co-raggio e, stringendo il suo fagottino, haripreso la strada di casa.

Aveva da poco passato la Fuìaquando ha visto spuntare dal bosco unagnello e, nonostante fosse buio, haavuto subito la sensazione che si trattassedi quello del giorno prima. Allora, dallarabbia, ha cominciato a tirargli delle pie-tronate e l’agnello scappava, ma poi sifermava a guardarlo, e Giommo era con-vinto che lo guardasse sempre in quelmodo. Ma c’aveva la bambina morta trale braccia e allora ha ripreso la stradaverso la Leviatta. Immaginarsi la trage-dia quando è arrivato: sua moglie sem-brava matta e tirava degli urli che lasentivano fino alle Capanne.

I bambini piangevano disperati eGiommo non sapeva più cosa fare percalmarli. Per fortuna poi si sono addor-mentati e Giommo ha potuto pensare asua moglie che, poverina, continuava ascaldare il corpo della figlia con la spe-ranza che si riprendesse. Intanto eranovenuti quelli della Merlina a vedere checos’era successo e quando la mediconaha saputo che la bambina era morta haavuto come un mancamento; poi, appena

s’è ripresa, ha chiamato Giommo e gli hadetto con le lacrime agli occhi che forselei lo sapeva di chi era la colpa; che queisintomi erano quelli che faceva venire lamasca e che quindi la bambina dovevaessere stata stregata.

Quando poi Giommo le ha raccontatola storia dell’agnello allora non ha piùavuto dubbi e ha detto angosciata che bi-sognava subito cercarlo se si voleva evi-tare che la masca facesse degli altriincantesimi. Non aveva neanche finito didirlo che gli uomini hanno preso su i fal-cetti e sono partiti alla ricerca del-l’agnello. Hanno battuto il bosco palmoa palmo e all’alba, quando ormai nonsperavano più di trovarlo, il più giovanedi quelli della Merlina l’ha visto fermosopra un bricchetto.

Allora ha cominciato a gridare chel’aveva trovato e senza stare a pensarcidue volte ha cercato di agguantarlo. Mal’agnello saltava come un capretto, eogni volta che il ragazzo gli era quasi ad-dosso spariva come per incanto e poispuntava più in là con quel suo sguardoda cristiano. Il giovane ormai era marciodal sudore a son di seguirlo e non avevaneanche più l’idea di dove fosse daquanto aveva camminato. Sicché, ad uncerto punto, stanco come una bestia, s’èfermato e con le ultime forze che avevagli ha tirato addosso il falcetto.

L’ha fatto con rabbia, senza nem-meno pensare a quello che faceva; mavolere o non volere è riuscito a centrarloin una gamba, proprio all’altezza dell’at-taccatura con il busto. Ma non ha fattoneanche in tempo a vedere venir fuori ilsangue, che l’agnello è di nuovo sparito

e non c’è stato più verso di trovarlo. Al-lora il ragazzo pian pianino ha ripreso lastrada di casa e, da tanto che si era al-lontanato, c’ha messo più di due ore pertornare. Quando è arrivato alla Merlina isuoi cominciavano a stare in pensiero equalcuno era già partito per andare a cercarlo.

Subito ha raccontato quello che gliera successo, e appena la medicona hasentito che era riuscito a colpire l’agnelloha tirato un urlo da far accapponare lapelle. Poi, quasi piangendo, ha detto: -Se la masca è qui vicino, faremo presto ascoprirlo. Bisogna stare attenti a tuttiquelli che hanno una ferita fresca sullaspalla -. E non ha voluto aggiungerealtro. Quelli della Merlina sono corsi adirlo a quelli della Leviatta e insiemehanno cominciato a fare il giro delle ca-scine. Ci arrivavano con una scusa e,dopo essersi guardati bene attorno percapire se c’era qualcuno ferito, andavanoda un’altra parte. Sono andati anche alGiassétto, e quando stavano già per venirvia hanno visto uscire dalla stalla Mu-mina, la figlia più grande, con il bracciosinistro al collo e una fasciatura sullaspalla.

Il ragazzo della Merlina è rimastocome fulminato a vederla, perché oltre-tutto gli pareva che avesse lo stessosguardo dell’agnello e che anche adessolo guardasse come per provocarlo. Alloraha fatto cenno agli altri di andare via e,quando sono stati ben ben lontani dallacasa, gli ha raccontato la sensazione cheaveva provato alla vista della ragazza.Quando poi sono tornati alla Merlina haripetuto tutto alla medicona e lei, conti-nuando a farsi dei segni della croce, hadetto che di sicuro Mumina era la masca.- E ora cosa facciamo? - le ha chiestoGiommo della Leviatta. Lei ha chiuso gliocchi per qualche secondo, poi, tempe-standosi le braccia di graffi, ha detto: -Bisogna bruciarla -. Tutti subito si sonoguardati sbalorditi e ognuno aspettavache l’altro dicesse qualcosa; ma nessunoaveva il coraggio di parlare, che un contoè dirle queste cose e un altro farle. Al-l’ultimo è intervenuto Gigi, il capofami-glia della Merlina: - Possiamo aspettarlaun giorno nel bosco oppure quando va a

37A lato, il Santuario di S. Maria della Rocchetta di Lerma

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pascolare le vacche. Poi a bruciarla cipenso io -. L’ha detto sicuro, come chiaveva capito fino in fondo la necessitàdel rimedio. Ma la medicona ha scrollatola testa e poi, con un ghigno, ha ag-giunto: - Non basta bruciare lei, bisognabruciare tutta la casa -. A queste paroleanche Gigi, che pure era parso deciso, èdiventato bianco come un calzino e nonsapeva più dove tenere gli occhi.Giommo allora ha detto: - Mi sembra unacosa esagerata - e mentre lo diceva con-tinuava a inghiottire saliva. Allora la me-dicona si è alzata e, spalancando gliocchi che sembrava le uscissero dallatesta, ha detto con voce roca: - Giommo,pensa alla tua bambina. La masca non haavuto compassione di lei. E tu, Gigi, staiattento, che la prossima potrebbe essereuna delle tue.

Gli uomini non sapevano più cosa ri-battere, ma era anche difficile prendereuna decisione. Bruciare una casa contutta una famiglia dentro, si rende contoche cosa vuoi dire? Se lo venivano a sa-pere le guardie c’era da finire dritti in ga-lera per tutto il resto della vita. Ma lamedicona insisteva, se volevano farequalcosa dovevano decidere allora.Dopo sarebbe stato troppo tardi. Hannodeciso dunque di farlo, e sarebbero statiGiommo e Gigi i due capifamiglia, a darefuoco. Doveva sembrare una disgrazia,come ne erano già successe tante su que-sti monti. Nessuno sarebbe mai venuto asapere niente. La notte prescelta, unanotte che tirava un marino che piegavale piante, Giommo e Gigi sono scesilungo il rio che passa vicino al Giassettoe hanno raggiunto la casa da dietro.S’erano portati un lume, coperto con unostraccio per non farsi vedere, e conquello hanno dato fuoco alla stalla e alfienile. Poi, lesti come erano venuti,hanno ripreso su per il monte. Il fuoco haavvolto la casa in un amme visto il ventoche tirava, e Giommo e Gigi non ave-vano ancora raggiunto la strada che giàsentivano crepitare i legni dei solai. Sisentivano anche le urla dei bambini eogni volta per loro era come una coltel-lata perché si rendevano conto di quelloche avevano fatto. L’indomani mattinapresto è arrivato uno qui della Fuìa a

chiamarli per dirgli della disgrazia cheera successa a quelli del Giassetto, e loronon si sono fatti pregare per andare a ve-dere, ma dentro di loro avevano unapaura e una vergogna che tremavanotutti.

