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PROVINCIA DI BERGAMOSETTORE POLITICHE SOCIALI
eLABORATORIO PROVINCIALE EXTRASCUOLA
PROGETTI EXTRASCUOLA
Laboratorio di esperienze eapprendimenti
fra scuola, famiglia e territorio
SEMINARI E INCONTRI FORMATIVI
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PROGETTI EXTRASCUOLA
Laboratorio di esperienze eapprendimenti
fra scuola, famiglia e territorio
SEMINARI E INCONTRI FORMATIVI2005-2007
PROVINCIA DI BERGAMOSETTORE POLITICHE SOCIALI
eLABORATORIO PROVINCIALE EXTRASCUOLA
Coordinamento editoriale:
Silvano Gherardi – Dirigente del Settore
Il quaderno è a cura di:
Franco Floris direttore della rivista Animazione Sociale e conduttore del Laboratorio Provinciale Extrascuola
Emilio Majer educatore professionale, consulente del Settore area minori
Piergiorgio Reggio docente della facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Cattolica di Milano, esperto di formazione adulti
Beatrice Testa pedagogista, funzionario del Settore
LABORATORIO PROVINCIALE
EXTRASCUOLA
ASSOCIAZIONI GENITORI: Age e Agesc
ASSOCIAZIONI: Arci e Auser
ASL DELLA PROVINCIA DI BERGAMO - Ufficio L.R. 23/99
COMUNI, COMUNITÀ MONTANE E AMBITI TERRITORIALI
COOPERAZIONE: Confcooperative e Lega delle Cooperative
DIOCESI DI BERGAMO - Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva e Ufficio Pastorale Scolastica
MEDAS onlus
PROVINCIA DI BERGAMO - Settore Politiche Sociali
UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE
AUTORI DEI CONTRIBUTI
Max Archetti, referente nel Laboratorio delle associazioni che gestiscono progetti extrascuola
Don Alessandro Beghini, Ufficio per la Pastorale dell’Età Evolutiva della Diocesi di Bergamo
Corrado Brignoli responsabile dell’Unità Operativa per le Politiche della Famiglia della Comunità Montana Val Cavallina
Giusi Caio, referente del Coordinamento dei responsabili degli Uffici di Piano degli Ambiti Territoriali della provincia di Bergamo
Franco Floris direttore della rivista Animazione Sociale e conduttore del Laboratorio
Benvenuto Gamba referente del Coordinamento dei responsabili degli Uffici di Piano degli Ambiti Territoriali della provincia di Bergamo
Vanda Gibellini dirigente dell’Istituto Comprensivo di Ponte Nossa e referente per la Scuola nel Laboratorio
Elena Lazzari responsabile della Divisione Servizio Sociale Centrale del Comune di Bergamo
Marta Locatelli collaboratrice dell’Ufficio per la Pastorale dell’Età Evolutiva della Diocesi di Bergamo
Emilio Majer consulente del Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo area minori
M. Carla Marchesi responsabile dell’Ufficio Interventi Educativi dell’Ufficio Scolastico Provinciale e referente per la Scuola nel Laboratorio
Silvio Petteni presidente provinciale AGESC e referente per le Associazioni dei genitori nel Laboratorio
Marica Preda presidente della cooperativa sociale Linus e referente per la Cooperazione sociale nel Laboratorio
Piergiorgio Reggio docente della facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Cattolica di Milano, esperto di formazione adulti
Elena Righetti formatrice esperta in educazione degli adulti e in progettazione didattica
Stefano Rota coordinatore Assistenza Domiciliare Minori del Consorzio Solco Città Aperta
Andrea Sammali psicologo di comunità e psicoterapeuta, formatore e supervisore
Beatrice Testa pedagogista, funzionario del Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo
Marco Zanchi referente del Consorzio Solco Priula e coordinatore dei progetti dell’Ambito Territoriale dell’Isola Bergamasca e Bassa Valle San Martino
Astrid Zenarola collaboratrice dell’Ufficio per la Pastorale dell’Età Evolutiva della Diocesi di Bergamo e referente per gli Oratori nel Laboratorio
La pubblicazione nasce all’interno di un progetto attivato dalla Provincia di Bergamo Settore Politiche Sociali in collaborazione con il Laboratorio Provinciale Extrascuola, ambito di raccordo interistituzionale costituito con l’obiettivo di studiare, promuovere e sostenere le esperienze dei servizi e progetti dell’extrascuola nel territorio provinciale. Il volume raccoglie documenti prodotti nell’ambito del Laboratorio e contributi dei relatori e formatori del percorso “Progetti extrascuola. Laboratori di esperienze, apprendimenti e relazioni fra scuola, famiglia e territorio”, realizzato nel periodo novembre 2005 - giugno 2006 e articolato in incontri di formazione e seminari.
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INDICE
PRESENTAZIONE pag. 9di Valerio Bettoni e Bianco Speranza
1. UN PROGETTO PER L’EXTRASCUOLA Il progetto extrascuola e il Laboratorio provinciale pag. 15
di Beatrice TestaI servizi extrascuola in provincia di Bergamo pag. 24
di Emilio MajerI ragazzi dell’extra.lab. Fare laboratorio con i ragazzi pag. 38
a cura di Franco Floris
2. SCUOLA, FAMIGLIA E TERRITORIO INSIEME PER GLI APPRENDIMENTI
La scuola per il diritto all’apprendimento pag. 81di Maria Carla Marchesi
Gli oratori per l’extrascuola pag. 90di Astrid Zenarola, don Alessandro Beghini e Marta Locatelli
La cooperazione per l’extrascuola pag. 93di Marica Preda
L’associazionismo per l’extrascuola pag. 98di Max Archetti
I genitori fra scuola ed extrascuola pag. 101di Silvio Petteni
Il territorio: l’extrascuola come strumento per le politiche sociali per i minori - Gli Ambiti Territoriali e i servizi extrascuola pag. 103
di Giusi Caio
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- L’approccio comunitario come necessità per le politiche per i minori pag. 105 di Benvenuto Gamba
3. EXTRASCUOLA: “IMPRESE DI COMUNITÀ” INTORNO AL DIRITTO DEI RAGAZZI ALL’APPRENDIMENTO Progettare nell’extrascuola pag. 113
di Piergiorgio ReggioQuali progetti pag. 117
di Elena RighettiUn laboratorio degli apprendimenti pag. 128
di Piergiorgio ReggioAccompagnare e sostenere i processi di apprendimento pag. 138
di Elena RighettiUn laboratorio di comunità pag. 145
di Franco Floris e Piergiorgio ReggioExtrascuola come impresa di comunità pag. 162di Andrea Sammali
4. BUONE PRASSIUn patto educativo per l’extrascuola in Val Seriana pag. 173
di Vanda GibelliniLa sovracomunalità come risorsa: l’esperienza della Val Cavallina pag. 177Corrado Brignoli
Partnership possibili: l’esperienza nell’Isola Bergamasca pag. 180
Marco ZanchiInterventi di tutela e prevenzione: progetti territoriali nella città di Bergamo pag. 182
Elena Lazzari e Stefano Rota
5. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI pag. 191
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PRESENTAZIONE
Questa pubblicazione, che abbiamo il piacere e la soddisfazione di
presentare, propone molteplici contributi e riflessioni sull’extrascuola,
un’area delle politiche sociali per i minori che, benchè caratterizzata da
una rete di servizi e progetti che svolgono una capillare azione educativa
e preventiva, per molti anni non è stata sufficientemente considerata dalle
istituzioni territoriali. Siamo convinti che – in una stagione nella quale
il dibattito socio-educativo è condizionato dalle attenzioni sul futuro del
welfare – pubblicazioni come queste, insieme al percorso di formazione e
di elaborazione culturale che l’ha prodotta, siano particolarmente preziose
e necessarie.
E’ importante infatti in campo educativo, superando la logica imminente
delle emergenze, mantenere aperti spazi di riflessione e occasioni di
confronto sulle prassi, sulle esperienze, sui saperi che, nei territori, soggetti
diversi del pubblico e del no profit stanno costruendo insieme.
Nel nostro territorio provinciale sono molte le iniziative esistenti. La
ricognizione effettuata nell’anno scolastico 2003-2004 ne ha evidenziate
127. L’aggiornamento al gennaio 2007, circa 200. Sono molte, radicate nei
territori, anche se spesso presentano dimensioni di fragilità, sul piano del
modello organizzativo o dell’impianto pedagogico, ma soprattutto sul piano
delle risorse economiche.
Le fonti di finanziamento utilizzate per i progetti dell’extrascuola spesso
non sono in grado di garantire per il futuro risorse certe e stabili: il passaggio
dalla legge 285/97, che metteva a disposizione risorse esclusive e mirate,
alla L.328 ha aperto ad una negoziazione circa le priorità di destinazione
delle risorse, e nei territori aumentano i bisogni e si dilatano le priorità;
la logica dei bandi annuali della legge regionale 23/99, che di recente ha
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riconosciuto l’importanza dell’azione svolta dai servizi extrascuola, sostiene
innovazione e sperimentazione, ma non favorisce la stabilizzazione di una
rete di offerta.
Eppure noi tutti sappiamo che gli spazi della quotidianità, i luoghi educativi
che stanno dentro la vita ordinaria delle comunità sono quelli in cui si
gioca la qualità dei processi di crescita dei nostri figli.
Perché ciò che è in gioco non è la sopravvivenza dei servizi, né il posto di
lavoro degli educatori, né l’esistenza di luoghi di custodia che sollevino le
famiglie dalle preoccupazioni circa la gestione del tempo libero dei figli.
Istanze queste legittime ma parziali.
Crediamo che ciò che è in gioco è la possibilità di dare concretezza a parole
quali “promozione dei diritti e delle opportunità”, prevenzione del disagio,
promozione di cittadinanza, che, se non si sostanziano in atti concreti,
finiscono per celebrare se stesse e colorarsi di retorica fastidiosa.
La responsabilità sociale cui siamo chiamati come amministratori, come
soggetti istituzionali e della società civile è quella di fare davvero politica
per i minori, dare concretezza agli orientamenti con delle scelte di priorità,
chiedendo che anche gli altri facciano la loro parte; perchè gli enti locali,
i Comuni, che per i cittadini sono l’interlocutore vicino e raggiungibile,
e i soggetti della società civile non siano lasciati soli nel rispondere alle
domande crescenti di sostegno alle molte fragilità e insieme di promozione
di condizioni di vita buone, per sè e per i più piccoli, nei territori.
Nella nostra provincia abbiamo tante realtà, tante disponibilità e abbiamo
costruito prassi e saperi importanti proprio nell’ottica della valorizzazione
reciproca e della concertazione. Non perdiamo questo orizzonte comune
di pensiero e di lavoro.
Le riflessioni svolte all’interno del Laboratorio provinciale e i contributi
portati nel percorso formativo hanno evidenziato con chiarezza alcuni dei
compiti della “politica”, quella vera, seria, vicina:
- costruire le condizioni perché i ragazzi, e anche gli adulti, possano fare
esperienze di apprendimento. Esperienze significative sul piano individuale,
della costruzione di sé, ma anche esperienze riconosciute socialmente,
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che assumano rilevanza sociale;
- individuare e proporre strategie diversificate che possano rispondere a
situazioni, problemi, soggetti specifici; evitare strategie standardizzate che
inevitabilmente escludono ed espellono chi non sta dentro il sistema;
- individuare modalità diverse di apprezzamento dei ragazzi, modalità che
diano valore a quello che sanno essere e sanno fare;
- aumentare la cultura tra gli adulti, promuovere reti per costruire un humus
culturale più alto, un humus diffuso, non solo di elite o di nicchia;
- costruire e ridefinire insieme i significati, confrontandosi tra soggetti
diversi, ponendosi come comunità.
Il nostro impegno come Settore Politiche Sociali è stato e sarà quello
di sostenere i progetti dell’Extrascuola agendo, attraverso iniziative
concertate, le tre funzioni che ci sono proprie: la ricerca, la formazione e
la promozione culturale.
Esprimiamo un ringraziamento a tutti gli enti e le organizzazioni che
partecipano al Laboratorio provinciale Extrascuola, al conduttore dott.
Franco Floris, ai relatori e ai testimoni di buone prassi e a tutti i soggetti che
operano nelle molte iniziative realizzate nei territori, che ci accompagnano
nei percorsi di promozione culturale e di formazione.
Bianco Speranza Valerio Bettoni
Assessore alle Politiche sociali Presidente
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1UN PROGETTO PER
L’EXTRASCUOLA
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IL PROGETTO EXTRASCUOLA
E IL LABORATORIO PROVINCIALE
di Beatrice Testa
Cuciture
Un sarto ebreo ricevette da un nobile della sua città l’incarico di
cucire un raro capo di vestiario con un tessuto prezioso acquistato a
Parigi. Il nobile raccomandò al sarto di realizzare un capolavoro. Il
sarto sorrise e rispose che non c’era bisogno di incitamenti perché lui
era il migliore della regione.
Terminata l’opera portò il vestito dall’illustre cliente, ma ne ricevette
in cambio solo ingiurie e accuse di aver rovinato il tessuto.
Il sarto frastornato e avvilito andò a chiedere consiglio da Reb
Yerahmiel che gli disse pressappoco così: “Disfa tutte le cuciture del
vestito e poi ricucile esattamente negli stessi punti di prima. Poi
riportaglielo”. Il sarto seguì lo strano consiglio e riportò il vestito al
nobile. Con sua sorpresa il signore fu entusiasta del lavoro e aggiunse
anche un premio al salario. Reb Yerahmiel gli spiegò poi: “La prima
volta tu avevi cucito con arroganza e l’arroganza non ha grazia.
Perciò sei stato respinto. La seconda volta hai cucito con umiltà e il
vestito ha acquistato valore”. E’ decisiva l’intenzione più della perizia,
l’ispirazione più della maestria, anche negli umili lavori […] . La sola
abilità tecnica è sterile, vana.
Per chi è abituato a considerare solo il prodotto finito e non il modo
con cui lo si lavora, per chi giudica l’opera e non l’intenzione, questo
racconto è invano.
Le cuciture quotidiane, che chi lavora in ambito educativo deve
continuamente fare, disfare, rifare, sono un lavoro antico, paziente
e insostituibile che, pur avendo poco a che fare con la novità,
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produce ogni volta risultati nuovi, importantissimi.
Non sempre le cuciture sono evidenti, molte volte la loro presenza
è percepibile solo dalla coesione di ciò che prima non era unito,
ma è nel lavoro di cucitura e non nel suo risultato finale l’essenza
del processo.
Testo di Erri De Luca “Cuciture”1 riportato in un articolo di Franca
Mazzoli, pedagogista di Bologna, sul numero di settembre 2005 della
rivista “Bambini” ed Junior.
Negli ultimi anni si sono sviluppati in modo diffuso interventi aggregativi che
fra i loro obiettivi si propongono di offrire ai ragazzi un supporto scolastico
all’interno di un contesto diversificato e secondo un’articolazione che
coniuga il momento dello studio al momento del gioco, dell’animazione,
della relazione.
Nonostante questi servizi si siano a volte sviluppati come proposte
“residuali” o “di carattere compensativo” rispetto ad altri ambiti educativi
e formativi, essi rappresentano degli interventi che si collocano in una
posizione potenzialmente strategica per le politiche sociali rivolte ai
minori.
Questi servizi infatti si pongono in un’area di connessione fra le
responsabilità e le attenzioni educative della famiglia, della scuola e del
territorio e consentono di attivare proposte che integrano al loro interno
valenze promozionali, preventive e di integrazione culturale.
Se da un lato la residualità ha generato soluzioni creative, che hanno
portato ad investire risorse diversificate (dagli operatori professionali, a
giovani volontari e ai genitori associati) e a valorizzare contenitori e soggetti
socio-educativi già impegnati nel territorio, dall’altro lato ha messo in
evidenza alcuni limiti e soprattutto alcuni elementi di fatica che rischiano
di depotenziare e disperdere il patrimonio di esperienze e di energie che
1- Erri De Luca “Alzaia”, Feltrinelli 2004, p.33
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questi progetti hanno saputo mobilitare.
La mancanza di un raccordo organico fra le componenti impegnate
nell’attuazione degli interventi, la solitudine delle figure educative, la
carenza di supporti e orientamenti necessari per sostenere la fatica della
gestione del ruolo educativo in un “setting” debole possono indurre forme
di turn over, discontinuità degli interventi e azioni non sufficientemente
qualificate sul piano educativo.
A partire da questa analisi il Settore Politiche Sociali della Provincia di
Bergamo - d’intesa con l’ASL, l’Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva della
Diocesi di Bergamo e l’Ufficio Scolastico Provinciale - ha promosso un
progetto specifico finalizzato a dare visibilità e riconoscimento sociale e a
valorizzare e supportare le esperienze di collaborazione tra scuola, famiglia
e territorio per qualificare il tempo dei ragazzi nell’extrascuola.
Il Progetto Extrascuola propone un insieme di azioni coordinate sviluppate
a più livelli:
- il Laboratorio Provinciale Extrascuola, come luogo di raccordo e
coordinamento dei referenti degli Enti e delle Organizzazioni significative
di questa area di intervento per allargare la condivisone delle finalità del
progetto; in questa sua configurazione interistituzionale il Laboratorio
ha costituito il motore e la bussola del progetto stesso ed ha sviluppato
un percorso di rilettura delle esperienze e di elaborazione di riflessioni
ed orientamenti utili alla progettazione, alla gestione e alla qualificazione
delle iniziative nell’extrascuola;
- la ricognizione delle esperienze di collaborazione scuola-famiglia-territorio
per qualificare il tempo dei ragazzi nell’extrascuola, finalizzata a favorire
la conoscenza e promuovere la visibilità di queste iniziative e del
potenziale che esse possono rappresentare all’interno delle comunità
locali ;
- i percorsi di formazione pensati per valorizzare, sostenere e qualificare
ulteriormente, anche attraverso il confronto di esperienze, le risorse
educative e le realtà organizzative che sono impegnate in queste
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forme di intervento: responsabili e coordinatori dei servizi, operatori
professionali e volontari, referenti delle agenzie educative territoriali,
partner in un patto per assicurare una “continuità responsabile”
tra scuola ed extrascuola, fra apprendimenti nel tempo scolastico e
apprendimenti nel tempo libero.
Il Laboratorio Provinciale Extrascuola
A partire dalla condivisione delle analisi e delle ipotesi di lavoro prospettate
dal Progetto Extrascuola, il Laboratorio Provinciale ha avviato il suo
compito di riflessione ricercando un comun denominatore che potesse
aiutare a definire in modo più chiaro e condiviso i progetti dell’extrasuola,
un insieme di iniziative diffuse capillarmente nel territorio e promosse
da vari soggetti (enti locali, parrocchie, associazioni, cooperative, ecc.) in
raccordo con la scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado che,
come ha ben evidenziato la ricognizione svolta, presentano caratteristiche
diverse e a volte originali.
Ciò che in particolare il confronto fra le diverse componenti del Laboratorio
ha permesso di cogliere con maggiore chiarezza è che le potenzialità
dell’extrascuola possono essere concretizzate soltanto assumendo scelte
pedagogiche consapevoli e operando traduzioni organizzative coerenti
che consentano di attraversare alcune ambivalenze che sfidano l’impegno
educativo a trovare un equilibrio originale fra diverse centrature:
- extrascuola come luogo dove i ragazzi possano fare insieme “compiti
e non solo compiti” o come percorso di ricerca intorno all’avventura
dell’apprendere in un rapporto di continuità fra scuola e tempo libero,
fra saperi della scuola e saperi dell’extrascuola;
- un “dopo-scuola” per recuperare cosa e chi non riesce a scuola o
un nuovo modo di promuovere dentro le comunità, a favore di tutti
i ragazzi, l’apprendimento e la cultura, attraverso nuove forme di
partnership fra una “scuola che si fa territorio” e un territorio che si
assume la responsabilità di dar vita a una formazione di qualità a scuola
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e non solo;
- una opportunità per portare attenzione alle difficoltà o alle potenzialità
di apprendimento cognitivo del singolo ragazzo o per integrare i processi
di formazione della scuola con gli apprendimenti, altrettanto essenziali
per la crescita, promossi dai diversi ambiti di socializzazione: famiglia,
gruppalità istituzionale della scuola e della classe e gruppalità elettive
del tempo libero.
L’analisi delle esperienze e il confronto fra le diverse prospettive di
osservazione rappresentate nel Laboratorio ha inoltre favorito l’emergere
e l’esplicitarsi di alcune “insidie pedagogiche” in cui le progettualità
dell’extrascuola possono incorrere se non supportate da una progettualità
sufficientemente pensata sul piano educativo:
- il rischio di una doppia marginalità: soprattutto quando lo spazio
extrascolastico si colloca ai margini della scuola, da una parte sopportato
con sufficienza (come esperienza di serie B rispetto alla scuola) e
dall’altra gestito con altrettanta sufficienza, inficiato da superficiali
pregiudizi e luoghi comuni sulla scuola;
- il rischio di aumentare la ghettizzazione sociale di chi fa fatica, quando i
ragazzi con problemi sociali rischiano di ritrovarsi (solo) tra loro, senza
una scambio sociale allargato, con un forte impoverimento relazionale
sia orizzontale che verticale. L’intenzione di integrare si trasforma
inconsapevolmente in una doppia emarginazione: al mattino in classe,
al pomeriggio nell’extrascuola…;
- il rischio di omologazione dei bisogni e dei problemi attraverso
interventi generici e semplicisti; limitarsi a fare i compiti non basta,
perchè problemi diversificati di apprendimento richiedono interventi
diversi e specifici: perdita di motivazione e del senso dell’andare a
scuola, carenza di identificazione positiva in figure adulte, mancanza
di esperienza positiva nei gruppi di pari, disturbi cognitivi specifici che
richiedono attenzioni specialistiche, ecc.;
- il rischio della presa in carico di problematiche complesse con
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professionalità e strumenti deboli, che portano spesso ad accettare
deleghe impegnative (da famiglie, scuole, comuni, servizi sociali) con un
eccesso di presunzione in chi opera (a livello professionale o volontario)
senza una progettualità definita, senza una adeguata condivisione in rete
dei problemi e delle risorse e senza il conforto di funzioni di supporto,
di opportunità di formazione e di confronto con altre esperienze.
Attraverso l’analisi e la riflessione intorno alle criticità e alle potenzialità
individuabili nelle esperienze si è progressivamente delineato uno
scenario nuovo per l’extrascuola, ricco di una molteplicità di direzioni di
investimento possibili in rapporto ad una comune preoccupazione delle
comunità adulte: incoraggiare, sostenere e orientare i ragazzi nell’avventura
dell’apprendere che si snoda in un rapporto di continuità fra scuola, tempo
libero, famiglia e territorio. Si è potuto cogliere che dietro questa comune
preoccupazione ci sono domande molto diverse cui spesso, per imperizia,
per ristrettezze di tempo o di risorse, si rischia di offrire una risposta
univoca, in termini semplificati o standardizzati. Non esiste quindi un
modello di doposcuola, ma possono convivere modalità articolate di farsi
carico insieme dei problemi correlati alle esperienze di apprendimento dei
ragazzi, che si collocano su quadranti diversi dello scenario complessivo
dell’extrascuola, come si può desumere dalla tavola che segue, elaborata
nell’ambito del Laboratorio:
STORIE DI NORMALITÀ
STORIE DI DIFFICOLTÀ
CO
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GR
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Sostegno alle competenze necessarie per rispondere
alle sollecitazioni della scuola
Concretizzazione del diritto alla gruppalità, restituendo apprendimenti sociali che danno senso allo studio e alla cultura e promuovono l’avventura dell’apprendere
Sostegno alle difficoltà individuali, restituendo forme di “diverso
apprendimento” e offrendo una
“seconda chance” di successo
Aiuto in rapporto alle competenze relazionali, restituendo capacità di apprendimento sociale e speri-mentazione di sé in gruppalità di tipo elettivo (oltre il gruppo classe)
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L’analisi dei processi di implementazione delle diverse esperienze
ha permesso, infine, di cogliere la possibilità di istituire percorsi
di progettazione sociale e laboratori di comunità che, a partire dal
riconoscimento dell’extrascuola come “bene comune”, possano dar vita
ad una piccola ma significativa impresa di comunità intorno al diritto dei
ragazzi all’apprendimento.
Questa nuova direzione di lavoro apre una prospettiva di senso del tutto
inedita per i laboratori dell’extrascuola: da strumenti messi in campo dalla
comunità adulta per accompagnare i ragazzi nell’avventura dell’apprendere
a contenuto fondamentale di un dialogo aperto nella comunità intorno ai
nuclei di una nuova pedagogia della democrazia, testimoniata in modo
diretto ai ragazzi da una comunità che sa riconoscere le sfide emergenti e
sa mobilitarsi per salvaguardare il bene di ciascuno e di tutti.
Non è stato facile portare a temine gli intenti che il Laboratorio Provinciale
Extrascuola si era proposto, poiché non è mai facile lavorare su aree
educative di confine, dove il problema non è quello di definire, chiarire,
distinguere le competenze (il “chi fa che cosa” e “con quali risorse”), ma è
quello di individuare i modi con cui lavorare sulle aree delle competenze
plurime, sulle aree intermedie dove ciò che serve è costruire legami. Il
futuro di molti progetti, ma anche delle politiche per i minori in genere, si
gioca sulla capacità di costruire accordi che regolino i momenti di intreccio
delle competenze, di sciogliere i nodi dei confini.
Le iniziative del Laboratorio Provinciale
Nonostante le difficoltà relative anche alla necessità di far dialogare
culture e linguaggi diversi, di coniugare vincoli e potenzialità specifici di
ciascun contesto organizzativo, il Laboratorio Provinciale Extrascuola è
stato in grado di elaborare una nuova prospettiva di lettura dei progetti
extrascuola, esito dell’incontro tra le competenze e i saperi diversificati
messi a disposizione dai suoi componenti e la provocazione culturale di
Franco Floris, che ha poi curato un documento di sintesi delle riflessioni
prodotte, dal titolo “I ragazzi dell’extra.lab. Fare laboratorio con i ragazzi”
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che viene proposto a pag. 39.
Un altro prodotto significativo realizzato attraverso lo sforzo coordinato
delle diverse realtà rappresentate nel Laboratorio è la “fotografia” dello
stato dell’arte dei servizi/progetti dell’extrascuola in provincia di Bergamo
che è stato possibile tracciare attraverso l’elaborazione dei dati raccolti
nel corso di una specifica ricognizione sulle iniziative attive nell’anno
scolastico 2003-2004, i cui dati essenziali sono riportati a pag. 24, e di cui
è in corso un aggiornamento rispetto alla situazione nell’anno scolastico
2006-2007.
Infine il Laboratorio provinciale ha offerto un contributo importante nella
definizione del percorso di promozione culturale e di formazione promosso
dal Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo e realizzati da
novembre 2005 a marzo 2006.
Il percorso si è concretizzato in una articolata serie di iniziative promozionali
e formative. Aperto con il seminario “Progetti extrascuola Laboratori di
esperienze apprendimenti e relazioni fra scuola famiglia e territorio” del 14
novembre 2005 e proseguito con l’iniziativa, attuata da marzo a maggio
2006 “Progetti extrascuola: incontri formativi e seminari”.
La proposta formativa intrecciava due distinti moduli proposti in modo
complementare: quattro incontri formativi, rivolti in specifico ai responsabili
e coordinatori dei progetti/servizi extrascuola, strutturato in forma di
laboratorio, e due seminari, che hanno offerto la possibilità di sviluppare
ulteriormente i contenuti condivisi nel laboratorio, aprendo il confronto ai
molti e diversi interlocutori territoriali dei progetti extrascuola2.
Prospettive di sviluppo
Per il 2007 il Laboratorio provinciale ha elaborato un piano di lavoro
finalizzato a dare continuità e sviluppo a quanto già realizzato attraverso:
• l’aggiornamento della ricerca: per produrre una anagrafe aggiornata
2 - Nella sezione “Extrascuola: Imprese di comunità intorno al diritto dei ragazzi all’apprendimento” a pag. 113 di questo volume sono riproposti i contributi più significativi presentati nei due percorsi di promozione culturale e di formazione.
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dei progetti/servizi attivi, per approfondire i contenuti pedagogici delle
esperienze e tenere monitorati gli sviluppi nell’area dell’extrascuola,
per meglio comprenderne le caratteristiche e le evoluzioni e per
continuare a tenere aperti orizzonti di studio.
• lo studio condotto nell’ambito del Laboratorio;
• la formazione attraverso percorsi costruiti insieme ai referenti della
programmazione territoriale (in primo luogo quindi gli Ambiti
territoriali) da realizzarsi in aree territoriali diverse della provincia per
incontrare e valorizzare i saperi che si costruiscono nelle esperienze e
a partire dalle esperienze;
• la promozione culturale, individuata come funzione essenziale per
tenere aperto il dibattito culturale. In questa prospettiva si colloca
l’iniziativa del Convegno nazionale “Aver cura della cultura dei figli”
del 23-24 Marzo 2007 organizzato con il Laboratorio provinciale e la
rivista “Animazione Sociale”. Questa iniziativa può rappresentare uno
stimolante ambito di approfondimento culturale e di confronto dove
far convergere gli esiti dei diversi percorsi di riflessione culturale e
le analisi svolte intorno alle esperienze e ai saperi connessi al tema
generatore dei processi di apprendimento di questa generazione e della
costruzione, con modalità spesso inedite, di imprese di comunità.
24
I SERVIZI EXTRASCUOLA IN PROVINCIA DI BERGAMO
Una “fotografia” dei servizi
di Emilio Majer
Nel percorso di lavoro del Laboratorio Provinciale Extrascuola una
particolare attenzione è stata dedicata ad ancorare la riflessione teorica ai
riscontri rilevabili dalla realtà circa i servizi e la loro caratterizzazione nei
diversi territori.
Per questo il Settore Politiche Sociali3 della Provincia di Bergamo, in
collaborazione con il Laboratorio, gli Uffici di Piano e gli Enti titolari e
gestori dei progetti, ha condotto un lavoro di ricerca sui servizi extrascuola
attivi nel territorio provinciale.
Una prima ricognizione è stata attuata nell’anno scolastico 2003-2004 con
l’obiettivo di sviluppare una conoscenza più approfondita e supportata da
dati descrittivi e qualitativi sul diversificato insieme dei progetti/interventi
educativi extrascolastici al fine di offrire un contributo, in termini di
informazioni ed analisi, utile alle realtà interessate a promuovere questo
tipo di interventi e ai soggetti impegnati nella programmazione sociale nei
diversi Ambiti Territoriali.
L’elaborazione dei dati rilevati ha consentito di sviluppare una prima
“fotografia” di un universo assai eterogeneo e in costante movimento,
difficile da fissare in un’immagine definita e stabile, vista la tendenza di
questi servizi a nascere e morire o a trasformarsi nell’arco di uno o due
anni scolastici.
L’interesse prevalente di questa prima ricognizione non è stato tanto quello
di avere un quadro esaustivo dell’offerta territoriale, quanto piuttosto
quello di farsi un’ idea più chiara e avvalorata da riscontri oggettivi sulla
consistenza quantitativa, ma soprattutto qualitativa, dei progetti al fine
di poter intravedere potenzialità e direzioni di sviluppo di una tipologia
di interventi spesso e ingiustamente ritenuta residuale all’interno delle
3 - Gli strumenti e le procedure di rilevazione della ricognizione svolta nel 2007 sono stati predisposti dall’Osservatorio Politiche Sociali del Settore
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politiche educative dei territori.
In occasione dell’ organizzazione del convegno “Aver cura della cultura
dei figli”del 23 e 24 marzo 2007, è emersa nel Laboratorio provinciale
l’esigenza di avere una nuova “fotografia” aggiornata di questi servizi.
A questo scopo nel gennaio 2007 è stata avviata una seconda ricognizione
che si sta chiudendo proprio mentre va in stampa questa pubblicazione.
Abbiamo pensato quindi di integrare la restituzione sintetica della ricerca
svolta nel 2003-2004 con alcune anticipazioni dei dati ricavati dalla
ricognizione di aggiornamento del 2007, dati che sono ancora in fase di
elaborazione e che saranno oggetto di un successivo e specifico report di
ricerca.
Definizione dei progetti/interventi oggetto della rilevazione
Entrambe le rilevazioni hanno inteso individuare e descrivere l’articolato
ed eterogeneo insieme di progetti/interventi educativi extrascolastici
variamente nominati (ad es. spazi compiti, non solo compiti, laboratori,
ecc.) rivolti a ragazzi della scuola dell’obbligo e delle scuole superiori che
propongono, in orario pomeridiano, attività di tipo scolastico, associate
ad attività di tipo ludico, ricreativo e animativo, espressivo e culturale, di
ricerca e di laboratorio con la possibilità di sperimentare relazioni con
coetanei e con adulti.
Tali progetti/interventi possono essere attivati all’interno anche di servizi e
progetti più ampi, come oratori, centri di aggregazione giovanile, progetti
adolescenti, ecc. e possono essere promossi da vari soggetti titolari, come
enti locali, istituti scolastici, parrocchie, cooperative, gruppi e associazioni
di volontariato, comitati genitori ecc.
In entrambe le ricognizioni i progetti sono stati rilevati attraverso l’invio
di questionari indirizzati a enti locali, scuole, oratori, cooperative sociali,
gruppi, associazioni e comitati genitori operanti nella provincia di
Bergamo. Nel corso della prima ricerca sono stati rilevati n. 127 progetti
di interesse della ricognizione, mentre nell’aggiornamento del 2007 sono
stati individuati n. 193 progetti.
26
Le tipologie di progetti/interventi rilevati
Dall’analisi dei progetti segnalati nel corso della prima ricerca è parso
immediatamente evidente che gli interventi nell’extrascuola costituiscono
una realtà multiforme dai contorni non troppo definiti e neppure definibili.
Si è quindi ritenuto utile cercare di distinguere i progetti sulla base di
diverse variabili, individuando in tal modo alcune tipologie distintive.
Di seguito si propongono le definizioni di ciascuna tipologia e si evidenziano
alcuni elementi qualificanti rilevati dall’analisi dei dati qualitativi raccolti
nel corso della ricerca.
1. Solo compiti
Servizi/progetti che hanno come oggetto di investimento esclusivo o
prevalente il rafforzamento dell’attività didattica proposta dalla scuola e il
supporto nell’espletamento dei compiti assegnati dagli insegnanti.
Gli interventi proposti possono riguardare: lo svolgimento dei compiti, il
supporto nello studio, corsi e interventi di recupero scolastico in orario
extracurricolare, corsi di approfondimento delle materie trattate nel tempo
scuola.
Elementi qualificanti
• presenza di una cultura pedagogica evoluta, con attenzioni educative
che vanno ben oltre una funzione di supporto nell’esecuzione delle
consegne scolastiche;
• obiettivi che fanno riferimento allo sviluppo di interesse e motivazione
nei confronti dell’esperienza scolastica, all’assunzione di metodi
di studio adeguati allo specifico profilo cognitivo del ragazzo, alla
valorizzazione delle potenzialità personali, all’aumento del livello di
autostima;
• funzione del supporto didattico vista come strumento di promozione
di competenze più ampie, sia a livello cognitivo che relazionale e di
prevenzione di situazioni di disagio o di rischio correlate all’insuccesso
27
scolastico;
• presenza di attenzioni specifiche di ordine pedagogico nei progetti
rivolti in via prevalente a ragazzi stranieri o svantaggiati (più della metà
dei progetti “solo compiti”): interventi di alfabetizzazione, attenzione a
sviluppare un clima di integrazione e di valorizzazione delle diversità,
interventi complementari rivolti sia ai ragazzi che alle famiglie
straniere;
• rapporto educatori/utenti di circa 1/5.
2. Compiti e aggregazione
Progetti e interventi che propongono in modo complementare sia attività
attinenti la didattica (supporto compiti, studio assistito, ecc.) sia attività
ludiche, ricreative e motorie strutturate o libere, laboratori espressivi o
ambientali, attività sportive e motorie, momenti di convivialità (merenda,
feste, ecc.), gite e esperienze di socializzazione e di integrazione, ecc.
Elementi qualificanti
• obiettivi educativi che fanno maggiormente riferimento ad aspetti
relazionali, allo sviluppo di competenze espressive e sociali e alla
capacità di confrontarsi con le regole, oltre che all’incremento dei livelli
di autostima e di autonomia personale;
• presenza di attività connotate come azioni orientate a finalità di
prevenzione del disagio minorile;
• enfasi posta sullo sviluppo di un lavoro in rete fra le diverse agenzie
per arricchire i percorsi di proposte e di opportunità, ma anche per
sviluppare un maggiore senso di appartenenza dei ragazzi alla comunità
locale;
• valorizzazione, in alcune realtà, del ruolo di sostegno che nell’aiuto
compiti possono svolgere i ragazzi stessi fra di loro;
coinvolgimento, in alcuni servizi, dei ragazzi in momenti di progettazione
e di decisione delle attività;
• coinvolgimento della famiglia, in molti casi attraverso momenti di
convivialità e di socializzazione;
28
• rapporto educatori/utenti di circa 1/10.
3. Attività raccordate al progetto scuola
Attività aggregative e di socializzazione che, pur non proponendo nel
tempo extrascolastico attività attinenti i compiti e lo studio, tuttavia si
raccordano strettamente con la programmazione scolastica, in quanto
perseguono obiettivi orientati allo sviluppo di competenze complementari
all’orizzonte formativo ed educativo della scuola.
Sono iniziative rivolte in prevalenza ai ragazzi della scuola secondaria di
primo grado, che propongono una gamma molto diversificata di attività:
gruppi musicali di istituto, concorsi di produzione letteraria e grafico
pittorica, opportunità di socializzazione mirate all’integrazione di alunni
disabili o stranieri, pratiche motorie e sportive, laboratori espressivi (di
musica, canto, teatro, ecc.), gite e uscite per la conoscenza del territorio.
Elementi qualificanti
- Obiettivi di riferimento diversificati: far sperimentare, attraverso proposte
ludiche e ricreative, il piacere dell’apprendimento; offrire opportunità di
aggregazione dove sia possibile sperimentare relazioni diversificate con
pari e con adulti significativi; incrementare le competenze espressive
e relazionali dei ragazzi e stimolare autonomia, protagonismo e
partecipazione; sensibilizzare alla solidarietà tra pari, rafforzando le
relazioni inclusive tra coetanei;
- presenza frequente di un impegno diretto di alcuni insegnanti della
scuola locale, che possono così svolgere una funzione educativa rilevante
nel connettere le esperienze del tempo scuola con quelle del tempo
extrascolastico.
4. Altre attività nell’extrascuola
Sono interventi non configurabili all’interno delle precedenti tipologie,
ma attinenti, in modo più o meno diretto, l’area dell’extrascuola e della
29
corresponsabilità scuola, famiglia e territorio e programmati in stretto
raccordo con la scuola.
Nella prima ricognizione sono stati ascritti a questa tipologia soltanto
quattro progetti, che proponevano azioni particolari e diverse: una rete di
solidarietà fra famiglie per dare supporto nei compiti e nel tempo libero a
bambini stranieri o in difficoltà; un servizio di assistenza dei figli durante
assemblee scolastiche dei genitori; un servizio di mediatori culturali
impegnati nel tempo extrascolastico per favorire l’incontro fra scuola e
genitori di bambini stranieri; una ludoteca le cui attività, pur non essendo
attinenti la didattica, sono definite in stretto raccordo con la scuola e
previste nel POF.
Queste tipologie di intervento, che nella prima ricognizione sono state
ricavate a posteriori, sono state invece proposte nel questionario di
rilevazione del 2007 come riferimento per i compilatori per collocare le
esperienze segnalate.
Nel 2007 vi è stato un cospicuo aumento delle segnalazioni relative ai
progetti della tipologia 4. Altre attività nell’extrascuola in cui sono confluite
esperienze impegnate su diversi versanti:
- iniziative mirate ad aree specifiche di intervento quali: la socializzazione
di ragazzi disabili o l’integrazione culturale e l’alfabetizzazione di ragazzi
stranieri, l’ascolto e il riorientamento di ragazzi della scuola superiore a
rischio di dispersione scolastica;
- interventi finalizzati a sensibilizzare gli adulti e a sviluppare competenze
e mobilitare risorse per l’attivazione di iniziative relative alla genitorialità
sociale: ad es. proposte volte a favorire la partecipazione dei genitori nella
scuola, percorsi per la definizione negoziata dei tempi della scuola fra
docenti, genitori e alunni;
- progetti territoriali volti a promuovere reti sociali impegnate a sviluppare
progettualità integrate rivolte ai ragazzi, agli educatori e ai genitori.
Oltre ai 193 progetti rilevati nel 2007 come congruenti con le tipologie
30
proposte, sono pervenute 33 segnalazioni di esperienze che, per motivi
diversi, non si è ritenuto utile comprendere nella elaborazione quantitativa
dei dati.
Si tratta in particolare di:
- CAG e spazi aggregativi che non evidenziano raccordi specifici con la
scuola, o elementi che riconducono ad iniziative di corresponsabilità fra
scuola, famiglie e territorio, e che sono stati oggetto di altre rilevazioni
specifiche (n. 12 segnalazioni);
- corsi proposti in ambito scolastico ad integrazione dell’offerta formativa,
come ad es. corsi di lingua, corsi per il conseguimento della patente
europea informatica o dell’idoneità alla guida del motociclo, corsi di
recupero scolastico, proposte teatrali e iniziative che fanno riferimento
alla tipologia del “consiglio comunale dei ragazzi” (n. 10 segnalazioni);
- interventi di assistenza educativa nei tempi di anticipo, posticipo e
intermensa (n. 7 segnalazioni);
- corsi per genitori su tematiche diverse, quali l’educazione all’affettività,
l’orientamento, ecc. (n. 4 segnalazioni).
Ecco il quadro delle esperienze segnalate nel 2003, disaggregate per
tipologia e poste in raffronto con i dati rilevati dall’aggiornamento del
2007.
31
Tav. 1. Tav. 1. Progetti rilevati per tipologia – Raffronto ‘03 –‘07 (valori
assoluti)
Il grafico evidenzia un incremento generale dei progetti extrascuola che
passano, come si è detto, da 127 rilevati nel 2003 a 193 nel 2007.
I progetti che vedono il maggiore incremento sono quelli riferibili alla
tipologia 2. Compiti e aggregazione, che passano da 63 a 107 e alla tipologia
4. Altre attività dell’extrascuola.
32
La distribuzione dei progetti nel territorio
Il lavoro di ricognizione svolto ha messo in evidenza la capillare diffusione
dei servizi e progetti extrascuola nei diversi territori della provincia di
Bergamo.
Nel 2003 questi servizi erano presenti in 69 comuni (pari al 28% dei
comuni della provincia), mentre nel 2007 la loro presenza è stata rilevata
in 107 comuni diversi (pari al 44 % dei comuni della provincia).
Un elemento molto significativo che si può cogliere dall’analisi di questi dati
è anche quello relativo alla continuità nel tempo dei progetti extrascuola.
In 50 dei 107 comuni dove nel 2007 si è rilevata la presenza di un servizio
extrascuola non erano stati rilevati progetti nella precedente ricognizione
del 2003. Questo significa che in quasi la metà dei comuni nei quali nel
2007 è stato rilevato un servizio extrascuola l’apertura si è avuta nel corso
dell’ultimo triennio.
Rispetto ai 69 comuni dove era attivo un servizio extrascuola nel 2003, in 48
casi è presente anche nel 2007 (magari con un cambio di denominazione o
enti promotori), mentre in 21 comuni non se ne rileva più la presenza.
Il quadro della distribuzione dei progetti rilevati negli Ambiti Territoriali
della provincia di Bergamo (considerando il comune dove si svolge
effettivamente l’attività) si presenta alquanto eterogeneo, sia per quanto
riguarda il numero dei servizi rilevati, sia per quanto riguarda il trend di
crescita registrato nel corso del triennio, come si può vedere nel grafico
della tavola n. 2.
33
Tav. 2. I progetti extrascuola nei 14 Ambiti Territoriali – Raffronto ‘03 – ‘07
(valori assoluti)
La titolarità e la gestione dei progetti
Diverse sono le tipologie dei soggetti che promuovono e gestiscono progetti
extrascuola.
E’ opportuno precisare che il concetto di titolarità in riferimento ai progetti
dell’extrascuola non è univoco e facilmente definibile, come avviene per
altre tipologie di intervento. Infatti i progetti dell’extrascuola nascono
generalmente da una collaborazione paritetica fra più attori sociali che
concorrono al progetto portando prerogative e risorse diverse, ma spesso
equivalenti sul piano dell’importanza. Il dato relativo alla titolarità dei
progetti, qui illustrato solo in relazione alla ricognizione del 2003, se non
può essere rappresentativa per definire in modo univoco la responsabilità
rispetto al progetto, può comunque aiutare a cogliere la rilevanza
dell’investimento dei diversi soggetti nella collaborazione.
34
Tav. 3. Enti titolari e gestori dei progetti extrascuola – Rilevazione ‘03 (valori assoluti)
Come si vede dalla tavola n. 3 riferita ai dati rilevati nel 2003, in generale
gli enti locali si riconoscono come titolari della parte più consistente dei
progetti dell’extrascuola, ed in particolare di più della metà dei progetti
della tipologia 2. Invece poco meno della metà dei progetti compresi
nella tipologia 1. Solo compiti hanno come titolare un istituto scolastico.
L’impegno diretto della scuola si evidenzia in particolare anche nelle attività
extrascolastiche della tipologia 3. Significativo risulta anche il ruolo del
mondo ecclesiale e dell’associazionismo.
Come si può desumere dal confronto fra i dati relativi agli enti titolari e agli
enti gestori (tav. 3), i comuni affidano la gestione dei servizi prevalentemente
a cooperative e, in alcuni casi, ad associazioni. Dei 51 comuni titolari di
servizi solo 6 dichiarano di esserne anche i gestori.
35
Le realtà ecclesiali sono nella quasi totalità dei casi titolari e gestori delle
proposte.
Anche da parte delle scuole vi è la tendenza ad essere al tempo stesso
titolari e gestori delle proposte.
Gli utenti dei progetti dell’extrascuola
I servizi e i progetti dell’extrascuola si rivolgono a tipologie di utenza
diverse. Per quanto riguarda il dato dell’età nelle due ricognizioni si è
rilevato che nel 2003 il 60% dei servizi accoglieva ragazzi di una sola fascia
d’età, mentre i rimanenti rivolgevano le loro proposte a più fasce d’età
contemporaneamente, magari prevedendo tempi e attività differenziate.
Nel 2007 i servizi che accolgono un’unica fascia d’età rappresentano il
52% sul totale dei progetti.
In rapporto ai 127 progetti extrascuola rilevati complessivamente nel
territorio provinciale nella ricerca del 2003, i ragazzi della scuola primaria
trovavano accoglienza nel 70% dei progetti delle varie tipologie, quelli
della scuola secondaria di 1° grado nel 61% dei servizi, quelli degli istituti
superiori nel 13%.
Nel 2007 si riduce il divario fra l’accoglienza riservata ai bambini
della primaria rispetto a quelli della secondaria di 1° grado e,
contemporaneamente, cresce la percentuale delle proposte che vengono
rivolte ai ragazzi della scuola superiore.
Tav. 4. L’accoglienza dei ragazzi delle diverse fasce d’età nei progetti extrascuola - Raffronto ‘03 – ‘07
36
Tav. 5. L’accoglienza dei ragazzi delle diverse fasce d’età nei progetti extrascuola – Raffronto ‘03 – ‘07 (valori assoluti)
L’elaborazione dei dati svolta nel 2003 ha permesso di analizzare in
termini più approfonditi il rapporto che i servizi extrascuola riescono ad
intrattenere anche con alcune tipologie di utenti che vivono particolari
condizioni. In specifico si sono potuti evidenziare i seguenti aspetti:
- più di un terzo dei progetti era rivolta alla generalità dei ragazzi
- un altro terzo vedeva una presenza minoritaria, all’interno di gruppi di
ragazzi senza particolari problemi, di ragazzi che possono richiedere
attenzioni specifiche: disabili, stranieri, ragazzi con difficoltà di
apprendimento o d’altro tipo
- poco meno di un terzo dei servizi rilevati era rivolto in via esclusiva o
prevalente (maggiore del 50% del totale utenti) di ragazzi caratterizzati da
particolari condizioni o difficoltà.
37
Tav. 5. N. Servizi delle diverse tipologie che accolgono ragazzi con condizioni particolari - Rilevazione ‘03 (valori assoluti)
In totale quindi n. 82 progetti (pari al 64,5 % dei progetti analizzati)
vedevano nel 2003 la presenza, in misura minoritaria o maggioritaria, di
ragazzi con particolari condizioni o difficoltà.
Se si analizzano questi dati in relazione alle quattro tipologie di interventi,
si evidenzia una situazione che meriterebbe un’ ulteriore analisi critica e
un approfondimento sul significato effettivo di quanto emerso.
I dati sembrano indicare infatti che la modalità “solo compiti” viene spesso
impiegata come proposta privilegiata per i ragazzi che vivono condizioni
o difficoltà particolari, dato che più della metà dei progetti focalizzati
sull’aiuto nell’esecuzione dei compiti (15 su 28) vede la presenza esclusiva
o prevalente di questa tipologia di ragazzi.
Peraltro considerando il dato che 11 di questi 15 progetti vedono la
38
compresenza di ragazzi stranieri e di ragazzi con difficoltà scolastiche e
tre anche di disabili, è importante comprendere se questo rapporto fra i
progetti “solo compiti” e le tipologie particolari di ragazzi sia la risultante di
una progettazione mirata sulla specificità di loro bisogni o se sia invece la
conseguenza di una dinamica di adattamento dell’utenza al tipo di offerta
disponibile nel territorio.
Conclusioni
Da questa sintetica restituzione delle risultanze emerse a seguito delle due
azioni di ricerca si delinea un quadro dei servizi e progetti dell’extrascuola in
forte sviluppo: aumenta la loro quantità e la loro distribuzione nei territori,
le proposte si diversificano e si attrezzano per accogliere in modo più
specifico, oltre che i bambini delle elementari, anche i preadolescenti e gli
adolescenti, oltre che i ragazzi alla ricerca di opportunità di socializzazione,
anche ragazzi che devono affrontare sfide più impegnative.
Il dato critico che pare necessario tenere monitorato con molta attenzione
è quello relativo alla capacità di questi progetti di mantenersi e qualificarsi
nel corso del tempo. Non è facile rilevare il grado di continuità espresso
nel corso degli anni, in quanto i progetti, anche in relazione alle fonti
di finanziamento cui attingere, si trasformano sotto diversi punti di
vista: cambiano denominazione anche se sono gli stessi gli attori che
collaborano alla loro realizzazione, cambiano ente titolare o gestore,
interrompono temporaneamente la loro attività per poi riproporsi dopo
una sospensione di uno o due anni, ecc. Rispetto alla loro stabilizzazione
come un’offerta costante all’interno del quadro di opportunità per i minori
e le famiglie, diversi sono i fattori che possono contribuire: una politica
diversa dei finanziamenti, un’azione di promozione delle possibilità e
delle potenzialità dei servizi, e soprattutto una programmazione sociale, ai
diversi livelli, attenta a preservare e valorizzare nel tempo queste risorse,
anche attraverso azioni di coordinamento, di supporto, di formazione, di
accompagnamento.
39
I RAGAZZI DELL’EXTRA.LAB.
FARE LABORATORIO CON I RAGAZZI
Documento di sintesi del Laboratorio Provinciale Extrascuola
a cura di Franco Floris
Queste pagine rappresentano il prodotto di sintesi della riflessione che
progressivamente ha preso forma all’interno del Laboratorio provinciale
extrascuola - con il contributo quindi di educatori e insegnanti, associazioni
e cooperative sociali, referenti di enti locali e di oratori, ecc. - che, a partire
dalle innumerevoli esperienze di “doposcuola” e dalle domande alle
quali essi stanno rispondendo nelle comunità locali, è giunto a scoprire
come con questa generazione di ragazzi della scuola elementare e media
sia necessario progettare, a scuola come nell’extrascuola, un insieme di
iniziative animate da quello che è stato delineato come “apprendimento in
laboratorio”.
Il laboratorio dell’apprendere è sempre anche un laboratorio della comunità
locale in cui la scuola, che in questi anni ha interagito sempre più
intensamente con il territorio, partecipa direttamente, in modo consapevole
e attivo, alla progettazione, mettendo in gioco le specifiche competenze
sull’apprendere, sulle difficoltà nell’apprendere e sugli interventi per
attenuarle là dove è possibile. Se, per fare un esempio, il tradizionale
doposcuola era normalmente organizzato senza la partecipazione della
scuola, i laboratori di cui si verrà a parlare non sono più attuabili, proprio
per i problemi che intendono affrontare, senza la partecipazione della
scuola. Da parte sua la scuola non può più considerare tali laboratori come
attività di volontariato di un qualche insegnante e quindi facoltative, ma
come iniziative che rientrano nella sua funzione istituzionale di scuola
chiamata a radicarsi nelle comunità locali, a divenire sempre di più una
scuola della comunità.
Ma in questo processo di progettazione sul territorio, la scuola stessa è
sollecitata ad accettare la sfida di ripensarsi e di ripensare il proprio modo
40
di fare lezione e di gestire i diversi momenti in una logica di “laboratorio”.
Il divenire consapevolmente “laboratorio” è un compito che tocca da vicino
i diversi ambiti in cui già oggi si lavora con i ragazzi. Ai problemi tuttavia
non può essere data una risposta preconfezionata. Quanto detto, pertanto,
rimanda all’apertura di un “cantiere ragazzi” dentro le diverse comunità
locali. E’ nella direzione di questo cantiere che è possibile offrire alcune
indicazioni.
LA PRESA DI COSCIENZA DI ALCUNE DOMANDE
In realtà, il punto di partenza di queste pagine non sono stati i problemi
dei ragazzi a scuola o nel tempo libero, ma piuttosto le molteplici forme di
mobilitazione delle comunità locali a fronte della percezione di un disagio
dagli incerti confini, l’interrogarsi sugli stili di vita verso cui si stanno
incamminando i ragazzi e, più da vicino, sul loro disinteresse rispetto alla
scuola e allo studio personale, come se non riuscissero a dare un loro
significato a queste esperienze.
Tale disagio dei ragazzi viene maggiormente riconosciuto, anche rispetto
ad un passato recente, come disagio che nasce dentro la comunità (e
non solo dentro la scuola) e la ricerca del “che fare?” sempre meno viene
delegata a qualche esperto.
A fronte delle perplessità rispetto alla maturazione dei figli, molte famiglie
hanno cominciato a uscire di casa per ritrovarsi in luoghi di dialogo in
cui cogliere il limite di molti modelli di pensiero e di azione familiari e
a re-interrogarsi su come abilitare i figli a vivere un’avventura sociale e
culturale che permetta loro di inserirsi criticamente e creativamente nella
società del futuro.
I luoghi di incontro sono i più diversi. Chi si incontra nell’ambito della
scuola, alla luce di un rapporto collaborativo tra genitori e insegnanti, chi
si incontra in parrocchia o in qualche associazione, chi si ritrova nei centri
di aggregazione giovanile, chi si incontra perchè le domande sono state
intercettate dall’amministrazione locale che ha convocato un tavolo di
riflessione, chi infine ha promosso gruppi o piccole associazioni che, a
41
volte con il sostegno dei servizi sociali e/o della scuola, hanno cominciato
a ricercare come sostenere i figli nell’avventura scolastica e, ancor di più,
nell’avventura dell’apprendere.
Questi e altri segnali portano a sottolineare il diffondersi di una nuova
consapevolezza e imprenditività della comunità locale, la cui caratteristica
è l’aver colto la crucialità della sfida culturale fra i ragazzi e il volerla
affrontare, non delegandola come nel passato a una sola componente
(scuola, famiglia, associazionismo, servizi educativi del Comune…), ma co-
costruendo progetti di comunità in cui i vari attori possano essere risorsa.
Questa mobilitazione crescente sta sollecitando le comunità locali a
soffermarsi su alcune domande intorno all’interesse dei ragazzi per la
scuola e, più in generale, per la cultura.
Una domanda di doposcuola
Una prima domanda porta a interrogarsi sul tradizionale doposcuola e sulla
sua funzione a fianco dei ragazzi della scuola elementare e media. In questi
anni i doposcuola si sono moltiplicati, evolvendo in progetti più articolati,
percorrendo strade diverse come risposta alle domande emergenti nelle
comunità locali.
Fare i compiti a casa, da sempre un punto fermo nella formazione dei
bambini e dei ragazzi, serviva e serve ancora a richiamare la famiglia al suo
impegno nel seguire i progressi o i rallentamenti scolastici dei figli, a dare
autonomia ai ragazzi nel fare i compiti da soli, a intervenire con diverse
forme di sostegno familiare o extrafamiliare.
Diversamente dal passato, fare i compiti è diventato spesso un problema
perchè i genitori hanno poco tempo, in quanto lavorano anche al pomeriggio
e, di conseguenza, i ragazzi si trovano soli o quasi nell’affrontare i compiti.
Ma è diventato un problema anche perché, se i ragazzi devono fare i
compiti, non sempre ha senso farli nel chiuso della propria cameretta.
Questo perché, oltre ai problemi connessi ai compiti, emergono altri
problemi cui le famiglie sono giustamente sensibili, in particolare quello
della solitudine davanti alla TV o alla playstation e della mancanza di spazi
42
in cui incontrarsi fra coetanei nel tempo libero, stare insieme e, perché no,
fare i compiti.
Una domanda di tempo libero alternativo
Una seconda domanda è relativa all’uso o consumo del tempo libero.
Dal punto di vista di molti genitori il problema ondeggia fra fare i compiti
e vivere il tempo libero, tra autonomia individuale e autonomia sociale
dei ragazzi, dove per autonomia individuale si intende la capacità di
organizzarsi da soli nel fare le cose, compresi i compiti, e per autonomia
sociale si intende la possibilità di luoghi di incontro come gruppo, in modo
da sperimentarsi, attraverso il gruppo, autonomi anche emotivamente dalla
famiglia e capaci di approccio critico alla vita sociale con le sue proposte
non sempre in sintonia con quelle della famiglia.
Se a questo si aggiungono le preoccupazioni dei genitori per il successo
scolastico dei figli e, più in generale, per il successo nello sport e in altre
attività parascolastiche o del tempo libero, si intravedono, da una parte,
un’ansietà crescente per il disamore dei figli verso la scuola e verso lo studio
e, dall’altra, l’incremento ossessivo di corsi, attività, laboratori ai quali i
figli vengono iscritti per incrementare il portfolio delle competenze in una
società che si ritiene, a torto o a ragione, dal futuro incerto e fortemente
competitiva.
La paura di non farcela e la voglia di primeggiare si incontrano in forma
ansiosa. Per altri genitori la scuola e lo studio sono importanti, ma non
sono tutto, perché la vita richiede quelle competenze che permettano al
ragazzo di esprimere una sua imprenditività sociale, prendendo le distanze
dai modelli di vita offerti dai media e dal mercato quando inducono
sudditanza e apatia. L’esigenza di questi genitori è di offrire ai figli percorsi
in cui immaginare stili di vita “altri”, rispetto a quelli proposti dal mercato.
Per alcuni sono percorsi ispirati a un approccio ecologico, per altri a
fattori di spiritualità e di religiosità, per altri ancora a valori che portano a
investire la famiglia in scelte come l’adozione nazionale o internazionale,
il consumo equo e solidale, la difesa dell’ambiente…
43
Una domanda di animazione sociale e culturale
E infine c’è una terza domanda che emerge, una domanda sentita
fortemente dai genitori che si rendono conto che i figli fin dalla scuola
media (dalle elementari) non riescono a dare un significato all’andare a
scuola e, soprattutto, tendono ad abbandonare la scuola, come succede nel
biennio della scuola superiore.
Sono troppi i ragazzi che si chiedono perché andare a scuola e sono troppi
quelli che ci vanno per quel che loro offre l’amicizia con singoli compagni,
ma non il sapere scolastico o l’ambiente nel suo insieme come luogo in cui
riconoscersi ed essere riconosciuti.
Dietro l’alto tasso di indifferenza alla scuola e di abbandono precoce ci
sono fattori riconducibili alla storia del ragazzo e della sua famiglia, ma
sono in gioco anche fattori che, nel loro insieme, rimandano all’affievolirsi
del significato dell’entrare in contatto con “la cultura già fatta” in vista
della “cultura da fare”. In altre parole, emerge un problema di “animazione
culturale” dei ragazzi, cioè di entrata attiva e consapevole dentro la cultura
umana e i suoi percorsi, al punto che escludersi (o essere esclusi?) da tali
percorsi può essere segno di ricerca di stili di vita alternativi ma anche
segno di rassegnazione alla “barbarie”.
Quello che preoccupa genitori, insegnanti ed educatori è che questo
distacco dalla cultura (scolastica, ma non solo) avvenga a volte fin dagli
inizi della scuola media, anche se poi gli effetti si manifestano nelle scuole
superiori. Oggi si sta allargando la forbice tra chi ce la fa a immaginarsi in
modo sensato e attivo nella scuola e nella vita e chi invece si arrende. Una
forbice che si forma fin dalle elementari e che cresce con gli anni.
LA FATICA A FAR GRUPPO E L’AVVENTURA CULTURALE
Le domande che sono emerse chiedono alle comunità locali di trovare il
tempo per fermarsi a ragionare con calma per esplorare che cosa è in
gioco, prima di chiedersi che fare o verso dove andare.
In gioco sono la libertà dei ragazzi, la possibilità che essi giungano alla
“presa di coscienza di sé all’interno della presa di coscienza del mondo”, con
44
quel che questa comporta di capacità di analizzare problemi, chiamare
per nome le sfide, rifuggire dalle semplificazioni, impegnarsi per aprire
varchi di futuro sensato, opporsi fin dove è possibile alle diverse forme di
fuga dalla libertà e di ingiustizia. Il rischio è che questi ragazzi, una volta
entrati nell’adolescenza, non sappiano “leggere” la società complessa e
riposizionarsi attraverso riflessioni autonome confrontate con le idee degli
altri per salvaguardare la propria libertà e il futuro della stessa umanità. Le
nuove forme dell’emarginazione passano non solo dalla povertà materiale,
ma anche e sempre di più da quella culturale, poiché chi non saprà
analizzare progressivamente l’evolversi della società locale e globale, e
non saprà posizionarsi criticamente al suo interno, rischia di soccombere
dal punto di vista culturale e di finire ai margini dal punto di vista sociale.
La cultura non può essere ridotta all’insieme delle conoscenze e delle
competenze apprese a scuola. Del possedere una cultura fa parte la
competenza nel pensare, esplorare problemi, rielaborare le esperienze,
indagare sui retroscena, non sottrarsi a interrogativi etici rispetto alle sfide
della biologia e della sostenibilità dello sviluppo, discutere con altri sulla
società e sul suo futuro, confrontare diversi punti di vista sui problemi in
cui è in gioco l’uomo, orientarsi confrontando criticamente le possibili vie
di uscita, senza lasciarsi manipolare dai preconcetti e pregiudizi imperanti
nei media, saper mettere in discussione i propri schemi mentali, difendere
la progettualità personale in una società dove gli attentati alla responsabilità
nel pensare e decidere autonomamente sono numerosi e insidiosi.
Come possono i ragazzi diventare cittadini, e quindi elaborare antidoti
rispetto ai rischi di qualunquismo etico, semplificazione dei ragionamenti,
dipendenza dai messaggi del format televisivo e mediatico che vende
affascinanti pacchetti di stili di vita per addestrarli come consumatori?
La fragilizzazione dell’esperienza di gruppo
La risposta va cercata con una riflessione articolata che ricolleghi attorno
alla maturazione dei ragazzi la funzione dell’apprendere e dare significato
alla propria esperienza umana nelle tre grandi esperienze di gruppo che
45
sono la famiglia, la scuola e le libere aggregazioni.
Tale riflessione non può che partire dalla fragilizzazione di queste che sono
gruppalità di base. Frutto dell’insieme dei processi sociali, etici, economici
che si intrecciano nella società moderna, la fragilizzazione si manifesta
proprio mentre cresce il pluralismo (a volte il conflitto) tra subculture,
facendo mancare i luoghi dove la complessità possa essere esplorata per
aprirsi varchi di progettualità autonoma.
La crisi rende i ragazzi disponibili alle proposte della società del consumo
e ai virus dell’epoca come il narcisismo, il tribalismo, il rifugio nelle ricette
dei tecnici, il ricorso a una qualche sostanza per sciogliere le difficoltà di
comunicazione interpersonale, la semplificazione del pensiero. Ma, peggio
ancora, la mancanza di esperienza gruppale rende più faticosa la ricerca
culturale dei ragazzi, a partire dal loro muoversi dentro le contraddizioni
del nostro tempo e la necessità per loro improrogabile di scoprire temi
generatori di futuro e piccoli sentieri verso cui incamminarsi.
Una famiglia che fatica a essere gruppo-laboratorio. Il luogo principale
della maturazione sociale e culturale dei ragazzi è la famiglia.
La famiglia è gruppo-laboratorio anzitutto come organismo che
continuamente tesse legami di reciproco riconoscimento che inducono
nei ragazzi la conferma esistenziale di base e la spinta all’autonomia
progettuale. La famiglia svolge la sua funzione proprio in quanto motiva e
sostiene nell’uscire alla ricerca di nuove relazioni, sia a livello orizzontale
nel gruppo dei pari, sia a livello verticale nello scambio con adulti diversi
dai genitori. Inoltrandosi in tale direzione i figli entrano in reticoli sociali
in cui possono essere attori. Purtroppo, non sempre la famiglia aiuta i figli
a vivere una positiva esperienza sociale. A volte, per ansia o per paura,
se non per egoismo, o perché non è socialmente inserita, finisce per
“privatizzarli”.
La famiglia è anche luogo dove i figli vengono stimolati a prendere la parola
dentro discorsi e ragionamenti sempre più complessi. La parola in famiglia
può esplorare, in un clima di comune ricerca, i significati nascosti dentro
le esperienze quotidiane e produrre così inediti significati del vivere. Se
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la famiglia progressivamente aumenta il confronto e la discussione al
suo interno, affrontando le grandi sfide della società, i ragazzi possono
riconoscersi in valori comuni, condivisi perché testimoniati e argomentati,
a partire dai quali entrare criticamente in contatto con altre visioni della
vita per intavolare ulteriori confronti, discussioni, produzioni culturali. In
fondo, il metodo per fare cultura lo si apprende quotidianamente a casa.
Ma se a casa non si parla, non si discute, non si argomentano i punti di
vista e le decisioni, non si commenta il telegiornale o un altro programma
televisivo, non si parla di fame nel mondo o di pace, di amore e di sessualità,
del perché il lavoro e del perchè la scuola, i ragazzi finiscono per escludere
tutto questo dal loro modo di trascorrere le giornate, impedendosi di “farsi
una cultura”. La fragilizzazione della famiglia rende più faticoso il cammino
sociale e culturale dei ragazzi, li disorienta, li rende fragili, sopratutto
rispetto a compiti gravosi che richiedono continuità di investimento
nel tempo, come la maturazione sociale e culturale e, più da vicino, la
motivazione alla scuola e allo studio.
L’affievolirsi delle relazioni a scuola. La maturazione sociale e culturale
avviene dentro e intorno al mondo della scuola dove, da una parte,
vengono offerti ai ragazzi dei saperi disciplinari e un modo per apprenderli
e, dall’altra, vengono intrecciati legami orizzontali e verticali, amicali e
istituzionali, gruppali e intergruppali che diventano il luogo privilegiato
in cui prende forma il senso della scuola e dove avviene il contatto dei
ragazzi con la “cultura già fatta” in vista dell’impresa, sempre nuova per
ogni generazione, della “cultura da fare”.
La fragilizzazione del gruppo-classe e del rapporto tra ragazzi e adulti
minaccia la possibilità non solo di apprendere le discipline, ma anche di
apprendere dai vissuti personali, in quanto viene a mancare il grembo
accogliente in cui l’esercizio di una parola consapevole possa liberare i
significati in gioco nelle esperienze e permetta di confrontarli e rielaborarli
per generare nuove visioni della vita.
L’affievolirsi delle relazioni all’interno della scuola non può non
preoccupare, anche perché non è risolvibile migliorando l’impegno nel
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fare meglio le lezioni e dunque impegnandosi in progettazioni didattiche
sempre più raffinate. Questo è necessario, ma non sufficiente.
La crisi della gruppalità va presa sul serio, anche perché non è legata alle
sole vicende personali, come invece si tende a fare quando si va alla ricerca
di un qualche capro espiatorio, in caso di bullismo o di microviolenza.
La fragilizzazione dei legami ha radici profonde, poiché è esito di quella
crisi della gruppalità che invece chiede di contenere le energie negative
per sublimarle nel produrre luoghi vivibili, accettando il prezzo da pagare
perché questo sia possibile.
Solo una scuola che prova a ragionare con calma su questa crisi dei legami,
non facilmente esorcizzabile, come si è detto, con la buona volontà dei
singoli insegnanti e neppure con l’investire le competenze nel preparare
meglio le lezioni, può elaborare risposte efficaci alle problematiche derivanti
dalla fragilizzazione delle relazioni significative in ambito scolastico.
Proprio la diffusione di fenomeni di apatia, microviolenza, arroganza,
aggressività, incapacità di concentrarsi sullo studio, in quanto sommersi
dall’ansia per le dinamiche relazionali, pone spesso in crisi la scuola come
luogo di socializzazione e di maturazione culturale.
Il debole fascino delle aggregazioni nel tempo libero. Oggi più che
mai vengono ad avere un significato particolare, rispetto al futuro dei
ragazzi, le variegate forme di apprendimento nelle aggregazioni del tempo
libero. Ma anche qui si ripropongono alcuni interrogativi già presenti
nella scuola, inerenti ad esempio il rapporto tra individuo e società,
più da vicino la conquista della soggettività e il senso della gruppalità,
l’adattamento all’esistente (con il rischio di essere fagocitati) e l’invenzione
del presente in modo creativo, l’accumulo di competenze e la riflessività o
metacomunicazione che oltrepassa le singole competenze, il rapporto tra
esperienze ludico-creative e apprendimento scolastico.
La fragilizzazione dei gruppi rende più difficile la liberazione del tempo
dalla pressione al conformismo, al consumo, all’adattamento passivo.
Diventa difficile per i ragazzi ritrovarsi in luoghi in cui prendere le distanze
da tale pressione e trovare un’autonomia attraverso il gioco e la creatività,
48
l’accoglienza che va oltre i legami di simpatia o di interesse, lo sviluppo
degli interessi individuali attraverso esperienze collettive, la capacità di
sollevare lo sguardo dal qui e ora per interrogarsi sui grandi problemi
dell’umanità e su come ormai, con i piccoli gesti di ogni giorno, si è attori
sulla scena della globalizzazione.
La stanchezza emerge nelle aggregazioni sportive, ricreative e religiose che
rischiano di essere usate in modo strumentale dai ragazzi e dalle famiglie
per i servizi che offrono, senza essere luogo di legami continuativi. Si
moltiplicano le appartenenze o, forse, non ci si identifica in alcun gruppo.
Ognuno si muove all’interno di molteplici amicizie, senza tuttavia far
gruppo. E se c’è un gruppo, spesso è luogo di scambio affettivo, ma più
difficilmente è luogo di confronto fra idee, scelte, stili di vita. Ai ragazzi
viene così a mancare quella presa di coscienza di sé rispetto alla quale
l’esperienza di gruppo è decisiva.
Verso una nuova articolazione dell’apprendere
Dentro il quadro ora descritto non mancano, tuttavia, numerosi segnali
che alimentano la fiducia rispetto al futuro sociale e culturale dei ragazzi. Il
principale è l’imporsi progressivo di una “continuità responsabile” tra scuola
ed extrascuola, fra apprendimenti nel tempo scolastico e apprendimenti
nel tempo libero, alla luce di una maggior comprensione delle diverse
modalità di apprendimento in cui si esprime l’intelligenza umana.
Se fino a qualche anno fa la scuola era a volte chiusa nelle sue funzioni
didattico-disciplinari, sulla base di un’autorevolezza da tutti accettata,
anche dai ragazzi, e riconosceva agli altri attori sociali (in particolare, alla
famiglia e all’associazionismo) una competenza sulle sfide del tempo libero
(ivi compreso il fare i compiti), oggi la famiglia, la scuola, le associazioni
e lo stesso Ente locale sentono di dover rispondere insieme, in una logica
di maggior valorizzazione delle competenze distintive e insieme di una
maggiore interazione tra tali competenze, di un continuum educativo che
va dal progetto didattico-educativo e sociale della scuola ai processi di
apprendimento oltre la scuola, al progetto del tempo libero con le sue attività
49
ludico-aggregative come luogo non meno importante di apprendimento.
E questo a partire dal riconoscere che solo con il contributo di tutti è
possibile riprendere in mano questioni educative al confine tra le varie
organizzazioni, ma basilari per ogni progetto.
In altre parole, si è presa coscienza che l’apprendere è un’esperienza
pervasiva dell’intera esistenza (si apprende continuamente), che
l’apprendere è l’humus in cui le persone possono immaginare e perseguire
un diverso futuro per sé e per gli altri, è la bussola che può orientare l’agire
(si apprende per cambiare). In tal modo l’apprendimento è percepito come
risorsa individuale e sociale, come bene individuale e collettivo per poter
rispondere sempre da capo alla domanda ineludibile per ogni generazione:
”Quale uomo, quali competenze, per quale società?”.
Un aspetto importante del dibattito, perché apre nuovi scenari di azione,
è quello relativo alla diversità delle forme di intelligenza e pertanto delle
modalità di apprendimento.
Non solo l’attenzione si è spostata negli anni dall’apprendimento in sé al
“soggetto che apprende”, ma soprattutto al fatto che ogni ragazzo è dotato di
un’intelligenza pluridimensionale, emotiva e cognitiva, personale e sociale,
astratta e operativa, al punto che in ognuno l’intelligenza è un’originale
commistione tra intelligenze in cui può prevalere una forma di intelligenza
piuttosto che un’altra e, di conseguenza, lo stile personale di apprendimento
viene a caratterizzarsi in modo peculiare. Di conseguenza, un ragazzo può
avere successo nel pensiero astratto o viceversa in azioni che richiedono
intelligenza pratica e fantasia in situazione. In realtà, l’apprendimento
non avviene a “compartimenti stagni” ma piuttosto nella logica dei vasi
comunicanti, al punto che, ad esempio, sviluppare l’apprendimento
emotivo e sociale nel tempo libero in ragazzi che fanno fatica a scuola,
libera energie da investire a scuola nell’esercizio dell’intelligenza logico-
razionale.
In secondo luogo è interessante il collegamento tra l’apprendimento
e la possibilità di immaginare nuovi mondi concettuali e nuovi stili di
vita che permettono di lavorare a un futuro almeno in parte diverso.
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L’apprendimento, in quanto ha a che fare con il cambiamento, permette
ai ragazzi di fare i conti con forme di vita sociale sempre più raffinate e
complesse, difficili da padroneggiare, in cui assumono un ruolo decisivo
la riflessività (la capacità di interrogarsi e dare significato agli eventi), la
creatività (la capacità di pensare altro dall’esistente e di pensarlo in modo
autonomo e insieme dialogico), la partecipazione (la capacità di uscire
dalla solitudine come dalla dipendenza dagli altri per dar vita a laboratori
di nuova cittadinanza).
E’ in questa prospettiva che oggi è cresciuta la consapevolezza di dover
individuare trame nuove di continuità educativa tra i diversi luoghi
di apprendimento e, allo stesso tempo, di dover lavorare insieme per
affermare le “differenze positive” fra tali luoghi, in modo che tutti siano
partecipi nell’affermare e valorizzare il senso delle diverse agenzie di
apprendimento e cambiamento individuale e sociale. Qui vengono ad
articolarsi gli interventi che vanno dalla scuola, con le sue discipline e il
suo lavoro istituzionale, agli interventi nel tempo libero, visto sempre di
più come luogo cruciale in cui accompagnare l’apprendimento sociale ed
emozionale delle nuove generazioni verso l’autonomia. E qui vengono a
collocarsi i numerosi e diversificati interventi che intendono farsi carico
delle difficoltà di aggregazione e apprendimento dei ragazzi e che vanno
sotto l’ombrello dell’extrascuola.
IL LABORATORIO COME PRINCIPIO ATTIVO
Alla luce delle considerazioni fatte e che connettono le fatiche inerenti
lo sviluppo sociale e culturale dei ragazzi con le fragilizzazione delle
gruppalità di base come la famiglia, la scuola e le aggregazioni nel tempo
libero, può essere avanzata l’ipotesi che con questa generazione di ragazzi
è necessario perseguire in modo metodico e coerente nuove esperienze
di gruppalità che si qualifichino come “laboratori” di esperienza sociale e
culturale. In altre parole, alla fatica delle gruppalità non si può rispondere
che con investimenti qualificati proprio sulle gruppalità. E alla fatica che
connota l’ apprendimento sociale e culturale si può offrire un sostegno
51
decisivo attivando molteplici forme di laboratorio in cui i ragazzi possano
essere attori.
All’ipotesi dello sviluppo di laboratori si è arrivati riflettendo sulle
esperienze che vengono oggi fatte in non poche scuole, in certi oratori,
in alcuni doposcuola che non si riducono ai soli compiti, come in alcune
associazioni che credono nell’animazione dei ragazzi come luogo per dare
vita a nuove forme di socialità, controcorrente rispetto a quelle che propone
la società dei consumi. Il denominatore comune ai laboratori è la ricerca di
proposte educative che siano frutto di un fecondo incontro tra le domande
dei ragazzi e le costruzioni culturali in cui gli adulti si riconoscono, ma
anche la scommessa su un metodo di lavoro che faccia dei ragazzi stessi
dei ricercatori culturali.
Il perché del laboratorio
Più da vicino, la proposta che qui viene avanzata è un invito esplicito
rivolto alle comunità locali e alle diverse agenzie sociali ed educative a
non banalizzare il momento critico della preadolescenza (senza rifugiarsi
in frasi fatte come “tutti siamo stati ragazzi”), alle prese con sfide come la
crisi della gruppalità e della motivazione ad andare a scuola, che una volta
emergevano solitamente nell’adolescenza. Riavviare una progettualità
sociale ed educativa è un compito improrogabile, altrimenti il rischio è che
i ragazzi siano abbandonati alle loro scelte proprio mentre forse ricevono
molte attenzioni affettive.
In quale direzione muoversi?
I sentieri da percorrere vanno individuati nelle singole comunità ma –
questa almeno è l’ipotesi alla base di queste pagine - tutti vanno immaginati
e organizzati con un approccio che qui viene identificato come “laboratorio
di animazione sociale e culturale”. L’ipotesi è che il futuro dei ragazzi della
scuola media (ed elementare) passa dalla partecipazione a laboratori sociali
e culturali realizzati a scuola (all’interno delle ore di lezione e al pomeriggio
in cui la scuola deve lasciare maggiore spazio all’animazione), nelle
parrocchie dove è necessario uscire da approcci puramente trasmissivi dei
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contenuti religiosi o da approcci puramente attivistici per animare gruppi
in cui all’interno di relazioni accoglienti possa avvenire l’incontro fecondo
tra le domande di senso dei ragazzi e la proposta evangelica, nel mondo
ludico-sportivo oggi troppo centrato sul fare “attività” e sull’acquisire
“tecniche” sempre più raffinate, ma poco attento a fare di ogni squadra un
gruppo e a trovare uno spazio per la parola, il racconto pensoso dei vissuti
e l’apprendimento dalle esperienze che si vivono insieme.
Pensare e agire in termini di laboratorio e sviluppare laboratori diversi tra
loro come risposta alle domande e agli interessi dei ragazzi, riqualificando
le proposte già esistenti o perseguendone delle nuove, chiede una nuova
mobilitazione delle risorse della comunità e richiede nuovi percorsi di
formazione per gli adulti e, più da vicino, scuole per animatori sociali e
culturali, aperte in particolare agli adolescenti e ai giovani che intendono
gratuitamente investire le loro energie nel lavoro educativo con i ragazzi. Un
investimento, come si intuisce, non semplice, che richiede alle comunità
locali di sedersi a un qualche tavolo per comprendere quel che succede e
per immaginare laboratori che abbiano senso per i “nostri” ragazzi.
Gli ingredienti di un laboratorio
L’idea di laboratorio rimanda all’accostamento di ingredienti diversi e alla
presenza di un elemento catalizzatore che, a certe condizioni, è in grado di
scatenare inedite combinazioni, che generano altro dall’esistente.
Quali sono i principali ingredienti in gioco in un laboratorio che voglia
qualificarsi come sociale e culturale?
• Il gruppo e l’animatore. Il primo elemento è una domanda più o meno
consapevole di spazi in cui interagire con altri mettendo in gioco se
stessi in modo non formale, rispondendo a un bisogno intimo di essere
riconosciuti dagli altri in modo continuativo e gratuito. Un laboratorio
ha come soggetti il gruppo dei pari, il gruppo classe o il gruppo
sportivo o parrocchiale o anche il gruppo informale, e la presenza di
un facilitatore, di un animatore, di un accompagnatore del processo di
sviluppo di legami e di conoscenze.