Lo spettacolo che gli si è presentatodavanti agli occhi era terribile: la casacontinuava a fumare ed erano rimasti inpiedi soltanto i muri maestri; qua e làspuntavano le punte annerite dei travi suiquali ogni tanto brillavano ancora dellefiammelle. Ma quello che gli ha fatto piùeffetto è stato l’odore di bruciato che sisentiva, perché non era l’odore dellalegna e basta, ma c’era mescolato anchequello della carne di bestia e di cristiano.Ed era così forte che prendeva nella golae faceva vomitare. S’im magini con checoraggio si sono presentati a Carlin, ilcapofamiglia del Gias setto, l’unico cheera rimasto vivo assieme a suo figlio ilpiù piccolo.

Lui era tutto una piaga, con i capellie le sopracciglia strinate che pareva unbugastro. Il bambino, invece, si vedevache non era stato toccato dal fuoco, maera così nero di caligine che sembrava unafricano. E stava tutto il tempo aggrap-pato ai pantaloni di suopadre come se ancora nonriuscisse a rendersi contodella disgrazia che gli eracapitata. Carlin non facevaaltro che ripetere: - E oracosa faccio - e girava per ilprato come un insensato.Intanto sono arrivati anchei carabinieri e hanno co- minciato a fare delle do-mande. Giommo e Gigihanno avuto un attimo dispavento, ma poi sono riu-sciti a rispondere senzatentennamenti. E dopoaver dato una mano a cari-care i corpi carbonizzati suun carro sono tornati alleloro cascine. Carlin se n’èandato dalla valle, se l’èpreso in casa un suo fra-tello che abitava sul ver-sante di Rossiglione. E lamarchesa delle Capanne,

proprietaria del Giassetto, ha poi cercatodi ricostruire la casa, ma non ha più tro-vato nessuno che volesse andarci a fare ilmanente. Sicché pian piano le pietre deimuri sono diroccate una sopra l’altra e ilbosco s’è mangiato tutto il prato, e oggiè difficile per uno che non sia pratico ri-trovarli in mezzo alla boscaglia.

In quanto a Giommo e a Gigi, nonhanno più avuto pace dopo quello chehanno fatto. Stavano sempre da soli, e ladomenica non andavano neanche più allamessa da quanto avevano paura del Pa-dreterno. Quando poi la figlia di Gigi èmorta dello stesso male di quella diGiommo, Gigi non c’è stato più con latesta e ha cominciato a girare per i bo-schi come un vagabondo. Finché ungiorno l’hanno trovato appeso al nocedietro casa, che finalmente aveva messofine al suo tormento. Ma anche Giommoha fatto una brutta fine: non usciva piùdi casa, pareva che avesse paura anchedella sua ombra. Poi, pochi mesi dopoche era morto Gigi, una delle sue vacchegli ha tirato un calcio che l’ha lasciatosecco. A questo punto Francesco s’inter-ruppe e cominciò ad attizzare vigorosa-mente la brace. G. avrebbe voluto fargli

38 In basso, le streghe si avvianoal sabba passando per il camino

nella pag a lato, una collinetta nei presso del santuario

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delle domande, ma percepì l’intensità diquel silenzio come se il racconto avesseevocato nell’uomo la radice forte del ri-cordo. E allora attese che fosse lui a par-lare, ad avanzare per primoun’interpretazione. - Perché, vede, c’èuna cosa di cui io sono convinto: chi fadel male prima o poi lo riceve. E anchese lui riesce a scamparla la pagano co-munque i suoi figli, come se fosse unacambiale. Per cui prima di morire unoc’ha ancora più da tormentarsi a sapereche lascia quel peso sui suoi figli. G.pensò che erano le stesse identiche coseche gli aveva ripetuto tante volte suopadre. - Ricordati che chi fa del male fapoi sempre una brutta fine -. E giùesempi di gente del paese che forseaveva pensato di farla franca, ma inveceaveva pagato duramente. - Facci caso, diquesta famiglia s’è perso persino il seme-. Come se ci fosse una giustizia divina(o biologica?) che non attendesse il fati-dico giorno del Giudizio per emettere lasua sentenza. - Forse è proprio così comedice lei. C’è una cosa, però, che non rie-sco a spiegarmi, la storia dell’agnello.Che fosse tutta una fantasia di quegli uo-mini? - Un momento - disse Francesco -ragioniamo un momento. Io non credoche si siano inventati tutto. - Ma, allora,lei ci crede nelle masche... Francesco so-spirò. - Se ci credo? Diciamo che cicredo e non ci credo. Dico soltanto chequegli uomini hanno di sicuro sbagliatobersaglio perché se la sono presa con deidisgraziati che non c’entravano perniente. Però qualcosa di strano dev’es-sere successo se no non sarebbero arri-vati a quel punto. Anzi, le voglio dire unacosa: quando mi hanno raccontato per la

prima volta questa storia, io ho pensatosubito che la masca fosse la mediconache, secondo me, aveva architettato tuttoper far cadere la colpa sulla ragazza delGiassetto. - E la ferita di falcetto sullaspalla? Non c’entrava dunque niente conla masca? - Eeeh, sapesse come sonofurbe le masche...sono capaci di trasfor-mare chiunque altro in agnello per poimandarlo allo sbaraglio. E forse con Mu-mina la medicona ha fatto proprio così.Del resto che fosse lei la masca lo dimo-stra il fatto che, dopo il rogo, è mortaanche la figlia di Gigi, mentre gli incan-tesimi, si sa, bruciano con chi li ha fatti.In quel preciso istante una ventata spa-lancò la finestra della cucina e si riversòdentro con uno scroscio d’acqua. Co-minciarono a sbattere le porte e alla lucefioca della brace si vedeva già un lagosul pavimento. Francesco si alzò perchiudere le imposte, ma l’acqua battevacosì forte che non riusciva ad affacciarsialla finestra. Intanto il vento continuavaa muggire dentro casa e pareva che la gi-rasse tutta quanta da come faceva sbat-tere le porte. S’alzò anche Teresa, e sisentiva correre da una parte all’altracome se cercasse invano di fermarle.Ormai Francesco era bagnato fino al-l’osso e tuttavia se ne stava lì sotto l’ac-qua che sembrava quasi volesse sfidarla.Nel frattempo il vento era aumentato diforza e ora fischiava che pareva una si-rena. Si udì lo schianto del ramo di unapianta, il tintinnio di un vetro che ca-deva, finché, dopo una specie di boato,tutto s’acquietò come d’incanto. France-sco richiuse la finestra, poi, masticandosommesso qualche parola, s’avviò lenta-mente verso la camera. - Teresa, c’ho bi-

sogno di qualcosa per cambiarmi. Sonotutto marcio. - Ti sei bagnato? Non po-tevi stare attento. - Teresa, per piacere. -Ma...allora non avete proprio intenzionedi venire a letto. Io non capisco. - Nonc’è niente da capire. Discorriamo. G., in-tanto, non riusciva a scrollarsi di dossol’impressione che gli aveva fatto quellaventata. Gli pareva di averci percepitoqualcosa di strano, qualcosa che andavaaldilà della tempesta. Come se ci fossestata dietro una forza volitiva che inten-desse dare un avvertimento. E più ci pen-sava più cominciava a farsi strada nellasua mente un’idea che non avrebbe maicreduto di dover un giorno assecondare:l’idea che si trattasse di un’anima.