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• Un’azione collettiva partecipata. Il secondo elemento è l’azione
collettiva partecipata che vede i ragazzi come protagonisti fin dal
prendere forma dell’azione, in quanto vi immettono il loro punto di
vista, prendono parte in modo esplicito alle decisioni, si immergono in
azioni non troppo programmate alla ricerca di una via di uscita da un
problema, da una difficoltà, da una sfida che richiede le energie mentali
e fisiche di tutti. Il contrario dell’azione collettiva è l’attività in cui al
centro c’è un fare, ripetitivo quasi sempre, pensato come qualcosa che
educa, plasma, dà forma. A volte il laboratorio stesso viene confuso
con una qualche esercitazione pratica, incentrata sulla manipolazione
di oggetti, sul riempire schede, sull’apprendere una tecnica (ad esempio
danza o chitarra), sul fare giochi di animazione. Se al centro delle
attività ci stanno le cose da fare e le tecniche da apprendere, al centro
del laboratorio ci sta un gruppo che agisce.
• Il pensiero investigativo e creativo. Il terzo elemento del laboratorio
è la valorizzazione del pensiero e della creatività di tutti. Il laboratorio
non è un’attività preconfezionata, qualcosa di pronto all’uso in cui
assumere passivamente dei ruoli, ma è invece un’azione che richiede
l’arte di farsi domande, immaginare fuori dagli schemi usuali, vedere
da un altro punto di vista, prevedere le mosse da fare “piegandosi”
all’evolversi della situazione, riflettere mentre l’azione si sviluppa e, al
termine, sostare, fermarsi, fare spazio al racconto e dunque a una parola
che esplora i significati che si sono sperimentati, le scoperte che l’agire
insieme ha permesso di fare, ridefinire i valori personali e di gruppo e
confrontarsi su come tutto questo influisce sugli stili di vita e insieme
rimanda a un diverso modo di pensare la società e di immaginare un
futuro più attento all’uomo.
• La canalizzazione delle energie. Il quarto elemento è la canalizzazione
delle energie in un’impresa personale e collettiva, in quanto finalmente si
intravede una direzione, un senso su cui vale la pena investire, accettando
quel che di fatica, sofferenza, sublimazione delle attese, dilazione del
piacere comporta. Nel laboratorio ognuno può interiorizzare un metodo
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di lavoro e delle regole coerenti per organizzarsi, ma soprattutto può
intuire quel senso che è in grado di chiedere costosi investimenti
personali e di accettare delle regole, percepite non più come rinuncia al
piacere, ma come guida a una profonda soddisfazione.
Alcune ambivalenze
Se questi sono i principali elementi che costituiscono un laboratorio
sociale e culturale, è opportuno mettere in luce alcune ambivalenze nelle
quali cade chi confonde un laboratorio con altri modi di agire, a scuola
come nei gruppi sportivi, all’oratorio come nelle palestre. Che cosa, viene
da chiedersi, “non è” allora un laboratorio sociale e culturale?
• Non solo fare, non solo parlare. Laboratorio non è attivismo ma
neppure nozionismo, non è svolgere attività materiali ma neppure
moltiplicare riunioni, discussioni, parole. Un laboratorio non è riducibile
a fare attività nel tempo libero, dall’aggiustare il motorino al prendere
parte a un corso di danza o di chitarra. Muoversi in tale direzione può
alimentare l’attivismo di una generazione di ragazzi fin troppo attiva,
limitandosi quindi ad aggiungere attività, procedendo per accumulo,
moltiplicazione, sovrapposizione, ma senza interrogarsi su dove si
intende andare.
• Fare laboratorio è integrare il fare, l’immaginare e il pensare in
spazi organizzati, ma non troppo definiti o programmati, in cui i
ragazzi possano immaginare azioni e immergersi nell’avventura del
fare, produrre significati confrontando punti di vista, abbandonarsi a
ragionamenti stimolanti, esprimere emozioni, parlare anche di cose da
grandi. In conclusione non c’è laboratorio senza azione, ma non c’è
azione senza riflessione.
• Non solo compiti, non solo “lezioni”. Un laboratorio non può ridursi
al fare i compiti o al tradizionale doposcuola. Fare del doposcuola un
laboratorio chiede di esplorare maggiormente la domanda che sta
dietro la richiesta di doposcuola da parte dei genitori e di pensare come
collocare le risposte in un ventaglio di possibilità. Un laboratorio ha due
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acceleratori, quello dei compiti e quello dello stare insieme. La creatività
è saper dosare il loro utilizzo, man mano che la situazione si evolve.
Introdurre la modalità del laboratorio implica assumere le conoscenze
che si innestano nelle domande dei ragazzi, nella loro ricerca, nelle
modalità esplorative dell’apprendere, nell’azione di gruppo in cui
ognuno può portare il suo contributo e il cui risultato finale è più del
contributo di ognuno. A scuola e nel doposcuola si fa poco laboratorio,
se con questo si intendono percorsi di vera ricerca in presenza di
testi da studiare e documenti da utilizzare, piste di lavoro e domande
aperte, risposte non precodificate. Per non parlare dell’assenza quasi
totale di laboratori che pongano al centro le dinamiche di gruppo, la
rielaborazione delle emozioni, l’insorgenza di fatiche nelle relazioni,
la gestione creativa dei conflitti, l’animazione delle riunioni in modo
democratico, la presa di decisioni che siano frutto di discussioni
argomentate.
• Non troppo dentro le cose, non troppo fuori. Un laboratorio è un
modo concreto per immergersi nelle azioni, per vivere le cose da
fare con gusto, per trovare senso nell’avventura di gruppo come nel
quotidiano “perdere tempo”. Ma il laboratorio propone anche di non
schiacciarsi troppo sulle cose, ma di vedere “da fuori”, dall’alto, da altri
punti di osservazione, rispetto a quelli abituali, quel che si sta vivendo,
quel che si sta facendo. E questo, con calma, in un momento di pausa
che permette di vedere da un’altra prospettiva, per posare l’attenzione
su aspetti inusuali, per vedere in modo inedito le cose di sempre, per
distinguere, per valorizzare e apprezzare, per farsi domande non banali.
In un parola per essere maggiormente partecipi e capaci di scendere
dentro le cose, fermandosi ogni tanto a osservarle dall’alto.
• Non solo consumo, non solo gioco. Un laboratorio rimanda all’idea
che non basta consumare, fosse anche consumare gioco e giochi,
quelli della playstation o, più in generale, quelli del tempo libero. A
quali condizioni il gioco è crescita? A quali condizioni le attività ludiche
sono luoghi creativi, nel senso che alimentano significati che i ragazzi
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possono utilizzare come mattoni della loro autonomia di pensiero e
di azione? E a quali condizioni il gioco e le attività ludiche, più che la
somma di attività individuali, sono un’avventura collettiva che permette
di far nascere interrogativi, dialoghi, creazioni?
• Non solo ragazzo, non solo adulto. Certamente il laboratorio intende
abilitare i ragazzi a essere sempre più autonomi nel loro apprendere, nel
loro “fare cultura”, reagendo alla dipendenza cui li sollecitano i media e
le mode, ma anche all’idea dell’adulto come depositario del sapere, che
a ogni problema ha una risposta. Ma un laboratorio non esiste senza un
adulto che lo attiva e che, mentre invita i ragazzi a entrare in un clima di
scambio, li stimola a sperimentare un contatto con ciò che è fuori di loro
e che, in quanto tale, può suscitare diffidenza e indifferenza, piuttosto
che curiosità e interesse. Nel laboratorio l’adulto, che è presente, ma
spesso nella penombra, in seconda fila, per non sostituirsi ai ragazzi,
non impone le sue idee ma non nasconde il suo punto di vista, valorizza
le idee dei ragazzi ma mette in discussione le loro semplificazioni, fa
sintesi e rilancia domande.
• Non solo individuo, non solo gruppo. Il laboratorio è sempre una piccola
avventura collettiva, ma è attento alla necessaria dialettica tra “io” e “noi”.
Questo a partire dall’idea che i ragazzi sono alla ricerca di un gruppo
in cui sentirsi gratuitamente accolti e poter essere se stessi, ma anche
di un io che sa vivere positivamente il noi-gruppo, sperimentando una
soddisfazione che l’essere solo io non permette di toccare con mano.
In concreto, un laboratorio sa alternare il lavoro di gruppo con il lavoro
individuale, la discussione in gruppo e la rielaborazione personale
delle idee emerse, la cura del “parlamento interiore” di ognuno con la
narrazione delle proprie emozioni e pensieri negli incontri di gruppo.
L’ORIENTAMENTO TRA ALCUNE ACCENTUAZIONI
Il differenziarsi delle esperienze conferma che non esiste un modello
vincente di laboratorio. Non solo, un esperimento che ha avuto successo
in una comunità può non averlo in un’altra, perché altro è il contesto,
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altri sono i bisogni, altra è la fase che la comunità attraversa nella sua
evoluzione.
In particolare, l’analisi delle esperienze mostra come i progetti
dell’extrascuola concretizzano risposte articolate a domande differenziate
poste dalle famiglie, dai ragazzi e dalla scuola, domande che sollecitano
l’impiego consapevole di attenzioni, modalità e strumenti diversificati.
Va detto tuttavia che, nelle pagine che seguono, la descrizione dei
percorsi verte quasi unicamente sui possibili laboratori del tempo libero.
Analoga ricerca andrebbe svolta sull’insegnare a scuola in una logica di
laboratorio.
Un nuovo investimento sul gruppo dei pari
Un primo modello è quello che fa perno sul diritto dei ragazzi al tempo
libero, al gioco e alle attività creative spontanee, in cui al centro sta
l’avventura del giro degli amici e la capacità di fare del gruppo dei pari un
luogo di identificazione che “stacca” positivamente dalla famiglia e dalla
scuola.
In altre parole, al gruppo del tempo libero viene riconosciuta una funzione
educativa sua propria, in quanto è un luogo privilegiato in cui giungere
a una presa di coscienza di sé non ingenua. Tale presa di coscienza aiuta
a sollevare il velo dei propri difetti e insieme ad accettarsi con i propri
limiti, tenere i piedi per terra e insieme sognare un futuro degno di essere
perseguito, superare il narcisismo per aprirsi al “noi” e avventurarsi insieme
in una qualche impresa, pagando il prezzo necessario in termini di fatica e
di canalizzazione delle proprie energie.
Un ruolo particolare vengono ad assumere gli “interessi” dei ragazzi, quel
che a loro piace come luogo di espressione del sè, più che la conquista di
una serie di “competenze” individuali. In questa direzione ogni interesse dei
ragazzi, da quello sportivo a quello per la danza, è luogo in cui sviluppare
competenze di tipo sociale e progettuale che consolidino la capacità
di avere un metodo di lavoro e dunque l’apprendere a organizzarsi per
risolvere problemi.
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In questa ipotesi di laboratorio il fare i compiti non è in primo piano, ma
non per questo non se ne ha cura. Essi vengono fatti in un clima accogliente
e sereno, di tipo cooperativo, spesso con la presenza di giovani animatori
che sanno motivare i ragazzi a lavorare (non sempre, va detto, con un
metodo adeguato, che andrebbe ricercato invece insieme agli insegnanti),
come accade negli oratori, nelle associazioni educative o nei centri di
aggregazione.
La centratura sul sostegno nei compiti
Un secondo modello è il laboratorio centrato sul sostegno nel fare i
compiti, sia in forma individuale che all’interno di un gruppo, a partire
dalla fatica che i ragazzi stanno facendo e dal bisogno di un periodo più o
meno prolungato di rinforzo e sostegno. L’intento è che i ragazzi diventino
autonomi nello studio, acquisiscano un metodo di lavoro, superino i
blocchi rispetto a singole materie e, più in generale, ritrovino stima in se
stessi scoprendo potenzialità prima sconosciute, sappiano chiedere aiuto
nelle difficoltà e individuare a chi chiederlo, abbiamo fiducia in un paio
di adulti o di giovani disponibili a dare una mano in eventuali momenti di
crisi.
Se in questo modello l’attenzione viene eccessivamente incentrata sul
singolo, sul “caso”, possono insorgere alcuni problemi. Un primo problema
è il rischio di ghettizzare chi fa fatica nell’apprendimento, al punto che
riesce ormai a posizionarsi solo in quel ruolo. Un secondo problema
può insorgere quando i singoli ragazzi vengono convogliati in luoghi
protetti, nei quali scambiano quasi unicamente con coetanei con problemi
simili, provenienti anche loro da famiglie problematiche. E così, dopo la
ghettizzazione del mattino a scuola, i cosiddetti casi sociali rischiano di
vivere una seconda ghettizzazione al pomeriggio. Il terzo è che il sostegno
dato ai ragazzi raramente prevede la presenza di esperti che riflettono
sulle disfunzioni nell’apprendimento e sugli opportuni interventi.
Come far sì, pertanto, che il necessario sostegno scolastico pomeridiano
diventi luogo di una positiva integrazione sociale, in modo che ogni ragazzo
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si sperimenti nelle reti della normalità a fianco dei coetanei? E come far sì
che le disfunzioni soggettive nell’apprendimento siano riconosciute e che
vengano individuate, in collaborazione con qualche esperto dei problemi
dell’apprendimento, iniziative di supporto?
La centratura sull’animazione a scuola
Un terzo modello è quello che porta ad applicare la logica del laboratorio
all’interno della scuola, soprattutto negli interventi integrativi e opzionali.
In questo caso, l’accento cade sul laboratorio come esercitazione di gruppo
intorno a sfide cruciali, sia per lavorare meglio a scuola, sia per vivere in
modo più denso il tempo libero. Si pensi all’attivazione di gruppi diversi
dalle classi, in cui in ragazzi possono liberamente scegliersi per esprimere
e praticare insieme degli interessi, accompagnati in modo discreto da
insegnanti e/o educatori-animatori.
In questa direzione il laboratorio può offrire una seconda chance di
esperienza di gruppo in vista della propria autonomia personale, in cui il
punto d’attrazione è un interesse, piuttosto che una tecnica o una disciplina:
dalla solidarietà con i coetanei del terzo mondo, allo costituzione di una
piccola band o di attività di danza che si qualificano per essere svolte in
uno spazio pubblico qual è la scuola e dunque aperto a tutti, aperto al
pluralismo delle espressioni del sè, trasversale rispetto sia alle classi in
cui la gruppalità si è forse irrigidita, sia ai gruppi del tempo libero, spesso
selettivi se non tribali e con legami molto allentati.
Il laboratorio può essere allora un insieme variegato di esercitazioni che
portano a sperimentare le dinamiche di gruppo, conquistare una maggiore
consapevolezza del proprio mondo interiore, sporgersi sull’avere cura
dell’ambiente e delle stesse “sorti del mondo”, interagire con proposte
provocatorie come quelle che possono offrire associazioni impegnate a
fianco dei più poveri, ma anche le aggregazioni giovanili di un paese che
producono piccoli o grandi beni collettivi a livello di sport, musica, teatro…
Il laboratorio a scuola può essere una sorta di piazza della comunità, con
l’intento di aprirsi, confrontarsi, apprendere dalle esperienze che stanno
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avvenendo nel proprio piccolo paese o nei mondi più lontani. E dunque
luogo di incontro e scambio con la comunità locale e con la comunità
globale, ma a patto che sempre all’azione seguano la riflessione e la
rielaborazione critica, alle domande segua la ricerca di risposte utilizzando
in modo consapevole i testi della cultura umana, compresi quei grandi
patrimoni che sono le discipline che la scuola con passione offre
all’apprendimento dei ragazzi.
LABORATORI DELLA GENITORIALITÀ
Una sorta di prolungamento dei laboratori con i ragazzi possono essere i
laboratori tra genitori per inoltrarsi in percorsi di “genitorialità diffusa”,
ma anche in esperienze stimolanti di “famiglia sociale”. Se nel primo caso
al centro ci sono le preoccupazioni per i figli, nel secondo ci sta il bisogno
di sperimentarsi “famiglie”. In entrambi i casi quel che i laboratori possono
offrire è la possibilità di tessere nuovi reticoli sociali, ritrovare una parola
che ha peso in quanto intrisa di esperienza e in grado pertanto di generare
significati e progetti, alimentare la consapevolezza del potere delle famiglie
rispetto all’avvenire dei figli, come all’avvenire della comunità. Nei
laboratori è possibile incontrarsi e riconoscersi, far emergere domande e
cercare insieme risposte, togliersi la maschera del proprio ruolo e mettersi
in gioco come persone in un clima di fiducia, accoglienza, ricerca pensosa
intorno ad alcuni problemi, incontrare esperti ma senza delegare il diritto
e dovere di confrontarsi fra famiglie.
Il confronto sugli stili di vita
Un primo gruppo di problemi su cui confrontarsi tra famiglie è quello
legato agli stili di vita che stanno interiorizzando i ragazzi e che facilitano
o scoraggiano la concentrazione anche nello studio e, prima ancora, la
capacità di dare un senso soggettivo all’andare a scuola. In questo ambito
emerge il bisogno degli adulti di prendere la parola sui loro vissuti, sulle
loro responsabilità educative, sui nodi irrisolti che sembra di intravedere
e che hanno a che fare - prima che con la loro responsabilità di genitori
61
- con le logiche di mercato e di consumo, con la pressione alla conformità
che affievolisce la libertà, con la fatica di interagire con gli altri che sembra
inaridire i ragazzi, con la possibilità che il paese sia uno spazio dove i
ragazzi possono esercitare i loro diritti e i loro doveri.
La quotidiana battaglia intorno alla scuola
Un secondo ambito in cui diventa importante prendere la parola tra
genitori è quello del fare i compiti, del metodo di studio, dell’equilibrio tra
tempo scolastico e tempo libero, della fatica nell’apprendere, del disagio
a scuola, del bullismo che mina alla base la fiducia di alcuni ragazzi con
conseguente repulsione verso la scuola e lo studio. Qui il confronto fra
i genitori si fa più pensoso, ricco più di domande che di risposte, alla
ricerca di punti di riferimento senza rifugiarsi in sterili ricettari. Qui
diventa possibile un’inedita alleanza tra famiglie e scuola, tra genitori e
insegnanti, accompagnati da esperti che rifiutano di dare ricette, mentre
invece orientano lo sforzo di tutti nel riflettere e nell’immaginare altri
modi di fare, a partire dall’ascolto di chi ha esperienza a fianco di ragazzi
che apprendono con entusiasmo, ma anche di ragazzi demotivati.
L’elaborazione di politiche locali per i ragazzi
Un altro punto di incontro tra genitori è quello legato alle politiche per i
minori dell’Ente Locale, alle direzioni sulle quali investire le risorse umane
e finanziarie, culturali e religiose della comunità. Fare laboratorio tra
famiglie può essere un luogo in cui comprendere i problemi dei ragazzi e
immaginare alcune ipotesi di lavoro, per poi andare a proporle e discutere
all’interno dei vari tavoli di progettazione presenti nella comunità.
In questi anni si assiste anche al moltiplicarsi di piccole ma vivaci
associazioni locali che esercitano una forte pressione sulle varie istituzioni
sociali ed educative affinché riconoscano e sostengano progetti nei quali le
famiglie possano agire concretamente sul territorio, da sole o in partnership
con altri attori sociali, rispetto alle attività del tempo libero, rispetto ai vari
modelli di sostegno allo studio. Da questo punto di vista, il laboratorio può
62
essere incubatore di nuova intraprendenza sociale ed educativa di reti o
associazioni di famiglie.
GLI ATTORI DI UNA COMUNITÀ CHE INTRAPRENDE
Come si è già visto, le attività di laboratorio sono stimolanti, oltre che per
le concrete iniziative a fianco dei ragazzi, per quel che delineano in termini
di “impresa di comunità”.
La scena si popola di attori adulti, individuali e collettivi, spinti dalla
rinnovata attenzione alla sfida dell’educare e del conoscere.
E’ interessante osservare, a questo punto, come vengono a riformularsi
positivamente le funzioni dei vari attori sociali.
Le famiglie come attori sociali
In primo luogo incomincia ad emergere la funzione della famiglia come
attore che influisce sulle decisioni che la riguardano. Più che nel recente
passato le famiglie fanno opinione, esprimono il loro punto di vista, non
sono passive. O per lo meno le famiglie intendono tornare sulla scena
del sociale, consapevoli che gli itinerari di sviluppo dei loro figli sono
connessi e che le soluzioni ai problemi vanno cercate, prima che a livello
di interventi con e sul singolo, nel perseguire un diverso modo di essere
dell’intero paese, in particolare un diverso modo di dare senso alla scuola
e al tempo libero. Dopo aver ritenuto in anni recenti che bastasse offrire
ai figli possibilità sempre nuove di conquistare competenze individuali
(dall’inglese alla danza, dall’informatica ai viaggi all’estero), la famiglia
intuisce che occorre soffermarsi sui problemi e ragionare con calma sul
futuro dei figli, senza rifugiarsi negli esperti e nei tecnici, per comprendere
da che parte andare come famiglie e come comunità.
Ma per fare questo la famiglia stessa è chiamata a reagire all’isolamento, in
cui sempre più viene a trovarsi, che induce un sostanziale impoverimento
del suo capitale sociale e culturale, nel momento in cui non trova tempo
materiale e disponibilità interiore per incontrare altre famiglie e avviarsi
verso una “genitorialità diffusa”, che ha cura non solo dei propri figli ma di
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tutti i ragazzi della comunità, e una “famiglia sociale”, che sente che solo
vivendo dentro i reticoli della comunità può trovare stimoli per una crescita
dei figli a livello sociale (i ragazzi sviluppano il senso di appartenenza alla
comunità) e culturale (i ragazzi possono entrare in contatto e confrontare
modi diversi di pensare).
Non mancano le ambivalenze: dalla sensazione di non avere tempo per
fare i compiti con i figli o di non sapere come farli, all’improvvisazione
nel sostenere l’autonomia nel fare i compiti (fare i compiti con i figli è più
complicato oggi), dall’incapacità di mettere in discussione i messaggi della
società dei consumi alla necessità di investire risorse per tenere alta la
capacità di apprendimento dei ragazzi, dalla continua richiesta di servizi
di sostegno alla critica (a volte ingenerosa) verso una scuola cui si tende a
delegare la soluzione di tutti i problemi.
L’associazionismo per “un paese che educa”.
Il tempo libero è in gran parte animato dalle associazioni educative, spesso
a titolo di volontariato, e da cooperative sociali attivamente inserite nelle
comunità locali.
Come si è già detto l’associazionismo, di ispirazione cristiana o laica,
vive, con le dovute eccezioni, un momento di incertezza, in quanto la
concorrenza del tempo libero del consumo, l’espandersi dell’impegno
scolastico che sembra a volte assorbire tutto il tempo dei ragazzi, la tendenza
delle famiglie a riempire il portfolio di “brevetti” individuali, l’affievolirsi
della proposta religiosa, hanno portato a una sorta di ripiegamento delle
associazioni su se stesse e alla ricerca di “clienti” per le proprie iniziative,
piuttosto che all’esercizio della responsabilità verso tutti i ragazzi di una
comunità.
Del resto l’indifferenza reciproca tra mondo sportivo, mondo delle palestre,
gruppi parrocchiali viene oggi colpita, a volte in modo violento, dalla “fuga”
dei ragazzi, al punto che cresce il bisogno di uscire dai propri confini, per
ritrovare vitalità in quanto paese o città.
Piuttosto che proporsi come luoghi dove si sa già quel che si deve fare (ma
mancano i ragazzi), le associazioni più sensibili si stanno riposizionando
64
come luoghi in cui gli adulti possono ragionare in termini di “un paese
che educa”, per aprirsi poi alle domande dei ragazzi, consapevoli che il
patrimonio valoriale, imprenditoriale e organizzativo delle associazioni è
una ricchezza della comunità. A patto che le associazioni, piuttosto che
ricercare nicchie autoprotettive, si pongano come agenti che sensibilizzano,
provocano, mobilitano la comunità intera.
Non mancano le ambivalenze che vanno da un eccesso di chiusura nel
proprio guscio di associazione all’incapacità di fermarsi a pensare con
distacco e ironia, dall’idea che se ogni associazione si espande a macchia
d’olio conquistando nuovi spazi cresce la comunità (a volte crescono solo le
divisioni e si perde il senso del far paese) al ritenere di sapere già quali sono
i problemi e che “il problema” è trovare finanziamenti, dall’autoritarismo
che nega la partecipazione e impedisce agli adolescenti di vedere nelle
associazioni un luogo di investimento personale al pragmatismo che tutto
riduce ad accumulare attività senza avere un vero progetto educativo,
dal partecipare ai vari tavoli sociali per difendere il proprio orticello
all’impedire che altri possano offrire un positivo contributo nel ridefinire
il senso dei propri interventi.
Una scuola che si identifica con la comunità locale
Nella scuola in questi anni, là almeno dove la scuola ha maturato la scelta
di voler essere “scuola di comunità”, è cresciuta la consapevolezza di essere
una preziosa agenzia di progettazione e formazione per il paese.
Da questo punto di vista la scuola sta assumendo una funzione attiva nel
mobilitare la comunità locale intorno a sfide che vanno dal dare senso
alla scuola e allo studio, all’autonomia dei ragazzi nel fare i compiti, al
prendere atto delle difficoltà dei ragazzi e della necessità di offrire loro un
sostegno competente nell’apprendere. Il processo di “radicamento” della
scuola procede a macchia di leopardo, ma, dove è in atto, la scuola offre
un contributo prezioso al paese, mentre a sua volta viene legittimata e
valorizzata come espressione della comunità.
La scuola è sempre più presente nei diversi “tavoli” in cui la realtà locale
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esprime la sua progettualità e, in non pochi casi, è un originale laboratorio
culturale della comunità, un luogo cioè nel quale i cittadini possono
incontrarsi, aprirsi a domande e problemi, riflettere e immaginare risposte
che mobilitano l’intero paese, dal doposcuola, ai laboratori di adultità e di
genitorialità.
Non mancano le ambivalenze, che vanno dall’enfasi sul sovraccarico di
lavoro dentro la scuola al punto da rendere la scuola incapace di ascolto
dei problemi della comunità al rischio di scolasticizzare il tempo libero
senza coglierne le possibilità rispetto alla maturazione di abilità basilari
per l’autonomia dei ragazzi.
Il ruolo di attivazione e di regia dell’Ente locale
Un nuovo attore sulla scena del tempo libero e degli interventi
extrascolastici, come della scuola in una logica comunitaria, è oggi
l’Ente locale che è passato nel volgere di pochi anni da una funzione di
erogazione e finanziamento di servizi, a una funzione di attivazione e regia
delle risorse della comunità e della sua capacità di assumere i problemi
che la attraversano. In altre parole l’Ente locale, in quanto luogo di governo
dei problemi vicino ai cittadini, svolge una funzione di antenna sensibile
all’evolversi della domanda sociale, ma piuttosto che ricercare tecnici per
“risolvere i casi” sta finalmente lavorando per fare crescere tra i cittadini
la consapevolezza che alcuni problemi vanno affrontati attraverso una
partecipazione dal basso, comprensibilmente con il sostegno delle
risorse formali, rappresentate dai servizi socio-educativi e dalle pubbliche
istituzioni, in primis la scuola.
L’Ente locale assume un compito di promozione del sociale, facendo
attenzione a due livelli di azione, tra loro autonomi pur nella necessaria
coerenza di intenti.
• Un primo livello è quello della politica. A questo livello, piuttosto che
decidere da solo con i propri tecnici o in un qualche giro chiuso di
cittadini, l’Ente locale aiuta a fermentare domande e idee, per poi
offrire ai cittadini sensibili ai temi dell’apprendimento dei ragazzi spazi
66
pubblici in cui possano emergere ipotesi di lavoro, linee educative,
opzioni strategiche, priorità da perseguire.
• Un secondo livello è quello tecnico-professionale, in cui l’Ente locale,
rappresentato dai funzionari e da professionisti competenti, interagisce
con le diverse organizzazioni sociali in gioco intorno all’abbandono
scolastico o al bisogno di spazi per fare i compiti e giocare, per
attivare quello scambio progettuale tra scuola, famiglie, associazioni,
cooperative alla base della progettazione partecipata. In altre parole, a
livello tecnico-professionale l’Ente locale è impegnato a garantire forme
di consulenza e accompagnamento indispensabili per lo sviluppo di
una progettazione partecipata.
Nel muoversi tra questi due livelli l’Ente locale sente di assumere un triplice
compito: un compito di mobilitazione della cittadinanza rimanendo un
attore “dietro le quinte”, in modo che i cittadini possano sperimentare la
loro responsabilità; un compito di regia politica che valorizza l’autonomia
delle professioni e le competenze esperienziali dei cittadini; un compito di
controllo, supportato da forme di valutazione partecipata, in cui tuttavia
ritrova una sua “solitudine” in quanto deve a volte prendere decisioni
controcorrente a difesa del pubblico interesse, soprattutto quando si tratta
di valutare gli esiti degli interventi.
E’ facile cogliere alcune ambivalenze, dall’eccesso di presenzialismo (a
volte autoritarismo) degli amministratori alla semplice privatizzazione
dei problemi attraverso la delega a un’associazione o a una cooperativa,
dalla resistenza a fermarsi per pensare e ragionare prima di fare (per non
limitarsi al principio: “purché qualcosa si faccia”) alla ricerca ansiosa di
visibilità che porta a guardare con diffidenza percorsi che richiedono
investimenti a medio termine, dalla non trasparenza sulla procedure di
esternalizzazione dei servizi alla genericità dei criteri di valutazione degli
esiti che lascia troppo potere discrezionale agli amministratori.
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FASI E NODI DELLA CO-PROGETTAZIONE
Ragionare in termini di laboratorio chiede alla comunità di rendersi
ulteriormente competente nel proseguire con intelligenza e passione per
la strada intrapresa in questi anni rispetto all’immaginare e attivare i servizi
sociali, sanitari ed educativi: la “progettazione sociale” come costruzione
collettiva partecipata. Un laboratorio non può che essere il coagulo di una
progettazione partecipata.
La progettazione sociale parte dal riconoscimento della complessità dei
problemi e degli intrecci tra fattori che appesantiscono le situazioni.
Di conseguenza invita gli attori sociali a uscire dai propri confini istituzionali
e dai propri mansionari professionali per interrogarsi su come smuovere
l’intera comunità, in modo che possa generare nuove rappresentazioni
delle sfide, inediti progetti, nuove partnership tra risorse professionali e
risorse volontarie.
Il riconoscersi intorno a un patto fra cittadini
Il punto di partenza, anche per i problemi connessi al fare i compiti e al
riconoscere significato alla scuola e, più in generale all’animazione sociale
e culturale nel tempo libero, è allora una diffusa domanda di aiuto delle
famiglie cui si risponde con una mobilitazione sociale, che comporta un
diverso modo di interagire anzitutto fra cittadini responsabili.
È come se la risposta alla domanda vada cercata uscendo dalla propria
solitudine di genitori e di operatori sociali, ritrovando la fiducia e la parola
in luoghi in cui ci si senta dalla stessa parte rispetto ai problemi. Invece
di delegare ai professionisti la lettura delle sfide e l’individuazione dei
percorsi, genitori e amministratori, operatori professionali e insegnanti,
animatori dell’oratorio e volontari delle associazioni sentono che è
necessario sottoscrivere un “patto fra cittadini” per ritessere legami,
ritrovare la parola, esercitare il pensiero e la fantasia nell’esplorare le
domande esplicite e implicite dei ragazzi e delineare che cosa fare.
In questo agire progettuale le sensibilità e i punti di vista, le competenze
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e le professionalità trovano un loro senso e vengono a riconoscersi
reciprocamente. Piuttosto che rinchiudersi nella difesa di un proprio
territorio di competenza, ci si ritrova a fare politica locale, quella politica
intesa come “sortire insieme”, in modo partecipato.
Non vanno negate alcune ambivalenze. La più evidente è quella di chi usa i
tavoli della progettazione sociale per dare sfogo al proprio narcisismo o al
proprio bisogno di dominio.
Un’altra è il rifugio nel pragmatismo che propone un’attività dopo l’altra
come se bastasse “fare” per sciogliere nodi che invece richiedono pensiero,
fantasia, costanza. Un’altra è il superficiale accostamento tra progetti che
diversi sono nati e tali rimangono, e si fa uso strumentale della progettazione
partecipata come via di accesso ai finanziamenti pubblici.
Un’altra ancora è l’assenza di investimenti per estrarre da esperimenti come
le attività di animazione con i ragazzi i significati e i valori, le strategie e le
scelte metodologiche in modo che diventino patrimonio della comunità.
Una ricerca che genera nuove letture e ipotesi
Sempre di più sta lievitando l’esigenza di lavorare in una logica di ricerca-
azione partecipata, per intraprendere percorsi che sollecitano la comunità
a prendere coscienza del “suo” disagio, senza drammatizzazioni, ma anche
senza superficialità, in modo che lo stesso disagio venga utilizzato come
motore per una ricerca collettiva.
In realtà il disagio che emerge è sempre qualcosa di grezzo, dove il problema
sembra presentarsi in un’impalpabile immediatezza, in cui tutto sembra
chiaro, mentre man mano che la ricerca procede i collegamenti tra i dati
superficiali e la loro interpretazione si fanno intricati.
Solo a prima vista è facile esplorare la fatica dei ragazzi a scuola, la
mancanza di un metodo di studio, la debole autonomia nel fare i compiti o
studiare da soli, le difficoltà gravi nell’apprendere, l’uso problematico del
tempo libero, la crisi delle gruppalità.
Tale esplorazione richiede un intenso lavoro di lettura e comprensione
e, prima ancora, la formazione di un soggetto collettivo, in cui possono
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ritrovarsi le istituzioni pubbliche e il privato sociale, la scuola e le
associazioni di genitori, a partire dalla disponibilità a muoversi in un clima
di fiducia, di disponibilità all’ascolto, di impegno a riflettere insieme in
modo critico e creativo.
Man mano che vengono approfonditi i legami tra problemi, la ricerca-
azione porta a far lievitare ragionamenti e intuizioni che fanno spazio a
ipotesi di intervento che forse prima non si intravedevano e delle quali non
si coglieva il significato, a priorità che non necessariamente andranno a
scegliere come bersaglio i ragazzi.
Forse tali priorità richiedono un inedito dialogo fra genitori rispetto all’uso
del tempo libero e alla loro presenza a fianco dei figli, oppure un diverso
dialogo tra genitori e scuola rispetto al carico dei compiti come rispetto
alle dinamiche di esclusione a scuola o a interventi che perturbino
l’appiattimento culturale di una comunità. E questo nella convinzione che
in un paese culturalmente morto, morta o insignificante è spesso la sua
scuola, morto o affievolito è facilmente il senso che i ragazzi attribuiscono
alla cultura e alla scuola.
In altre parole, sostare in una fase di comprensione approfondita delle
sfide permette di scorgere letture inedite dei problemi dei ragazzi fino a
intravedere su che cosa positivamente costruire, ma insieme interroga il
modello di presenza degli adulti al loro fianco, in una società in cui il
futuro da promessa sembra diventato minaccia.
In questa fase del progettare vengono a confrontarsi e contaminarsi,
spesso solo indirettamente ma non per questo in modo superficiale, visioni
dell’uomo e della società, stili di vita e aspettative per il futuro, culture
educative delle famiglie e delle associazioni, approcci al senso della scuola
e della cultura, modi di immaginare il legame tra i ragazzi e la comunità.
Non si tratta comprensibilmente di dare sfogo a residue diatribe ideologiche,
né di enunciare astratti valori, ma piuttosto di radicare creativamente i
valori in concrete “priorità d’azione”. In fondo l’azione a fianco dei ragazzi
è un modo per rendere pratiche un insieme di scommesse culturali, etiche,
politiche ed educative che nel loro compiersi generano la comunità.
70
L’attivazione di esperimenti e il coordinamento
Si entra, a questo punto, nella fase dell’attivazione e del coordinamento
degli interventi che si ritengono importanti, pensati da subito come
“esperimenti” da tenere sotto controllo e da cui apprendere passo dopo
passo, con un’attenzione aperta all’evolversi di problemi che chiedono
una continua ricerca-azione, un progetto articolato, capace di contenere
una pluralità di esperimenti e di valutarli per vedere se gli esiti attesi sono
stati raggiunti o se si siano verificati esiti imprevisti ma interessanti.
In quanto esperimenti, i vari laboratori sono azioni concrete, da decostruire
e ricostruire per apprezzare e valorizzare il senso insito nella loro fragilità
e parzialità a fronte di sfide che non possono essere vinte una volta per
tutte.
Al centro del lavoro progettuale c’è un’azione consapevole di coordinamento
degli esperimenti e di scambio fra i vari programmi d’azione di una
comunità rispetto all’apprendimento. Per questo il coordinamento non è
qualcosa di meccanico, quasi che si tratti di assemblare delle parti, ma
piuttosto qualcosa relativo al fermento culturale che viene a esserci nel
momento in cui i vari esperimenti vengono riletti in modo che possano
dar ragione di se stessi, confrontati tra loro affinché nel contaminarsi si
rigenerino, rimessi in discussione in modo non ansioso, proprio perchè di
esperimenti si tratta.
Una comunità è progettuale se apprende da quel che succede e se quel
che succede é stato immaginato e perseguito alla luce di alcune ipotesi
ancorate a domande o problemi.
Una comunità che apprende dai laboratori
Un ultimo passo è quello che porta una comunità locale nel suo insieme
ad apprendere dal suo investimento nelle diverse forme di laboratorio.
Soffermarsi sui laboratori, visti come modi di esprimersi e dunque come
un successo di tutti, nella loro parzialità arricchisce il senso di potere della
stessa comunità, la quale può vedere che è possibile avvicinarsi ai problemi
senza lasciarsene sommergere, immaginare e concretizzare progetti e, allo
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stesso tempo, convivere con problemi la cui soluzione non è a portata di
mano. Emerge il volto di una comunità che, se per alcuni versi è stressata e
impotente, per altri esprime una sua generatività sociale. E’ una comunità
in grado, pur fra contraddizioni, di governare pezzi non indifferenti del
suo futuro nell’accompagnare le nuove generazioni nella conquista di
una loro autonomia progettuale. In altre parole i vari laboratori abilitano
la comunità a immaginare un futuro meno minaccioso e a rigenerare la
fiducia nella sue possibilità.
Questa rigenerazione avviene quotidianamente, ma rischia di non divenire
patrimonio consapevole se chi anima i laboratori non prevede momenti in
cui la comunità tutta possa percepirlo come una sua avventura, come un
luogo generatore di un diverso modo di guardare al futuro, e, più da vicino,
di un diverso modo di fare politica e fare cultura.
ALCUNE ANNOTAZIONI ORGANIZZATIVE
Dal punto di vista organizzativo pensare in termini di laboratorio chiede di
sviluppare un modello flessibile di azione, dove per flessibilità non si intende
l’improvvisazione, ma piuttosto la capacità di avere sufficientemente chiare
alcune mete e alcune scelte di metodo per poi pensare la programmazione
man mano che le situazioni si evolvono. La flessibilità è allora la capacità
di lavorare sull’esistente e di fare i conti creativamente con il presente.
Un laboratorio è flessibile perchè è una piccola istituzione con un buon
livello di plasmabilità.
In quanto istituzione è dotata di un progetto sufficientemente stabile nel
tempo, in quanto plasmabile è una sorta di organismo capace di innovare,
aprirsi alla partecipazione di nuovi attori, modificare la sua offerta con il
variare delle situazioni.
Il livello politico, il livello tecnico-progettuale e il livello gestionale.
L’organizzazione di un laboratorio chiede di distinguere e di rispettare
l’autonomia dei tre livelli.
• Il livello politico. Se sul piano politico un laboratorio non può essere
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che espressione di una comunità, è importante che ci sia un luogo
politico dove possa esserci una pubblica discussione per legittimarne
il significato come patrimonio comune, ma anche per sottrarlo a ogni
tentativo di appropriazione da parte di qualcuno.
Nasce da qui la necessità di un luogo politico in cui le diverse espressioni
della comunità e gli interessi in gioco di famiglie, scuola, servizi sociali
possono lavorare insieme per delineare le finalità istituzionali e dunque
i confini dell’iniziativa, i principali destinatari, le priorità che deve
perseguire, gli attori che è chiamata a coinvolgere, l’associazione o la
cooperativa che andrà ad animarla. A questo livello un laboratorio ha
bisogno di un atto politico amministrativo che lo legittimi e impegni
anzitutto l’Ente locale e le altre istituzioni che intendono promuoverlo
a garantire le risorse umane e finanziarie necessarie sul breve e medio
periodo. Così come è stato prospettato finora, un laboratorio richiede
tempo per generare pensiero e inventiva, esperimenti, capacità di
apprendere dagli errori.
• Il livello tecnico-progettuale. A livello tecnico-progettuale si ritrovano
coloro che, a partire dal mandato politico e sulla base delle diverse
competenze formali e informali, sono chiamati a prendere parte alla
progettazione di iniziative dell’extrascuola attivando quel percorso
sociale al cui interno ha senso un laboratorio.
Al tavolo tecnico partecipano gli operatori sociali a contatto quotidiano
con i problemi dei ragazzi, i professionisti che hanno ricevuto l’incarico
di accompagnare lo sviluppo del progetto in modo da garantire un
processo partecipato, i rappresentanti delle famiglie o delle associazioni
familiari e della scuola, i responsabili dell’associazione o della
cooperativa cui si chiede di animare il lavoro con i ragazzi.
E’ importante che il progetto venga elaborato con la partecipazione di
tutti, anche perché non è detto che il progetto si esprima unicamente
attraverso il lavoro con i ragazzi, ma può anche prevedere iniziative
rispetto al rapporto tra scuola e famiglie, come tra scuola e servizi
sociali o rispetto al bisogno di confronto tra genitori sui problemi
73
connessi all’apprendimento. In tal modo il tavolo tecnico-progettuale,
man mano che il progetto si consolida sul territorio, diventa il luogo di
confluenza dei nuovi problemi, delle nuove esigenze, ma anche il luogo
in cui si rielabora il progetto, si verifica la coerenza tra le iniziative e ci
si interroga su come restituire il senso del lavoro svolto alla comunità.
• Il livello gestionale. Il livello gestionale vede come attori principali le
organizzazioni che gestiscono i diversi esperimenti del progetto, dal
doposcuola a fianco dei ragazzi al lavoro con gli adulti e con le istituzioni.
Come emerge dalle cose dette, tali organizzazioni non possono essere
abbandonate a se stesse. Il confronto con i due precedenti livelli
permette a chi gestisce le iniziative di muoversi dentro un progetto
condiviso che legittima il senso del proprio agire. Allo stesso tempo
tale confronto impedisce che le iniziative vengano strumentalizzate o
privatizzate da chiunque. Tutto questo consente agli operatori di sentirsi
partecipi di una comunità, di avere luoghi di confronto, di occuparsi
non solo di compiti e di metodo di studio, ma anche e soprattutto di
una comunità che investe sull’apprendimento. Comprensibilmente
questo richiede all’associazione o alla cooperativa di essere radicate
sul territorio, di identificarsi con la comunità locale, di non limitarsi a
gestire un servizio con prestazioni a ore, bensì di scommettere fino in
fondo sull’attivazione di processi partecipativi nella comunità, avendo
garanzie di investimenti sul medio periodo.
L’intreccio tra competenze professionali e competenze esperienziali.
Un laboratorio mette in gioco competenze diverse, alcune espressione di
professionalità psico-educative e organizzative, altre espressione di una
competenza esperienziale, come quella dei volontari, dei genitori, dei
giovani coinvolti come animatori.
A ben guardare la storia delle iniziative nel tempo libero vede spesso in
primo piano l’autorganizzazione di cittadini alla ricerca di risposte alle
sfide che i ragazzi incontrano. Da sempre, ad esempio, le esperienze di
extrascuola valorizzano giovani con pochi anni più dei ragazzi, forse
con poche competenze di fronte a problemi gravi, ma molto credibili
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nell’interagire con i ragazzi in situazioni di disagio leggero o di normalità.
In quanto antenne sensibili nel percepire le domande non superficiali dei
ragazzi e nel percepire il momento di chiedere una mano ai professionisti
per affrontare le difficoltà, con la loro mediazione spesso i ragazzi riescono a
dare un senso al loro quotidiano andare a scuola e vivere il tempo libero.
L’INVESTIMENTO SULLA FORMAZIONE
Non basta limitarsi a enfatizzare le competenze informali delle
comunità locali, come si rischia di fare quando queste non vengono
qualificate attraverso adeguati percorsi di formazione. In altre parole, c’è
riconoscimento vero delle competenze, anche informali, solo dove emerge
una politica della formazione per i cittadini, soprattutto per i giovani
animatori, sapendo che tale investimento può avere ricadute immediate
sul lavoro con i ragazzi, ma anche sul futuro della comunità. Una comunità
che investe sulla formazione si garantisce un capitale culturale ed educativo
per il futuro, un capitale che è in grado di farsi carico di nuove sfide.
L’apprendimento riflessivo sulle esperienze
Non bisogna però ridurre la formazione ai tradizionali momenti di aula.
Un primo livello di formazione è quello legato all’apprendimento all’interno
del processo di coprogettazione, e, in particolare, all’interno delle azioni
con i ragazzi, ben sapendo che nessuna azione è l’applicazione banale di
un piano o di un programma, ma è in se stessa, nel suo farsi, un evento
denso. In quanto tale va analizzato in modo raffinato incrociando i diversi
punti di osservazione dei partecipanti, per estrarre dei significati che sono
già impliciti nell’azione ma che, se non vengono intenzionalmente estratti,
disperdono una parte importante del loro potenziale di trasformazione
delle persone, dei gruppi, delle comunità.
Si apprende dalle esperienze nel verificare se gli obiettivi sono stati raggiunti
e se ognuno ha svolto il suo ruolo, ma soprattutto nell’interrogarsi sul
perché, sulla mappa di ragionamenti che danno senso al percorso che si è
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fatto e al verso dove andare.
Se lungo il cammino è necessario fare verifiche tecniche, non meno
importante è la rivisitazione delle esperienze per far emergere dal limite
che le avvolge, come ogni azione umana, le scoperte valoriali, le conquiste
relazionali, le domande che rimangono aperte e bruciano perchè si è
consapevoli che è improbabile fermare certe carriere di disagio.
Al centro della riflessione, tuttavia, deve esserci non una semplice verifica
- riprogettazione, ma piuttosto un lasciarsi andare a pensare, in modo
da approssimarsi a significati inediti, intuizioni generatrici e scenari di
speranza, ipotesi che possono riaprire giochi nel modo di relazionarsi con
i ragazzi per ritrovare con loro delle motivazioni per lo studio.
Solo all’interno di questo esercizio di riflessività collettiva ha senso tornare
alle domande che ruotano intorno al che fare, che cosa cambiare, su cosa
insistere, di che cosa sorridere, su come svolgere il proprio ruolo, in altri
parole sul come riprogrammare gli interventi.
Nodi ricorrenti nella domanda di formazione
Facilmente il lavoro di rilettura delle esperienze mette in evidenza la
necessità di una formazione mirata intorno a particolari tematiche. Spesso
il problema della formazione è arrivarvi con delle domande che nascono
dall’azione.
E’ possibile, con un’approssimazione che può servire da indice, elencare in
modo sommario alcuni nodi ricorrenti nella formazione.
• La relazione educativo-animativa e l’animazione di gruppo. Un
primo insieme di domande verte solitamente sulla relazione tra un
educatore e un singolo ragazzo, ma soprattutto, se la logica è quella
del laboratorio, sul rapporto tra animatore e gruppo. In che modo
valorizzare le risorse che emergono da una relazione educativa per
investirle nell’apprendere e in che modo accompagnare un gruppo nel
suo percorso verso l’autonomia? E a quali condizioni un gruppo è luogo
di apprendimento?
• Il laboratorio e le sue componenti. Comprensibilmente un certo numero
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di domande verte su che cosa sia fare laboratorio. Anzitutto, cosa non è
laboratorio, da quali altre pratiche prende le distanze? In positivo, qual
è il “principio attivo” che lo anima? E come animare la partecipazione
per fare in modo che i ragazzi possano toccare con mano forme di
socialità in cui si esce dalla dipendenza e dalla controdipendenza,
per accettare consapevolmente forme costruttive di interdipendenza
dagli altri? E che cosa vuol dire offrire ai ragazzi delle provocazioni o
perturbazioni in modo che rifuggano dai luoghi comuni e dalla frasi
fatte e sappiano fare domande non banali, interagire fra visuali diverse,
generare nuova cultura contaminando gli stili di vita oggi esistenti?
E qual è il ruolo dell’adulto in quanto accompagnatore della ricerca
dei ragazzi? E, prima ancora, che cosa vuol dire fare ricerca rigorosa e
creativa con i ragazzi?
• La conoscenza della conoscenza. Un terzo nucleo di domande riguardano
la “conoscenza di come si conosce” e le difficoltà più frequenti
nell’apprendere e in quel particolare tipo di apprendimento che è fare
laboratorio. Come conoscere il proprio modo di conoscere, entrare
in contatto con le diverse intelligenze e riflettere sulle strategie per
valorizzarle, darsi ragione del come si è appreso in modo che questa
competenza possa essere esercitata in altri ambiti?
La ricerca della risposta a questi interrogativi diventa interessante se
avviene in momenti di ascolto e di confronto tra animatori e insegnanti
in grado di dare ragione del processo di apprendimento a scuola come
nel tempo libero e in grado anche di delineare che cosa vuol dire avere
un metodo di lavoro, organizzarsi per apprendere.
• I blocchi che inibiscono l’apprendere. Un altro gruppo di domande
rimanda ai fattori soggettivi, familiari, ambientali che appesantiscono
la disponibilità o la capacità nell’apprendere, con quel che questo
comporta di blocchi a scuola e nello studio e, prima ancora, di caduta
dell’autostima, rifugio nell’indifferenza per autoproteggersi, abbandono
alla microviolenza per scaricare la tensione e reagire al rifiuto e
all’emarginazione che si sperimenta a scuola.
77
Più in generale, qui emergono i problemi dei cosiddetti “ragazzi difficili”
e il rischio che essi vengano abbandonati a se stessi e marginalizzati,
scaricando in tal modo problemi che hanno alla base una molteplicità
di fattori soggettivi, familiari, ambientali e anche didattici, su ragazzi
che da tali problemi sono già sommersi.
• Il tempo scolastico e il tempo libero nell’apprendere. Un gruppo di
domande ruota intorno al rapporto tra tempo libero e tempo di scuola,
tra apprendimenti nel tempo libero e loro ricaduta nell’apprendimento
scolastico, tra valorizzazione delle intelligenze che maggiormente
vengono agite nel tempo libero e connessioni con l’arte dello studio e
della centratura sui compiti scolastici.
La lettura educativa del tempo libero, in quanto tempo in cui i ragazzi
possono conquistare la loro autonomia e intraprendere progettualmente
mettendo a frutto le competenze man mano acquisite, è oggi molto
indebolita per il prevalere di ipotesi che vedono nel tempo libero soltanto
il tempo della passività e del consumo e, a volte, dell’imbarbarimento
culturale. Ma come declinare da educatori il senso del tempo libero?
Quale può essere oggi la funzione del tempo libero e come, allora,
liberare il tempo libero? Che dire inoltre delle gruppalità dei ragazzi
nel tempo libero e della carenza di luoghi dove esercitare autonomia e
creatività?
• I tre livelli della progettazione. Un altro grappolo di interrogativi rimanda
alla progettazione sociale dei laboratori, con quel che comporta di
intreccio tra livello politico e sociale che delinea il senso e le finalità
istituzionali, livello tecnico-progettuale che è il luogo in cui viene
elaborato e rielaborato un laboratorio a scuola o nel tempo libero, livello
gestionale in cui al centro è il lavoro di chi quotidianamente affronta
i problemi man mano che emergono, attenti sempre a mobilitare le
risorse della comunità.
Lo sviluppo di una progettazione sociale richiede una competenza
raffinata che va alimentata in momenti di formazione in cui evidenziare
la differenza tra progettazione partecipata e pianificazione dall’alto,
78
riflettere sul percorso che pemette di attivare una comunità senza
scaricare sulle risorse informali ruoli e compiti che invece spettano ai
professionisti, orientarsi sulle regole di ingaggio tra gli attori sociali in
gioco nel far fronte alle fatiche dell’apprendere (scuola ed ente locale,
famiglie e cooperative sociali, associazioni e servizi sociali…).
Altri nuclei possono essere facilmente individuati, ma più importante
è ribadire l’importanza di una formazione articolata sulle domande
emergenti dall’esperienza e, di conseguenza, non ridurre la formazione
alla trasmissione di schemi tratti da un qualche manuale o di ricettari utili
quanto un fuoco di paglia. Partire dal riconoscere domande permette anche
di elaborare nella formazione il senso del proprio lavoro professionale o
volontario fino a condividere che la vera soddisfazione non è solo dare
una mano a ragazzi in difficoltà, ma anche consolidare le condizioni che
permettono loro di sentirsi accolti come (piccoli) attori a fianco di altri
attori nella conquista di una loro fragile e umanissima autonomia.
CONCLUSIONE
Nessun laboratorio ha un padre solo o una madre sola. Piuttosto è una
sorta di piccola ma significativa impresa di comunità. Agli inizi forse alcuni
fanno da traino per altri. E questa funzione di traino o di motore può essere
assunta dalla scuola come da un’associazione, da un assessorato come da
un gruppo di famiglie. Ma, una volta avviato il processo, tutti sono chiamati
a fare da traino o da motore, mettendo in gioco le proprie competenze per
provare a “sortire insieme” dai problemi.
La scommessa alla base delle riflessioni presentate in queste pagine è che ciò
che può aiutare i ragazzi a divenire liberi è certamente l’aiutarli nell’avventura
dell’apprendere o, più da vicino, del fare i compiti e dell’acquisire un
metodo di lavoro, ma in realtà ciò che può aiutarli maggiormente è il
toccare con mano l’essere in una comunità che sa prendere atto delle sfide
che l’attraversano, sa fermarsi per riflettere e orientarsi, sa mobilitarsi
mettendo in gioco le risorse di tutti. Forse il vero apprendimento attraverso
un laboratorio (o, più da vicino, un’attività dell’extrascuola) come quello
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tratteggiato in queste pagine è un apprendimento di tipo politico. Mentre
apprendono a fare gruppo o fare compiti forse i ragazzi apprendono l’”arte
del buon governo” dei problemi e la soddisfazione personale e sociale ad
un tempo che nasce dal perseguire quest’arte.
Probabilmente nessuno è oggi in grado di garantire un futuro ai ragazzi,
ma forse questa generazione di adulti è ancora in grado di consegnare
loro da una parte la capacità di pensare, immaginare, attribuire significato
alle esperienze personali e collettive, chiamare per nome le sfide, generare
intuizioni che aprono squarci di futuro là dove sembra che non ci possano
essere, dall’altra la soddisfazione che nasce dall’aver cura di ciò che è “altro
da sé”, per ritrovarsi in avventure collettive, per provare, ancora una volta,
a “sortire insieme dai problemi”. Forse questa “consegna generazionale” è
il senso anche di ogni laboratorio dentro una comunità.
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2SCUOLA, FAMIGLIA
E TERRITORIO INSIEME PER GLIAPPRENDIMENTI
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LA SCUOLA PER IL DIRITTO ALL’APPRENDIMENTO
di Maria Carla Marchesi
Il dibattito e la riflessione sviluppati nel Laboratorio Provinciale
Extrascuola rappresentano un interessante punto di arrivo in relazione
alle sperimentazioni realizzate negli ultimi anni nei servizi per i ragazzi,
ma costituiscono soprattutto il punto di partenza di un pensiero che deve
esprimere scelte e percorsi nuovi, utili all’ arricchimento del patrimonio
di esperienze già esistente.
Dal punto di vista della scuola è soprattutto importante riflettere intorno
al tema dell’apprendere proprio perché il senso della scuola risiede nel
significato che viene assegnato a questo termine.
Innanzitutto è necessario assumere il principio che “apprendere” è un
bisogno insopprimibile della persona, per poter crescere nella propria
unicità e originalità, ma è anche un bisogno insopprimibile del gruppo
sociale cui la persona appartiene. I processi di apprendimento costituiscono
anche uno strumento indispensabile di appartenenza alla dimensione
sociale e di superamento dei limiti della propria piccola esperienza e del
proprio piccolo mondo.
L’apprendimento è un diritto sancito nella costituzione italiana per tutte
le persone, senza distinzione di razza, sesso e ceto sociale: eppure nella
pratica è ancora faticosissimo il percorso di superamento di molte barriere.
E’ un diritto per tutti i minori ed è un diritto per tutta la vita, perchè la
dimensione dell’apprendere che viene costruita nel bambino piccolo
segnerà anche il suo essere adulto, la sua capacità di persona che apprende
per tutta la vita in un mondo in continua e frenetica trasformazione, che
chiede alle persone di possedere gli strumenti adeguati per apprendere
nuovi contenuti in forme nuove.
L’apprendimento non è un’operazione tecnica, tipica soltanto in età
evolutiva: è un processo che si manifesta in un divenire continuo
determinato dalla coesistenza di molti fattori. Siamo forse troppo abituati
84
a pensare l’apprendere come un’operazione cognitiva, più che come un
processo, dimenticando troppo spesso (anche se la letteratura pedagogica ce
lo ricorda ormai da molti anni) che la componente cognitiva è strettamente
legata alle dimensioni affettive e relazionali. L’apprendere è fatto anche di
motivazione ad apprendere, di un bisogno che diventa motivazione e che
implica una scelta in funzione di un obiettivo.
L’apprendere è un processo strettamente legato all’ambiente in cui si vive,
perchè la motivazione è sostenuta e prodotta dagli stimoli, dai “perché”
posti davanti al bambino, alla sua intelligenza e alla sua sensibilità, da
parte del suo mondo.
E’ un processo fatto di tempi e strumenti, cioè di condizioni che lo possono
facilitare o ostacolare.
L’insieme di tutti questi elementi rende possibile il raggiungimento degli
obiettivi di apprendimento rappresentati come punti di arrivo temporanei,
ma, immediatamente, anche punti di partenza per nuove acquisizioni in
un processo ricorsivo.
Apprendere è anche un fare esperienza, esperienza di situazioni, di eventi
e di fenomeni. Esperienza concreta, acquisita attraverso un processo
inseparabile dagli eventi che caratterizzano la vita delle persone. E’ un fare
esperienza sul piano dell’elaborazione intellettuale, ma anche sul piano
della elaborazione emotiva e relazionale.
Questa esperienza elaborata di fatti, fenomeni, situazioni e vissuti è tanto
più intensa quanto più essa si attua in un ambiente attento ai processi di
apprendimento specifici dell’individuo nel rispetto delle sue caratteristiche
peculiari, in altri termini, nel rispetto dell’originalità di ogni persona.
Ogni persona e ogni momento della vita sono irripetibili e ogni esperienza
è unica e originale. Essa diventa utile alla crescita se viene confrontata con
le esperienze, le sensibilità, le motivazione degli altri. Finchè la conoscenza
è patrimonio individuale non è conoscenza, non è sapere. Diventa sapere
quando viene diffusa, quando diventa patrimonio comune. Questo esige la
possibilità di confronto e di mediazione.
Apprendere è quindi un’operazione di carattere sociale. Per questo motivo
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è interessante indagare i luoghi e i tempi dell’apprendimento.
I processi di apprendimento fra famiglia, scuola e territorio
Nel percorso del Laboratorio provinciale extrascuola la riflessione si è
sviluppata intorno a tre di questi luoghi: la famiglia, la scuola e il territorio.
Ogni luogo ha le sue caratteristiche, ha i suoi tempi, le sue condizioni, le
sue peculiarità:
• La famiglia è il primo luogo in cui avviene la trasmissione di informazioni,
conoscenze, abilità, ma soprattutto di modelli di comportamento, che
sono filtrati da valori propri di riferimento. Di solito, se l’ambiente
familiare è positivo, la trasmissione dei modelli e dei valori avviene
nella quiete e nella sicurezza affettiva ed emotiva del contesto familiare,
che consente ai componenti di investire in modo efficace le proprie
risorse, di accettare il limite e l’errore, di sentirsi comunque garantiti e
soprattutto di sentirsi comunque accettati.
Sappiamo però che non in tutte le famiglia sussistono queste condizioni
favorevoli, non sempre per cattiva volontà o limiti dei genitori.
Questo luogo di apprendimento ha comunque un tempo concluso,
un tempo che finisce perché l’individuo procede verso l’autonomia,
va cioè verso la capacità matura di scelte proprie di apprendimento,
di rilettura delle informazioni, dei modelli e dei valori proposti dalla
famiglia; questa capacità rappresenta il senso della sua maturità.
• La scuola è il secondo luogo importante per l’apprendimento che
i bambini incontrano dopo la famiglia. La scuola va considerata
innanzitutto come un luogo “sociale” di apprendimento, in quanto
essa rappresenta lo strumento primario che le società, anche le più
povere, si danno per promuovere la crescita personale e sociale della
popolazione.
Ma cosa significa “apprendere a scuola”?
Molti autori si sono espressi su questo tema, e vale la pena qui mettere
in evidenza alcune funzioni particolari che caratterizzano l’esperienza
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di apprendimento a scuola:
- trasmettere contenuti ed elaborare cultura: attraverso la scuola è
possibile per il bambino passare dalle esperienze di apprendimento
informale, di per sè stesse confuse e anarchiche, all’ordine della
conoscenza, a un ordine formale che il sistema sociale ha elaborato in
quanto capace di riassumere i saperi fondamentali da acquisire come
strumenti essenziali per la crescita verso l’età adulta. Apprendere
attraverso processi formali di istruzione risulta certamente economico
a livello sociale, ma rappresenta un’esperienza impegnativa per
ciascun individuo, in quanto esige la padronanza dei linguaggi
specifici della conoscenza formale e richiede di adattare la propria
mente, le proprie motivazioni e le proprie sensibilità ad una serie
di vincoli e procedure di ordine formale. Questo ordine formale
fa riferimento ad un sapere riconosciuto e codificato in base alle
caratteristiche e alle norme che governano il mondo degli adulti,
prevede tempi e modi precisi per conseguire gli apprendimenti ed
è formulato sulla base di obiettivi riconosciuti utili per la persona e
per la società. Si tratta di un ordine formale che evolve nel tempo,
anche faticosamente, a volte dolorosamente, secondo le istanze
sociali prevalenti;
- valutare: la scuola ha anche il compito di restituire al singolo
individuo e alla sua famiglia gli esiti del percorso di crescita che,
con l’impiego dei suoi mezzi, ha contribuito a produrre e al sistema
sociale i risultati del processo di apprendimento che le giovani
generazioni stanno compiendo attraverso lo strumento scuola.
In famiglia non esistono strumenti di valutazione formali, ma
meccanismi di conferma e di apprezzamento dei progressi espressi
a vari livelli. Nella scuola spesso la valutazione degli apprendimenti
diventa esclusivamente misurazione, e la misura non è uno strumento
di apprezzamento. Questo aspetto costituisce per la scuola una grave
difficoltà non ancora risolta: non basta misurare per poter motivare
ad apprendere; la misura dice soltanto a quale punto del percorso
87
di apprendimento si è giunti, ma affinchè il percorso proceda con
successo è necessario che l’individuo riceva dalla valutazione uno
stimolo alla crescita continua, è necessario cioè che la valutazione
diventi effettivamente strumento di promozione. Ecco perché oggi si
discute con molto fervore nella scuola sul concetto di profitto e sul
peso che esso deve assumere all’interno dell’esperienza scolastica;
- proporre metodologie efficaci di insegnamento, che costituiscono gli
strumenti per l’esercizio della professione dell’insegnante, oltre che
l’elemento di garanzia per il successo dei processi di apprendimento.
Oggi si parla molto di successo formativo: non è possibile che la
scuola “perda” i ragazzi, soprattutto coloro che vengono esclusi dal
percorso di apprendimento nel biennio della scuola superiore. Le
radici dell’insuccesso appartengono a tempi molto precoci. Da anni
la scuola ha capito che l’apprendimento per scoperta, considerato la
forma più efficace di apprendimento, riesce a produrre un maggiore
protagonismo degli alunni, consente di superare una funzione
meramente trasmissiva della scuola tradizionale, per promuovere
una costruzione attiva e collettiva del sapere. E’ questa una modalità
non semplice da implementare, perchè richiede da parte degli
insegnanti, tempi, risorse e capacità di coniugare tra loro tanti ambiti
codificati della conoscenza e soprattutto di promuovere dimensioni
di auto apprendimento.
• Il territorio infine, visto come luogo sperimentale di apprendimento, dove
si produce anche una sintesi fra le esperienze di apprendimento, che
si potrebbero definire asistematiche, vissute dentro la famiglia e quelle
degli apprendimenti formali della scuola. Il territorio è anche un luogo
di incontro e di incontri, di imprevisti, di stimoli. Può anche essere un
luogo difficile, di ulteriore esclusione per qualcuno, di ulteriore stimolo
alla competizione per altri. I luoghi territoriali dell’apprendimento
sono spesso ambiti già finalizzati, pensiamo ad es. allo sport o ad
altre opportunità strutturate, ma possono essere occasioni di potente
rielaborazione di ciò che si propone come sperimentale e che diviene
88
occasione per arricchire, modificare e a volte sostituire ciò che manca o
risulta limitato negli altri due luoghi dell’apprendimento. Il territorio è
un luogo di possibili interazioni e convergenze, dove la multiculturalità
è obbligatoria, non tanto perché ci sono i bambini stranieri, ma
soprattutto perchè si incontrano dimensioni di vita quotidiana che i
ragazzi portano con sé e che sono differenti da famiglia a famiglia, da
territorio a territorio, da ambiente a ambiente. E’ un luogo di garanzia
sociale perché può diventare un luogo che la comunità educante
elegge come ambito privilegiato del proprio agire educativo collettivo.
Mantenendo la specificità di ciascun luogo è possibile ripartire da una
analisi maggiormente approfondita dei bisogni dei ragazzi e dare ad
essi risposte flessibili e aperte, capaci di mantenere l’atmosfera della
relazione affettiva familiare e amicale, capaci di sostenere modelli di
azioni e di pensiero che significhino valori di solidarietà, di rispetto,
di giustizia, ma anche di bellezza e di creatività, capaci di dare stimoli
diversi e alternativi ai percorsi che i ragazzi già trovano nei loro normali
contesti, capaci di multiculturalità elaborata, cioè fatta prima oggetto
di pensiero da parte degli adulti, dove la cura della fragilità (non solo
dello straniero o del disabile, ma di chiunque esprima delle lentezze) sia
un’attenzione assolutamente presente e continua.
È importante sottolineare che non si può improvvisare e nemmeno fare
da soli se si desidera essere comunità. Bisogna lavorare insieme e questo
richiede impegno e fatica.
A questo riguardo sembra opportuno rivolgere un richiamo specifico agli
insegnanti. Per essere parte attiva dentro i percorsi di costruzione di una
comunità educante, da parte degli insegnanti ci deve essere quello che può
essere chiamato “l’orgoglio dell’insegnare”: per aiutare ad apprendere e
per offrire strumenti utili ad apprendere durante tutta la vita, è necessario
aver voglia di insegnare, con un orgoglio che va sicuramente oltre lo
stipendio, la sicurezza del posto di lavoro, un orgoglio che si connota per
la passione per l’uomo e per l’umanità, per la responsabilità di chi è con
me, per il piacere di contribuire alla crescita di una persona che molto
89
probabilmente, da adulta, non vedrò, ma alla quale lascio un po’ della mia
eredità di persona.
Il diritto ad apprendere fra scuola ed extrascuola
Nel corso del lavoro del Laboratorio Provinciale è stato più volte affrontato
il tema del rapporto tra scuola ed extrascuola.
Come Comitato tecnico di educazione alla salute, si è espressa una
sostanziale sintonia con quanto esposto nel documento del Laboratorio
provinciale in riferimento al “diritto all’apprendimento”, come diritto della
persona in quanto tale, perché apprendere significa evolvere, cambiare, e,
come si è detto, non riguarda solo l’età evolutiva, ma riguarda tutte le fasi
della vita delle persone.
Nella cultura del sistema scolastico questo concetto è stato sviluppato
nell’ambito della “istruzione permanente”.
E’ necessario tracciare una distinzione fra il concetto di “istruzione” e quello
di “apprendimento”. Se apprendere è una dimensione che appartiene a tutti
e riguarda tutto il corso della vita, il concetto di istruzione fa riferimento a
un sistema in cui l’apprendimento è il fattore centrale, sebbene non l’unico,
che si attua all’interno di un processo che ha regole proprie, dimensioni,
struttura, strumenti e contenuti che vengono stabiliti dal sistema sociale
perché ritenuti fondativi e fondamentali per le giovani generazioni.
Nel sistema dell’istruzione è centrale il discorso della formazione, dato
che il processo dell’istruzione è considerato uno strumento funzionale al
processo educativo.
Non può quindi esistere educazione senza istruzione, così come non può
esistere un’idea di istruzione che non abbia una ricaduta anche in termini
educativi, concetto da anni ormai affermato nella scuola.
Altra premessa importante da esplicitare riguarda la dualità, spesso
richiamata, fra scuola e territorio. La distinzione tende a sottolineare come
la scuola abbia una sua dimensione istituzionale, che cambia nel tempo e
viene definita in termini generali dal sistema sociale, mentre il territorio ha
invece una composizione più flessibile e sfaccettata in quanto interventi,
90
organizzazioni, soggetti sociali …, mostrano un maggior grado di fluidità
rispetto al sistema della scuola. La coniugazione fra questi due sistemi
interrelati e interdipendenti è ancor oggi di difficile costruzione: non
sempre la scuola è considerata parte integrante del territorio, perpetuando
un rapporto di dualità e di separatezza che ha limitato negli anni anche
molte proposte legislative a favore dei minori.
Alla scuola d’altro canto viene richiesto di affrontare problemi che
hanno connotazioni di carattere sociale con una forte ricaduta sul lavoro
della scuola stessa, il cui specifico rimane tuttavia l’impegno ad attivare
e realizzare dei processi di istruzione all’interno di una dimensione
formativa. In effetti, come riportato nel documento del Laboratorio
provinciale, apprendere competenze e conoscenze a scuola, non avrebbe
nessun senso se non fosse collegato ad una serie di valori che rendono
queste conoscenze e competenze utili all’individuo e alla comunità.
Per rispondere alla domanda “quando e come la scuola cura l’apprendimento
individuale e gruppale”, dobbiamo partire dalla comprensione di cosa
significa “istruire” dentro la scuola, dentro un organizzazione che è
nata e continua a vivere per questa funzione, che ha delle regole e nello
stesso tempo dichiara l’intenzione di voler rispondere alle esigenze di
apprendimento degli individui e del gruppo.
Il gruppo è una dimensione importante perché rappresenta una scelta
di fondo del sistema scolastico nazionale, non solo per una questione di
economia, ma proprio per la funzione pedagogica importantissima che
la dimensione relazionale interna alla classe può svolgere nel favorire
l’apprendimento.
E’ vero che la classe è chiamata da subito “gruppo”, ma nella realtà essa
nasce come insieme casuale di alunni che devono diventare “gruppo”
attraverso una costruzione progressiva di relazioni interne alla classe
stessa, in quanto “gruppo che impara”.
La classe deve diventare anche un gruppo in cui l’insegnante è
legittimamente e autorevolmente riconosciuto come adulto cui spetta il
diritto dovere di insegnare in quanto portatore di competenza e di capacità
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educativa, deve costruire relazioni positive ed efficaci con i singoli e con
il gruppo.
E’ spesso faticoso riuscire a collegare questi aspetti con le attese e le
problematiche portate dal territorio.
Il lavoro educativo della scuola obbliga a confrontarsi con le famiglie,
con le aspettative, le intenzioni educative e i progetti educativi che ogni
famiglia porta con sé, che ogni famiglia ha elaborato nella propria storia e
che trovano all’interno della classe e della scuola un normale e quotidiano
contenitore di confronto.
Pur mantenendo famiglia e scuola la propria individualità, esse sono
chiamate a coniugare esigenze e aspettative in proposte educative
trasversali rispetto ai bambini, nella consapevolezza che la trasversalità
non cancella l’individualità.
Operare questa coniugazione è particolarmente difficile oggi, poiché la
frammentazione sociale è molto presente.
La coniugazione fra scuola ed extrascuola può essere attuata in modo
proficuo sviluppando iniziative sia rispetto agli ambiti disciplinari, sia
in rapporto alla possibilità di apprendere per scoperta negli ambiti non
canonici della scuola, sia avvantaggiandosi della possibilità di disporre
di un luogo che può operare a prescindere dalla funzione di valutazione,
fondamentale e obbligatoria invece all’interno del sistema scolastico.
I progetti dell’extrascuola possono quindi rappresentare interessanti
opportunità, soprattutto quando, all’interno della scuola, i ragazzi scontano,
per ragioni diverse, delle fatiche. Non a caso molti progetti sono nati per
sostenere le difficoltà dei bambini o per integrare chi incontra difficoltà
con chi non ha problemi, in una dimensione serena e il più possibile
svincolata dai processi valutativi.
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GLI ORATORI PER L’EXTRASCUOLA
di Astrid Zenarola, don Alessandro Beghini e Marta Locatelli
Quando abbiamo iniziato a parlare di attivazione di “spazi non solo compiti”
in oratorio (servizi segno: segno della cura e dell’attenzione della comunità
adulta nei confronti delle nuove generazioni) ci siamo subito interrogati
sul senso e sul significato educativo di un servizio di questo tipo.
L’esigenza più concreta alla quale si tentava di dare una risposta proveniva
da alcuni genitori e da alcuni insegnanti. Quindi la necessità di rispondere
ad un bisogno che sempre più le famiglie portavano in oratorio.
In secondo luogo però ci siamo chiesti come questo servizio potesse
diventare occasione per stimolare la comunità adulta nell’assunzione di
un ruolo educativo nei confronti di tutti i ragazzi visti nel loro specifico
contesto sociale e territoriale.
Da allora gli oratori ne hanno fatta di strada, le cose sono cambiate in
modo molto interessante e rilevante. Sono accadute cose significative: ad
oggi sono tante le parrocchie che offrono questo servizio, sono nati corsi di
formazione specifici, seminari e convegni. Recentemente ad un seminario
di lavoro proposto dall’Odl (oratori diocesi lombarde) si è messo a tema
proprio questo.
Lo spazio compiti nasce come strumento che permette di:
- prestare attenzione alle esigenze extrascolastiche dei ragazzi
- stimolare la presenza di volontari in oratorio e di promuovere
competenze
- promuovere collaborazioni tra gli oratori
- promuovere collaborazioni con le altre agenzie.
Nonostante oggi possiamo affermare che questi anni di lavoro degli
oratori hanno portato buoni frutti, va segnalato anche che restano alcuni
interrogativi sui quali è necessario compiere alcune riflessioni.
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Innanzitutto lo Spazio compiti nasce da una sollecitazione che è espressa
soprattutto dagli adulti: come far sì che venga riconosciuto come bisogno
anche dai ragazzi? Come evitare che i nostri metodi ricalchino quelli
scolastici? La scelta di attivare uno spazio compiti in oratorio nasce, il più
delle volte, da un bisogno espresso da genitori ed insegnanti e presunto
dagli educatori. In particolare:
- in alcuni casi gli insegnanti chiedono che lo spazio compiti diventi luogo
dove i ragazzi possano essere seguiti da adulti in grado di far svolgere i
compiti, di colmare alcune lacune e in particolare di sostenere i bambini
stranieri in un percorso di alfabetizzazione
- i genitori chiedono agli educatori che i ragazzi svolgano tutti i compiti
previsti per evitare che tornando a casa siano ancora impegnati
- i bambini e i ragazzi chiedono un luogo dove potersi esprimere, divertire
e socializzare.
I ragazzi spesso ti chiedono uno spazio dove poter sbagliare con tranquillità
in quanto lo sbaglio non si traduce in voto negativo e in bocciatura.
Gli educatori si trovano in questa situazione di mezzo cercando di mediare
tra le diverse richieste con la consapevolezza che:
- due o tre pomeriggi a settimana non sono sufficienti per colmare le
lacune dei ragazzi;
- il tempo a disposizione non può essere sempre sufficiente per lo
svolgimento di tutti i compiti assegnati;
- per colmare le lacune dei ragazzi e per sostenere i ragazzi stranieri in
percorsi di alfabetizzazione sono necessarie specifiche competenze.
Il tentativo degli educatori dello spazio compiti è quello di promuovere
anche modalità alternative a quelle scolastiche nello svolgimento dei
compiti per non cadere in una sorta di “ripetizione”. Questo tentativo può
essere facilitato solo da una condivisione con la scuola di obiettivi educativi,
di strumenti e di metodi alternativi. Oggi gli oratori hanno compreso che
le proprie competenze possono essere giocate non solo e non tanto sugli
apprendimenti didattici, quanto su quelli relazionali, affettivi, esperienziali.
Compito degli educatori dell’oratorio è quello di far vivere, e vivere insieme
94
ai ragazzi, esperienze significative per poi rielaborarle e costruire insieme
nuovi significati educativi condivisi.
E in prospettiva? Oggi non è più possibile credere che sia fattibile un’azione
educativa a scompartimenti: è necessario non solo che le energie siano
messe in rete, ma che alcuni luoghi fondamentali per la crescita siano
valorizzati e sostenuti.
È importante promuovere uno sguardo pastorale più ampio della propria
parrocchia e individuare possibilità concrete di collaborazione, non solo
per lo spazio compiti. Non dobbiamo essere gelosi dei nostri spazi e non
dobbiamo temere che questo riduca la nostra specificità. Ogni soggetto
partecipa alla realizzazione di obiettivi condivisi con il proprio stile e con i
propri metodi. Lo spazio compiti, quindi, non solo come luogo fisico, come
struttura, ma come équipe esperta di animatori volontari e professionisti
che mettono le proprie competenze al servizio di un sistema educativo
per far crescere una comunità educante, non accontentandosi di gestire la
propria “clientela”, ma facendo crescere tutto ciò che in un paese opera a
favore dei ragazzi. Questo permetterebbe di superare una preoccupazione
che ultimamente si è manifestata in molti oratori: corriamo il rischio di
concentrarci sull’attività, attenti a creare un servizio efficace ed efficiente
per rispondere alle diverse richieste, lasciando in secondo piano la
relazione educativa con i ragazzi.
Intuizione forte dello spazio compiti in oratorio è quella di privilegiare
la relazione, perché i ragazzi vengono allo spazio compiti non solo per i
compiti, ma perché lo stare insieme è significativo. La qualità delle relazioni
affettive che si creano è significativa.
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LA COOPERAZIONE SOCIALE PER L’EXTRASCUOLA
di Marica Preda
La Prima Direttiva. In Star Trek il primo comandamento a cui tutti dovevano
attenersi, chiamato appunto La Prima Direttiva diceva: “Non interferire
con le culture aliene se non in caso di pericolo di vita per qualche membro
dell’equipaggio”. Questo per dire: a ognuno il suo compito.
La cooperazione sociale si porta dietro il peccato originale di essere nata
come strumento oltre che soluzione alla mancanza di risorse disponibili
per rispondere a richieste e bisogni che la comunità esprime e a cui le
istituzioni non hanno potuto, saputo, voluto rispondere. E’ storia.
Da qui nasce anche una certa attitudine a prestarsi, in presenza di relazioni
fiduciarie, a coprire mancanze: di personale, istituzionali, economiche, per
permettere di esistere a progetti pensati e organizzati dagli enti preposti,
altrimenti destinati all’estinzione o alla non possibilità di realizzazione.
Non siamo degli eroi. Tanti altri soggetti interessati ai ragazzi e preoccupati
si comportano così. Non sempre, nel tempo, questa attitudine si è
rivelata essere risorsa positiva, perché quelle mancanze coperte da altri
non permettono il processo di assunzione di responsabilità da parte di
tutti i soggetti coinvolti. E non permettono agli altri soggetti di sentire la
mancanza, giocandosi quindi l’opportunità di rivestire ruoli e identità
precise, non confusive. Nel campo educativo questo è molto importante
perché tanti soggetti hanno compiti educativi, ma non è vero che tutti
possono fare tutto. Per la cooperazione sociale, essere disponibile a questo
gioco, a volte proporlo addirittura, per poter fare andare avanti qualche
cosa che si era intoppato su questioni che sembrano a volte meramente
“pratiche” o per desiderio di sentirsi necessaria, è stato un prezzo molto
alto.
Non ha facilitato il rafforzamento di una identità che necessita di affrancarsi
dalla dipendenza dal Pubblico pur “essendo al servizio”, “promotrice di
bene pubblico”, che lavora nella consapevolezza di un ruolo riconosciuto
da un articolo della Costituzione e dalla legge 328 che disegnano con
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chiarezza la sua funzione pubblica in autonomia.
Per questo motivo sarebbe bene che a volte la cooperazione sociale avesse
il coraggio di dire “no” a quelle richieste che la nostra competenza ci dice
che non hanno gambe per andare avanti, che non rispondono a letture
di bisogni reali, che non sono sostenute da un lavoro di progettazione
partecipata tra i diversi “portatori di interessi” e che non rispondono ad
alcuni requisiti che oggi qui insieme dovremo trovare.