Del resto tutto quel vigore, e poi quelfischio, e infine quell’incredibile boatonon parevano altro che i termini di unlinguaggio soprannaturale che chiedevasoltanto di essere interpretato. Ma se sitrattava davvero di un’anima, chi potevaavere interesse a far sentire la sua voce?G. al pensiero che potesse essere la me-dicona rabbrividì e per un istante gliparve di sentire un soffio freddo che glicorreva su e giù per la pelle. Allora,come per sfuggire a quella sensazione,chiese a Francesco che ormai stava rien-trando: - Mi dica la verità, a lei non èsembrato un po’ strano quel vento? Fran-cesco subito non rispose, quasi come senon avesse sentito. Poi, non appena fuseduto, disse: - II vento è sempre strano.Se l’ascolti ti pare di sentirci dentro tuttele voci del mondo. Ma uno non può an-dare dietro a tutte queste cose, altrimentinon ci fa più vita. Ecco perché per me èsolo vento, e nient’altro. Il resto, anchese fosse, non cambierebbe di una virgolala mia esistenza. Sì, forse era propriocome diceva Fran cesco. Certe cose, unavolta scoperte, era meglio dimenticarselee lasciarle stare per conto loro. Forseerano un mistero troppo grande perl’uomo e il fatto di conoscerne l’esi-stenza sarebbe dovuto bastargli. Era que-sto il senso di quella risposta, di quelcredere e non credere alle masche cheaveva detto Francesco. E allora G. ri-pensò alla storia del mito e a come gliuomini s’erano difesi dall’ignoto co-struendoci storie su storie. Perché la pa-

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rola, soltanto la parola, aveva il potere diinibire la paura e finché ci fosse statoqualcuno sulla terra che avesse saputoraccontarla saremmo stati in grado direggere la vita. Anche la sua era stata unafamiglia di affabulatori.

Si raccontava che il suo trisnonno an-dasse di cascina in cascina a contare lefóre e che, a un certo punto, avesse anchedovuto smettere di lavorare per poterfarlo meglio. Suo nonno, invece, avevaavuto come una crisi di rigetto e s’erabuttato tutto sul lavoro, guai a parlarglidi fóre. Poi, però, quando lui era un bam-bino, qualche volta s’era lasciato andaree allora gliene aveva raccontato certedella volpe e del lupo da farlo restare abocca aperta. In particolare se ne ricor-dava una, quella in cui la volpe, con lascusa di sentirsi male, si fa portare aspalle dal lupo. “Pian pian che i marótuu pòrta u san”. “Si t’hoi dicchi?”.“Gnénte, gnénte, tsa vessi me cun fa mòa pausa”. E di nuovo: “Pian pian che imarótu u pòrta u san” in un crescendo dibotta e risposta che faceva sbellicaredalle risa.

Suo padre poi aveva trovato una me-diazione tra lo spirito rapsodico del bi-snonno e il senso pratico del nonno, eaveva elaborato un suo stile narrativoche non aveva niente da invidiare al mi-gliore neorealismo. Lui canzonava “tutte‘s fóre”, diceva che erano “belinole” perrincoglionire la gente, e in nome delladea realtà si abbandonava ad esilarantiracconti di vita vissuta della sua gente.Quanto poi ci fosse di vero nelle sue pa-role era difficile da stabilire, visto comevariavano le versioni da una volta all’al-tra. Fatto sta che ne venivano fuori gu-stosi ritratti di un mondo in cui forse larealtà superava davvero la fantasia, unmondo che la sua vena narrativa animavadi immagini e di voci di incredibile va-rietà: cambiava tono a seconda dei par-lanti, assumeva mimiche faccialidifferenti, parlava in tutti i dialetti dellazona assicurando che erano autentici.Dove non arrivava con la conoscenza,sopperiva con la sua sfrenata fantasia.Come era possibile dimenticare certipranzi che duravano ore, in cui si finivacon le lacrime agli occhi per le risate? G.

fin da bambino, ci s’era pasciuto in queiracconti e aveva finito per farne il luogoprivilegiato del suo immaginario, a talpunto che non riusciva più a godere delpresente che gli sembrava vano, artifi-ciale, privo di epos e di qualsiasi mistero.E allora una cosa soprattutto avrebbe for-temente voluto, che suo padre gli tra-smettesse il segreto del saper raccontare.Raffiche di pioggia continuavano ad ab-battersi sulla casa, e arrivavano da unaparte e dall’altra a seconda del vento.Picchiettavano secche sui vetri delle fi-nestre, ma in modo alternato, come se gi-rassero in tondo.

Ogni tanto la luce incandescente diun lampo illuminava la finestra e facevariemergere dal buio per un istante i con-torni della stanza. Scoppi di tuoni sem-pre più ravvicinati facevano tremarel’impiantito, e ogni volta la vetrina con-tinuava a tintinnare a lungo. Lontano siudiva il muggire fragoroso del Piota, e sidistinguevano le botte ripetute del le-gname trascinato dalla corrente. - A starequi davanti al fuoco mi viene in mentemio nonno quando mi contava le fóre. Cifaceva riunire tutti attorno alla stufa e poiattaccava con una voce che pareva ve-nisse dall’altro mondo. - Oh, suo nonnone avrà saputo di sicuro di fóre. Maanche qui ne raccontavano, oh se ne rac-contavano. - A Lerma c’era uno che chia-mavano Rundanin, che era consideratoun po’ uno specialista. Dicono che lui leleggesse in un libro. - Io non credo chequi le leggessero, figuriamoci se allorasapevano leggere. Ma c’era uno, Cichindi Fadi, un uomo che aveva una gambadura, che girava tutte le cascine e non fa-ceva altro che raccontare. - Raccontavadelle fóre? - Meninbelino se le raccon-tava. Raccontava quella di Bertoldo e diBertoldino, che il papà era furbo e il fi-glio era goffo, diciamo così. Bertoldo eraquello che aveva scoperto la casa al requando gli aveva detto: “La lepre stadove nessuno pensa”. Insomma, ci rac-contava queste cose qui. Ci raccontavaanche quella di “Me sèi lùccu”, che eratutta quanta in dialetto. “Bungiurnu, mesèi lùccu,/ i sèi benvégnù, cumpà,/ vemandava a ciamà/ se nu vegnivi./ Seavessci sentìu/ tùti queli eri ch’emù fètu/

u giurnu pasau, u giurnu du mercau, ugiurnu da fèscta/ se n’éa pé ‘na minè-sctra s’è sccanàmu./ An fètu baia u diavututta a sèia/ per dui parmi de tèja/ chel’ó manda a catà/ da u me cùxu mèrsà,/u sciu Pélu Andria./ ‘scta còsa l’è sé-guìa,/ n’èivu mancu de razù/ se dunca,mescchin, me sccundèivu/ u ségnu dèiarme./ O fètu fa ‘na figassa de sciùe e desccandalin/ cu ‘na méza de vin,/ tutù ame scpèize./ U l’éa di quellu Rusèize,/ ume cusctau ‘nu bèlu dina,/ me l’àn fètupaga in sódu e mézu,/ no n’ò mai bevùude mégiu./ ‘nte quela mèza de vin/ghemu missu in duggiu d’ègua,/s’avesse! visctu gente ‘nbrièga nu ve nediggu./ Ghea me fìu u primmu/ che tantucumme u se n’è fètu ‘na caputa/ u satavacu paxéiva ‘na crava./ U l’è satau su pe‘na scaa,/ u s’è frachesau tuta ‘na ma-scca,/ u l’è anètu da u barbe// cu l’è usciu Megalé,/ cu l’è ‘n’ ommu de virtù,/cu fa fin guai i mù de Pedemunte// se imù i cascca da u punte./ U l’éiva ‘nabòtta de tréi parmi e mézu sutta‘n’ascélla// u l’à mixinau ‘nt’in carcag-gnu,/ l’è guai paégiu...”.