Dovremmo avere il coraggio di dire no, anche se perdiamo qualche
contratto, non per snobismo ma per senso di responsabilità, oltre che
verso la comunità, anche verso noi stessi che facciamo fatica a coniugare
e a tenere allo stesso tempo la funzione (che la cooperazione sociale
ha) politica e sociale con quella tecnica, specializzata, perché altrimenti
perseguiamo una mission “in vece” e non “con”.
Le cooperative sociali di tipo A sono per la maggior parte composte da
educatori, pedagogisti, psicologi, maestri d’arte che si sono ritrovati
a gestire oltre al proprio lavoro, anche il piano politico ed economico
della propria organizzazione. Questo probabilmente ci porta ad essere
imprenditivi anche dove non ci tocca…
E questo è il nostro mea culpa.
Progettazione partecipata quindi perché, citando Don Ciotti, “l’azione
dell’educare deve nascere dal lavoro comune di una pluralità di soggetti,
ma questo elemento deve essere interiorizzato da tutti i soggetti con forza,
senza dubbi e titubanze, perché non esistono leggi o decreti che obbligano
ad un’azione corale: questa coscienza deve invece nascere dall’impegno
e dalla responsabilità di ognuno”. Le nostre preoccupazioni sono che la
cultura di disinteresse verso le aree dell’affettività e dell’amicizia, del
dialogo, della comunicazione e dell’ascolto, del confronto, del bisogno
di poter esprimere le proprie risorse e capacità - il bisogno di significati
profondi, la cui cura è necessaria per prevenire disagi - in tempi di tagli
delle risorse prenda il sopravvento e provochi, non tanto la rinuncia alle
progettualità, ma il ritiro delle risorse per il loro coordinamento, la loro
promozione nella comunità, la raccolta di nuove risorse, la messa in rete,
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in una ottica, come dicevo prima di progettazione partecipata.
E non intendo una suddivisione organizzata dei compiti, dove ognuno fa la
sua parte ma non ci si tocca dentro, ma un lavoro comune, dove non ci si
mescola nell’agito, ma ci si mescola nella fase progettuale, dell’esplorazione
del bisogno, della elaborazione delle strategie a partire certo da ruoli ben
distinti.
Dove partecipare è prendere parte, nel senso di essere parte, in un processo
che implica responsabilità, autonomia, vincoli, conflitti, cooperazione,
confronto, scambio, condivisione di preoccupazioni, decisioni e i cui attori
sono la scuola, l’ente locale, i genitori, le associazioni e la cooperazione
sociale.
Lavorare nell’extrascuola non è certo una fonte di guadagni che aiuterà
a sostenere i nostri bilanci, per altro molto in crisi, in quanto si tratta
per la verità di un’ area piuttosto residuale, impegna gli educatori poche
ore, in modo molto flessibile con richieste ed aspettative piuttosto alte, di
professionalità e specializzazione per quei servizi che hanno caratteristiche
di sostegno scolastico, aspettative che si abbassano notevolmente quando
gli apprendimenti si collocano nell’area creativa, ludica, sociale. Quando si
parla di “gioco“ non si comprende la necessità né della programmazione,
né della progettazione. Nel taglio dei costi, sono le prime voci che vengono
messe in discussione. Noi riteniamo che l’importanza del gioco anche
nell’ambito di una proposta educativa non sia da trascurare. Basti pensare
che attraverso il gioco e il divertimento il ragazzo si esprime, conosce, si
relaziona. Anche da grandi questa componente continua ad essere una
parte importante della vita della persona, la quale continua a giocare
essendo così coinvolta in nuove combinazioni di idee e di ipotetici risultati
di situazioni e di eventi e ricevendone un grande stimolo, poiché il gioco é
una forma di esplorazione mentale che sollecita la creatività, la riflessione
e il pensiero.
Anche il gioco va appreso, non con una lezione, ma facendone esperienza
e parlandone, in una situazione di gruppalità dove ha il valore aggiunto di
apprendimento di socialità.
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Per questo siamo qui, a discutere dell’extrascuola, perché riteniamo sia
un’ area importante, da presidiare, da migliorare e alla quale garantire qualità. Non una qualità standard, ma commisurata alle risorse che ci sono in campo. Qualità fornita dalla continuità progettuale: non sapere mai se l’anno dopo un servizio extrascolastico proseguirà, non lo fa essere significativo. Non viene considerato dalla comunità e non sarà frequentato, rischiando di diventare un ghetto per chi è obbligato alla frequenza dalle necessità familiari. Destinato alla scomparsa.Deve essere risorsa per la scuola, che deve sentire di anno in anno che si raffina, che risponde sempre più ai suoi bisogni condivisi, che i ragazzi e le ragazze che lo frequentano lo fanno volentieri, perché non è luogo di valutazione, ma luogo dove si impara a valutare se stessi e le proprie capacità. Non può che arricchire la loro esperienza. Può diventare progetto inserito nell’offerta formativa.Non devono esserci “padroni del progetto” che ne tutelano la proprietà impedendo interazioni costruttive, partecipazione e cambiamento. Potrebbe esserci un patto formalizzato tra i diversi soggetti, nel quale vengano riportati i risultati della progettazione comune, che può includere anche tutte le altre iniziative stabili sul territorio che si riconoscono come iniziative educative rivolte ai bambini, ai ragazzi. Sarebbe anche auspicabile che ogni anno o ogni biennio si organizzi un momento pubblico durante il quale tutte le realtà che hanno sottoscritto il documento istitutivo possano presentare in una pubblica sede le iniziative di loro competenza, che contribuiscono concretamente al consolidamento e allo sviluppo del concetto di comunità educante. Occorre far leva, non sulla competizione, ma sulla cooperazione: solo così si educa alla convivenza democratica ed alla solidarietà, perché in questo modo mostriamo ai nostri ragazzi che gli adulti sono capaci di imparare a coordinare i bisogni di ognuno, a utilizzare le risorse in una ottica di cooperazione e a verificare insieme il lavoro fatto, sulla base di un progetto concordato. Per poi andare avanti perché quando si impara a fare qualcosa è bello
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continuare a farlo.
Per essere forti nel promuovere nelle nostre comunità sensibilità e
attenzioni alle necessità dei ragazzi, al disagio che stanno vivendo nella
fatica verso la scolarità.
Noi ci aspettiamo che l’ente locale, nelle sue componenti politiche e
tecniche, sia promotore di questo progetto comune, che porti il suo bisogno
e apra tavoli di concertazione e progettazione, dove la cooperazione possa
portare la sua esperienza nella gestione e il suo interesse culturale, le famiglie
esprimano il proprio bisogno di sostegno e di partecipazione, la propria
competenza educativa, la scuola porti la sua elaborazione del bisogno che
legge, la sua competenza tecnica e disponibilità al dialogo, dove gli oratori
portino la propria ricchezza di soggetti storicamente riconosciuti nella
comunità, dove le associazioni portino le proprie differenze, la loro visione
e aiutino a mettere in rete altre esperienze e altri soggetti che rischiano di
rimanere fuori da una progettualità di comunità.
Per applicare non modelli ma un modo originale di affrontare le questioni
dell’apprendere, delle difficoltà scolastiche e della necessità di guardare a
ragazzi e ragazze che vivono complessivamente in tutti questi luoghi, per
costruire buone abitudini, verificabili durante e dopo l’esperienza, anche
attraverso la soddisfazione dei ragazzi che vi partecipano.
Per noi l’extrascuola è permettere ai ragazzi e alle ragazze di vivere
un’esperienza diversa, in un gruppo diverso che rappresenta la possibilità
di giocarsi in un modo alternativo. Sperimentarsi e riportare questa
sperimentazione di sé nel gruppo classe è importante come importante è
che essa venga accolta e valorizzata. E viceversa, perché l’extrascuola non
è solo oltre l’orario scolastico ma è con la scuola e le famiglie strumento
di apprendimenti.
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L’ASSOCIAZIONISMO PER L’EXTRASCUOLA
di Max Archetti
La rete sociale che si interseca intorno ai servizi extrascuola è molto
ricca e varia e in essa ciascun soggetto è chiamato a svolgere un compito
definito.
Molti richiedono questi servizi nei territori, ma pochi attori sociali
ambiscono ad assumerne la responsabilità e la gestione, perché la loro
attuazione presenta numerosi e talvolta complessi problemi da affrontare
a vari livelli: dal punto di vista del reperimento degli spazi, dell’ingaggio e
dell’organizzazione delle risorse umane (professionisti, volontari, giovani,
adulti, ecc.).
Un altro aspetto che rende impegnativa l’impresa di costituire un servizio
extrascuola è la necessità di attivare degli ambiti e dei processi per arrivare
ad individuare un obiettivo comune fra i vari attori coinvolti che sia in
grado di dare un senso educativo al servizio e di orientare l’agire dei diversi
soggetti impegnati a diverso titolo.
Va inoltre evidenziato che spesso è possibile programmare le attività
nell’extrascuola soltanto in una logica di breve termine, senza che si possa
progettare in un’ottica di continuità da un anno all’altro.
A fronte di queste difficoltà si registra comunque una presenza numerosa
e capillare di esperienze, di piccoli laboratori ricchi di elementi di
originalità.
Gli operatori impegnati in questi servizi sono chiamati a esprimere
un investimento che in molti casi va oltre la tempistica contrattuale
(in particolare per le attività di programmazione e di coinvolgimento
delle risorse della comunità) perché sono animati dalla passione e dal
riconoscimento che la comunità accorda a questo tipo di servizio. D’altro
canto, una efficace azione di coinvolgimento dei diversi attori sociali, nella
progettazione e attuazione dei servizi extrascuola, rappresenta la migliore
garanzia del fatto che un’esperienza, anche se dovesse interrompersi per
difficoltà economiche o logistiche, possa comunque lasciare un segno
importante nella comunità locale, o magari depositare dei semi che
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potranno dare vita in futuro ad altre esperienze nella stessa direzione.
Se le cooperative e le associazioni perseguono finalità analoghe, diverse
sono invece le modalità nel farlo: per la cooperativa si tratta di dare vita
ad una operazione attenta anche al versante della gestione economica.
Per l’associazione, è molto meno rilevante il vincolo economico,
mentre è maggiore l’elemento motivazionale. Questa differenza può
favorire una complementarietà fra l’apporto della cooperazione e quello
dell’associazionismo e produrre proprio per questo esiti interessanti ed
esperienze assai originali.
Inoltre si può rilevare che le associazioni impegnate nei servizi
dell’extrascuola evidenziano spesso un carattere marcatamente locale, in
quanto espressione dell’impegno diretto di cittadini che abitano uno stesso
paese o uno stesso quartiere e che intendono offrire opportunità in più ai
ragazzi di quello stesso contesto.
La cooperativa sociale invece aggrega persone accomunate da una stessa
professione, che vogliono esprimere il loro ruolo di cittadinanza attiva
attraverso l’impegno professionale a favore di un territorio. In questo
senso gli operatori delle cooperative sociali possono essere visti come
“cittadini con una doppia appartenenza alla comunità”: dal punto di vista
del lavoro e dal punto di vista dell’abitare la comunità. Questa condizione
facilita la creazione di relazioni e collaborazioni proficue fra i diversi attori
territoriali producendo interessanti ricadute sui ragazzi.
Con una battuta si potrebbe dire che ciò che differenzia cooperative sociali
e associazioni nel compito comune di dare vita a esperienze di extrascuola
è il diverso “registro” che connota la loro azione: una gestione territoriale
per le prime e una associativa per le seconde.
Ciò che è essenziale affinché i progetti possano operare in modo efficace
e sostenibile è che fra associazionismo e cooperazione vi siano una
collaborazione e una valorizzazione reciproca e continua all’interno delle
reti sociali dei diversi territori.
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I GENITORI FRA SCUOLA ED EXTRASCUOLA
di Silvio Petteni
Si registra spesso un’assenza nelle discussioni svolte intorno alla scuola
e all’extrascuola; mancano una figura e un ruolo: dove sono i termini
genitori e famiglia?
C’è la necessità di recuperare questa figura e questo ruolo, e lo vorrei fare
recuperando il concetto: dalla partecipazione … alla cooperazione … alla
corresponsabilità educativa.
E’ un percorso reale, possibile, non un’utopia; si tratta di impegnarsi, è un
qualcosa che si costruisce nel tempo.
I docenti educano i giovinetti attraverso il sapere: insegnando storia,
geografia, italiano, anche matematica, si può fare educazione. Parlando
delle popolazioni africane, patrizi e plebei, dividendo una torta in sette
parti uguali si creano occasioni di educazione.
I genitori educano tutta la persona con la testimonianza e l’esempio: nel
leggere e commentare un libro, il giornale, portare la famiglia ad uno
spettacolo teatrale, cinematografico, visitare un museo, una mostra, fargli
gustare le bellezze del creato.
Genitori, dirigenti, docenti, personale dei servizi, educatori del mondo
esterno alla scuola stanno giocando insieme nel territorio l’intero processo
di formazione del ragazzo avendo a cura la centralità dell’allievo.
C’è la necessità di una alleanza e di un ruolo attivo dei genitori con
gli educatori, non di una semplice consultazione, ma di una vera
cooperazione.
Un pericolo da evitare
Purtroppo oggi quando si parla di extrascuola si pensa immediatamente al
doposcuola per assolvere all’impegno scolastico.
D’altra parte quale è la domanda che più spesso facciamo ai nostri figli
quando ritornano a casa da scuola? “Come è andata oggi, che voto hai
preso?” E non chiediamo: “Cosa hai imparato oggi? Chi e cosa hai
conosciuto oggi?”.
103
Che il tutto si riduca a una misera prestazione di servizio, o di rapporto
domanda offerta: mando mio figlio al doposcuola organizzato dalla scuola
o dall’oratorio, alla polisportiva, ai corsi di nuoto organizzati dalla scuola,
così per un paio di ore è sotto controllo.
Siamo al concetto di delega: io sto alla porta e lascio decidere gli altri
…non decido.
Una necessità
Bisogna favorire i rapporti relazionali, carichi di comunicazione: creare
momenti comuni, collaborare, promuovere incontri con l’associazionismo,
autoformazione da tutte le parti, orientamento, migliorare le relazioni con
gli insegnanti, fare il punto della situazione, non ultimo anche i momenti
di festa. E’ necessario favorire i colloqui tra genitori, operatori della scuola
e anche educatori esterni alla scuola! La scuola purtroppo non offre tempi
adeguati per l’ascolto e valorizza poco i genitori come risorsa (c’è da fare il
rappresentante di classe, sì … ma tanto sono solo tre incontri in un anno!
Allora che ruolo è? Diciamo la verità, cosa vuol dire fare veramente il
rappresentante di classe! E’ necessario non sminuire il lavoro e l’impegno
richiesti). La scuola deve rendere conto ai genitori del proprio lavoro per
renderli coscienti e responsabili, per rendere efficace il progetto educativo
e per farlo aderire alla realtà del ragazzo/a.
La scuola stessa deve riconoscere di non poter svolgere al suo interno tutte
le funzioni educative e quindi non deve ammettere la delega dei genitori.
Si fa fatica a pensare la scuola come parte integrante del territorio e …
invece la scuola può offrire:
- una rete di infrastrutture (aule, palestre, attrezzature, biblioteche,
laboratori) alla quale i giovani potrebbero fare riferimento per le loro
attività culturali, educative e sportive, ludiche e per la loro socializzazione
anche in orari extra-scolastici;
- le proprie risorse umane, personale docente e non, che possono
allargare il proprio ruolo, da quello strettamente educativo ad un più
ampio ruolo di alto valore sociale. E’ importante che la scuola sia
pronta ad accogliere chi è disponibile ad offrire il proprio tempo e le
104
proprie capacità per partecipare a questo grande progetto per le nuove
generazioni.
E’ necessario inoltre ampliare la riflessione concettuale sui percorsi di
educazione alla convivenza civile (fare l’educazione stradale ai ragazzi è
importante, ma poi … al volante c’è il genitore, l’educazione alimentare è
importante, ma poi il pranzo e la cena la preparano i genitori…).
L’apprendimento si svolge all’interno di un cammino di crescita, la
formazione è un processo continuo, che prosegue per tutto l’arco della
vita, per cui non esiste un punto di inizio e uno di fine.
Risulta quindi importante fare scuola con i genitori, per dare valore culturale
alla genitorialità. Bisogna fare in modo che gli alunni riconoscano il valore
culturale della trasmissione educativa dei genitori. Servono stile, filosofia e
metodo, ma l’educazione è anche fatta di molte esperienze. L’educazione è
pratica e richiede comportamenti, non solo teoria.
Si tratta allora di coniugare le ricchezze di Famiglia e Scuola affinché
entrambe si possano arricchire. I genitori portano la domanda educativa
e la scuola ha l’offerta, che dal punto di vista dei contenuti è fatta da
professionisti; ma per fare l’offerta bisogna conoscere anche la domanda,
quindi è assolutamente necessario il colloquio tra genitori ed educatori.
Si tratta di passare dalla platea al palcoscenico, dove tutti sono attori e
nessuno è spettatore, ma senza scambiarsi gli spartiti o i copioni. In ogni
caso sul palcoscenico serve anche un buon regista, un buon direttore
d’orchestra. Serve quindi un cambio di mentalità tra tutti; promozione e
veicolazione della partnership tra genitori e scuola.
Come genitori siamo continuamente provocati. Quando mio figlio con i
suoi occhi pieni mi guarda, come posso da genitore far passare la mia
posizione educativa? Che coraggio ho a parlare di incontro educativo?
Il discorso è tra adulti con responsabilità diverse. Nelle scuole si incontrano
persone con mentalità diverse e di generazioni diverse, i volti delle persone
che incontriamo a scuola sono volti diversi che ti guardano, ti osservano,
ti chiedono ragione di come stai dentro la scuola e chiedono possibilità di
incontro. Si educa educandosi assieme.
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IL TERRITORIO: L’EXTRASCUOLA COME STRUMENTO PER
LE POLITICHE SOCIALI PER I MINORI
Gli Ambiti Territoriali e i servizi extrascuola
di Giusi Caio
Riferire dell’impegno dei 14 Ambiti Territoriali in provincia di Bergamo
nei confronti dei servizi extrascuola richiede di operare una sintesi che
rischia di annullare le notevoli e significative differenze riscontrabili nel
lavoro svolto dagli Uffici di Piano, che, necessariamente, devono muoversi
in modo molto diversificato nella programmazione delle politiche per i
minori per dare risposte a territori che presentano caratteristiche, risorse
e presenze assai differenti.
Assumendo quindi il limite di questa situazione si può dire innanzitutto che
gli Uffici di Piano, avendo uno sguardo privilegiato sui percorsi dei minori
in difficoltà e delle loro famiglie, colgono nelle esperienze dell’extrascuola
un interessante luogo in cui si mette in moto tutta una serie di meccanismi
di attenzione educativa e di solidarietà che rappresentano delle risorse
importanti per concretizzare nei territori i principi della giustizia sociale,
del rispetto e della cura di chi soffre situazioni di fragilità.
Gli Uffici di Piano sono anche nella condizione favorevole per avere
un’immagine articolata dei bisogni delle famiglie di oggi, che rimandano
non solo a necessità di supporto integrativo della funzione genitoriale da
parte degli ambiti educativi istituzionali, ma anche a un’esigenza diffusa
di qualificazione del tempo dei figli, al di fuori del tempo della scuola, ma
comunque dentro una logica educativa. Per cogliere il senso del lavoro
svolto dagli Uffici di Piano per dare risposte a questi bisogni all’interno
della programmazione sociale dei territori è necessario ricordare che molti
servizi extrascuola operano da diversi anni, pertanto gli Uffici di Piano,
organismi di recente istituzione, si sono trovati a interagire con realtà già
strutturate e dotate di competenze educative e progettuali maturate anche
grazie al contributo offerto dalla L. 285/97 negli anni precedenti.
Diversi Uffici di Piano, dopo aver rilevato la presenza di iniziative
extrascuola già consolidate nel territorio, hanno quindi operato per
106
svolgere un’azione di supporto, non solo attraverso contribuzioni
economiche, ma anche attraverso la collaborazione nei momenti della
progettazione, della gestione organizzativa e della verifica dei risultati,
oltre che la predisposizione di opportunità di formazione. L’incontro fra
gli operatori degli Ambiti Territoriali e i diversi soggetti che promuovono
i servizi extrascuola ha permesso di collegare risorse e progettualità
differenti, quali quelle impegnate nei servizi di Assistenza Domiciliare per
Minori e nei servizi di Tutela dei Minori, ma anche nei progetti educativi
per i disabili e nei progetti di integrazione per i minori stranieri, dando vita
a nuove esperienze capaci di generare ulteriore solidarietà, attenzione e
sostegno.
Alcuni Ambiti Territoriali si sono preoccupati di svolgere azioni specifiche
volte a favorire il dialogo e la collaborazione fra il Pubblico (Enti Locali,
Scuola) e il Privato Sociale che comprende i diversi attori sociali impegnati
a vario titolo nelle esperienze dell’extrascuola: gli oratori innanzitutto, ma
anche la cooperazione, le associazioni di volontariato o dei genitori.
Lo sforzo degli Ambiti Territoriali, soprattutto nella stesura dei Piani di Zona,
è stato dunque quello, da un lato, di rilevare e valorizzare le esperienze
già in atto e, attraverso una azione di verifica, di favorire l’introduzione di
elementi di cambiamento e innovazione, avvalendosi in questo dei diversi
gruppi di lavoro e ambiti di raccordo istituiti per l’attuazione della L. 328/00
(Tavoli tematici, ecc.), dall’altro, di tentare di svolgere, in un contesto
caratterizzato da una difficoltà diffusa (difficoltà delle famiglie, dei territori,
delle istituzioni, della politica), un paziente lavoro di composizione di
nuove coalizioni fra i diversi attori delle comunità locali.
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L’approccio comunitario
come necessità per le politiche per i minori
di Benvenuto Gamba
Un deciso investimento nella concretizzazione di un approccio comunitario
ai problemi sociali ed educativi dei nostri territori non rappresenta per
gli operatori e per la programmazione sociale una possibilità, ma è una
necessità: o si costruiscono delle progettualità che dicono “comunità”,
oppure si propongono delle progettualità che già in partenza dicono
del loro fallimento. In altri termini, non si può che partire da una logica
comunitaria per costruire i progetti che riguardano le politiche sociali per
l’infanzia e l’adolescenza. Qualcuno direbbe che c’è bisogno di comunità
perchè senza questa dimensione all’uomo risulta impossibile giungere
al proprio compimento: l’uomo non si può compiere e completare da
solo, però si deve necessariamente completare e per poterlo fare si deve
aprire agli altri, a una dimensione comunitaria. La necessità dell’assenza,
della dimensione del bisogno è strutturale, è ontologica alla condizione
umana e richiama necessariamente quella che viene definita l’etica
della corresponsabilità. Per questo la comunità non è una possibilità, ma
una necessità: se non costruiamo comunità, non possiamo costruirci in
quanto uomini. Nell’etimologia della parola “comunità” è richiamato il
termine “munus”. E’ contenuto però anche il termine “cum” che richiama
la dimensione dell’impegno e rimanda a una logica della gratuità, parte
integrante anch’essa dell’uomo. E’ chiaro che l’uomo non è essenzialmente
gratuito, ma può sviluppare in tal senso una consapevolezza e una scelta da
mettere in gioco. Costruire comunità richiama quindi anche la dimensione
della generatività, della generosità, del costruire luoghi progettuali che
rimandano a una dimensione di progettualità di vita.
Da dove si può partire per costruire una progettualità di comunità?
Innanzitutto dalla constatazione molto semplice che il territorio non è più
un luogo da occupare o da spartire fra varie realtà: una parte per la scuola,
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una per il comune, una per la parrocchia, una per la cooperativa sociale.
Non bisogna dare per scontata questa constatazione, perché la nostra
cultura proviene da una storia dove le progettualità ubbidivano ad una logica
preoccupata principalmente di presidiare il proprio pezzetto, pensando
che se si faceva bene la propria parte, si contribuiva automaticamente alla
costruzione della comunità. Il territorio oggi appare come un terreno da
coltivare e far crescere, ma che richiede necessariamente un luogo in cui le
diverse realtà possano incontrarsi e dirsi quale uomo intendono far crescere
in quel territorio. Va ricordato che nel costruire le progettualità comunitarie
si è spesso partiti dall’attenzione ai più deboli, da quelli che fanno fatica,
che sono socialmente fragili, ma questo è avvenuto non in virtù di una
logica meramente assistenzialistica, ma sulla base della consapevolezza
che se si costruiscono politiche adatte alle persone in condizione di fragilità
sociale, si rende al tempo stesso più vivibile la comunità anche per quelli
che fragili non sono. Se si predispongono strade in modo che i bambini
imparino ad andare a scuola da soli, non solo si costruiscono capacità di
abitare la città in maniera diversa, ma si sviluppano autonomia, fiducia nella
comunità, capacità da parte delle famiglie di affidarsi reciprocamente, di
dare un’ occhiata ai propri figli, che sono figli di una comunità e non solo
figli anagrafici che fanno riferimento soltanto al proprio stato di famiglia.
E’ questa una dimensione di comunità.
E’ necessario che le istituzioni si spendano per recuperare una dimensione
di adultità, nel senso di rispondere all’esigenza di disporre di un luogo
dove ci si possa incontrare fra adulti per dirsi quale comunità si intenda
realizzare sul proprio territorio. Ogni realtà infatti è diversa: per questo
è importante che le persone che possiedono la storia di quel territorio si
incontrino per dirsi, alla luce di una analisi dell’esistente e di quella storia,
quale sviluppo vogliono dare al loro territorio.
In questo senso si può anche ricordare un altro concetto chiave: il termine
“comunità” rimanda anche la dimensione del Comune come luogo al
servizio della comunità. Se si fa riferimento all’articolo 13 del Testo Unico
267/2000, che declina i compiti dei Comuni, si rileva che il Comune è il
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luogo che cura lo sviluppo dei propri cittadini, precipuamente nei settori
organici dei servizi alla persona, del territorio e della gestione delle risorse
economiche.
Se si pone attenzione a questa definizione si coglie come ci sia già il nucleo
essenziale di cosa significhi fare comunità: promuovere lo sviluppo dei
cittadini, partendo dalla logica dei servizi alla persona, non esclusivamente
attraverso le prestazioni assistenziali, ma attraverso i diversi modi esperiti
per far crescere i cittadini, mettendo loro a disposizione strumenti per
realizzarsi in quanto persone di questo territorio. Questo per quel che
riguarda i servizi alla persona, ma la normativa cita successivamente
anche la dimensione urbanistica, così come la gestione del territorio e
la gestione economico finanziaria, perché anche il costruire strade, così
come la gestione delle risorse economiche, deve essere orientata rispetto
all’idea di uomo che si intende salvaguardare in quel dato territorio.
Questo dice che oggi disponiamo di una visione legislativa chiara in
merito alla direzione verso cui ci si deve incamminare; il problema è
che è necessario riscoprire la voglia di rimettersi in gioco per costruire
una comunità che parta dal confronto dei diversi pensieri sull’uomo cui
ciascuno fa riferimento. Si tratta inoltre di prendere atto che la nostra
cultura proviene da una storia in cui si è verificato un vuoto di opportunità
aggregative e socializzanti. Nei nostri territori c’è ricchezza di attività, di
“tempi pieni”, ma non di tempo libero, di un tempo che faciliti le relazioni
autentiche fra le persone. Questo tipo di problema sollecita un impegno da
parte delle istituzioni ad avviare un confronto su come costruire contesti
che aiutino a liberare il tempo, a promuovere relazioni autentiche, a
partire dal fatto che si diano dei luoghi in cui i soggetti che promuovono
le diverse attività possano interrogarsi sul senso complessivo che guida il
loro operare e su come queste iniziative contribuiscano alla costruzione
della comunità.
Si coglie inoltre la necessità di diversificare l’offerta, calibrandola
sull’evoluzione dei bisogni che avanzano. Oggi, ad esempio, i ritmi di lavoro
dei genitori sono tali che inducono il rischio di lasciare sempre più soli i
110
figli. Costruire contesti di relazione nella scuola, negli oratori, ecc., non
deve rispondere alla richiesta dei genitori di delega della gestione dei figli,
ma può rappresentare un aiuto a questi genitori, se ci si pone la domanda
di come fare a ricoinvolgerli sui problemi dei figli.
Si rileva anche il venire meno delle risorse parentali, una situazione in cui,
ad esempio, i nonni sempre di meno possono prendersi cura dei figli dei
figli. È quindi necessario pensare a rispose nuove e aggiornate per aiutare
le famiglie a conciliare i tempi del lavoro con i tempi della famiglia.
Finora l’analisi e le riflessioni esposte hanno indicato le ragioni per cui
si sono sviluppate le progettualità territoriali che hanno interessato gli
ambiti aggregativi. Si tratta ora di riflettere: quale è la direzione verso cui si
sta puntando per il futuro? Verso un superamento dell’autoreferenzialità a
favore di una sinergia progettuale. Occorre innanzitutto uscire dalla logica
del chiedere collaborazioni reciproche, per promuovere maggiori capacità
di interazione fra i diversi soggetti, di interdipendenza delle progettualità e
di abitarsi reciprocamente tra le diverse progettualità. E’ finito il tempo di
costruire progetti, occorre invece sedersi per pensare ai modi per rendere
possibile che ciascun soggetto possa realizzare le sue finalità operando
anche negli spazi e nei tempi di competenza degli altri: ad esempio facendo
in modo che la scuola possa portare avanti i propri obiettivi didattici
operando nell’oratorio e viceversa.
Se non si costruiscono capacità di abitarsi reciprocamente, il rischio che
ne deriva è che si continuerà a portare avanti progettualità parcellizzate,
senza riuscire a restituire il senso della comunità.
Costruire capacità di abitarsi reciprocamente richiede di non negare
l’autonomia di ciascuno, ma di riconoscere che ciascuna progettualità
è inscritta in un progetto complessivo che esprime la comunità, che
promuove la cultura della contaminazione reciproca, dove tutti sono visti
come valore, tutti sono risorse e non ci sono motivi per innalzare barricate
e sottolineare divisioni e autoreferenzialità.
E’ un lavoro estremamente faticoso. Per fare cosa?
- per promuovere occasioni di crescita e sviluppo;
111
- per facilitare integrazione dei minori in condizione di fragilità sociale e
dei minori stranieri;
- per costruire percorsi di prevenzione e di superamento delle forme di
disagio;
- per promuovere esperienze nuove, non limitandosi però ad inventare
formule inedite di intervento che non contribuiscono a promuovere
una cultura nuova della programmazione e della gestione partecipata,
capace di tenere presente i bisogni di tutti e non solo i propri, perché è
questo che significa amministrare e governare una città;
- per sostenere le competenze educative di coloro che operano nei servizi
aggregativi attraverso la formazione e il coordinamento;
- per facilitare l’accesso agli spazi aggregativi anche nei periodi in cui
non è attivo il servizio stesso, per sperimentare l’aggregazione anche in
autonomia nei tempi di non servizio.
Promuovere cittadinanza attiva per una comunità solidale, investendo
sugli educatori e sulla solidarietà, significa costruire le condizioni per il
superamento della logica del professionismo, per cui un educatore lo è solo
nel tempo lavoro; ciascuno operatore è uomo, è parte di una comunità, e
se ha la fortuna di lavorare come educatore, ha anche un impegno e un
dovere di contribuire come cittadino al bene di quella comunità, mettendo
in gioco le proprie risorse per costruire la dimensione della città solidale.
Un’ immagine può aiutare a comprendere il senso delle suggestioni portate
ed è quella che rappresenta l’uomo come un angelo con una sola ala, il
quale, per poter volare, deve necessariamente abbracciare una altro uomo.
Questa immagine è suggestiva perché dice dell’incompletezza della persona,
dice della necessità dell’altro per realizzarsi, dice anche dell’importanza
delle relazioni che rimettono in gioco gli affetti e dice infine che, per essere
uomini, bisogna volare alto, che non c’è una quotidianità umana se non
c’è una prospettiva di senso.
L’augurio a chi opera per le politiche per i minori è quello di poter volare
alto e di trovare qualcuno da abbracciare per poterlo fare insieme.
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3EXTRASCUOLA:
‘IMPRESE DI COMUNITA’ INTORNO AL DIRITTO
DEI RAGAZZI ALL’APPRENDIMENTO
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115
PROGETTARE NELL’EXTRASCUOLA
di Piergiorgio Reggio
L’esperienza del cosiddetto “extrascuola” viene da lontano, attraverso
un percorso che ha visto susseguirsi modalità differenti di rapporto
con l’istituzione scolastica, che si sono sviluppate da un’iniziale
contrapposizione a forme di azione integrata.
Il progetto del percorso formativo sull’extrascuola ruota intorno a tre
parole chiave essenziali che costituiscono snodi fondamentali intorno ai
quali si sono sviluppate le esperienze anche dei progetti dell’extrascuola:
- Progettazione, assunta non semplicemente come tecnica o come
metodologia, ma come modalità di affrontare questioni educative e
sociali
- Apprendimento, come funzione sociale che impegna sempre più
numerosi soggetti: genitori, insegnanti, educatori, ecc.
- Comunità, come modo di stare insieme, di sentirsi parte, di sviluppare
senso di appartenenza.
Questo primo contributo di inquadramento teorico è dedicato alla
progettazione e l’ipotesi di partenza qui proposta è che la progettazione, nei
diversi ambiti in cui si esplica (formazione, didattica, educazione, urbanistica,
ecc.), prima che una tecnica o una metodologia, è una logica, un modo di
affrontare situazioni problematiche di tipo sociale, educativo, ecc.
Cosa è un problema?
Si può definire “problema” qualsiasi situazione dove si registri uno
scostamento fra una condizione reale e una condizione attesa:
116
A = situazione di partenza
B = situazione attesa
C = situazione reale
P = scostamento tra reale e attesa (problema)
Tante sono le strategie per affrontare le situazioni problematiche:
- rassegnarsi alla condizione reale
- ridefinire la condizione attesa
- rivalutare la condizione reale
- ………
Quando si è in presenza di una situazione problematica (relativa a una
condizione di deficit o difficoltà oppure a una esigenza di sfruttare e
valorizzare opportunità) fra le strategie che si possono adottare per ridurre
lo scarto fra realtà e attese (ad es. riproduzione di routines o procedere per
tentativi ed errori) c’è anche la possibilità di utilizzare la progettazione.
L’assunzione di una logica progettuale implica la necessità di porre
attenzione a tre funzioni di base della progettazione:
- funzione dichiarativa, che attiene l’esplicitazione dei fini ultimi, degli
scopi e dei valori di riferimento; si è chiamati a proiettarsi nel futuro
per immaginare qualcosa che non c’è, a dichiarare le ragioni per cui si
intende operare in una certa direzione;
- funzione procedurale, che riguarda la definizione delle procedure
progettuali: obiettivi, risorse, tempi, azioni; si tratta di definire il “come”,
AB
C
P
117
con quali mezzi, attraverso quali processi si intende intraprendere
l’azione progettata;
- funzione produttiva, che si riferisce alla definizione dei prodotti e dei
materiali simbolici che ci si propone di realizzare; si tratta di prefigurare
la natura e le caratteristiche del prodotto che si intende concretizzare.
La progettazione è una strategia per interagire con le situazioni
problematiche che implica diverse dimensioni (cognitiva, emotiva,
affettiva, ecc.) e che richiede di fare i conti in modo non sequenziale con
le tre funzioni citate.
La maggior parte dei problemi relativi alla progettazione trova spiegazione
in deficit relativi ad una di queste tre funzioni o incoerenze nel loro
raccordarsi: carenza di chiarezza sui fini del progetto, carenza a livello di
strutturazione organizzativa, incoerenza fra scopi, procedure e prodotti …
I diversi modi di progettare danno origine a differenti modelli di
progettazione:
• modelli di progettazione lineare, che procedono secondo una logica di
razionalità assoluta che non è interessata a considerare elementi di
varianza o di perturbazione della procedura standard definita:
E’ un approccio che, in ambito pedagogico, ha avuto il merito di far
uscire le pratiche educative dall’improvvisazione ed ha introdotto
istanze di verificabilità degli esiti.
Nel lavoro socio-educativo bisogna tuttavia considerare che la varianza
supera quasi sempre la regolarità e la routine.
E’ tuttavia un approccio fortemente interiorizzato sia dagli operatori
sociali, sia dai loro committenti;
• modelli problem solving, che, pur proponendo metodologie diversificate,
INPUT OUTPUTTRATTAMENTO
118
dedicano attenzione agli elementi di scostamento rispetto ai processi
pianificati e prevedono meccanismi di rilevazione, controllo e gestione
delle varianze;
• modelli negoziali, partecipativi, concertativi che si concentrano su
processi di definizione condivisa dei problemi individuati, in quanto
considerati la premessa indispensabile per stimolare un investimento
attivo da parte di chi è interessato al problema nel mobilitare risorse
diversificate. Si tratta di norma di percorsi assai impegnativi e lunghi,
orientati alla costruzione di un campo di intervento comune in cui
coinvolgere soggetti portatori di interessi diversi, che non sempre
portano agli esiti prefigurati in partenza;
• modelli euristici o di ricerca, percorsi che cercano di definire in progress,
mano a mano che procede anche l’intervento, i problemi e le strategie
utili ad affrontarli. Sono modelli che si applicano in situazioni molto
complesse o inedite, dove non si dispone di esperienze di riferimento
o di saperi consolidati o dove non c’è un consenso preliminare nè
sulla natura dei problemi nè sulle strategie per affrontarli o dove sono
elevate le possibilità di insuccesso.
Nella pratica socio-educativa questi diversi modelli coesistono e la
realizzazione dei progetti prevede l’adozione e la coniugazione di approcci
anche differenti.
119
QUALI PROGETTI
di Elena Righetti
Per chi progetta concretamente sul campo è importante uscire da un
approccio ideologico alla progettazione, acquisendo la capacità di coniugare
modelli diversi nei vari segmenti di realizzazione degli interventi, operando
la scelta dei modelli in una logica di tipo funzionale, cioè in funzione di ciò
che si intende realizzare.
L’efficacia e la coerenza dei progetti non sono date dalla scelta del “buon”
progetto, cioè dalla selezione di un modello ottimale in sè, ma sono date
dal rigore adottato per progettare con chiarezza e finalizzazione. Questo
non pone al riparo da errori o da difficoltà, ma aiuta a porre rimedio in
tempo utile agli scostamenti che in itinere emergono.
Tutti i modelli presentati presentano degli elementi comuni:
• il procedere tutti da una situazione A di partenza per giungere a una
situazione B di arrivo;
PROGETTOA B
le modalità di passaggio da A a B (processi, risorse, ecc.) dipendono
dal modello adottato e costituiscono il progetto, il cosa farò e il come
lo farò;
• la definizione del percorso ipotizzato per passare da A a B, che si
concretizza prima in una attività di previsione delle azioni da mettere
in campo, delle risorse da mobilitare, ecc., e poi, a livello operativo,
nell’operare delle scelte e prendere delle decisioni in coerenza con
tali scelte e con una analisi critica della complessità dei fattori che
caratterizzano la realtà. Tali fattori possono essere le risorse umane,
120
finanziarie, la risorsa tempo, ma anche i contesti in cui si opera, ecc.
Le scelte e le decisioni dipendono da ciò di cui si dispone nella situazione
A e non, come spesso succede impropriamente in progettazione, in
base alle aspettative che si nutrono in riferimento alla situazione B. Per
questo è necessario porre molta attenzione all’analisi e alla descrizione
della situazione A.
Per questi motivi in progettazione è richiesto di ottemperare con cura
e coerenza alla funzione dichiarativa, esplicitando le motivazioni che
spingono a mobilitare risorse per cambiare la situazione A e a prefigurare
una situazione B, come nuova condizione di cui è importante motivare
le ragioni di desiderabilità, oggettivare le attese soggettive in risultati
attesi oggettivi e quindi misurabili. Nella funzione dichiarativa di
conseguenza rientrano anche i valori, le credenze, le letture professionali
dei problemi e dei contesti, le competenze, ecc.
Oltre che l’analisi e la descrizione della situazione A, è importante nello
svolgimento della funzione dichiarativa prefigurare con chiarezza e
realismo anche la situazione B, verso cui si intende procedere, non solo
in termini di obiettivi, ma anche di risultati;
• la prefigurazione dei risultati, ciò che dovrà accadere dopo l’intervento,
ciò che si intende produrre attraverso l’azione. A differenza degli
obiettivi che si collocano nella funzione dichiarativa, la prefigurazione
dei risultati è una operazione che riguarda la funzione produttiva, cioè
l’esplicitazione e la definizione del prodotto che si intende realizzare,
espresso in termini visibili, misurabili, tangibili;
• la definizione e la descrizione delle modalità, del come si intende
procedere assunta all’interno della funzione procedurale che enuncia
metodologie, azioni, risorse, tecnologie che verranno impiegate
L’analisi della situazione di partenza A è, in progettazione, un compito
difficile, perché è necessario tenere sotto controllo la tendenza a descrivere
la situazione A in funzione della situazione B desiderabile, tendenza indotta
dal senso di frustrazione, spesso inconscio, che deriva dal registrare lo
scarto fra A problematico e B desiderabile: si tende perciò a vedere in A
121
solo le cose che servono per arrivare a B e a ignorare invece quei fattori
che ostacolano il passaggio a B.
Altrettanto difficile risulta l’operazione di prefigurazione della situazione di
arrivo B, cioè progettare in modo che le soluzioni previste per modificare
A non siano già predeterminate sulla base delle aspettative e dei desideri,
a prescindere da tutti gli elementi di incertezza e da ogni variabile
perturbante. Spesso infatti si progetta prefigurandosi B in modo che risulti
che esiste una sola soluzione possibile, quella di cui si dispone a priori.
Lo sforzo del progettista dovrebbe essere quello di prefigurare B in modo
distaccato, presupponendo che per arrivarci ci sono diversi percorsi
e molteplici soluzioni, che costituiscono delle alternative praticabili
e selezionabili come efficaci in base ad una analisi in progress dei
contesti e delle variabili intervenienti. In questo modo la progettazione
non è orientata a ridurre la percezione delle condizioni di successo (per
sedare l’ansia derivante dall’incertezza del risultato), ma rappresenta una
risorsa proprio in quanto consente di prospettare e di disporre di una
molteplicità di opzioni e soluzioni possibili cui attingere per affrontare
le diverse criticità che necessariamente si incontreranno sul percorso di
realizzazione. In questa prospettiva si coglie appieno il contributo che
possono offrire le pratiche della concertazione e le metodologie euristiche,
volte a individuare problemi e risorse inedite e a sviluppare creatività in
riferimento alle soluzioni adottabili.
Le tre funzioni progettuali presentate, che caratterizzano tutti i processi di
progettazione, costituiscono dei riferimenti che aiutano a lavorare su una
situazione di partenza e a prefigurare le soluzioni individuate come più
efficaci e coerenti:
- per efficacia si intende la capacità di ottenere il massimo risultato
raggiungibile con le risorse disponibili in A
- per coerenza si intende la capacità di usare le risorse in modo “ecologico”,
cioè compatibile e funzionale al contesto e ai soggetti che lo abitano, ma
anche in sintonia con i valori, le aspettative, i desideri di chi progetta.
122
Coerenza ed efficacia sono maggiormente garantiti da un lavoro di
progettazione rigoroso dove vengono rispettate le tre funzioni richiamate
da Reggio nel precedente contributo.
Bisogna considerare anche che la progettazione è spesso un’azione
collettiva, espressione di un gruppo di lavoro che può essere eterogeneo
per appartenenze, culture, professionalità. In questi casi la progettazione
rappresenta un’utile occasione per favorire lo scambio di rappresentazioni
mentali, opinioni, convinzioni e arrivare ad assegnare significati comuni a
ciò che si sta facendo e a ciò che si intende realizzare.
In questo senso la progettazione è anche una interessantissima opportunità
di apprendimento reciproco e di condivisione di significati e orientamenti,
che aiuta a rendere meno rischioso il processo di attuazione dei progetti,
proprio perché contribuisce a mantenere buoni livelli di coerenza ed
efficacia.
Nella ricerca sui progetti dell’extrascuola promossa dalla Provincia di
Bergamo e dal Laboratorio Provinciale Extrascuola sono state individuate
diverse tipologie di progetti.
La tipologia “Solo compiti” ad es. rimanda ad una idea di specializzazione
di una delle funzioni da perseguire nell’extrascuola, ad esempio favorendo
i processi di apprendimento attraverso l’istituzione di un setting formativo
più adeguato rispetto a quello della stanzetta dove i ragazzi studiano da
soli, affiancando i ragazzi con figure di facilitazione che orientano la loro
funzione in ragione delle caratteristiche dei ragazzi e dei loro contesti di
provenienza (ad es. famiglie extracomunitarie).
Oltre ai progetti in cui si sviluppa maggiormente la dimensione della
specializzazione, vi sono altre tipologie di progetti che invece promuovono
forme di intervento caratterizzate dalla complementarietà, che rendono
possibile perseguire risultati più articolati e complessi, proprio
salvaguardando e valorizzando in modo consapevole e intenzionale la
specializzazione delle singole componenti in gioco, componendole poi
in una progettualità integrata, in modo da disporre di maggiori risorse e
soluzioni che possano essere mobilitate in modo coordinato.
123
La complementarietà implica la capacità di uscire da un approccio
autoreferenziale per aprirsi ad altri contesti e scoprire nuove risorse e
nuove modalità di intervento.
Altra parola chiave di cui è opportuno trattare è la parola orientamento,
con riferimento alla necessità per chi progetta di fissare delle mete e di
sapere costantemente verso dove si sta effettivamente andando.
Questa parola chiave rimanda cioè alla esigenza di disporre di strumenti
che aiutano i progettisti a orientarsi durante l’ideazione e la realizzazione
dei progetti, cioè a mantenere la rotta fissata o a rendersi conto che si
è andati fuori rotta o, ancora, a decidere intenzionalmente di deviare da
questa rotta, perché si sono trovate nuove e più interessanti direzioni di
investimento.
In altri termini in progettazione è necessario avere strumenti per verificare
se le azioni messe in campo e le reazioni da queste generate, sono, restano
e devono restare indirizzate verso le mete prefigurate.
La progettazione costituisce una risorsa anche per quanto riguarda
l’esigenza di orientamento, in quanto, più le scelte sono consapevoli
e motivate, sono esplicitate in fase iniziale e riesplicitate anche nelle
successive fasi, più queste scelte assumono il significato di uno strumento
di lavoro e non di un vincolo subìto che impone di perseverare in una
direzione indipendentemente dagli esiti osservati.
L’ultima parola chiave è appunto la ricorsività, che rappresenta un
riferimento utile per mantenere sufficienti livelli di chiarezza e di rigore
metodologico nella rielaborazione e gestione dei progetti costantemente
esposti al confronto con la complessità delle variabili del reale. Il termine
ricorsività fa quindi riferimento alla disponibilità e alla capacità dei
progettisti di riprogettare continuamente, sapendo alternare ricorsivamente
fasi di progettazione, gestione, valutazione, progettazione …, continuando
a riapplicare le tre funzioni progettuali nelle diverse fasi di elaborazione e
attuazione dei progetti.
Due ultime “raccomandazioni” possono essere rivolte ai progettisti:
124
• La definizione della situazione problematica: la situazione problematica
non è A, non è neppure B e neppure la soluzione che vogliamo
immettere. E’ piuttosto data dalla relazione tra A e B, perché è ciò che è
percepito mancante in A e che si intende concretizzare promuovendo il
movimento vero B. E’ ciò che vogliamo modificare.
Ad es. la dispersione scolastica non rappresenta una situazione
problematica, ma è piuttosto l’esito di questa situazione, un effetto
che si osserva e che si può dimostrare. La situazione problematica in
rapporto al fenomeno della dispersione scolastica è pertanto costituita
dalle cause che determinano il fatto che una percentuale significativa
di ragazzi non giunge alla fine prevista del percorso scolastico. La
comprensione degli elementi costitutivi della situazione problematica
è facilitata dalla descrizione della situazione di partenza A prevista dalla
funzione dichiarativa.
• Il rischio dell’idealizzazione nella elaborazione di progetti e la necessità
di porre attenzione non solo agli elementi che costituiscono una risorsa
per produrre la situazione desiderata di arrivo B, ma anche e soprattutto
agli elementi che possono ostacolare l’attuazione del progetto.
Per evitare questo rischio è bene considerare che le condizioni di
successo di un progetto (competenze, risorse, condizioni e opportunità)
devono essere presenti, quindi osservabili e descrivibili in modo
sufficientemente chiaro, già nella situazione A.
Altre annotazioni utili alla progettazione possono essere dedotte dall’analisi
dell’esperienza di rielaborazione e produzione svolta all’interno di gruppi
di lavoro impegnati ad analizzare alcuni progetti all’interno del percorso
di formazione.
In particolare si è potuto osservare che, al di là di quanto elaborato in
termini di contenuti vi è una “produzione” che ha determinato un risultato
tangibile, comunicabile, capace di suscitare reazioni negli altri.
La possibilità di disporre di un risultato concreto ha offerto maggiori
opportunità ai componenti del gruppo e ad altri soggetti di confrontarsi
125
intorno alla produzione, ha suscitato giudizi di accordo o di disaccordo,
ha suggerito direzioni di miglioramento o decisioni di sospensione delle
azioni o di cambiamento di direzione degli investimenti.
L’assenza di un risultato concreto rende molto faticosi i processi di
produzione di pensiero e quindi di apprendimento.
In ogni situazione di lavoro collettivo, cioè in tutti i processi di produzione
di pensiero collettivo accade che, consapevolmente o meno, il gruppo
applichi delle procedure per accordarsi intorno ad alcune convenzioni
attraverso le quali si possano assegnare significati condivisi ai diversi
oggetti di lavoro.
Il grado di consapevolezza e di intenzionalità nella gestione di questi
processi determina accelerazioni o difficoltà nella messa in comune di
saperi, che costituiscono la base di partenza per consentire al gruppo di
continuare a lavorare efficacemente in funzione degli obiettivi condivisi.
Infatti l’elaborazione di pensiero all’interno di situazioni di gruppo implica
sempre una molteplicità di operazioni di attribuzione di senso, che ciascuno
di noi svolge in modo implicito e automatico in tempi infinitesimali tali da
farne perdere la consapevolezza. L’attività di produzione di senso a livello
collettivo procede attraverso l’applicazione, consapevole o meno, di azioni
di ascolto, decodifica, assegnazione di significato.
Per questo le modalità di lavoro di un gruppo costituiscono una variabile
importante nella determinazione dell’efficacia dei progetti e ci sono
delle tecniche specifiche per migliorare la messa in comune dei saperi e
delle esperienze. Trascurare questa fase comporta il rischio che i soggetti
assegnino significati diversi ai medesimi oggetti, elevando la probabilità di
incomprensioni, disturbi comunicativi e conflitti difficilmente risolvibili in
questa situazione confusiva.
Chi si occupa di progettazione deve procedere con un atteggiamento da
esploratore, cioè deve essere costantemente attento ad attribuire significato
alle situazioni che incontra e deve sollecitare gli altri a esplicitare e porre
a confronto i significati e le rappresentazioni che ciascuno attribuisce alle
126
diverse situazioni.
Questo insieme di operazioni di confronto e di scambio di significati
produce ciò che con un termine di sintesi si definisce “apprendimento”:
apprendere qualcosa significa aver assegnato a una cosa un significato
valido per sè e/o per un gruppo, attraverso la costruzione di teorie, cioè
attraverso l’individuazione di spiegazioni sensate rispetto a un fenomeno
che consentano di sviluppare un migliore controllo della situazione.
Alcuni autori sostengono che il bisogno di apprendere va incluso fra i
bisogni primari, perché l’apprendimento costituisce uno degli strumenti
più efficaci per garantire ai soggetti la sopravvivenza.
L’apprendimento quindi non è una azione astratta di carattere prettamente
individuale, ma è un’azione concreta che implica operazioni complesse
di scambio sociale e chi non apprende ha maggiori probabilità di
soccombere.
In questo senso l’apprendimento non è una cosa che si produce soltanto a
scuola, ma si sviluppa in tutti i momenti della vita.
L’apprendimento inoltre è tanto più efficace, quanto più si utilizza in
modo intenzionale e consapevole il prodotto dell’apprendimento, cioè la
competenza, in quanto il prodotto dell’apprendimento è il saper fare, il
saper essere, ecc.
La conoscenza, quella codificata nei libri e convenzionata nelle diverse
discipline, non può quindi essere considerata solo una cosa astratta
che alcuni si possono permettere ed altri no, ma l’apprendimento e la
conoscenza che ne deriva rappresentano lo strumento dell’azione delle
persone nel mondo, per sopravvivere, per starci bene, per essere felici, ecc.
Da questo punto di vista vale dunque la pena ribadire che la conoscenza
non è la risultante di un processo di astrazione, ma si genera vivendo
esperienze di apprendimento.
Tendiamo a pensare che la conoscenza sia una cosa astratta perché
l’uomo ha via via immagazzinato nei libri i risultati delle sue esperienze
di apprendimento, utilizzando linguaggi e regole convenzionali che hanno
istituito le discipline. Di fatto l’apprendere è praticare, è elaborare la pratica
127
e tornare alla pratica con degli strumenti più ricchi, più evoluti ed efficaci
attraverso un processo ricorsivo che si attua in molteplici situazioni.
La formazione e i processi educativi formalizzati rappresentano delle
situazioni strutturate di apprendimento per le nuove generazioni, ma di
fatto la conoscenza viene elaborata nei molteplici e diversificati ambiti
della vita degli individui, in quanto l’apprendimento è un “fare esperienza”
che si trasforma in conoscenza, comunicabile e utilizzabile dal soggetto
che ha appreso, tutte le volte che si verifica il passaggio della elaborazione,
della trasformazione dell’esperienza in qualcosa di intenzionalmente
applicabile. Se non si attuano i processi di elaborazione intorno alle
esperienze si genera quel che è stato definito con il termine di “mimetismo
cognitivo”, cioè una finzione di apprendimento (ad es. sapere esporre il
concetto di funzione di x, senza sapere cosa significhi e come e perché si
utilizzi).
In sintesi apprendimento è un processo finalizzato ad elaborare l’esperienza
per produrre conoscenza per me al fine di poterla applicare alle mie
situazioni di vita.
ELABORAZIONE DI ESPERIENZA
APPLICAZIONEDELLA CONOSCENZA
APPRENDIMENTO
ESPERIENZA CONOSCENZA
I processi di apprendimento possono essere facilitati da figure che
svolgono la funzione di “mediatori di apprendimento”, docenti, educatori,
animatori, formatori, ecc., tutte quelle figure che si assumono il compito
di accompagnare intenzionalmente lungo questo percorso dall’esperienza
all’apprendimento.
Mediatore o facilitatore di apprendimento non è colui che sa e trasferisce
128
conoscenza in colui che non sa, ma è colui che fa in modo che l’altro
produca la sua conoscenza da sé, colui ad esempio che fa in modo che il
teorema di Pitagora venga scoperto da coloro ai quali lo propone, come
una scoperta di conoscenza per sé. Molti sono i tipi di conoscenza che
si possono apprendere in questi processi di elaborazione: saperi a livello
cognitivo, relazionale, emotivo, ecc., ma ciò può avvenire a patto che
si lavori in modo che siano i soggetti a produrre conoscenza e che essi
stessi possano percepire la consistenza e il valore del proprio prodotto.
In questa prospettiva le pratiche valutative dei processi di apprendimento
sono primariamente degli efficaci strumenti di apprendimento per chi è
impegnato direttamente in questi processi e perdono molto delle loro
potenzialità nel momento in cui vengono gestite in modo esclusivo da chi
li segue dall’esterno (insegnante, educatore, ecc.).
Laboratorio e apprendimento
“Laboratorio” è qualsiasi situazione che intenzionalmente consenta di
fare esperienza e di utilizzare tale esperienza come base per un percorso
di apprendimento di contenuti, di comportamenti, di stili di vita, ecc.,
attraverso la realizzazione di prodotti di gruppo.
Le figure che vengono inserite nelle situazioni di laboratorio, in qualità di
figure di mediazione e di facilitazione, devono esercitare intenzionalmente
il ruolo di chi predispone il setting formativo adeguato per produrre
apprendimento attraverso l’esperienza condivisa.
L’assenza di una precisa intenzionalità nella gestione del ruolo di mediazione
comporta una dispersione dell’apprendimento.
Possono essere evidenziati due elementi che caratterizzano la funzione di
mediatori di apprendimento:
- l’assunzione di un atteggiamento e di un’attitudine esplorativa orientati
a far emergere e scambiare i saperi posseduti dai diversi componenti
del laboratorio;
- la disposizione ad attraversare il rischio che il percorso di apprendimento
porti a esiti inattesi, a saperi non predeterminabili.
129
I processi collettivi di esplorazione e di messa a confronto dei significati e
dei saperi sono generativi di apprendimento solo a condizione che siano
legittimati (appunto dalla presenza del mediatore) ogni posizione e punto di
vista, in modo tale che possano emergere numerose rappresentazioni della
realtà e si possano in tal modo generare nuovi prodotti di conoscenza.
Una obiezione che viene spesso avanzata alle proposte laboratoriali è che
questi percorsi implicano tempi più lunghi per dare modo ai processi di
apprendimento di svolgersi in tutta la loro articolazione.
Per regolare questa criticità si tratta di applicare strategie e strumenti
di lavoro adeguati rispetto alla situazione messa in luce attraverso una
realistica analisi del contesto, delle condizioni di lavoro, degli obiettivi
perseguiti.
Bisogna valutare se le obiezioni opposte alle proposte di apprendimento
laboratoriale non siano altro che forme di resistenza di fronte al disagio che
deriva dal sentirsi esposti alle incertezze implicate dalla necessità di porsi
in un atteggiamento euristico e di assumere il rischio di trovarsi di fronte
a risultati inediti, che richiedono un costante lavoro di rielaborazione,
e che, per una malintesa interpretazione del ruolo del mediatore di
apprendimento, sono assunti come indicatore di insuccesso, anziché
come preziosa opportunità per promuovere attitudini all’apprendimento
permanente.
130
UN LABORATORIO DEGLI APPRENDIMENTI
di Piergiorgio Reggio
I processi educativi si collocano oggi in uno scenario completamente
diverso da quello in cui si sono formate le generazioni precedenti e
caratterizzato da:
• Esaurimento dei paradigmi educativi tradizionali. Ciò che caratterizza
oggi i processi di apprendimento e richiama la necessità di un impegno
condiviso fra scuola, famiglia e territorio, è il fatto che ci si trova di fronte
ad una evoluzione del sistema educativo connotata dall’esaurimento
dei paradigmi che per molti decenni sono stati in grado di spiegare cosa
era la società, come si doveva vivere, come ci si poteva educare e come
si diventava cittadini adulti.
Si trattava di un sistema di assunti coesi e totalizzanti che erano in grado
di dare risposta ad ogni domanda: ad es. la cultura cattolica offriva una
risposta globale alle domande educative che trovava rimandi coerenti
all’interno della società, dove famiglia, scuola, vita sociale e impresa
riflettevano gli stessi valori di riferimento; così come la cultura operaia
o la cultura della grande impresa (si pensi ad es. ai villaggi Falk o
all’insediamento di Crespi d’Adda).
Oggi rimangono validi i paradigmi educativi e i valori di fondo espressi
da tutte queste culture, ma ciò che è venuto meno è la possibilità di
educare gli individui in maniera totalizzante all’interno di un unico
paradigma di riferimento, poiché le incoerenze fra sistemi diversi
sono più delle conferme, le contaminazioni sono innumerevoli e la
frammentazione è massima.
• Crisi della centralità della scuola e diversificazione di tempi, luoghi e
soggetti educativi. Un altro fenomeno che ha accompagnato il processo
di esaurimento dei paradigmi educativi totalizzanti è il fatto che, benchè
la scuola abbia mantenuto la sua rilevanza nei processi educativi,
tuttavia si deve riconoscere che non si è più in presenza di un sistema
131
educativo che è centrato unicamente sulla scuola. Numerose sono oggi
le fonti e le opportunità per l’apprendimento che inducono messaggi
contradditori, incoerenti, quando non di disconferma della proposta
scolastica. Il sistema educativo è diversificato in quanto a tempi e luoghi
e soggetti che hanno titolarità e specificità del tutto diverse.
• Necessità di contestualizzare l’educazione. Un tempo si riusciva a
rispondere in modo abbastanza univoco alla domanda: che cosa è
l’educazione?
Oggi se si riesce a dare risposta, è possibile farlo soltanto in una maniera
fortemente constestualizzata, adottando numerose specifiche: educare
chi? quando? dove? come?
È, infatti, molto differente educare un maschio invece che una femmina,
educare in un’ area metropolitana o in un’ area periferica o rurale,
educare bambini italiani o bambini stranieri, ragazzi provenienti da
famiglie svantaggiate o più favorite socialmente…
La necessità di contestualizzare quando si pensa all’educazione
costituisce una situazione inedita, che crea qualche difficoltà, ma
rappresenta anche una grande opportunità perché impone di andare
oltre risposte astratte e stereotipate, stimola ad assumere approcci
pragmatici, a misurarsi con persone e famiglie concrete.
• Rapporto problematico fra educazione e società. Oggi, come già si
diceva, sul piano dei riferimenti educativi non si è più in presenza di
visioni definite, che un tempo si potevano apprezzare o meno, ma che
comunque si presentavano in modo molto netto e chiaro. Ad esempio
negli anni ’20 si svilupparono approcci pedagogici che individuavano
nell’educazione uno strumento importante per costruire una società
pensata e desiderata come democratica. Nella società odierna questa
aspirazione permane, ma il nesso fra educazione e democrazia è colto
come molto più problematico. Che il crescere dell’istruzione produca
maggiore possibilità di accesso al potere da parte delle persone è un nesso
che non è lineare e che va assunto in modo necessariamente critico:
più scuola per tutti non significa automaticamente più democrazia, in
132
alcune società alla scuola arrivano delle richieste orientate in termini
funzionali alla formazione di saperi molto selettivi.
Le questioni problematiche esposte possono essere assunte come
motivazioni fondate del fatto che non è più possibile occuparsi oggi di
apprendimento dei bambini e degli adulti unicamente in quanto soggetti
appartenenti ad una parte della società, ad es. in quanto genitori, in quanto
operatori sociali, in quanto educatori o insegnanti… Questo sforzo deve
essere assunto in modo condiviso per rispondere alle trasformazioni
descritte che hanno mutato radicalmente lo scenario. Questo non significa
che ciascuno non abbia più specifici compiti.
Apprendimento / apprendimenti
Passando a riflettere su cosa si intende quando si parla di apprendimenti si
possono offrire alcuni orientamenti:
• Apprendimenti come contenuti: in termini di ampliamento/riduzione di
saperi, codici, competenze.
Se si chiede a persone comuni il significato della parola “apprendimento”
le risposte faranno prevalentemente riferimento ad un contenuto:
saperne di …, discipline, competenze operative, ecc. Questa accezione
molto diffusa dell’apprendimento come “contenuto” ha posto in
secondo piano l’aspetto che fa riferimento all’apprendimento come
esperienza personale.
• Esperienze prima che contenuti. Certo che l’apprendimento è
anche contenuto, ma questo è il prodotto finale di un processo,
di un’esperienza. In quanto persona che fa un’esperienza, io sono
l’apprendimento di me stesso. L’apprendimento è al tempo stesso
risultato, ma è anche esperienza vissuta dalle persone e il contenuto, in
molte situazioni, incide relativamente, come si può desumere dal fatto
che in alcune esperienze il contenuto è comune a tutte le persone, ma
gli apprendimenti sono anche molto diversi.
Il tema dell’apprendimento come contenuto è oggi oggetto di un dibattito
lacerante (in particolare all’interno della scuola): da un lato si considera
133
che i contenuti da trasferire siano sempre più numerosi, dall’altro si
afferma che i contenuti effettivamente necessari siano pochi (ad es.
inglese e informatica)
L’enfasi sulla dimensione esperienziale evidenzia come l’apprendimento
crea differenze: le persone si diversificano in base al fatto che facciano
più o meno esperienze di apprendimento, non sono cioè diverse per
il fatto che sappiano ripetere più o meno poesie, o contenuti specifici,
ma è certo che chi ha letto o studiato poesie, o ha interiorizzato culture
tecniche, è diverso da chi non lo ha fatto, senza che si possa dire se sia
migliore o peggiore.
• Dimensione individuale / rilevanza sociale. I processi di apprendimento
presentano una dimensione individuale e una sociale.
E’ vero che gli apprendimenti sono esperienze individuali, però la
dimensione sociale è irrinunciabile, perché ogni educazione non solo
avviene in una società, ma può servire o meno a una certa società e
quando gli apprendimenti non vengono riconosciuti come validi
socialmente, purtroppo non si riesce ad apprezzarli, non assumono una
rilevanza sociale. Se gli apprendimenti individuali vengono promossi,
sviluppati e riconosciuti socialmente, la persona ha maggiori chances
a livello sociale, nel lavoro, nelle relazioni, ma se questo non avviene,
la persona può fare un’esperienza di apprendimento molto forte e può
sviluppare un patrimonio culturale molto ricco, ma socialmente si trova
in grave difficoltà: ci sono tantissime persone che dispongono di saperi
consistenti, ma che socialmente non contano assolutamente nulla.
Certo questa concezione degli apprendimenti, più che definire il
concetto complica la questione, perché da un lato dice che in gioco ci
sono indubbiamente dei contenuti, ma dall’altro evidenzia che non si
tratta solo di processi, ma di esperienze che in quanto tali hanno una
valenza personale, ma anche collettiva e sociale, esperienze che hanno
bisogno di essere personalmente vissute e socialmente riconosciute.
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Le forme dell’educazione
In riferimento a come si producono oggi i processi di apprendimento si
può fare riferimento a due diverse coordinate: i luoghi dell’educazione e le
modalità in cui si attua.
Per quanto riguarda il primo versante, dove le persone apprendono,
proprio in riferimento alla diversificazione e moltiplicazione dei luoghi e
delle forme dell’apprendimento, si possono avere:
- esperienze di educazione formale, che ruotano attorno al sistema
scolastico ma che accomunano tutti i percorsi curricolari, certificabili,
dove il percorso è definito in maniera chiara e riconosciuta;
- esperienze di educazione non formale, che prevedono situazioni
organizzate, setting (laboratori, centri di aggregazione giovanile,
percorsi formativi), che non configurano però dei curricoli e delle
certificazioni;
- esperienze di educazione informale, che si svolgono nei luoghi quotidiani
di vita delle persone (l’oratorio, la strada, ecc.)
In tutti questi luoghi si attuano apprendimenti secondo modalità diverse:
talvolta in maniera spontanea, talvolta in maniera intenzionale.
Questi due aspetti si possono combinare e dall’incrocio degli apprendimenti
intenzionali o spontanei con le diverse situazioni educative si producono
esperienze di apprendimento diversificate. (vedi schema seguente).
Se si considera pari a cento il proprio sapere e si immagina di distribuirlo
nelle diverse caselle della tabella, certamente si avrà una distribuzione che,
seppure in quantità diverse, interesserà ognuna delle caselle previste.
Conclusione: le persone sono capaci di utilizzare e di fatto utilizzano
tutte le modalità di apprendimento e le situazioni educative e riescono a
comporre i risultati in un sapere organico.
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Tipi di apprendimento
Forme dell’Educazione
Apprendimento intenzionale
Apprendimento spontaneo
FORMALEObiettivi definiti, programmi espliciti e proposte pianificate
Apprendimento non previsto, asistematico, diffuso, profondo e duraturo
NON FORMALE
Incrocio tra interessi personali e opportunità offerte dai territori
Apprendimento non prevedibile, rilevante, capacità di apprendere ad apprendere
INFORMALE
Intraprendenza e attivazione del soggetto, disponibilità risorse
Situazioni potenzialmente educative, capacità di apprendere ad apprendere
La domanda che emerge è allora la seguente: se le persone, sia che abbiano 12 anni come 50, si muovono così agevolmente nei vari quadranti dell’apprendimento, come mai i sistemi formativi si concentrano, in termini di investimenti di risorse e di energie, sostanzialmente sul solo quadrante dell’educazione formale? Perchè a livello di attenzione sociale c’è riconoscimento quasi esclusivamente per l’apprendimento formale, senza considerare che invece esso è la risultante di un incrocio molto più complesso di variabili e situazioni? Queste domande evidenziano un problema importante, dove la questione della dimensione individuale e della rilevanza sociale dell’apprendimento assumono un significato particolare. Ad esempio molti documenti della Comunità Europea definiscono l’apprendimento come un “capitale personale individuale” e non un “bene comune”, mentre Don Milani diceva che studiare per sé era avarizia e, al contrario, affrontare i problemi con gli altri e sortirne insieme era democrazia. Un investimento sociale concentrato unicamente su quanto viene proposto in maniera formale e intenzionale privilegia chiaramente e inevitabilmente l’istruzione come
capitale personale individuale.
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Strategie per promuovere apprendimenti: le didattiche
Se si adotta una prospettiva più ad ampio spettro per promuovere il diritto
all’apprendimento, muovendosi nei diversi quadranti dei luoghi e delle
modalità educative e integrando vocazioni, competenze e specificità
diverse, si possono individuare diverse strategie di promozione del diritto
all’apprendimento:
- strategie sensibili all’individualizzazione, centrate fortemente
sull’individuo, non unicamente nei casi di difficoltà, ma anche nei
casi di eccellenza; queste strategie puntano infatti ad individuare in
ciascun soggetto difficoltà e potenzialità e a sviluppare interventi di
compensazione o di supporto alla maturazione di eccellenze;
- strategie di discriminazione positiva, orientate a “dare di più a chi ha
meno”, favorendo ad es. territori meno dotati di opportunità o gravati
da difficoltà attraverso l’attivazione di interventi suppletivi;
- strategie di mediazione, che propongono forme di sostegno sul piano
cognitivo e sociale, attraverso l’introduzione nel lavoro educativo
con minori di varie figure professionali e volontarie di mediazione,
che appunto si interpongono e mediano fra il soggetto e i processi di
apprendimento;
- Strategie di cooperazione e di gruppo, che vedono la socializzazione non
solo come un mezzo per facilitare l’apprendimento, ma un contenuto
di apprendimento in sé;
- Esperienze di apprendimento esperienziale, che possono essere proposte
a livello individuale o di gruppo, ponendo le persone a contatto diretto
con elementi di realtà e richiedendo loro non solo di affrontare tali
situazioni, ma di imparare dalle situazioni stesse;
- Il lavoro centrato sulla comunità e l’animazione, come strategie per
prendere in carico i bisogni formativi complessi di una comunità,
proponendo interventi rivolti a tutti i soggetti della comunità.
Nell’elenco di strategie proposte si rileva una certa gradazione
dall’individuale al sociale, che non si connota in termini negativo / positivo,
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ma che suggerisce l’esistenza di un repertorio di strategie diversificate
che producono esiti diversi e che richiedono l’impiego di competenze
progettuali e tecniche mature e specifiche per scegliere e comporre
intenzionalmente tali strategie in interventi integrati coerenti e adeguati
rispetto a situazioni, problemi e soggetti specifici.
Tali competenze possono essere sviluppate da ciascun attore sociale, ma
possono essere anche attribuite in maniera condivisa ai diversi soggetti,
in modo che non tutti debbano fare tutto, mentre tutti dovrebbero
comprendere la logica generale e ciascuno sviluppare competenze
specifiche.
La progettazione
Uno dei modi per implementare strategie finalizzate per promuovere gli
apprendimenti consiste nella progettazione che, prima che una tecnica
con cui si possono elaborare e predisporre interventi, è una logica, un
modo di muoversi, un modo di pensare.
Progettazione è anche un modo di sentire e sentire con gli altri, è quindi
un modo di mostrare “affetti”, perché la progettazione contiene una forte
dimensione socio-affettiva: progettare, e progettare con altri, può implicare
sentimenti di rabbia, delusione, frustrazione e entusiasmo, essendo in gioco
non solo elementi tecnici, ma le persone nella loro globalità. Progettazione
è infine fare delle cose concrete e non solo pensare astrattamente delle
ipotesi di lavoro.
Un filone della progettazione sociale, che viene qualificato con aggettivi
quali concertativo, partecipativo, negoziale, dialogico, indica la scelta di
non progettare autonomamente, secondo una logica di razionalità assoluta
e lineare che erige il “progettista” ad una posizione di “regista”, ma secondo
un approccio che presuppone l’attivazione di processi molto faticosi e a
volte confusi, nel corso dei quali ci si confronta, ci si contamina e ci si
misura anche con forme di conflitto esplicito.
Questi processi di progettazione partecipata sono fortemente influenzati
anche da una dimensione culturale, cioè da una modalità specifica di
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pensare e fare la progettazione.
Progettare significa “gettare lo sguardo avanti”, “immaginarsi la strada”
e anche “come fare a percorrerla”. Esistono però modi molto diversi di
declinare la progettazione secondo una propria cultura, che è una cultura
non solo personale, ma anche organizzativa, istituzionale, locale, sociale,
ecc.
La cultura che si adotta per progettare conferisce una connotazione diversa
alle parole che si utilizzano, per cui lo stesso temine “partecipativo” può
assumere significati diametralmente opposti.
In questa prospettiva si possono individuare nelle diverse esperienze di
lavoro sul campo tre diversi significati culturali attribuiti alla “progettazione”,
che evidenzino delle differenze significative nelle modalità che si possono
adottare per progettare con gli altri:
- progettazione come controllo, cioè come modalità per controllare le
situazioni: il progetto viene proposto come strumento illusorio per
poter controllare la molteplici e contraddittorie variabili della realtà (il
disagio, la devianza, il benessere, …). È una cultura del controllo che
induce questa richiesta di progettazione e che influenza fortemente gli
interventi che verranno messi in campo;
- progettazione come affermazione di sé: i progetti sono concepiti
come modalità per esprimere socialmente agli altri il “nostro”
modo di intendere una particolare problematica (che sia l’affido, la
tossicodipendenza, la dispersione scolastica o il disagio giovanile o
qualsiasi altra questione). Attraverso il progetto si intendono affermare
un approccio e una identità particolare. In altri termini il progetto
diviene uno strumento per capire meglio chi si è, per chiarire la propria
identità. Il rischio di questo approccio è che la progettazione, anziché
proporsi come strumento di facilitazione di dialogo, costituisca un
ostacolo all’incontro fra diverse identità e diverse rappresentazioni dei
problemi;
- progettazione come dialogo, sviluppata all’interno di culture
effettivamente aperte al confronto, che concepiscono la progettazione
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come un modo per capire meglio i problemi, attraverso il dialogo e il
confronto con gli altri, insegnando e imparando reciprocamente delle
cose, lasciandosi contaminare e influenzare, senza predefinire tutto a
priori (come avviene nella cultura del controllo), ma essendo aperti agli
esiti anche imprevedibili che il dialogo può produrre.
La questione critica che si pone nei confronti dei percorsi di progettazione
che si definiscono come partecipativi, condivisi e negoziali, ecc., è che
bisogna andare oltre le definizioni formali, per confrontarsi con le culture
che sono ad esse sottesi e che determinano nella pratica le finalità e le
modalità di lavoro che vengono effettivamente adottate.
Le difficoltà ricorrenti nei processi di progettazione partecipata spesso non
dipendono dalle tecniche di progettazione, ma dalle culture con le quali
gli individui e le organizzazioni entrano nel gioco progettuale. Quando
c’è coerenza tra modello di progettazione partecipata e cultura della
progettazione, i processi di progettazione risultano produttivi ed efficaci,
altrimenti è fortemente probabile che emergano in itinere difficoltà ed
ostacoli.
140
ACCOMPAGNARE E SOSTENERE I PROCESSI DI
APPRENDIMENTO
di Elena Righetti
In riferimento al concetto di apprendimento si possono individuare almeno
tre diversi schemi interpretativi che possono aiutare a comprendere le
strategie di apprendimento adottate dai diversi soggetti che affrontano
compiti di conoscenza.
Il costruttivismo
Propone una chiave di lettura dei meccanismi di produzione della
conoscenza innovativa nel panorama dell’epistemologia moderna, poiché
consente di superare la dicotomia, dominante nella filosofia precedente,
fra soggetto che conosce e oggetto di conoscenza.
Il soggetto che conosce, con la sua individualità e personalità, produce
conoscenza intorno alla realtà impiegando molti strumenti di
conoscenza.
Secondo l’approccio costruttivista il soggetto conosce l’oggetto utilizzando
gli strumenti che ha a disposizione in un dato momento. C’è una stretta
relazione fra ciò che il soggetto può conoscere di un dato oggetto e gli
SOGGETTO CHE CONOSCE
OGGETTO DI CONOSCENZA
STRUMENTI DI CONOSCENZATesti, esperienze,
tecnologie, relazioni...
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strumenti che utilizza per comprendere quell’oggetto.
Questi strumenti infatti vengono di volta in volta adattati all’oggetto che
deve essere conosciuto e quindi si modificano costantemente. Questa
modificazione influisce a sua volta sul soggetto che, da questo momento,
disponendo di strumenti che gli offrono nuove possibilità di conoscenza, si
trova di fronte un oggetto che appare modificato a sua volta e che sollecita
un ulteriore cambiamento degli strumenti conoscitivi da adottare, in un
processo ricorsivo di conoscenza e innovazione.
Da questo punto di vista l’oggetto di conoscenza non è scindibile dal
soggetto che conosce. Non si conosce quindi qualche cosa completamente
esterno dal soggetto, ma un oggetto per poter essere conosciuto deve
entrare in interazione con gli elementi della triangolazione descritta:
soggetto, strumenti, oggetto.
In questo approccio epistemologico non si parla quindi di una “verità”
dell’oggetto, ma di una conoscenza interpretativa dell’oggetto: cioè
non esiste una realtà oggettiva assoluta che viene compresa attraverso
l’applicazione progressiva di competenze conoscitive univoche, ma si
possono avere diverse rappresentazioni della realtà che sono in stretta
relazione con il soggetto che conosce e gli strumenti che applica.
A corollario di questo schema interpretativo vi è un approccio alla
conoscenza improntato al relativismo: se ogni soggetto crea la propria
conoscenza, non esiste una verità, ma esistono tante verità (o meglio
rappresentazioni della realtà) quanti sono i soggetti che esercitano i
processi di conoscenza.
Lo schema di Kolb sul ciclo di produzione della conoscenza
Il processo di conoscenza si attua attraverso diverse tappe: quando si
conosce si parte da un fenomeno, da un dato empirico, da una esperienza,
si mette in moto innanzitutto un processo di osservazione, che implica
anche riflessione o elaborazione e che impegna tutti i sensi del soggetto
(spesso supportati da strumenti o protesi), che possono essere più o meno
sviluppati per ragioni interne al soggetto e possono essere più o meno
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stimolati da ragioni esterne.
Quindi già nel corso della fase di osservazione, il soggetto che conosce
influisce attivamente sui processi di conoscenza, mettendo in gioco nella
sua interazione con la realtà le proprie caratteristiche personali (utilizzando
ad es. i propri sensi o determinati strumenti di osservazione), culturali
ed etniche che contribuiscono a produrre una interpretazione del tutto
particolare di un fenomeno o di una esperienza.
Dopo la fase di osservazione e riflessione il soggetto è impegnato in una
fase di codificazione, in cui intervengono fattori sociali e culturali che
consentono di condividere, trasferire e riprodurre conoscenze. In questa
fase si costruiscono dei linguaggi, si definiscono delle regole e si attuano
delle convenzioni indispensabili per consentire il reciproco scambio delle
conoscenze.
Questo schema permette di evidenziare anche il fatto che fra esperienze e
simboli di codificazione vi è solo un rapporto indiretto, mediato da tutta una
serie di processi di osservazione, elaborazione e interpretazione che spesso
vengono trascurati e rimossi nell’analisi dei processi di apprendimento.
La costruzione di astrazioni, che rappresenta un processo conoscitivo
molto evoluto tipico dell’uomo, implica tutta una attività di selezione di
variabili e caratteristiche della realtà, finalizzata ad orientare la conoscenza
FENOMENO ESPERIENZE
OSSERVAZIONERIFLESSIONE
SPERIMENTAZIONE
CODIFICAZIONELINGUAGGI
SIMBOLI
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in funzione del suo efficace impiego in campi di applicazione specifici (la
fisica, la meccanica, ecc.) sulla base di precise regole e leggi convenzionali
che devono essere conosciute affinché la conoscenza possa essere
utilmente riapplicata alla realtà stessa.
Il processo di apprendimento non può quindi considerarsi completato ed
efficace se ci si limita a trasferire le conoscenze astratte (cioè descrizioni
parziali di fenomeni globali), senza permettere a chi desidera apprendere
di provare a riapplicare le conoscenze astratte alla realtà, attraverso una
fase di sperimentazione che consenta di cogliere le molteplici condizioni e
regole convenzionali che collegano le conoscenze astratte alla complessità
del reale e che permetta di ricomporre in un bagaglio culturale organico e
globale le conoscenze astratte derivanti dalle diverse discipline settoriali.