E dura del bello questo ciabattare qui,che quasi ci voleva tutta una sera per rac-contarla. - Ma lei la sa ancora? - Oh sìche la so. - E allora la racconti, la rac-conti. - E va ben, se proprio le piace sen-tirla gliela dico. Dunque, dove sonoarrivato...ah, sì, ora mi ricordo...

“A l’usctèria duve l’è anà/ a scpèn-dise u so dina/ u l’à sentìu udù de rosc-tu,/ a carne sens’ossu nu me piaxe. / Mie Filippu de Muin,/ che sémmu paènti,/in’erba pèi dènti nu a cunuscéscimu,/in’erba ‘nt’in sachéttu e dui grumi de sa/a l’è bunna da ‘ncantà e arme da fógu,/sèie bunna a fa cianze u lògu,/ se anchenu me pertucca,/ sèie bunna a xbrusìcumme ‘na xbruffa./ Sèi ‘na fìg- gia benfèta,/ oh rèixe du me co/ ve dumandu susé pò ‘na riverensa....”.

E ce n’è ancora, ma ora dovrei pen-sarci un po’ per ricordarmela. Sa, ne èpassato del tempo, avevo sei o sette anniquando Cichin veniva a contarcela. Oh,che questa qui la sapeva anche Giacomo,una legéra, che la contava ancora ai mieifigli dopo la guerra. - Giacomo? - Sì, sichiamava Giacomo, ma tutti ci dicevano

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il Ruscignó. - E da dove veniva? - Venivada Isoverde, ma l’avevano portato aCampo, nel Ruscignò, una cascina che èlì per andare a Rossiglione. Lavorava nelporto, ma poi nel ‘22 o nel ‘23 c’era untenente della milizia che voleva inse-gnargli a lavorare; fatto sta che questoRuscignò qui, che era un cervello un po’malimbelinato, un giorno gli ha dato unachiave inglese in testa e l’ha fatto brico-lare in mare. Poi il tenente l’hanno tiratofuori, ma lui ha dovuto prendere su per ibricchi per non finire in galera. E così s’èmesso a girare da una casa all’altra, e fa-ceva anche qualche lavoretto e contavale fóre ai nostri figli; e più che tutto con-tava quella di Giuanìn forte, di Torci-piante e di Róa da murìn. - E comesarebbe questa fora? Su, raccontatemela.- E belin, erano tre uomini che non cen’era. Giuanìn forte aveva tenuto su unponte che ci passava il treno in cima.Torcipiante piegava con le mani degli al-beri grossi come una ruota da carro e inun giorno era riuscito a disboscare dasolo più di duecento ettari di bosco. Rèada murìn, invece, faceva girare le pale diun mulino senza bisogno d’acqua e le fa-ceva andare così forte che c’era il rischioche rompesse gli ingranaggi.

Insomma che questi tre uomini sonoandati in una città, ora non mi ricordo piùbene quale fosse, e in questa città c’eraun mago che tutti i giorni, una alla volta,gli portavano una ragazza e sta ragazzanon si vedeva più. Ora il re che coman-dava questa città ha mandato a chiamarei tre giovani e gli ha detto: “Vedete benequale disgrazia c’è capitata, fra poco non

ci saranno più ragazze e allora toccheràanche a mia figlia. C’ho già mandatocontro tutti i miei soldati, ma non c’èstato verso, nessuno di loro è più ritor-nato. Vi chiedo, dunque, di provare voi:chi riuscirà a liberarci dal mago, sposeràmia figlia ed erediterà il mio regno”.

I tre giovani allora sono partiti e sisono presentati al castello di quel magobestione. Volevano entrare tutti e tre e al-lora se la sono giocata alle carte. Havinto Torcipiante, che così è entrato perprimo. Aveva nelle mani due bastoni difaggio che saranno stati tre quintalil’uno. “Se l’ammazzo vi farò miei mini-stri” ha detto convinto agli altri due. “Mapuoi capire, diceva il Ruscignò, quelloera un mago dalle sette teste e, non vor-rei dirlo, ma Torcipiante ha preso tantebotte che basta. Quando è uscito parevaSan Bastiano da come perdeva sangue datutte le parti”. Allora è entrato Rèa damurìn, che s’era fatto una specie d’ac-cetta con la ruota di una macina e iltronco di un olmo alto dieci metri. “Conquesta qui gliele stacco tutte insieme leteste a quel mago” ha detto e poi è an-dato dentro. Neanche un secondo che sisono sentiti dei colpi tremendi e degliurli e dei versi da far spavento. Poi, tut-t’assieme, s’è aperta la porta ed è piom-bato fuori Róa da murìn con la testainfilata nel buco della macina. Anche luiera tutto pieno di sangue, e in piùc’aveva la testa come rimpicciolita pervia che il mago gliel’aveva infilata làdentro. Ora non restava che Giuanìnforte. Lui non si è fatto impressionare dacome erano stati ridotti i suoi amici. Ha

detto sol tanto:”Dicono che nonc’è il due senza il tre. Staremo avedere se hanno ragione”. E poiè entrato con un bastone di ferroappeso al colletto della giaccache pesava dodici quintali. Su-bito c’è stato come uno stranosilenzio, pareva che non succe-desse niente. Poi ci sono staticome degli scoppi, uno dietrol’altro, e ogni volta il mago ti-rava degli urli che si dice chel’abbiano sentito anche in Ame-rica. Era Giuanìn che con il suobastone faceva scoppiare unadopo l’altra le teste del mago

fino a quando è scoppiata anche la set-tima che ha dato un colpo come quelloche fanno i fulgari quando sono finiti.Poi silenzio. E passato un minuto, n’èpassato un altro, ma di Giuanìn neanchel’ombra. Allora i suoi amici, nonostantele condizioni in cui si trovavano, sonoandati dentro a vedere. Subito hannofatto una fatica orba ad entrare, perchéc’era fumo e un odore di zolfo che fa-ceva venire da vomitare. Poi pian pianoc’han fatto l’abitudine e allora hannovisto Giuanìn che stava contando tran-quillo le sterline d’oro del tesoro delmago. “Venite avanti, gli ha detto, che cen’è anche per voi”. Allora hanno caricatola cassa su un carro e poi sono andatidritti al palazzo del re.