Anche in questo schema si può cogliere il carattere di ricorsività e
di innovazione costante che caratterizza i processi di conoscenza:
l’osservazione, la codificazione e la sperimentazione modificano il soggetto
che produce nuove interpretazioni della realtà che, a sua volta, induce
nuovi modi di essere e di percepire del soggetto e cosi via all’infinito.
Lo schema di Kolb può inoltre aiutare a cogliere alcuni inconvenienti
rilevabili nei processi di apprendimento, ad esempio quando il facilitatore
si lascia prendere dalla tentazione di passare troppo rapidamente dalla
realtà alle astrazioni intorno ad essa, senza dedicare sufficienti attenzioni
ed energie ai processi di osservazione e di sperimentazione, considerandoli
poco rilevanti, rimandandoli ad un futuro imprecisato (“oggi impara la regola
e un domani capirai a cosa serve”) o ad altri ambiti di apprendimento, non
a tutti accessibili. In questi casi si rischia di indurre gli alunni a confondere
o sostituire l’astrazione con la realtà o di sviluppare non una effettiva ed
efficace conoscenza, ma solo una forma di mimetismo cognitivo.
In questa prospettiva di analisi, prima dei contenuti dell’apprendimento,
sono le modalità di apprendimento e le modalità di facilitare l’apprendimento
ad assumere maggiore importanza, poiché sono fondamentali per
consentire un uso dei concetti astratti che dia effettivamente accesso alla
realtà concreta.
144
Lo schema di Feuerstein
Lo schema di Feuerstein focalizza l’attenzione sulla funzione del mediatore
culturale o facilitatore e descrive i processi di apprendimento come una
successione di fasi attraverso cui un soggetto riceve degli input (stimoli
dall’esterno) ed elabora successivamente una reazione e delle risposte in
forma di output.
Nella fase di input il soggetto interpreta lo stimolo specifico (fenomeno,
domanda, ecc.) raccogliendo i dati e le informazioni per poi, in fase di
elaborazione, ordinarli e produrre interpretazioni, giudizi o spiegazioni
che, con l’impiego, in fase di output, di codici e linguaggi danno vita ad
una risposta o reazione in rapporto all’esterno.
Di tutta questa catena di processi di produzione di conoscenza, nella realtà,
si percepisce di solito esclusivamente l’ultimo anello, l’output.
Una tendenza che si osserva di frequente, ad es. in ambito scolastico, è
quella di focalizzare l’attenzione del facilitatore sulla verifica di congruenza
fra input e output, limitandosi a sanzionare l’output incoerente con il
risultato atteso, senza dedicare energie ad aiutare l’alunno a compensare
i deficit presenti nei diversi processi di apprendimento, inducendolo in tal
modo a sviluppare reazioni difensive di mimetismo cognitivo.
Funzione specifica del facilitatore dovrebbe invece essere quella di
aiutare gli allievi a ripercorrere tutte le fasi del processo di produzione di
conoscenza per individuare in quale di queste fasi si è prodotto il deficit
nella elaborazione dell’informazione che ha prodotto l’errore (che non è
quindi di per sé un deficit di intelligenza).
Secondo l’analisi teorica di Feuerstein, la mediazione tra un soggetto in
fase evolutiva e il reale costituisce un fattore fondamentale per aiutare
INPUT SOGGETTO OUTPUT
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il soggetto a costruire risposte efficaci. Quando questo non avviene,
per assenza di mediazione o per l’impiego di una funzione mediatrice
inefficace, è maggiormente probabile che il soggetto utilizzi nei processi
di apprendimento delle informazioni e delle conoscenze in modo non
efficace che lo portano a produrre degli output non utili.
In altri termini l’ipotesi proposta da Feuerstein è che i soggetti deprivati a
lungo di una funzione di mediazione culturale (genitori, insegnanti, ecc.)
fra sé e gli input proposti dalla realtà esterna abbiano maggiori difficoltà a
costruire delle risposte o tendano a produrre risposte non utili.
Secondo questa ipotesi interpretativa la funzione specifica del mediatore
è quella di andare a rilevare in quali aree si è verificato il deficit di
elaborazione degli input (per mancanza di dati o per utilizzo improprio
delle informazioni) e di introdurre dei programmi di mediazione mirata
e accelerata attraverso sistemi di addestramento cognitivo che possano
rinforzare i deficit di mediazione pregressi.
Il corollario allo schema interpretativo di Feuerstein è che è improduttivo
da parte del mediatore investire in strategie centrate sulla correzione degli
errori di output, perché questo tipo di correzione fa apprendere solo chi
corregge e non chi produce l’errore, mentre risulta più utile adottare delle
strategie basate su una relazione di mediazione tra il soggetto e gli input.
A livello astratto si possono individuare tre differenti stili di
apprendimento:
• stile globale-sistemico che caratterizza quei soggetti che per apprendere
necessitano di acquisire preliminarmente una conoscenza dell’ insieme
di un fenomeno: questo stile permette di elaborare intuizioni creative
e interessanti ma che possono rivelarsi dispendiose e a volte poco
funzionali in rapporto alla specifica situazione;
• stile analitico-sequenziale tipico dei soggetti che procedono nel percorso
conoscitivo passo dopo passo, scomponendo in modo sistematico i
fenomeni nei loro elementi essenziali: è uno stile che aiuta a svolgere
una analisi precisa della realtà, ma che spesso rende difficile la
146
ricomposizione in soluzioni di sintesi;
• stile esperienziale-manipolativo, che si riscontra in chi predilige
costruire conoscenza a partire da un presa di contatto diretta della
realtà da indagare; è uno stile che consente di produrre conoscenza
contestualizzata, ma che sconta la difficoltà nell’estrapolare regole e
costanti interpretative.
147
UN LABORATORIO DI COMUNITÀ
di Piergiorgio Reggio e Franco Floris
Piergiorgio Reggio Perché proporre un approccio critico alla comunità?
Sostanzialmente perché il termine “comunità”, assunto in certe accezioni,
costituisce proprio il primo ostacolo ad una piena comprensione e
valorizzazione di questa dimensione sociale.
Se si prova ad interrogare le persone, anche quelle impegnate nei processi
educativi (genitori, insegnanti educatori, ecc.), intorno al concetto di
comunità, si raccolgono solitamente molte definizioni diverse, ma tutte
in genere riferiscono qualità molto positive, individuano luoghi o vissuti
ricchi di significati, inerenti la coesione, la capacità di comprensione, di
aiuto e di solidarietà reciproca, tutti elementi messi in correlazione con il
termine comunità.
Le valutazioni più critiche e problematiche vengono riservate non tanto alla
dimensione comunitaria, ma alla sfera individuale o alla sfera politica.
In queste rappresentazioni la comunità emerge sempre come elemento di
positività assoluta che viene così contrapposta in modo spontaneo e diretto
al mondo delle istituzioni, della politica, ecc. connotati negativamente.
Questa polarizzazione trova una sua giustificazione storica e teorica nella
più classica trattazione sociologica sulla comunità svolta da F. Tonnies
(1887), il quale affermava che “comunità” è tutto quello che si oppone
a “società”, descritta come dimensione maligna e pericolosa in quanto
animata da relazioni concorrenziali, strumentali, conflittuali, mentre
la dimensione comunitaria (famiglie, associazioni, gruppi religiosi, reti
sociali, ecc.) costituisce una ambito protettivo, affettivamente caldo, dove
si sperimenta qualcosa di comune.
Questa concezione di importanza storica di Tonnies ha finito, nel tempo,
per rappresentare però un ostacolo alla comprensione del concetto di
comunità perché impedisce di vedere nella società quegli elementi che
sono essenziali per la costruzione di positive condizioni di convivenza e di
esperienze significative di cooperazione, così come impedisce di cogliere
148
nei diversi ambiti che vengono connotati come comunitari gli elementi di
criticità e di negatività.
Se si resta imbrigliati in questa contrapposizione superficiale e ideologica,
non si riesce ad utilizzare i concetti di società e comunità in modo più
ricco e produttivo.
Si registra spesso, nelle analisi intorno alla comunità, una distanza tra
la comunità desiderata e la comunità reale. Si tende in altri termini ad
esplicitare prevalentemente le idee relative a come si desidera che sia
(luogo di buone relazioni, di coesione sociale, di solidarietà) lasciando
invece impliciti gli aspetti che evidenziano le criticità che si riscontrano
nella comunità reale.
Quando si vogliono sviluppare analisi in relazione ad ambiti comunitari,
come, ad esempio, la scuola, l’ospedale, la casa di riposo, ecc., luoghi che
i diversi filoni della sociologia delle organizzazioni e della psicologia di
comunità considerano come delle comunità organizzative, oltre a rilevare
gli elementi che rispondono alle attese ideali, bisogna considerare al tempo
stesso anche gli elementi di concretezza che riflettono le contraddizioni
che caratterizzano le esperienze reali.
Se non si supera la concezione ideologica che contrappone comunità
a società e se non si considerano le distanze fra una idea di comunità
desiderata e una visione critica della dimensione comunitaria reale, si
rischia di non riuscire a valorizzare pienamente quanto di ricco e positivo
si può riscontrare nei contesti comunitari e si fatica maggiormente
a rispondere al bisogno di comunità che le persone avvertono a livello
individuale e a livello sociale, cioè al bisogno irrinunciabile a stabilire
con gli altri situazioni di buona convivenza, di positiva comunicazione, di
coesione e di appartenenza.
E’ quindi indispensabile assumere criticamente il concetto di comunità
nelle diverse analisi, perché se il bisogno di comunità viene trascurato o mal
interpretato, si ingenera nelle persone un vissuto di disagio profondo.
Come può essere affrontato secondo un approccio critico il tema della
comunità, senza dover rinunciare a ricercare risposte al bisogno di
149
comunità, magari proprio facendo finta che sia una dimensione solamente
positiva e rassicurante?
Si tratta di assumere una prospettiva un po’ diversa da quella tradizionalmente
più diffusa, che rappresenta la comunità come una presenza, un tutto, un
pieno che contiene significati, valori, ecc. che istituiscono l’identità di un
individuo.
R. Esposito (1998), un filosofo italiano che ha pubblicato studi molto
interessanti sulla comunità, afferma che la visione della comunità come
“pieno”, come senso di realizzazione della identità delle persone, è una
visione molto ingenua. Infatti secondo questo studioso, la comunità, anche
etimologicamente, è più facilmente riportabile al significato opposto,
all’idea di un “vuoto”, di un’assenza, di un bisogno di qualcosa che non
c’è.
La comunanza di ideali, di valori, di stili di vita …, così come sono ad
esempio ben descritti nel film “L’albero degli zoccoli” di E. Olmi, non è
più sperimentata dalle persone ai giorni nostri: oggi infatti si vive piuttosto
l’esperienza della solitudine, della distanza, dell’assenza di legami.
Esposito afferma che “communis” è opposto a “proprius”, proprio, di
esclusiva appartenenza: comune è dunque ciò che non è proprio. In altri
termini secondo questa lettura la dimensione comunitaria inizia dove il
proprio finisce.
Ciò che è “communis” quindi non è oggetto di proprietà o appartenenza
individuale, ma è ciò che appartiene a molti e che si richiede di condividere
con gli altri. Quella comunitaria è quindi una dimensione tutt’altro che
idilliaca, perché in essa non c’è più un qualcosa di proprio ed esclusivo,
perché si ha a che fare con qualcosa degli altri, a maggior ragione oggi che
“proprius” e “communis” non coincidono più.
Quando si supera la soglia di “ciò che è proprio” per entrare in “ciò che è
comune”, si opera un atto di rinuncia a qualche cosa - alla propria libertà,
alle proprie idee e alle proprie aspettative - per accettare di condividerle
con gli altri, sperimentando in tal modo una privazione, un’assenza e, di
conseguenza, sentendosi per questo meno tranquilli e sicuri.
150
Esposito evidenza come al termine “comunità” è etimologicamente
correlato il termine “munus” che in latino significa “dono”, però in un
accezione particolare e diversa dal termine “donum”, che individua ciò
che si può reciprocamente offrire e ricevere. “Munus” è invece il dono
inteso univocamente come un dare, un dare un qualcosa di dovuto più che
di offerto o scambiato, nel significato che è stato conservato nel termine
italiano “munifico”.
Secondo questa accezione si entra in una comunità quando si offre qualche
cosa, senza che sia previsto che si possa ricevere necessariamente in
cambio qualche altra cosa. In altri termini le regole del gioco comunitario
prevedono che si dia e basta, senza che si riceva, anche se vi può essere
una aspettativa implicita di vantaggio reciproco.
Viene allora da chiedersi perché gli individui siano spinti ad accettare un
gioco in cui ci si priva gratuitamente del proprio?
Ciò avviene perché nelle persone è presente una spinta irrinunciabile
a legarsi agli altri e la soddisfazione di questo bisogno implica un costo
che le persone sono disposte a pagare aderendo ad ambiti comunitari,
cosa che comporta appunto un atto di privazione, di rinuncia a parte del
“proprius”. L’alternativa sarebbe rinunciare alla comunità per affermare
solo il “proprius”, entrando però in una deriva di totale solitudine.
Esposito non definisce la comunità come qualcosa che si basa su un ideale
comune da realizzare, ma piuttosto come “insieme di persone (gruppi,
istituzioni) unite non da una proprietà comune ma da un dovere o un debito.
Non da un più ma da un meno, una mancanza, un limite che si configura
come un onere” (Esposito, 1998).
La situazione paradossale di questa idea di comunità è che tutti al tempo
stesso hanno dato qualche cosa, istituendo in questo modo un patrimonio
comune, ma tutti hanno un debito nei confronti degli altri.
L’appartenenza alla comunità è quindi fondata su una mancanza, su un
bisogno che può essere soddisfatto solo donando unilateralmente qualche
cosa, senza che sia sancito a priori il diritto a pretendere qualche cosa in
cambio.
151
Se si adotta questa prospettiva si entra nella logica che non c’è più
un’identità da affermare (la nostra comunità è …), ma c’è un bisogno
irrinunciabile di stare insieme che richiede di stare al gioco comune,
offrendo unilateralmente le proprie risorse. Ma questo gioco comunitario,
che prende avvio da una rinuncia e da un’assenza, permette di produrre
un patrimonio nuovo, una nuova e più potente creatività, che dà vita a
qualcosa che non esiste ancora, e non si limita a perpetuare e a ripetere
l’esistente.
Un altro autore, Bagnasco (1999), ritiene che oggi si possano individuare al
massimo delle “tracce di comunità”, perché non esiste più una dimensione
comunitaria in senso complessivo. Si generano “tracce di comunità”
quando gli individui riescono a creare dei legami significativi nei diversi
contesti di vita.
I servizi dell’extrascuola in questa prospettiva possono essere considerati
delle interessanti “tracce di comunità” istituiti in rapporto al bisogno/diritto
di apprendere.
Questi approcci alla comunità consentono di operare un passaggio da
una visione della comunità intesa come identità già costituita che si deve
affermare, a quella di una comunità fondata su una “assenza” di qualche
cosa (ad es. le possibilità di pieno apprendimento, le opportunità di crescita,
il riprodursi di una cultura) di cui gli individui hanno bisogno e per cui
sono disposti a investire per costruire qualcosa di nuovo e inedito.
Franco Floris L’esperienza della “mancanza” è alla base del bisogno di
comunità. La comunità si genera quando si esprime la capacità di fare
impresa, di promuovere intraprese locali per provare a convergere intorno
a quella mancanza che manifesta un disagio diffuso e sollecita delle
risposte concrete.
La comunità è quindi la risultante delle diverse intraprese sociali che si
generano all’interno di un dato contesto sociale, è il depositato di queste
imprese in termini di legami tessuti, di patrimoni comuni istituiti (come lo
possono essere una fabbrica, una scuola, un oratorio, un’associazione).
152
La comunità non implica tanto un totale accordo fra i diversi componenti,
ma piuttosto la capacità di interagire fra diversi a partire dalla percezione di
una mancanza e dallo sperimentare la possibilità di far convergere risorse
per costruire risposte adeguate ai problemi.
In altri termini la comunità procede non da una sorta di utopia del fare
insieme, ma dall’urgenza di affrontare dei problemi avvalendosi di risorse
collettive e pubbliche.
Le comunità quindi sono legate a un desiderio collettivo che si genera
in reazione a una mancanza e stimola ad avviare la ricerca di nuove
soluzioni.
Ancora, la comunità può essere considerata il minimo comun denominatore
tra le diversità, è cioè quel minimo che tiene insieme le diversità e che
permette agli uni e agli altri di sovrapporre parte della loro avventura,
mantenendosi nella diversità, in maniera tale che la convivenza e la comunità
siano legate non tanto ad un’idea astratta di solidarietà, ma alla capacità di
creare il minimo di condizioni, di legami, di riconoscimenti, di diritti che
permette di comunicare tra mondi diversi e di far convergere questi mondi
per costruire imprese comuni. Senza dover essere d’accordo su tutto, ma
disponibili almeno a sovrapporsi parzialmente e a contaminarsi. Quella
piccola area di intersezione individuata da queste imprese costituisce la
comunità o, se si vuole, le cosiddette “tracce di comunità”.
In questa prospettiva anche le istituzioni sono forme di comunità, in quanto
sono il frutto di pratiche consolidate e socialmente riconosciute come
efficaci per governare e affrontare i problemi da parte di una comunità.
All’interno dei contesti sociali è importante che si sviluppi una capacità di
interazione e di partnership efficace fra le reti primarie e le reti politiche
e istituzionali, proprio perché non è più sostenibile una contrapposizione
fra sfera comunitaria e sfera sociale.
Piergiorgio Reggio Se si assume la logica interpretativa dell’assenza per
comprendere il concetto di comunità, il “problema”, così come viene
definito in una prospettiva pedagogica e sociale qualsiasi situazione di
mancanza o di disagio, assume un carattere di centralità. Il problema inteso
153
non necessariamente come grave situazione minacciosa e drammatica,
ma più spesso come situazione di insoddisfazione o di inquietudine o
comunque come situazione che stimola un investimento collettivo di
risorse.
I problemi possono essere affondati in tanti modi e uno di questi è
l’assunzione di una logica di progetto (proiectus, gettato avanti, dal latino
proicere), cioè gettare lo sguardo avanti e pensare delle soluzioni possibili
per dare vita a interventi che tentano di affrontare i problemi.
Quindi quando l’educazione tenta di costruire comunità, non lo fa a partire
da iniziative routinarie da riproporre, ma più spesso dal tentativo di dare
una nuova risposta ad un determinato problema.
Se la comunità non è qualcosa di definito a priori, già scritto e quindi
rassicurante e nel quale tutti si riconoscono e di cui tutti riconoscono
l’identità, non c’è nulla da affermare, non c’è niente da ribadire ogni volta,
ma c’è ogni volta qualcosa da costruire attraverso un progetto in relazione
a ciascun problema avvertito comunemente.
Il bisogno di identità trova perciò risposta, non tanto attraverso
l’appartenenza ad una data comunità, ma attraverso le risposte che si è
capaci di produrre di fronte ai problemi.
E’ necessario superare l’equivoco che l’identità comunitaria sia una
risposta data una volta per tutte (come una carta di identità che si può
esibire per sentirsi comunità), essa è piuttosto qualcosa che richiede di
essere costruito ogni volta nell’interazione con i diversi problemi.
E’ molto pertinente in questo senso la definizione data da Floris della
comunità come “comun denominatore delle differenze”.
Come si costruiscono allora la comunità e l’identità?
Accettando il fatto che non c’è uno di noi uguale agli altri.
Da questo punto di vista il fenomeno dell’immigrazione ha rappresentato
un’interessante opportunità per prendere atto e coscienza della portata
delle differenze che da sempre caratterizzano i gruppi sociali (che sia la
classe, la squadra sportiva o altro), coscienza rispetto alla quale ormai non
si può più tornare indietro e che invita a discutere anche di tutte le altre
154
differenze. Il fenomeno dell’immigrazione in altre parole ha imposto di
trovare nuove soluzione per tenere assieme le diversità culturali introdottesi
nei nostri contesti.
Il filosofo Esposito, a questo proposito, afferma, in modo più estremo, che
il minimo comun denominatore che istituisce una comunità è il nulla,
che cioè il solo fatto di condividere uno spazio, un tempo o un’esperienza
costituisca di per se stesso l’atto di adesione implicito ad una dimensione
comunitaria.
Per quanto riguarda la possibilità di fare educazione a livello locale è
necessario partire dalla premessa che oggi la dimensione locale rappresenta
una situazione molto rara di fronte ai processi di delocalizzazione e
globalizzazione che hanno caratterizzato la realtà contemporanea.
Parlare di “comunità locali” quindi significa parlare di qualcosa di
“delocalizzato” che non corrisponde necessariamente ad un territorio fisico
precisamente definito come in passato (il quartiere, il comune, ecc.).
In questo senso il concetto di “locale” non può essere dato per scontato e va
ogni volta ridefinito. Inoltre il locale implica tutto un insieme di diversità,
la più macroscopica oggi è quella delle etnie, ma non bisogna trascurare
anche le altre: maschio/femmina, istruiti/non istruiti, occupati/disoccupati,
occupati stabilmente/occupati precari, ecc.
Non è più neppure possibile ragionare affidandosi a macrocategorie
sintetiche (bambino, giovane, ecc.); si tratta invece di far emergere in ogni
situazione e contesto gli elementi di eterogeneità e di omogeneità.
Non ci si può aspettare che tutti questi elementi di differenziazione possano
ricomporsi magicamente in una dimensione comunitaria ideale, perché
spesso gli elementi di differenziazione entrano in conflitto o generano
diffidenza o presa di distanza reciproca.
Per costruire un minimo comun denominatore fra questo frammentato
insieme di differenze è necessario assumere gli aspetti culturali (come le
convinzioni sul mondo e sul modo di vivere, gli stili di vita, i valori guida,
ecc.) che caratterizzano le persone e i gruppi per trovare dei codici che
possano attraversare le culture e permettere di avviare delle elementari
155
forme di dialogo.
Il lavoro orientato all’individuazione di un codice culturale comune
è fondamentale per consentire forme di comprensione reciproca e di
condivisione su problemi comuni.
E’ nella dimensione sociale, intesa come spazio intermedio tra privato e
pubblico, che si possono radicare le “tracce di comunità” che, di volta in
volta, possono ripercorrere itinerari aperti da altri soggetti ed esperienze o
possono aprire nuovi sentieri. Nel documento del Laboratorio provinciale si
definiscono i progetti extrascuola, in modo molto opportuno e suggestivo,
come dei “reticoli comunitari” nel sociale.
Quanto più questi reticoli comunitari si sviluppano, crescono e si radicano
in un contesto territoriale, tanto più è ricca una comunità, tanto più
i codici culturali di reciproca comprensione sono efficaci e tanto più è
facile intendersi a livello culturale, interprofessionale e interpersonale,
ad esempio fra insegnanti e animatori dell’extrascuola, fra genitori e
educatori, fra autoctoni e stranieri, ecc.
Che significato può assumere l’educazione in questa prospettiva
comunitaria?
La realtà attuale è fatta di tante e diversificate azioni educative proposte
all’interno di una comunità. Si tratta di osservare queste azioni, nella loro
dinamicità e nel loro intrecciarsi in un’ offerta complessiva e articolata.
Questa offerta attraversa gli innumerevoli percorsi dei ragazzi fra loro
diversi, che passano da un ambito ad un altro e che, da un lato disseminano
e diffondono nei diversi luoghi educativi i vari saperi mano a mano acquisiti
e, dall’altro, sono chiamati a produrre una sintesi personale dell’intreccio
delle esperienze di apprendimento sviluppate nei diversi ambiti di vita.
Bisogna però considerare che non sempre e non tutti i ragazzi sono in
grado di produrre questa sintesi e di dare una forma adeguata all’intreccio
dei diversi saperi. In questo caso si rileva un deficit di apprendimento,
questi ragazzi cioè non riescono ad imparare ed hanno bisogno di un
sostegno e di una mediazione.
In questo senso tutti i soggetti della comunità locale, dalla scuola,
156
all’amministrazione comunale, ecc. sono chiamati a contribuire alla
realizzazione di una educazione comunitaria, tenendo conto che già il
modo di rapportarsi proposto da ciascun soggetto sociale ai cittadini
genera educazione, in quanto propone un modello educativo, veicola dei
valori, ecc.
Oggi l’educazione non è più parcellizzabile, come un tempo, quando
ogni soggetto operava per settori differenziati (istruzione, educazione,
formazione, ecc.), ma si produce globalmente, in maniera indistinta,
cosicché a scuola non si istruisce e basta, ma si educa, si propongono
valori, così come in famiglia ci si può istruire, ecc.
Si può dire dunque che oggi nell’esperienza delle persone l’educazione
è globale perché si genera attraverso le innumerevoli esperienze che le
persone vivono e attraverso il lavoro di composizione e sintesi che esse
riescono ad operare.
Tutto ciò ha cambiato completamente la forma dell’educazione che oggi
non può più essere unicamente basata sulla trasmissione per via formale
delle conoscenze acquisibili, ma che si sviluppa ormai prevalentemente
per via esperienziale.
L’ipotesi di lavoro proposta punta sulla possibilità di partire da ciò che
esiste, perché oggi c’è poco che richieda di essere inventato ex novo. Si
tratta piuttosto di valorizzare l’esistente e riconoscerlo, individuare tutti
i diversi fili che si annodano e trovare delle modalità “interculturali”,
cioè che attraversano le culture dei vari ambiti e gruppi, per far sì che
le persone possano imparare. Si tratta quindi di creare l’opportunità, per
ragazzi e adulti, di acquisire, attraverso una costante interazione, l’insieme
dei codici che consentono di capirsi nel passaggio fra i vari luoghi di vita
e di capire la complessa variabilità della realtà.
Se i ragazzi e le ragazze imparano in modo interculturale, sapranno
decodificare quanto dice la maestra, ciò che dice l’animatrice del
pomeriggio, ciò che dice il genitore, ciò che dice il vicino, ciò che dice il
vigile, ecc.
Se invece essi/e non riescono a possedere e utilizzare in modo appropriato
157
questi codici interculturali, allora è necessario che qualcuno li aiuti
ad acquisirli, perché altrimenti non saranno in grado di continuare ad
apprendere, non per un problema linguistico o di deficit intellettivo.
In che cosa si traduce operativamente questa ipotesi di lavoro?
In una serie di azioni, la maggior parte delle quali già in campo, che
tuttavia devono essere intenzionalmente proposte in modo coordinato, che
riguardano gli aspetti educativi legati alle diverse discipline scolastiche, ma
includono anche le altre forme di educazione: l’educazione alla cittadinanza
(comprendere le modalità di essere cittadini in un dato paese, capire le
regole ma anche i modi di interpretarle), lo sviluppo delle competenze
sociali (comunicare con altri, risolvere problemi e conflitti, cercare lavoro,
negoziare, comprare, vendere, ecc.), l’educazione ambientale, al consumo,
alla pace, l’educazione degli adulti, ecc.
Questi percorsi costituiscono l’educazione comunitaria, se divengono
l’espressione e la risultante dell’impegno consapevole di una comunità
che si occupa concretamente delle proprie questioni e propone ai cittadini,
che siano giovani, adulti o anziani, di farsene carico.
Mentre una comunità si occupa in questo modo delle diverse questioni
che è chiamata ad affrontare produce anche educazione e al tempo stesso
sviluppa delle tracce di comunità, produce cioè concrete azioni sociali di
costruzione della comunità.
In questo senso realizzare un progetto extrascuola è un’azione educativa
e al tempo stesso è un’azione sociale molto forte, in quanto esemplifica
davanti alla intera comunità che esiste un problema e che è possibile
affrontarlo: in questo caso si riconosce che ci sono dei ragazzi che, per
motivi diversi, ma di solito non legati a fattori di inadeguatezza personale,
non ce la fanno da soli, e si dimostra anche che, se essi vengono posti in un
contesto ambientale e relazionale adeguato, sanno cavarsela anche loro.
L’extrascuola costituisce una forma di educazione indiretta, non solo per
i ragazzi che vengono a fruire delle attività proposte, ma anche per coloro
che, giovani, adulti, professionisti e volontari, progettano e propongono
queste esperienze, oltre che per gli altri, non fisicamente ma “socialmente
158
presenti” (amministratori, insegnanti, tecnici, gruppi sociali, comitati
genitori, ecc.).
Un progetto extrascuola è infatti educativo nei confronti della comunità
stessa, perché dimostra alla cittadinanza che i problemi vanno riconosciuti
e sono affrontabili.
Quindi, come si diceva, oggi non si tratta tanto di inventare forme di
risposta inedite, quanto piuttosto di rileggere l’esistente e di spiegarlo agli
altri, per comprenderlo in una maniera diversa, ad esempio facendo capire
che le comunità stesse possono educare.
Franco Floris Il concetto di codici culturali evocato in precedenza da Reggio
richiede alcuni approfondimenti.
L’idea di lavorare sui codici culturali fa riferimento alla capacità di
dare significato alle esperienze che ognuno sta facendo nell’ottica
dell’apprendere a fare comunità, cioè a quella tensione ad affrontare
i problemi non rinchiudendosi nell’area settoriale di diretta e stretta
pertinenza, ma provando a costruire reticoli sociali che permettano di
“sortire insieme dai problemi”, per dirla con le parole di Don Milani.
Quello che si sta riscontrando è che il deficit culturale va di pari passo alla
fatica di fare comunità, come se le persone e i gruppi sociali, non riuscendo
a interpretare e a dare significato alle esperienze e alle regole con cui si
sta giocando, si rifugiassero nel tribalismo, nelle chiusure, condannandosi
alla incapacità di rigenerarsi come comunità dentro i territori.
Questa situazione pone un problema in più: tutti i luoghi prima elencati
da Reggio (scuola, oratorio, centro di aggregazione, famiglia, ecc.) stanno
faticando a “fare laboratorio”, cioè a proporsi come luoghi privilegiati
di interazione con la pluralità delle esperienze e di sintesi dei saperi
acquisiti.
Questo significa che la scuola non riesce ad essere sufficientemente
generativa, non lo è lo sport, stanno faticando ad esserlo l’oratorio,
l’associazionismo.
L’idea che è maturata all’interno del Laboratorio provinciale extrascuola è
che tutti questi luoghi devono sforzarsi di reinventarsi come “laboratorio”,
159
cioè luoghi dove, mentre si fanno le lezioni, le attività, le esperienze…, si
prova a esplorare il significato delle regole con cui si sta giocando e il senso
delle cose che si stanno facendo.
Ciò implica che il modo di fare sport, di fare oratorio, ecc. ha da farsi
laboratorio, cioè ambito che sa dare parola ai ragazzi per esprimersi
sull’esperienza che stanno vivendo dal punto di vista emotivo, affettivo,
relazionale, che sa dare loro la possibilità di vivere azioni collettive
significative per tutta la comunità, che li stimola e aiuta a cogliere il senso
delle proprie esperienze in contesti sempre più complessi.
Se c’è un deficit a livello culturale e di istruzione è necessario chiedersi
come i problemi relativi a queste due dimensioni (che coinvolgono tempo
scuola e tempo libero, esperienza scolastica e aggregazione nel territorio)
possono essere assunti a livello comunitario. E’ in questa prospettiva che
l’idea di fare laboratorio deve pervadere un certo modo di lavorare in
rapporto alle nuove generazioni.
Anche la famiglia è sollecitata a farsi laboratorio, a farsi luogo di interazioni
e di risignificazione e dunque di apprendimento dei codici e delle regole
con cui, come famiglia e come singoli componenti, si sta giocando.
L’impresa Extra.Lab, come è stata definita nel Laboratorio provinciale
extrascuola, ha proprio a che fare con questo tipo di problemi ed è un tipo
di impresa che non può essere delegata ad alcun soggetto sociale singolo,
perché è propriamente un’impresa di comunità.
Due sono i motivi che stimolano a investire su imprese Extr.Lab.
Innanzitutto chiunque in questo periodo storico si impegna a sviluppare
imprese culturali ed educative risulta vincente, perché permette di uscire
dall’assistenzialismo, ma soprattutto consente di produrre cultura per
comunità che in tal modo potranno rigenerarsi, avere prospettive di
sviluppo.
In secondo luogo bisogna considerare che la comunità spesso si è
sviluppata intorno all’aver cura delle sue parti più deboli: gli anziani,
i malati, i bambini, i portatori di handicap... Ogni impresa di comunità
promossa in questi ambiti assume una forte capacità formativa rispetto
160
alla comunità. Di conseguenza, investire su queste problematiche appare
oggi fondamentale.
Quali sono invece le questioni che emergono in relazione alla necessità di
fare fronte ai problemi di natura culturale e che attengono l’istruzione?
Una comunità non riesce a far propri questi problemi se al suo interno non
nasce un gruppo promotore.
Da sempre la comunità, nella sua ricerca che oscilla fra mancanza e
desiderio, esprime aggregazioni che possono nascere nell’ambito del
volontariato, della scuola, della pubblica amministrazione o di una
qualche cooperativa. Diventa interessante allora andare a vedere quali
sono i soggetti che nelle diverse comunità stanno promuovendo imprese
di comunità, esplorare come hanno potuto costituirsi e svilupparsi.
Quando i soggetti promotori assumono una delega esclusiva su un
problema, e sono tentati di ricavarsi una propria nicchia, hanno già fallito,
perché anziché restituire alla comunità il problema, se lo tengono, magari
per procurarsi un lavoro, per reperire risorse o per altri motivi.
I gruppi promotori, trasformati in enti gestori, rischiano sempre la morte.
Le questioni di cui stiamo trattando sono così complesse che devono essere
costantemente “restituite” alla comunità affinché le possa affrontare da
più punti di vista, a più livelli, attraverso molteplici esperimenti.
Per dar vita a “reticoli comunitari”, reti leggere e trasversali ai vari mondi,
per smuovere mondi diversi a convergere intorno a un problema della
comunità, è necessario che si sviluppino gruppi promotori che si pongono
al servizio di una rete, che, prima di raccogliere fondi o gestire interventi, si
impegnino a far fermentare e connettere nei territori piccole reti interessate
a riflettere sulle modalità di uscire dai problemi.
Diversamente, non si esce dalla logica della gestione dei servizi, proprio
quando si stanno affrontando problematiche che non possono essere prese
in carico attraverso un approccio centrato su servizi settoriali, in quanto
necessitano di attenzioni plurime e articolate che è possibile attivare solo
attraverso patti locali capaci di mobilitare risorse diversificate.
Inoltre è necessario disporre di uno spazio pubblico dove il problema,
161
finora preso in carico dalle reti della comunità portando a fermentare
disponibilità a livello istituzionale, motivazioni e energie collettive, possa
essere riconosciuto, per poi ricercare le condizioni idonee affinché reti
sociali e reti istituzionali possano individuare ipotesi di lavoro condivise
che diano senso all’azione di ognuno.
Una risposta efficace a questi problemi non può essere data autonomamente
dalle reti informali, ma può essere prodotta solo nell’ambito di una politica
locale sviluppata attraverso tavoli aperti a un’ampia partecipazione. La
soluzione di problemi come quelli su cui stiamo riflettendo non può
dipendere dalla singola microiniziativa, ma da un insieme di scelte politiche
di una comunità.
Ulteriore passaggio è quello della coprogettazione.
Non è possibile decidere su temi di natura educativa, culturale e sociale in
modo unilaterale. Bisogna evitare la tentazione della delega a qualcuno del
problema (cooperativa, associazione o gruppo volontario) per avviare in
tempi brevi una qualsivoglia azione concreta. E’ necessario saper sostare
per pensare, affinché la rete attivata possa comprendere da vicino quali
siano la natura e la consistenza delle sfide che si stanno affrontando, fino a
delineare una conoscenza locale del problema e gradualmente formulare
ipotesi di lavoro coerenti con i diversi punti di vista emersi nell’ambito del
laboratorio di progettazione.
Infine, quando si parla di coprogettazione intorno a questi problemi,
non si parla di un’unica azione, né di un’unica istituzione. Si sviluppa
coprogettazione dove i diversi soggetti si trovano insieme, discutono,
rielaborano, ma poi ad ognuno è richiesto di ripresentarsi al tavolo con
alcune assunzioni di responsabilità e con alcune ipotesi di attivazione in
prima persona in rapporto al problema. C’è coprogettazione quando diversi
organismi sociali si contaminano sul piano delle idee, delle scelte di fondo,
dei valori e delle ipotesi di lavoro e poi ci si sollecitano reciprocamente
a produrre progettualità diverse e specifiche, in riferimento al proprio
carisma. E si mettono in discussione, accettando che gli uni insegnino agli
altri e che ognuno possa orientare e consigliare gli altri.
162
In questo modo si giunge a definire reciprocamente i rispettivi mandati
e i propri progetti specifici, sviluppando fantasia e creatività progettuale,
perché non esiste mai un’unica soluzione a un problema.
In rapporto alle problematiche affrontate dai progetti extrascuola le
soluzioni possibili possono riguardare ad esempio:
- la necessità di ripensare i poli aggregativi, interrogandosi ad esempio su
come sia possibile attivarsi come oratorio, come società sportiva, come
associazione culturale in rapporto ai problemi dell’apprendimento;
- la possibilità di reinteressarsi e di reinteressare i ragazzi rispetto al
significato che hanno la scuola, la cultura, l’apprendere, la creatività, il
senso di appartenenza, proprio a partire dal punto di vista di adulti che
supportano i ragazzi nella realizzazione dei compiti scolastici e nello
studio;
- la necessità di momenti e spazi dove alcuni problemi di caduta di
motivazione nei confronti della scuola possano essere affrontati
attraverso risposte di tipo intensivo e a termine: ad es. ripetizioni
ripensate e proposte da giovani volontari, più vicini alla sensibilità dei
ragazzi, esperienze di auto-mutuo aiuto e di peer education, ecc.;
- la necessità di una presa in carico anche comunitaria (oltre che scolastica)
dei disturbi gravi dell’apprendimento;
- la possibilità di trasformare i pomeriggi a scuola in opportunità per i
ragazzi di aggregazione, di promozione culturale, di sviluppo di creatività
e di partecipazione;
- la necessità di attivare (anche su impulso della scuola) reti di adulti e
di famiglie interessate a produrre cultura, a interrogarsi su problemi
educativi e sociali; se si aiutano anche gli adulti a elaborare e condividere
contenuti culturali e sociali oltre l’orizzonte della sfera privata, sarà più
facile che essi sappiano rapportarsi educativamente e culturalmente con
i propri figli.
E’ infine interessante che vi siano spazi in cui poter parlare delle esperienze
di extrascuola che si stanno portando avanti per capire da che parte si sta
andando. Il rischio è moltiplicare le esperienze, senza però appropriarsi
163
del senso dei singoli percorsi e, di conseguenza, senza che si sviluppi
l’apprendimento di quei codici culturali attraverso cui è possibile avviare e
animare questo tipo di imprese.
164
EXTRASCUOLA COME IMPRESA DI COMUNITÀ
di Andrea Sammali
Questo contributo intende centrare la sua attenzione sul tema del rapporto
fra i diversi soggetti che concorrono in una comunità all’apprendimento
dei ragazzi andando ad analizzare quali sono le modalità e le condizioni che
possono favorire lo sviluppo di interazioni cooperative tra organizzazioni
del territorio.
L’importanza di questa analisi deriva dalla constatazione che nei territori
ci si trova spesso a operare in gruppi di gruppi e che non è sempre facile e
neppure sempre utile operare in rete.
Un primo concetto che necessita di essere approfondito in questa analisi è
quello di “coalizione”, cioè quelle situazioni in cui più soggetti o gruppi si
mettono insieme per un obiettivo comune, una mission, una intenzionalità
e un desiderio comune.
Le coalizioni, i gruppi di gruppi, spesso insistono in un ambiente che ha
carattere di comunità.
Nonostante il forte dibattito intorno al concetto in crisi di comunità, essa
possiamo definirla come un aggregato di persone e cose (elementi naturali
del territorio, artefatti, servizi e prodotti, …) che interagiscono tra di loro.
È importante considerare che la qualità degli scambi tra persone e cose
e persone e persone determina il benessere, l’agio, la qualità della vita di
quella comunità. La sua cifra.
Analogamente si può dire che in una comunità la qualità dei processi di
apprendimento dei ragazzi dipende dalla natura, dalla frequenza e dalla
qualità degli scambi fra i diversi elementi della comunità stessa, in particolare
fra i soggetti che concorrono in varie forme all’accompagnamento, alla
crescita e allo sviluppo dei ragazzi.