Dappertutto dove passavano la gentegli andava dietro facendogli le feste, sic-ché quando sono arrivati al palazzoc’avevano dietro un corteo che parevad’essere alla fiera dei Santi Martiri. Il reli ha ricevuti subito e una volta nel sa-lone Giuanìn s’è fatto avanti e ha detto:“Le chiedo di dare questo tesoro ai mieicompagni che se lo sono meritato. A mebasta sposare sua figlia”. Il re è rimastocolpito da tanta generosità e allora hafatto chiamare sua figlia e ha voluto chesi sposassero subito senza neanche cam-biarsi. Poi ha regalato a Giuanìn un te-soro che valeva dieci volte tanto quellodei suoi amici e ha ordinato che in tuttoil regno si facesse festa per una setti-mana. Giuanìn e la principessa si sonoinnamorati a prima vista e da quel mo-mento in poi non sono mai più stati un

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istante senza stare insieme. Hanno avutodieci figli e si racconta che abbiano re-gnato su quel paese per più di cent’anni.In quanto a Torcipiante e a Ròa da murìnsono diventati i consiglieri più fidati delloro amico, anch’essi amati dal popoloche non dimenticava il loro coraggio. Equi finisce la fora. - Bella, bella davvero.- Eeeh, le sapeva contare quell’uomo lefóre, le contava che era un piacere. Oh,che l’avrà conosciuto anche suo padre,del resto veniva anche a Lerma. In Ciri-milla, lì dall’osteria, c’era sempre. Ed èstata anche la sua fine Cirimilla chec’abbiamo avuto proprio una bella grana.- Come sarebbe a dire? - Stavamo fa-cendo l’acquedotto anch’io ci lavoravo.Un giorno che pioveva ed eravamo tuttidentro l’osteria, ‘sto Ruscignò è uscito eha fatto per salire su nella cascina, lui cidormiva sempre nel fieno. Ma quando èstato sulla balconata è caduto all’indie-tro e ha dato una belinata giù sopra unamacchina.

L’abbiamo portato subito all’ospe-dale di Ovada, ma non c’è stato niente dafare. Siamo anche passati dai carabinieridi Mornese a denunciarlo e, belin, è suc-cesso un affare che mi hanno interrogato.È venuto il giudice Viola da Milano a in-terrogarmi, perché credevano che l’aves-simo ucciso noi. C’hanno tenuto tuttisotto pressione per due mesi, c’era ancheMichelin d’Fanàn. Perché, capisce, nonsi dice tutti la stessa cosa e allora quellilì cercavano di capire se nascondevamoqualcosa. Il primo ad essere interrogato èstato uno di Calamandrana. Finito l’in-terrogatorio, l’hanno fatto ammanettaredai carabinieri e l’hanno portato di fuori,‘sto Viola mi dice: “Oggi la finiamo”. Eio gli rispondo: “Al riguardo sarebbe orache finisse”. A Mornese c’era il briga-diere Capello. Insomma, gira da unaparte gira dall’altra mi dice come mai ioho detto che quest’uomo l’abbiamo tro-vato vicino alla casa di Cirimilla, preci-samente dalla parte destra della stradadelle Capanne. Ma se l’abbiamo trovatolì, cosa potevamo dire!

Contiamo che sia caduto dalla ca-scina, ma non l’abbiamo visto, l’ab-biamo trovato lì in quelle condizioni. Poigli ho detto: “Ma sono io che non mi

sono spiegato o è lei che non ha capito?”,che fino lui s’è un po’ risentito. Ma,belin, potrei farle vedere ancora adessoil posto dove l’abbiamo trovato, che senon ci fosse stata la macchina di uno di‘sti operai che l’ha molleggiato un po’ sisarebbe ammazzato. - Ma perché, non èmorto? - È morto due giorni dopo al-l’ospedale, che ormai sembrava che po-tesse tornare a casa, per modo di dire,che lui casa non ce n’aveva. Ma gli vo-levano tutti bene, eppure è stato difficilefarlo capire a ‘sta giustizia che conti-nuava a chiederci se sapevamo se c’eraqualcuno che c’avesse dell’odio. “Odionon ce n’aveva nessuno, il male cel’aveva per conto suo che se aveva unfranco era sempre ubriaco” io gli hodetto. Sono stati brutti momenti, ma so-prattutto faceva star male il fatto che cifosse della gente che pensava che l’aves-simo ammazzato noi per davvero. E direche c’era uno di Isoverde, che lavoravaqui con noi, che era andato a trovarlo al-l’ospedale e lui gli aveva detto che eracaduto dalla cascina.

Un giorno erano quasi passati duemesi, questo mi dice: “Se continua an-cora ‘sta cosa vedrai che la faccio finireio”. E poi mi racconta tutto quello cheGiacomo gli aveva detto. Io subito l’hoinvestito e gli avrei dato anche un bel pi-gnatone sul muso per quanto c’avevafatto patire inutilmente.

Poi sono corso a dirlo al marescialloToppetta di Ovada, che era mio amico, elui appena l’ha saputo m’ha detto che bi-sognava andare subito a prendere questodi Isoverde per farlo testimoniare. E al-lora siamo partiti con la camionetta el’abbiamo caricato, e quando stavamo

per arrivare alla Cirimilla, che eravamogià di là dal Gorzente, abbiamo vistotutta ‘sta giustizia che veniva via, sì chenon c’è stato neanche bisogno del testi-monio.

Ecco dunque come è finita questabrutta storia, che a un certo punto mi cre-devo davvero di non uscirne più. E perquanto ne so io ho capito che è megliostare alla larga dalla giustizia, perché puòsuccedere di rimanerci incastrati anchesenza saperne niente.

Ora le raffiche avevano cambiato di-rezione e martellavano la casa versomonte. Parevano mitragliate da come ar-rivavano secche, e tambureggiavanosulla porta senza un attimo di respiro.

Ma ogni volta lo facevano in mododiverso, come se seguissero le note diuna melodia. Sicché ce n’erano di mor-bide e di ritmate o addirittura di quellestrascicate come se avessero la sordina.G., immerso nell’oscurità, le sentivacome sulla pelle e provava una stranasensazione di piacere ogni volta checambiava il ritmo. E allora gli veniva dapensare all’origine umana della musicae più ci pensava più gli pareva che nes-sun musicista sarebbe stato in grado diproporre un motivo come quello.

42 A lato, la cascina Fuìa dove abitava il vecchio narratore

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Domenica 26 settembre si è tenutauna speciale iniziativa presso il duecen-tesco castello di Rocca Grimalda, carat-terizzata da una serie di eventi che hannoaccompagnato tutto il corso della gior-nata.

In particolare, durante la mattinata, siè tenuto il convegno dal titolo “ ILGIARDINO DI BACCO”, “Conver sa -zioni sui giardini, nel paesaggio dei vi-gneti del Piemonte”.

Ad aprire il dibattito, munita dischermo proiettore e di diapositive, èstata la Dottoressa Renata Lodari, re-sponsabile dell’Archivio Ville e Giardinidel Museo del Paesaggio.

Il suo intervento è stato incentrato suibeni paesaggistici e i giardini storici delPiemonte: ella ha analizzato per ogni sin-golo bene le sue peculiarità, il suo stato diconservazione, l’uso a cui è destinato. Neè seguita, così, una veloce carrellata didiversi siti localizzati nelle zone più di-verse del Piemonte.

Per consentire una certa omogeneitàal patrimonio paesaggistico piemontese,in particolare per quanto riguarda i giar-dini storici, la ricercatrice ha formulatoalcune proposte, tra le qualiuna classificazione attraversouna speciale forma di scheda-tura. Que st’ultima, mutuata daibeni architettonici, attraversoquelle del Ministero dei Beniculturali; si tratta di una schedadai contenuti sintetici recante idati del patrimonio, l’oggetto ela sua localizzazione.

Si individuerebbero altresì itoponimi storici, le coordinatecatastali e quelle geografiche.Tale identificazione si svolge-rebbe per mezzo di strumenti diinformatizzazione, il pro-gramma di georeferenzazionepotrebbe identificare tutti que-sti dati che sono stati analizzati.

Si è, inoltre, affrontato ilrapporto con la proprietà dei ri-spettivi “giardini storici”, af-finchè si possa determinare, aisensi del Testo Unico del De-creto sui Beni culturali, la va-lorizzazione, con i vincoli

legislativi di riferimento, sia nazionali,sia regionali. Tali attinenze determine-rebbero pure i suoi confini, sia per quantoattiene l’unitarietà dell’im pianto, sia perl’area verde all’interno del giardino.

Con la realizzazione dell’Atlante deiGiardini del Piemonte, si vuole censire ilgiardino storico piemontese al fine di dar-gli una dignità culturale, architettonica,paesaggistica e non ultima storica; diconseguenza, di darla pure alle attività di-dattiche.

Ha proseguito i lavori del convegno ilProfessor Federico Fontana, Pre si dentedella AIAPP Piemonte - Associa zioneItaliana di Architettura del Pae saggio - ilquale ha illustrato “ il restauro del vi-gneto di Villa della Regina a Torino”.

La Villa, costruita nel XVII° secolo,venne successivamente ampliata dalgrande architetto Filippo Juvara per or-dine di Vittorio Amedeo II re di Sarde-gna. Con l’avvento dell’unifica zio neitaliana, durante il regno di Vit torio Ema-nuele II, tutti i beni di proprietà di CasaSavoia passarono sotto la giurisdizionedel Regno d’Italia.

Da quel periodo le condizioni di Vil -la della Regina si presentavano come ungiardino “a pane e acqua”, ciò che neconseguiva era un crescente stato di pre-carietà: nessuno aveva apportato modifi-che, esisteva ancora il vecchio impiantoviticolo seicentesco.

Ai tempi del suo massimo splendoreVilla della Regina era utilizzata da partedella consorte di Vittorio Amedeo II,Anna Maria d’Orleans, duchessa di Sa-voia e poi regina di Sardegna, per lo piùdurante il periodo estivo e quello inver-nale; per il restante periodo dell’anno laVilla veniva chiusa e la coppia regale sitrasferiva al Castello di Moncalieri o alCastello Reale.

Molto più in seguito, le condizionidella Villa, a causa della persistente in-curia, si caratterizzavano da un bosco di20 metri composto da una vegetazioneinfestante con piante di verbenia e disambuco, quest’ultimo introdotto neglianni Trenta dal regime fascista in difesadell’autarchia; in alcune parti della Villasi verificava, pure, un fenomeno di di-sboscamento naturale.

Nel secondo dopoguerra, il patrimo-nio passò di proprietà allarepubblica italiana e visseper più di quarant’anni inuno stato di assoluta incu-ria: soltanto nel 1996l’UNESCO predisponevaun progetto di recuperovolto a coinvolgere, più ingenerale, le residenze sa-baude della città di Torinoe della sua zona e la Villadella Regina ne facevaparte integrante.

Quindi, l’Or ga nizza-zione internazionale assu-meva la direzione deilavori; per la Villa, nelprogetto iniziale di desti-nazione, era no stati stan-ziati inizialmente i primi5/10 miliardi di lire per ilrecupero almeno struttu-rale.

Natu ralmente, non eraancora accessibile al pub-blico, ma nel 2008 i lavori

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Incontri al Castello di Rocca Grimaldadi Eros Palestrini

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si potevano ritenersi quasiconclusi.

Nello stesso anno l’in-tervento del Consiglio na-zionale delle ricerche(CNR), per mezzo dei suoitecnici, aveva portato a ter-mine un impianto di vitignocon bonarda, barbera efreisa.

Nella terza vendemmia il vino pro-dotto non è stato venduto, né utilizzato,ma solo impiegato per sperimentazione.

Recentemente è avvallata la propostadi classificare il vino proveniente dal vi-tigno di Villa della Regina come D.O.C.e, quindi, di attribuire alla città di Torinol’appellativo di “Città del Vino”.

Questo marchio di qualità si vuoleconsegnare ad una città che attualmentene è sprovvista, anche se da un punto divista storico Torino fu un importante cen-tro per la produzione ed il commercio diquesta produzione.

Si prevede che per la prossima ven-demmia, le prime cento bottiglie prodottesaranno messe all’asta a Palazzo reale;con tali proventi si pensa di continuare arestaurare ancora 12 ettari di Villa, questiin concorsi con fondi da parte dello stato,altri per tagliare l’erba ed effettuare la pu-lizia ordinaria all’in terno della Villa.

I lavori del convegno si sono conclusicon l’intervento della Dottoressa Ga-briella Bonifacino, Direttrice della “Te-nuta Cannona” - Centro Speri men taleVitivinicolo della Regione Piemon te, laquale ha illustrato, nella sua relazione,l’esperienza di recupero e rivalutazionedei vitigni storici.

La Tenuta “Cannona”, situata nel co-mune di Carpeneto, come si è già ac cen-nato, è un centro sperimentale dellaRegione Piemonte, costituita da 54 ettaridi terreno risale al XVII° secolo.

Dal 1985 è patrimonio di un ente re-gionale, l’E.S.A.P., composto dall’Asses-sorato all’Agricoltura, dall’Assessoratoal Patrimonio e da alcune Società parte-cipate.

Nella tenuta si svolgono attività disperimentazione, divulgazione, forma-zione e didattica a favore delle scuole edelle università: numerosi sono gli stu-

denti che durante l’anno fanno visitaistruttiva alla “Cannona”. Inoltre, la strut-tura è utilizzata per servizi, cerimonie,mostre; ciò si presta particolarmente poi-ché tutti gli interni della Tenuta sono statirealizzati con costruzioni di pregio.

Alla “Cannona” si interseca il mondoscientifico e quello produttivo: vi sonocantine di microvificazione, nella corteinterna corsi di potatura e non ultimo, al-l’interno della tenuta, vi ha sede il corsodel “dolcetto di Ovada”.

A conclusione del convegno si è te-nuto un banqueting presso la “Bottegadel vino” di Rocca Grimalda, gestitadalla simpatia e cordialità del signor AldoGrande e coadiuvato dalla professionalitàed esperienza dei suoi collaboratori.

Tutti i prodotti sono rigorosamentenostrani e per quanto riguarda la tipicitàla loro provenienza territoriale ne fa untratto distintivo: a co- minciare dai for-maggi, della“Fat toria” nel boscodi Ti glieto, ai salumiprovenienti dalla ma- celleria “Car ni e Car -ni” di Tri sobbio,prodotti sen za sofisti-cazioni con vaccino esuino.

Gli oli di oliva,originari dalla vicinaLiguria: il “lava-gnina” della Val Gra- veglia e il“ponentino” di DianoCa stel lo. Ed infine ivini, accuratamentelocali, sono perquanto attiene i rossiprodotti dalleAziende Vitivi nicole

“Facchino” e “Cascinala Madda lena”, situateen trambi a Rocca Gri- malda; mentre per ivini bianchi dall’A -zien da “Il Saulino”,ubicata nel cuore dellazona del Gavi D.O. -G.C.

La giornata è prose-guita con una piccola mostra mercato dipiante di stagione e vini del territorio.Dopo è seguita una visita del giardino delcastello, peraltro restaurato con il suo ma-gnifico belvedere, e della cappella.

All’interno del maniero una simpaticainiziativa di lezione di cucina dal titolo“In cucina con rose e uva”, ricette e se-greti per una buona cucina sana e ge-nuina, alla scoperta delle antichetradizioni nel salone di rappresentanzadel castello.

A concludere la giornata l’esibizionedel concerto per pianoforte e flauti nel-l’ambito del XVI° festival di musica clas-sica “Rocca Grimalda Live”.

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Alla pag. precedentedettaglio del ninfeodi Villa della Regi na

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Il 2010 è stato per il nostro sodalizioun anno ricco di riconoscimenti, per cui ilconsueto rendiconto di fine anno si aprecon la citazione di questi premi che ven-gono a coronare il lavoro svolto con tantapassione da parte dei Soci.

L’Associazione “Ovada due stelleOn lus” ha conferito al nostro sodalizio ilpremio Marie Minuto Ighina - SezioneTutela del nostro patrimonio Storico –Culturale, il prestigioso “cavallo d’ar-gento” che ci è stato consegnato dal Dott.Angelo Caravagno e dal Sig. GianniViano, rispettivamente Presi dente e VicePresidente del Sodalizio ovadese con laseguente motivazione: «per il cinquan-tennale impegno di volontariato culturaledi altissimo livello che ci ha permesso dimantenere intatti i valori della nostra tra-dizione e del nostro territorio».

Il Comune di Cremolino, nella per-sona del suo primo cittadino Prof. PierGiorgio Giacobbe, ha conferito il primoposto, del Concorso Storico Letterario“Casa te, Castelli e Borghi del Monfer -rato” III Edizione, al volume : La Valledell’Orba dalle origini alla nascita deglistati regionali di Romeo Pavoni e EmilioPodestà pubblicato dal nostro sodalizio«opera esaustiva e completa basata suuna ricerca molto seria e approfondita»;al secondo posto: Pagine perse di MarioCanepa «documentazione fotografica diBor ghi, personaggi e tradizioni monfer-rine» sem pre pubblicatodal l’Ac cade mia.

Il Settimanale d’In- formazione «L’AN-CORA», ha poiattribuito al nostro so da-lizio, durante una se ratache si è tenuta al TeatroCo munale, a cui ha pre-senziato il sindaco An-drea Oddone, L’an corad’argento qua le “Ova de -se dell’anno 2010”:«Per la sua lunga, ap pas-sionata attività nelcampo della cultura, pergli oltre cinquant’annispe si per evidenziare lastoria, la letteratura el’arte di Ovada e degli

ovadesi. Un premio “alla carriera”quindi, avvalorato quest’anno dallamessa in rete informatica delle annate dal1986 al 2003 della rivista “Urbs”, cioè lastoria secolare di Ovada attraverso i per-sonaggi che l’hanno fatta e le situazionilocali che ne contraddistinguono le vi-cende ed i periodi.

Per il notevole e specifico contributodato alla valorizzazione della città e delsuo territorio, ben al di fuori dei ristretticonfini zonali. Per l’ultima attività, ap-pena intrapresa, di una mostra sul 150ºdell’Unità d’Italia, che si svolgerà allaLoggia di S. Sebastiano nel corso del2011, dove ad essere ben visibile sarà so-prattutto il contributo degli ovadesi al Ri-sorgimento e per l’Italia unita».

Tornando all’attività del sodalizio:Biblioteca Sociale: nel corso del-

l’anno 2010, le acquisizioni per la Bi-blioteca Sociale sono ammontate a uncentinaio di nuovi volumi. Seguendo unatradizione ormai consolidata, alcuni Lau-reati hanno donato le loro tesi che, debi-tamente registrate e catalogate, sonoentrate a fare parte dell’Archivio Sto rico.

Donazioni: Il Sindaco emerito diOvada, Lorenzo Bottero, ha versato nelnostro archivio una ricca documenta-zione fotografica che a suo tempo avevaraccolto nella sua veste di corrispondenteda Ovada di vari giornali.

I documenti riguardano importantiavvenimenti locali, resoconti di vicendesportive, tra questi ultimi spicca il mate-riale fotografico riguardante il gioco deltamburello settore del quale Renzo Bot-tero è appassionato e nel cui ambito hasvolto il ruolo di dirigente.

L’anno appena trascorso ha visto lascomparsa del popolare Dino Crocco, no-stro Socio Onorario. Il figlio M° Mar-cello in ricordo del padre ha depositatopresso il nostro archivio le videocassetteriguardanti la sua attività di artista e unpregevole ritratto di Dino eseguito daFranco Resecco è entrato a far parte dellaQuadreria Proto.

Continua l’impegnativo lavoro di ca-talogazione delle opere del pittore ova- dese Franco Resecco, varie per formato,tecniche e soggetti, oggi di proprietà delfiglio Rinaldo. Le opere già esaminatesono più di 2000, la stima delle rimanentiè di altre 500. Sulla base di questo lavorosi procederà alla stesura di un Catalogogenerale che servirà come riscontro per ilprogetto di una mostra permanente delpittore e per la donazione che il figlio in-tende fare alla Città di Ovada.

Partecipazioni e conferenze: segna-liamo anche per quest’anno la partecipa-zione dell’Accademia Urbense conproprie pubblicazioni al XXIII SaloneInterna zionale Del Libro tenutosi, comeormai consuetudine, a Torino Lingotto

Fiere.Sabato 27 Febbraio

2010 si è inaugurata a Sa-vona la mostra dedicata alPittore savonese Giu-seppe Frascheri alla qualel’Accademia Ur ben se hapartecipato prestando 15disegni di vario formato efattura della quadreriaProto.

Giovedì 1° Aprile2010 nella Sala Puntod’incontro COOP Liguriail Presidente AlessandroLaguzzi ha tenuto unaassai apprezzata confe-renza dal titolo “Contri-buto di Livio Scarsi nellenuove conoscenze cosmo-

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2010, pioggia di riconoscimentiper l’Accademia Urbense di Giacomo Gastaldo

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logiche”. Numeroso il pubblico presenteche non ha lesinato applausi.

Venerdì 18 Giugno 2010 al Granaiodi Campale, Giuseppe Marcenaro, Ste-fano Verdino e Arturo Vercellino hannopresentato il volume Pagine perse, ultimafatica in ordine di tempo, del nostro socioMario Canepa unitamente ad una pano-ramica delle sue opere.

L’iniziativa è stata accolta con vivointeresse e tra le personalità presenti vierano gli ex sindaci di Ovada, LorenzoBottero, Franco Caneva, Vincenzo Rob-biano e l’attuale sindaco Andrea Oddoneunitamente al sindaco di Molare, MarcoBisio.

La Marchesa Camilla Salvago Raggi,splendida padrona di casa, oltre a metterea disposizione il Granaio, perfettamenterestaurato, ha offerto un apprezzato rin-fresco.

Grazie al patrocinio dell’AccademiaUrbense e del Comune di Rocca -grimalda, nel Palazzo Comunale sonostate esposte, dal 22 al 25 Luglio, le operedel pittore Giuliano Alloisio e della pit-trice Leonarda Siracusa. La ricca esposi-zione, costituita da altorilievi, dipinti adolio ed acquerelli dal titolo “Luci e coloridella nostra terra” è stata molto apprez-zata.

Nei giorni 7 ed 8 Agosto a Parodi Li-gure, in occasione dell’annuale Sagra deivecchi mestieri, sempre il pittore Giu-liano Alloisio ha esposto i suoi quadri, at-tinenti in modo specifico allamanifestazione, ricevendo non pochielogi

A Rocca Grimalda, nei giorni 18 ed19 Settembre si è tenuto organizzato dalMuseo della Maschera e dalle Università

di Torino e Genova il XV Conve-gno In ternazio nale “Dioniso sullecolline - Colture - culture - miti eriti della vite e del vino”. In taleoccasione l’Accademia Ur benseha presentato, presso le Cantine diPalazzo Borgatta, la mostra docu-mentaria: “Le feste vendemmialidell’ovadese”.

A Parodi Ligure, sabato 25 Set-tembre, è stato inaugurato il MO-NASTERO di S. REMIGIO a

seguito di importanti lavori di riqualifi-cazione e restauro che lo hanno riportatoall’antica dignità.

A questa significativa cerimonia, a cuihanno partecipato numerose Autorità,Studiosi e Docenti, non poteva mancareuna delegazione dell’Acca demia Urbensecomposta dal Presidente Alessandro La-guzzi, dal Vice Presidente Paolo Bavaz-zano e dal Tesoriere Giacomo Gastaldo.

Giovedì 7 Ottobre presso la SalaPunto d’incontro COOP di Ovada è statatenuta un’affollata conferenza sulle “Fi-gure del Risorgimento Ovadese”.

Giovedì 21 Ottobre a Lerma, presso ilCentro Polivalente della Lea, sonostate presentate, a cura della Bi-blioteca Comunale di Lerma, delSistema bibliotecario archivisticonovese e della Associaz. culturale“Un Libro per Amico”, le Storiedella Passione della Pieve di S.Giovanni al Piano tratte da unostudio di una nostra colta Asso-ciata, la Dott.ssa Gabriella Ragoz-zino.

Giovedì 2 Dicembre presso laSala Punto d’incontro COOP diOvada il Presidente AlessandroLaguzzi ed il Vice PresidentePaolo Bavazzano hanno conclusocon una brillante conferenzal’esposizione della seconda partedello studio sulle “Figure del Ri-sorgimento Ovadese”.

Pubblicazioni Mario Canepa, PA-GINE PERSE - Proto, Resecco, Ovada el’Accademia, Memorie del l’AccademiaUrbense (Collana diretta da AlessandroLaguzzi - Nuova Serie n. 88).

Alessandro Laguzzi, OVADA, (se-coda edizione) Collana Guide dell’Ac -cademia Urbense diretta dall’ Autore –(Nuova Serie n. 90).

Concludo con un ringraziamento alnostro segretario generale Pier GiorgioFassino, alla nostre bibliotecarie Mar ghe-rita Oddicino, Rosanna Pesce, Paola Tas-sistro e all’ing. Bruno Tassistro che ciaiuta in campo fiscale ed informatico.

Un grazie particolare a Ivo Gaggeroche ha reso più fruibile la nostra rivistaURBS mettendola in rete. Un grazie ri-conoscente ai nostri Soci che ci sosten-gono con il loro contributo economicodel “5 per mille”, ai Soci Sostenitori, perl’aiuto economico fornito, i nostri Spon-sor, agli Enti locali dell’Ovadese, in par-ticolare al Comune di Ovada con cuistiamo collaborando per la riuscita dellamostra sul Risorgimento ad Ovada.

Alla pag. precedente la consegna dell’Ancora d’argento.In questa pagina i due premiricevuti.

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Dopo una breve malattia si è spentonella sua casa di Genova, il 6 novem-bre scorso, il professor Carlo Ferraro,insigne clinico ed appassionato bio-grafo di Giorgio Gallesio. Originario diCa lissano, dopo la laurea in Medicinae Chirurgia presso l’Uni versità di Ge-nova, conseguì la specializzazione e lalibera docenza in Cli nica Ostetrica eGinecologia. Accanto alla sua intensaattività professionale esercitata con de-dizione e spirito di servizio nel capo-luogo ligure, il professor Ferraro, dopoil matrimonio con una discendente di-retta di Giorgio Gallesio, la contessaMaria Elena Gal lesio-Piuma, maturòun profondo interesse per la figura delfamoso botanico, tanto da dedicarglinumerosi saggi. Avendo infatti l’oppor-tunità di accedere all’archivio di fami-glia ed avvalendosi pertanto di unacospicua quantità di documenti inediti,ha potuto apportare ulteriori contributiconoscitivi sulle complesse fasi dellavita pubblica e privata di Gallesio.

Membro dell’Accademia Urbense edella Società Ligure di Storia Patria,socio corrispondente del l’Ac cademiadei Geor gofili e dell’Acca demia Nazio -nale di Agricoltura, Dele gato di Ge-nova dell’Ac cademia Italiana dellaCu cina, nel 1997 Carlo Fer raro fu tra isoci fondatori del “Centro per la pro-mozione degli studi su Giorgio Galle-sio”, associazione cul turale con sedenel ca stello di Prasco, di cui ha rico-perto la carica di Presidente fino allascomparsa.

Tra i numerosi saggi e arti-coli pubblicati ricordiamo: Pra-sco e il suo castello. Me moriestoriche, cronache e documentiinediti, Alessandria 1996; Gior-gio Gallesio (1772-1839). Vita,opere, scritti e do cu menti ine-diti, Firenze 1996; Profilo bio-grafico di Giorgio Gallesio,funzionario governativo, pub-blico amministratore, politico ediplomatico, in “Atti del conve-gno di studi Omaggio di Prascoa Giorgio Gallesio “, Prasco1999; Giorgio Gallesio e lamissione botanica di GiovanniCasaretto (1838-1839). Scritti edocumenti inediti, Genova2001; La Pomona Italiana diGiorgio Gallesio, Torino 2001;La Casata dei Gallesio. Rag-guagli bibliografici, araldici egenealogici ri cavati da docu-menti inediti, Prasco 2002; Ilcarteggio Gal lesio-Littardi(1811-1839), Geno va 2003; Tassono-mia viticola e richiami enologici negliscritti di Giorgio Gallesio, Alessandria2004; Identi ficazione e classificazionedi antichi vitigni piemontesi negli scrittidi Giorgio Gallesio, Urbs, XIX, n.4,Ovada 2006; Miscellanea di storia fi-nalese, Prasco 2007.

Il suo ultimo contributo alla rivistarisale al Giugno 2010: Charles Darwine Giorgio Gallesio: due scienziati nel-l’Europa ottocentesca.

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Ricordo del Prof. Carlo Ferrarodi Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre

In basso, il prof. Ferraro tiene la propriala relazione durante il convegno: Omag-gio di Prasco a Giorgio Gallesio.Fra i relatori Enrico Baldini (a sinistra)

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Recupero Rione “Le Aie”nel Centro Storico di Ovada

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