E’quindi interessante ragionare sul tema delle coalizioni e dei rapporti tra
organizzazioni, non soltanto per verificare in quale modo un gruppo di
gruppi possa esprimere maggiore efficacia ed efficienza nel perseguire
determinati obiettivi, ma soprattutto perché riflettendo, discutendo e
165
interagendo intorno alla complessità degli scambi che si attuano fra i diversi
soggetti (formali, informali, organizzati e non organizzati, istituzionali
e sociali, ecc.) si migliorano le potenzialità e i gli esiti dei giochi di una
comunità.
Territori sottoposti a rapide trasformazioni possono mantenere buoni
livelli di integrazione e di identità sociale se vengono assistiti da politiche
sociali e territoriali gestite consapevolmente in direzione della promozione
di positive interazioni in rete fra le diverse componenti. Territori lasciati
a se stessi possono con maggior probabilità andare incontro a rischi di
chiusura, frammentazione, esclusione, ecc.
In altri termini si può affermare che il modo in cui le agenzie educative si
pongono dentro la comunità e i rapporti di scambio che la caratterizzano
determinano la natura e la qualità della vita di una comunità e dei suoi
processi di apprendimento, formali e informali.
In questo senso le “coalizioni”, che possono essere definite come azioni
gruppali intenzionali orientate a un risultato, o, in altri termini, spazi-
tempi organizzativi che danno vita a relazioni comunitarie, creano pensiero
condiviso, integrano pensiero e prassi, alimentando le azioni sociali e, in
ultima analisi, possono sviluppare apprendimento sociale.
Tre sono in particolare gli elementi significativi che devono essere tenuti
presenti in una coalizione:
- senso: è necessario che all’interno di una coalizione siano sempre
aperte una riflessione e una discussione in merito al significato della
coalizione stessa (come si definisce, a cosa serve, che risultati persegue,
ecc.); attraverso questa riflessione si produce pensiero, si costruiscono
nuove rappresentazioni della realtà, nuovi apprendimenti sui problemi,
in altri termini una nuova cultura e la possibilità di esplorare nuovi ordini
simbolici, costruendoli nella circolarità azione-pensiero;
- desiderio: per affrontare le problematiche sociali non esiste solo l’approccio
del problem solving; il rischio che emerge dal partire sempre dai problemi
è quello di avvicinarsi a capire la realtà e tentare di trasformarla a partire
166
da un versante depressivo. Un’azione sociale che prende avvio dalla
realizzazione di una volontà collettiva positiva, può invece presentare
una maggior probabilità di successo perché dà vita a coalizioni aggregate
intorno alla pienezza di un desiderio, anziché dal peso di un problema
o di una rabbia. In altri termini il desiderio può rappresentare un buon
antidoto alla fatica che caratterizza l’azione delle coalizioni; propongo di
integrare l’approccio razionalista della soluzione di problemi con quello
estetico di pensare il desiderio (o costruire la bellezza; cfr. a tal proposito
i contributi di Bruno De Maria);
- utilità: è necessario valutare costantemente se l’investimento che si
sta erogando insieme agli altri nella coalizione sta producendo dei
cambiamenti commisurati allo sforzo e alle risorse che vengono immesse
dalla coalizione; si tratta di riflettere in termini di “valutazione di impatto”,
cioè di una valutazione centrata, anzichè sul buon funzionamento della
coalizione o sul buon clima presente in essa, sulle ricadute e i benefici che
si producono nei confronti dei destinatari della mission della coalizione.
L’attenzione alla effettiva capacità delle coalizioni di influire sulle biografie
delle persone per le quali ci si coalizza (i beneficiari, i destinatari, le
popolazioni target,…) consente di vivere come un’esperienza dotata di
senso la fatica di stare insieme ad altri nella coalizione.
In effetti, spesso in relazione ai vissuti relativi alle esperienze di coalizioni,
emergono sentimenti di fatica, di improduttività, la consapevolezza della
necessità di avere pazienza nel rispettare i tempi lunghi che servono per
vedere i risultati, la presenza di varie difficoltà legate alla comprensione di
linguaggi e codici diversi.
La domanda che emerge è: “perché, nonostante le fatiche e le difficoltà, ci
si coalizza?”
Ci si coalizza per attivare persone, gruppi e organizzazioni, aumentando la
responsabilità e l’ingaggio civico intorno a problemi e desideri condivisi:
chiamare o sentirsi chiamati a far parte di una coalizione sviluppa
immediatamente e automaticamente legami di corresponsabilità.
167
Ci si coalizza per fare “massa critica” rispetto a problemi di cui si colgono
la complessità e la necessità di una mobilitazione diffusa.
Ci si coalizza per acquisire maggiore visibilità e capacità di impatto,
rendendo più agevole l’accesso a risorse aggiuntive.
Ci si coalizza perché facendolo si istituisce un luogo dove si può sperimentare
concretamente il senso di una comunità che elabora esperienze diverse e
apprende, con tutti gli aspetti positivi e negativi di piacere e di dispiacere,
di conflitto e di solidarietà, di fatica e di soddisfazione che in genere sono
connessi alle esperienze di comunità.
In sintesi il mettersi insieme è un modo per costruire “comunità sane”.
Passando ad analizzare gli aspetti di natura metodologica che caratterizzano
le coalizioni, bisogna sottolineare che vi sono diversi tipi di coalizioni, che
possono altresì (ma non necessariamente) essere anche considerate fasi
progressive del percorso di costruzione delle coalizioni efficaci:
- network: reti finalizzate allo scambio di informazioni per migliorare
l’offerta globale di iniziative, rendendo più efficiente ciascuna
organizzazione;
- coordinamento: concertazione di azioni separate attraverso la distinzione
delle competenze e la divisione dei compiti su un problema comune;
- cooperazione: reti finalizzati alla concertazione di azioni comuni fra
soggetti distinti (es. scambio di risorse e di competenze);
- partnership: compenetrazione temporanea di mission e di strutturazione
organizzativa fra soggetti diversi.
Un problema che si riscontra spesso analizzando le esperienze di alcune
coalizioni in difficoltà è rintracciabile nella scarsa consapevolezza dei
soggetti promotori circa il fatto che per accedere a livelli di cooperazione
più impegnativi bisogna maturare esperienza, passando da forme di
interazioni meno impegnative ad altre che richiedono maggiori competenze
e maggiore strutturazione organizzativa.
Vi sono alcune premesse di base delle quali è bene avere consapevolezza
per impegnarsi produttivamente in coalizioni:
168
- approccio sistemico ai problemi, analizzati in un’ottica multifattoriale;
- orientamento al cambiamento sociale, centrando il proprio pensiero e
la propria azione in riferimento ai destinatari concreti degli interventi
promossi;
- approccio multiculturale, consapevole delle differenze culturali che
caratterizzano i soggetti che compongono la coalizione;
- centratura sulle competenze, su quello che si sa fare, anziché
direttamente sui problemi; adozione di una focalizzazione prevalente
sulla consapevolezza delle capacità e delle risorse possedute, che si
genera attraverso il riconoscimento e la valorizzazione degli altri e
che conferisce fiducia nelle proprie chances nell’affrontare problemi
complessi e raggiungere obiettivi ambiziosi.
Bisogna inoltre considerare alcune attenzioni strategiche per dare vita a
coalizioni efficaci:
- coalizioni con una mission chiara perché espressa in modo esplicito,
coerente, condiviso e negoziato a priori con i componenti. Bisogna
infatti considerare che vi sono anche finte coalizioni, cioè quelle in
cui traguardi definiti sono fuori dalle competenze o dalla portata della
coalizione (si decidono cose la cui realizzazione compete a soggetti
esterni che non riconoscono le prerogative della coalizione);
- coalizioni inclusive, orientate ad accogliere e integrare i potenziali
componenti e a favorire la loro effettiva partecipazione, valorizzandone
le competenze e le risorse;
- coalizioni dotate di competenze organizzative, cioè di una funzione di
coordinamento, di segreteria, di un sistema decisionale e un sistema
informativo, ecc.
Nell’itinerario di costruzione di una coalizione efficace, Ennio Ripamonti
individua alcuni passaggi evolutivi nella promozione dei processi di
partecipazione:
- membership (fase di costituzione) in cui si deve sviluppare il senso di
appartenenza
169
- envolvement (fase di ingaggio) coinvolgimento e partecipazione
- commitment impegno attivo e alleanza nell’azione.
Nella fase di membership è importante porre attenzione soprattutto su sei
aspetti:
- individuare i soggetti sociali cui proporre la coalizione (sulla base di
una sorta di sociogramma di comunità)
- creare il disegno rappresentativo della coalizione (promuovere la
partecipazione sulla base di un mandato esplicito delle organizzazioni
invianti);
- evitare la dimensione personale della rappresentanza (il rischio di
presenze che non rappresentano le organizzazioni rappresentate);
- evidenziare le comunanze e non enfatizzare gli elementi di potenziale
disaccordo;
- valutare le risorse per supportare l’impresa e comprendere la portata
dei problemi e delle azioni affrontabili;
- aiutare i gruppi a decidere consapevolmente se impegnarsi nella
coalizione o limitarsi ad una collaborazione esterna e occasionale.
Nella fase di envolvement si evidenzia in particolare la necessità di porre
attenzione a diversi fattori che contribuiscono ad assicurare un ingaggio
positivo e funzionale dei diversi componenti della coalizione, fattori che
possono essere sintetizzati nelle cosiddette 6 “R” della partecipazione:
- riconoscimento: le persone apprezzano il riconoscimento del loro
impegno, per cui è importante che le coalizioni trovino il modo di
legittimare la partecipazione;
- rispetto: tutte le persone vogliono rispetto; è fondamentale garantire
e presidiare il rispetto dei molti elementi di diversità: valori, bisogni,
ideologie, culture;
- ruolo: per garantire una partecipazione attiva e duratura nel tempo è
necessario tenere conto dei ruoli nella coalizione. Avere un ruolo chiaro
significa poter fare “gioco di squadra” in modo organizzato;
170
- relazioni: possiamo vedere le coalizioni come “reti organizzate di
relazioni” e spesso quello che convince alcuni ad aderire è la presenza di
qualcuno che si apprezza o di cui ci si fida; d’altra parte la partecipazione
si mantiene nel tempo se le relazioni continuano ad essere positive e
gratificanti;
- ricompense: per le persone che partecipano a una coalizione è
importante lo “scambio positivo” fra “dare” e “avere”. La partecipazione
si mantiene nel tempo se è gratificante. E’ quindi importante prestare
attenzione, prevedere e tutelare che la partecipazione (soprattutto dei
più attivi) non “sprema” le persone o i gruppi esaurendoli;
- risultati: il raggiungimento degli obiettivi previsti è uno dei migliori
nutrimenti per la partecipazione ad una coalizione. Per questa ragione
è importante fissare obiettivi raggiungibili e valorizzare i risultati
ottenuti.
Nella fase di commitment, cioè dell’impegno attivo e dell’alleanza, si
individuano alcuni fattori che influiscono sui risultati:
- caratteristiche organizzative della coalizione
- caratteristiche personali dei membri della coalizione
- caratteristiche specifiche del problema da affrontare
- caratteristiche della leadership.
Se tutti questi fattori concorrono a fare della coalizione un buon gruppo,
capace di promuovere un clima che trasmette benessere e capace di
raggiungere gli obiettivi definiti, si sviluppa un investimento affettivo,
continuativo, normativo (che porta ad aderire spontaneamente alla cultura
e alle regole della coalizione) generando una più alta adesione alla mission,
buone prestazioni, una crescita di forme di cittadinanza attiva, e si genera
soddisfazione rispetto all’impegno profuso.
Vi sono infine dei fattori che contribuiscono a sviluppare interazioni
cooperative:
- fiducia: nelle capacità e nella coesione della coalizione;
171
- correttezza: in base a regole esplicite e implicite che favoriscono un
adeguato e corretto scambio fra persone e organizzazioni; il senso di
correttezza deriva dalla chiarezza e dalla condivisone della mission che
producono un senso di identità di gruppo;
- abilità: le capacità possedute dai componenti della coalizione o
comunque reperibili da essi al momento della necessità. In particolare
è importante promuovere e sviluppare la capacità di effettiva
rappresentanza dei rappresentanti delle diverse realtà che siedono nelle
riunioni.
Due fattori contribuiscono invece al buon funzionamento della rete:
- efficienza: mantenimento delle relazioni, vantaggi per i membri
- efficacia: capacità della rete di raggiungere gli scopi.
La cultura della rete si alimenta attraverso
- il contratto psicologico (attese, motivazioni, obiettivi, vantaggi)
- la conoscenza dell’accordo formale
- la conoscenza delle persone delle varie organizzazioni
- la conoscenza delle caratteristiche delle organizzazioni
- la conoscenza delle caratteristiche della rete (nodi, connessioni,
struttura, proprietà operative)
- la metodologia e le competenze per facilitare il buon funzionamento
della rete.
In ogni caso, la ricerca dialogica del senso e la chiarezza di ciò che c’è al
centro dello sforzo delle reti interorganizzative è resa più difficile dalla
profonda diversità degli attori sociali sulla scena. Propongo quindi ai
navigatori di reti e coalizioni di porsi costantemente all’ascolto del proprio
desiderio e del desiderio altrui, perché credo che solamente desiderandosi
e comunicando sulla tensione desiderante si può riuscire a dare senso
pieno alla fatica del vincolo relazionale che la coalizione ci propone.
172
173
4BUONE PRASSI
174
175
UN PATTO EDUCATIVO
PER L’EXTRASCUOLA IN VAL SERIANA
di Vanda Gibellini
- Denominazione del progetto: Insieme è meglio
- Enti titolari: Comuni di Gorno, Oneta, Parre, Ponte Nossa e Premolo
- Enti partner: Parrocchie, Istituti comprensivi, Associazioni e Cooperativa Sottosopra
- Territorio interessato: Comuni di Gorno, Oneta, Parre, Ponte Nossa e Premolo
- Anno di avvio dell’esperienza: 1998
Il progetto “Insieme è meglio” è stato promosso da alcuni piccoli ma vivaci
paesi dell’Alta Valle Seriana e in particolare dai Comuni di Grono, Oneta,
Parre, Ponte Nossa e Premolo. Il logo del progetto, cinque perle di diverso
colore infilate su un medesimo filo, traduce in un’ immagine emblematica
l’idea del raccordo fra i cinque comuni.
“Insieme è meglio” è quindi iniziativa intercomunale e interparrocchiale
che a partire del 1998 vede collaborare le diverse agenzie educative del
territorio intorno a molteplici progetti educativi promossi in condivisione
di risorse ed energie, culture e tradizioni, uomini ed idee. La configurazione
odierna è la risultante della messa in convergenza di queste diverse iniziative
ed in particolare dei “Laboratori ragazzi” che si ponevano l’obiettivo di
offrire opportunità di aggregazione per i ragazzi della scuola elementare nel
tempo libero, data la povertà di occasioni di socializzazione che caratterizza
i territori montani, e di offrire un supporto nello svolgimento dei compiti
pomeridiani con particolare attenzione per i ragazzi con difficoltà di
apprendimento e per gli alunni stranieri. La gestione dei Laboratori ragazzi
è sempre stata affidata a risorse del volontariato, in particolare a genitori e
a giovani studenti.
L’opportunità di far convergere l’esperienza dei Laboratori ragazzi in
un progetto organico più ampio è stata offerta dall’introduzione delle
176
leggi di settore che stimolavano a sperimentare forme di partnership e
di coprogettazione per gestire interventi a favore dei minori (L. 285/97),
iniziative di prevenzione (L. 45/99) o interventi nell’ambito della famiglia
(L.R. 23/99).
Si è costituito un Tavolo zonale per le politiche giovanili “Insieme è meglio”,
che riuniva gli amministratori degli Enti locali interessati, i referenti delle
scuole, i Parroci e i rappresentanti delle associazioni di volontariato e dei
gruppi con finalità educative impegnati nel territorio, con il compito di
svolgere un’analisi dell’offerta esistente per valorizzare le risorse già in
campo e individuare direzioni di sviluppo per ampliare la risposta ai
bisogni ancora scoperti.
Da questa prima fase di raccordo delle risorse e di ricognizione sui contesti
di vita dei ragazzi hanno preso avvio nuove iniziative che a tutt’oggi
continuano a operare in una logica di collaborazione educativa tra adulti
in vista di una comunità educante, a partire da una programmazione che,
annualmente, individua alcuni obiettivi educativi condivisi che vengono
fatti propri e concretizzati da tutte le organizzazioni territoriali riunite
intorno al Tavolo.
Per quanto riguarda lo sviluppo dell’esperienza dei Laboratori ragazzi si
è operato innanzitutto per valorizzare la presenza attiva del volontariato
aiutandolo a passare da una logica immediatamente operativa ad un
approccio progettuale supportato da una riflessione ed elaborazione delle
esperienze, avvalendosi del supporto degli operatori della cooperativa
Sottosopra.
Attraverso il lavoro di programmazione del Tavolo “Insieme è meglio”
hanno potuto prendere avvio altre iniziative, come:
- l’offerta dei laboratori pomeridiani anche ai ragazzi della Scuola
Media
- gli Spazi gioco per i bambini da 0 a 6 anni
- il sostegno ad attività e laboratori per adolescenti e giovani
- le iniziative formative ricorrenti ogni anno rivolte a genitori, insegnanti
ed educatori e centrate sull’obiettivo educativo condiviso.
177
La struttura organizzativa che porta avanti il progetto “Insieme è meglio”
prevede:
- il Tavolo zonale per le politiche giovanili, che è un luogo di pensiero
e di elaborazione, intorno alle risorse esistenti e ai bisogni, e di
individuazione di obiettivi condivisi;
- un Tavolo di raccordo comunale in ogni paese che riunisce le
rappresentanze delle risorse educative locali e che ha il compito di
coordinare l’implementazione dei progetti nei singoli Comuni;
- Tavoli trasversali impegnati a riflettere e programmare in rapporto alle
singole fasce d’età (Tavolo 0-6, Tavolo 6-14, Tavolo 14-18 e il Tavolo che
si occupa della formazione).
Nell’esperienza di “Insieme è meglio” si evidenziano anche elementi
di difficoltà legati soprattutto alla fatica di operare in condivisione, in
particolare in relazione al cambiamento fisiologico dei rappresentanti
delle diverse realtà territoriali che richiede un lavoro costante di messa in
comune di premesse e linguaggi.
Un’altra fatica riguarda il lavoro continuo di ricucitura per mantenere alta
la motivazione all’alleanza ed efficiente il raccordo fra i soggetti da tempo
coinvolti e i nuovi attori che intervengono nel territorio.
Il punto di forza espresso invece in questi anni dal progetto “Insieme è
meglio” è forse la capacità, che ha sempre manifestato, di sapersi fermare
a riflettere insieme, perché se l’impegno operativo dà l’impressione
di essere produttivi, tuttavia accade spesso che alcuni interventi, che si
ripetono uguali nel tempo, perdano via via aderenza rispetto ai bisogni
reali delle persone e efficacia nell’affrontare i diversi problemi.
Un altro aspetto che merita attenzione è quello della visibilità di quanto
viene prodotto a livello territoriale.
Ad esempio l’esperienza attivata sulle problematiche della televisione
in rapporto ai ragazzi ha avuto un evento di visibilità, la “Settimana non
solo TV” all’interno della quale i cinque Comuni hanno potuto vedere e
apprezzare in piazza e negli oratori i prodotti del lavoro dei ragazzi e gli
esiti delle iniziative rivolte agli adolescenti, ai genitori, agli insegnanti e
178
agli educatori.
Sempre in rapporto alla necessità di dare un’ evidenza pubblica al lavoro
svolto si è pubblicato un opuscolo che descrive in sintesi il percorso e
i contenuti del progetto ed è stato prodotto un DVD che raccoglie tutti i
materiali (video, spot, ecc.) prodotti dai diversi laboratori sul tema della
televisione (video, ecc.).
179
LA SOVRACOMUNALITÀ COME RISORSA:
L’ESPERIENZA DELLA VAL CAVALLINA
di Corrado Brignoli
- Denominazione del progetto: Spazio Minori Val Cavallina
- Ente titolare: Comunità Montana Val Cavallina
- Enti partner: Cooperative, Oratori e volontariato
- Territorio interessato: Ambito Territoriale n. 5 - Valle Cavallina
- Anno di avvio dell’esperienza: 2000
A partire dall’anno 2000 la realtà della Val Cavallina ha investito ingenti
risorse nell’ambito dell’aggregazione giovanile e fino al 2005 molte delle
energie profuse dai diversi soggetti impegnati nella gestione degli spazi
aggregativi sono state concentrate sul “fare” e sul “fare tante cose”.
Se prima del 2000 erano presenti in Val Cavallina soltanto 2 spazi
aggregativi, una ricognizione svolta nel 2004 ha rilevato la presenza di ben
24 servizi che sono fruibili dai ragazzi di quasi tutti i comuni della valle
e che si rivolgono, con metodologie e con proposte differenziate, a varie
fasce d’età.
All’interno dei questi servizi 15 possono essere compresi nelle tipologie
individuate dalla ricognizione della Provincia come progetti/interventi
extrascuola e coinvolgono nelle loro attività circa 500 bambini che vengono
seguiti con varie modalità lungo tutto l’anno scolastico.
L’accesso ai servizi è volontario e in alcuni Comuni riesce a raggiungere
una percentuale vicina al 40% della popolazione minorile interessata.
E’ utile evidenziare inoltre che questi servizi vedono impegnate numerose
figure educative adulte in un rapporto con i bambini di 4 o 5 bambini per
educatore, per una media di 6-7 ore settimanali.
In questi servizi i bambini possono sperimentare relazioni significative
dove c’è spazio per l’ascolto e dove, attraverso la mediazione dei compiti e
dei laboratori, è possibile perseguire obiettivi educativi di rilievo.
180
Le relazioni che si strutturano negli spazi aggregativi presentano pertanto
interessanti potenzialità sia sul piano della prevenzione che del sostegno
e della presa in carico di fronte a situazioni di difficoltà o disagio. A livello
di Ambito Territoriale si sta quindi pensando di trovare le modalità più
adeguate per intersecare le attività a valenza preventiva con gli sforzi che
si stanno facendo sul piano della Tutela dei Minori.
Gli spazi aggregativi, come si sono venuti configurando in questi anni,
rappresentano anche dei preziosi sensori per il territorio e dei punti di
riferimento tramite i quali risulta più agevole attivare dei progetti integrati
di aiuto per le situazioni di disagio anche conclamato, sfruttando le
interazioni già attive con la scuola e con il territorio.
A livello di Ambito Territoriale si è quindi investito per fornire a tutti gli
spazi aggregativi, più che un coordinamento, che rimanda una idea di
standardizzazione, un punto di riferimento e di incontro riconosciuto
finalizzato a favorire il confronto e l’elaborazione condivisa intorno alle
criticità e alle difficoltà incontrate e a individuare buone prassi che possano
essere condivise.
Operativamente questi intenti si sono tradotti nella costituzione di un
gruppo di operatori degli spazi aggregativi della valle che periodicamente
si incontrano per discutere dei problemi, promuovere iniziative comuni di
formazione o aggiornamento o per discutere di buone prassi che possono
essere implementate nei servizi. Nel corso dell’ultimo anno, ad esempio, si
è riflettuto sul tema dell’aggressività nei ragazzi, si è approfondito il tema
del rapporto fra il servizio e le famiglie in prospettiva di un loro migliore
coinvolgimento e di una più efficace collaborazione in un rapporto di
corresponsabilità.
Un altro tema attualmente all’ordine del giorno del raccordo dei servizi
aggregativi è quello della verifica e della valutazione degli interventi,
proprio per aiutare gli educatori a passare da una logica del “fare” e della
misurazione meramente quantitativa dei risultati (quanti bambini, quante
ore di servizio erogato) a una approccio più attento ai processi, agli aspetti
qualitativi dell’intervento, agli elementi di progettazione pedagogica e agli
181
esiti di tipo preventivo e educativo.
Siamo infatti convinti che una sfida importante che si pone di fronte
ai servizi dell’extrascuola nel prossimo futuro sia proprio quella della
valutazione: cominciare ad apprezzare e a dare pubblica evidenza al senso
e al risultato che assumono le attività e le relazioni, passando da una logica
del “fare” ad una maggiore attenzione agli aspetti inerenti il “come si fa”, a
discapito dell’enfasi posta sul “cosa si produce” ricollocando così al centro
dell’interesse e della verifica dei progetti la natura delle relazioni al di là
delle iniziative attivate, dei prodotti realizzati.
Crediamo infine che la capacità di svolgere una seria valutazione dei progetti
rappresenti il presupposto necessario per cominciare a pensare ai progetti
dell’extrascuola come interlocutori privilegiati di tutti i servizi a sostegno
della famiglia che si occupano di prevenzione, di sostegno o di cura vera
e propria, svolgendo, di volta in volta ed in sinergia con gli stessi, funzioni
diversificate di grande importanza come ad esempio la segnalazione di
situazioni di bisogno oppure il monitoraggio o l’osservazione in contesti
ludici di minori in difficoltà oppure ancora il supporto vero e proprio a
situazioni in carico ai servizi di tutela dei minori.
182
PARTNERSHIP POSSIBILI:
L’ESPERIENZA NELL’ISOLA BERGAMASCA
di Marco Zanchi
- Denominazione del progetto: Isolandia
- Ente titolare: Azienda Speciale Consortile Isola Bergamasca e Bassa Val San Martino
- Enti partner: Istituti Comprensivi, Cooperative Sociali, Parrocchie, Associazioni e Biblioteche
- Territorio interessato: Ambito Territoriale n. 12 Isola Bergamasca e Bassa Valle San Martino
- Anno di avvio dell’esperienza: 2003
Il titolo di questa testimonianza sarebbe più appropriato se avesse un punto
di domanda alla fine. E’ opportuno infatti chiedersi innanzitutto: sono
possibili partnership efficaci fra ente pubblico e privato sociale intorno ai
progetti extrascuola?
In risposta a questo interrogativo inizierei a evidenziare il fatto che questo
intervento sulla partnership territoriale viene svolto da un operatore del
privato sociale, e questo già ci fornisce parte della risposta al precedente
interrogativo.
Un ulteriore elemento di conferma della possibilità di partnership è
rappresentato dal fatto che il progetto oggetto delle diverse azioni attivate
sotto il titolo “Isolandia” è il frutto di un percorso di progettazione partecipata
che ha visto impegnati vari enti: gli Enti locali, le Scuole, le Cooperative
sociali, gli Oratori dell’Ambito Territoriale n. 12 - Isola Bergamasca e Bassa
Valle San Martino.
“Isolandia” nasce come azione attivata all’interno di un progetto
denominato “L’isola del futuro” compreso nell’accordo di programma
per il secondo triennio di attuazione della L. 285/97 con capofila, allora,
il Comune di Ponte S. Pietro, ed oggi, l’Azienda Speciale Consortile. Tale
azione si è concretizzata su tre distinti livelli:
183
- una mappatura dei progetti extrascuola nell’Isola Bergamasca, che
operando in parallelo con il Laboratorio provinciale ha rilevato nel
2005 la presenza nel territorio di 37 interventi;
- l’emissione di bandi annuali per l’assegnazione di contributi economici
agli enti locali per la realizzazione di centri ricreativi educativi e servizi
extrascolastici al fine di sostenerli, assicurarne la stabilità e continuità
nel tempo e promuoverne la qualità e l’innovazione;
- assegnazione di contributi economici per la realizzazione di attività ludico
aggregative a livello sovracomunale finalizzati a sviluppare partnership
locali (prevedendo come criteri di assegnazione la compartecipazione
di almeno cinque Enti locali e due soggetti dell’associazionismo o del
volontariato) con l’obiettivo di attivare reti sovra comunali intorno
all’obiettivo di promuovere la cultura del gioco e del tempo libero nei
diversi contesti territoriali.
Laddove si sono sperimentate le varie forme di partnership si è potuto
verificare che il concorso di più attori ha prodotto opportunità interessanti
e a volte uniche per arricchire il territorio di nuove iniziative, per sviluppare
nuove capacità di mobilitazione, per avere una più approfondita conoscenza
del territorio e, non ultimo, per avere accesso a nuove risorse finanziarie e
utilizzarle in modo più razionale ed efficace. Inoltre la possibilità di operare
insieme fra soggetti diversi ha in vari casi svolto una funzione di volano
per diffondere e sviluppare una cultura dell’operare in partnership e del
lavorare in rete.
184
INTERVENTI DI TUTELA E PREVENZIONE:
PROGETTI TERRITORIALI NELLA CITTÀ DI BERGAMO
di Elena Lazzari e Stefano Rota
- Denominazione del progetto: Progetti territoriali
- Ente titolare: Comune di Bergamo
- Enti partner: Consorzio Solco Città Aperta e agenzie educative dei quartieri della città di Bergamo
- Territorio interessato: Città di Bergamo
- Anno di avvio dell’esperienza: 2001
I Progetti territoriali attivi nei diversi quartieri della città di Bergamo si
pongono al confine tra interventi di tutela, intesa nell’accezione più ampia
del termine, e interventi a valenza preventiva. Questi progetti nascono
nel 2001 come sviluppo del servizio di ADM – Assistenza Domiciliare per
Minori per configurarsi come interventi di assistenza educativa di gruppo
attuati in collaborazione con gli istituti scolastici, le parrocchie e gli oratori,
le agenzie educative, ricreative, sportive e culturali.
La prima esperienza, attuata nel quartiere della Malpensata, è stata seguita
da altri otto progetti in vari quartieri della città allargando l’utenza dai 20
ragazzi seguiti dal primo progetto agli attuali 200 ragazzi, coinvolgendo un
notevole insieme di risorse in termini di figure professionali e in termini
di apporti da parte di volontari e adulti mobilitati dalle diverse agenzie
territoriali.
Il primo elemento di innovazione proposto dai Progetti territoriali è
rappresentato dalla condivisione fra tutti gli attori territoriali dell’idea che
la Tutela dei Minori non può essere delegata solo a professionisti preposti,
ma è una responsabilità collettiva di tutti gli attori del territorio.
Un elemento qualificante derivato da questo particolare approccio è il fatto
che, partendo dall’analisi e dalla gestione dei casi di minori in situazioni
di disagio, si è posta da subito l’attenzione, oltre che sulle famiglie di
provenienza, anche sui contesti di vita dei ragazzi e si è operato nella
185
direzione di sviluppare alleanze e raccordi organici con le realtà educative
e con i diversi attori del territorio.
Grazie allo stretto e collaudato rapporto di partnership fra Ente Locale e
Consorzio Solco Città Aperta è stato possibile affrontare queste questioni
arrivando a progettare e a implementare interventi di nuova concezione
che andavano oltre l’assistenza domiciliare tradizionale da cui questi
progetti avevano preso le mosse: è stato possibile in particolare rileggere
continuamente le esperienze in atto e arrivare a identificare nel territorio
altre forme di domiciliarità, intesa come contesto di vita dei ragazzi, come
domicilio allargato che integra, supporta alcune funzioni educative dei
nuclei familiari.
Si è quindi passati da una attenzione centrata sul singolo minore a
progetti mirati sui gruppi, da un’attenzione centrata sul nucleo familiare
di appartenenza a un coinvolgimento della rete territoriale delle agenzie
educative, da forme di intervento basate su competenze specialistiche
interne al sistema erogatore di prestazioni a un insieme di progetti radicati
nei diversi territori, capaci di mobilitare molteplici soggetti sociali e di far
incontrare e interagire competenze e saperi diversificati, indispensabili
per mettere in campo azioni incisive di educativa territoriale e dare vita
a reti di protezione sociale che si attivano a partire dalla comunità e non
necessariamente e soltanto dai servizi istituzionali.
Gli operatori dei Progetti territoriali non si limitano quindi a lavorare con
gruppi di minori in stato di disagio, ma operano per favorire lo sviluppo di
competenze relazionali ed educative nelle figure adulte che si rapportano
con i minori stessi: genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, curati, animatori
di oratorio, baristi.
Nel contempo, l’azione si rivolge anche a gruppi di minori in situazione di
agio, al fine di rendere evidenti e modificare dinamiche comportamentali
di esclusione ed isolamento, cui i ragazzi più problematici vanno incontro
a causa del proprio comportamento.
La finalità principale degli interventi territoriali di A.D.M. è diventata
pertanto il potenziamento dei rapporti di partnership tra le agenzie
186
educative del territorio per migliorare l’osservazione dei minori nei propri
contesti di vita, la promozione di condizioni di agio per i minori stessi,
segnalando ai servizi di competenza le situazioni di rischio e consegnando
alla comunità strumenti in grado di accrescere l’efficienza e l’efficacia per
una presa in carico dei ragazzi.
Sul piano operativo, l’impegno attivo dei numerosi soggetti coinvolti
ha permesso di dare vita a molteplici iniziative di natura socializzante,
ricreativa, espressiva, sportiva e di sostegno scolastico, capaci di esprimere
valenze di tipo promozionale e preventivo e nel contempo anche riparativo
e di cura. E’ opportuno in questa sede limitarci a ricordare gli interventi
attivati ai confini tra scuola ed extrascuola.
E’ innanzitutto utile precisare che si è intervenuti non solo nell’extrascuola,
ma anche in attività dentro il tempo scuola, immettendo, in alcuni casi,
nuove attenzioni educative negli intervalli fra le diverse proposte didattiche
(intervalli, intermensa, ecc.) e, in altri, proponendo una presenza nel corso
di attività curriculari.
In alcuni Istituti Comprensivi si è operato ad esempio per rendere possibile
l’incontro tra l’approccio didattico e quello educativo, dando vita nel tempo
a delle equipe miste, composte da insegnanti, operatori sociali e alcuni
attori del territorio, una cosa che sembrava inizialmente impossibile e che
nel tempo ha dato invece interessanti risultati. Si è ad esempio dato vita ad
una riflessione approfondita sul rapporto tra agio e disagio all’interno della
scuola che in alcune situazioni ha portato a rilevare la tendenza, spesso
per problemi puramente organizzativi, ad aggregare i ragazzi svantaggiati
e quindi a individuare strategie alternative per dare vita a gruppi integrati
capaci di accogliere positivamente anche questi ragazzi, grazie anche al
supporto di risorse educative aggiuntive.
Un’altra area che è stata oggetto di attenzione ed intervento è quella
della riqualificazione del ruolo dei genitori nella vita scolastica. In alcune
esperienze c’è stato lo sforzo di coinvolgere i genitori a partire dalla
considerazione che, da un lato, a volte la scuola lamenta l’assenza dei
genitori e dall’altro induce delle dinamiche espulsive attraverso l’uso di
187
linguaggi troppo diversi da quelli dei genitori.
Si sta anche ragionando sul rapporto fra scuola e territorio di appartenenza,
a partire dall’idea condivisa che la scuola è parte integrante del territorio
ed è chiamata ad esprimere attivamente e concretamente questo legame.
In questa direzione si è pensato di iniziare a mettere in rete la scuola con
gli altri attori attraverso l’utilizzo degli edifici, un aspetto banale ma che
assume un’importante valenza al tempo stesso simbolica e concreta.
Si è anche operato per ampliare il coinvolgimento nella vita scolastica
dei soggetti che animano i diversi quartieri invitando ad intervenire
maestri d’arte, genitori con competenze specifiche, giovani dell’anno di
volontariato civile che poi i ragazzi hanno l’opportunità di incrociare nei
diversi contesti della vita del quartiere.
Un altro tema affrontato è quello dell’integrazione fra ragazzi stranieri
e ragazzi italiani, fra difficoltà di comunicazione e apprendimento e il
bisogno di integrazione per cui si sono ricercate modalità, oltre che per
affrontare i problemi indotti dall’incontro fra diversi, per valorizzare la
ricchezza dei contributi che queste diversità possono apportare ai percorsi
di apprendimento dei ragazzi e degli adulti, in particolare genitori.
Un’altra problematica affrontata è stata quella dell’incontro e della
collaborazione fra Scuola e Servizio Sociale. Si è rilevato infatti che spesso,
per problemi di scarsità di tempo o di emergenza, l’incontro si attua in
rapporto al singolo caso “problematico” e quando diventa ingestibile. A
partire da questa analisi, attraverso l’introduzione di momenti di incontro
formale programmati sull’arco dell’anno, è stato possibile condividere
alcune piste di lavoro orientate a sviluppare strategie a valenza preventiva
capaci di coinvolgere nel suo insieme il sistema scuola e le sue diverse
componenti.
Sul versante degli Oratori si è svolta una funzione di sostegno ai Direttori,
che rappresentano figure cardine di riferimento per molti ragazzi e per le
loro famiglie. Con i cinque oratori con i quali è stata sviluppata una alleanza
educativa si sono programmati dei momenti di confronto nelle equipe
miste in cui si sono approfonditi i temi dell’incontro fra approccio pastorale
188
animativo e approccio socio educativo, fra educazione professionale e
educazione vocazionale e i differenti valori di riferimento che le animano
e si è cercato di definire progetti condivisi di accompagnamento nei
confronti di ragazzi, gruppi e famiglie.
La collaborazione con gli Oratori ha portato a sviluppare anche una
riflessione sui modelli organizzativi, in particolare tracciando un
confronto fra Oratorio erogatore di attività ed eventi formativi e Oratorio
cortile, cioè come ambito di accoglienza dei ragazzi a prescindere dalle
loro partecipazione a proposte formative strutturate e orientate, un tema
di particolare attualità per la presenza nei ragazzi di culture e sensibilità
religiose estremamente diversificate. Questa riflessione ha portato in alcune
realtà a pensare all’introduzione di figure professionali in affiancamento e
a supporto degli animatori volontari, risorsa irrinunciabile per l’attuazione
della proposta formativa degli Oratori.
Obiettivo trasversale alla molteplicità degli interventi attivati è il desiderio
di creare una cultura condivisa nei diversi contesti educativi attenta alla
funzione della Tutela dei Minori, intesa come corresponsabilità condivisa
di un intero territorio.
L’assunzione di un punto di vista diverso nell’affrontare i problemi ha
indotto a ripensare anche il ruolo dell’Ente locale.
L’Ente locale in questo tipo di progettualità è chiamato in particolare a
svolgere un ruolo promozionale e di coordinamento generale dei processi
di rete, che operativamente è attuato attraverso il personale del servizio
sociale e del consorzio convenzionato.
In questa sua funzione di attore del welfare comunitario, il Comune ha
orientato la sua azione a promuovere lo sviluppo di reti di protezione
sociale nei diversi quartieri della città, a essere garante nel fare incontrare le
differenze (di culture, linguaggi e risorse) al fine di accrescere, nella ricerca
dei reciproci interessi, il risultato di ognuno e quello dell’azione comune,
a promuovere, in altri termini, una sussidiarietà responsabilizzante per
tutti.
In questa particolare prospettiva di lavoro la programmazione sociale si
configura, quindi, come un processo a più attori, a più livelli, che apportano
189
competenze, idee e risorse diversificate a una progettazione che, esigenze
tanto ideali quanto di efficacia, vogliono partecipata.
Fondamentale in questo percorso è l’impiego di metodologie di lavoro
partecipative, lo scambio costante intorno alle “buone prassi”, sia
per quanto attiene la progettazione e gestione degli interventi, che il
monitoraggio e la verifica dei risultati. Da questo punto di vista l’esperienza
dei progetti territoriali rappresenta anche un interessante esempio di
come l’integrazione di differenti competenze e risorse favorisca lo sviluppo
operativo dei servizi e l’individuazione di risposte sociali innovative e
fortemente contestualizzate.
Un accenno infine anche al dato economico. Da questo punto di vista si
può evidenziare come gli interventi di educativa di gruppo e di educativa
territoriale abbiano dei costi economici sensibilmente più contenuti rispetto
agli interventi di ADM tradizionale, soprattutto se si considera che questo
nuovo approccio consente di attivare iniziative rivolte oltre che ai ragazzi
e alle famiglie che vivono situazioni di difficoltà, anche a ragazzi e adulti
in condizione di agio che, oltre a fruire di iniziative di socializzazione e di
formazione e supporto, sono chiamati a svolgere una preziosa funzione di
aiuto e di integrazione a favore di compagni e concittadini in difficoltà.
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Pena Carcere Lavoro.La giustizia in-divenire.Atti del Convegno, Bergamo 9 giugno 2003 2004
Conoscere per ascoltare.Indagine sulla Genitorialità Sociale.Ricerca Azione Multifocale e Multilocale 2004
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Comunità Alloggio: un’indagine sui minori accoltiRicerca Azione a cura dell’Osservatorio Disagio Minorile 2005
Lavoro di cura: aspetti critici, significati e vissutiAtti delle giornate seminariali, aprile – maggio 2003 2005
Costruire la qualità: i nidi famiglia in provincia di BergamoReport 2003- 2006 2006
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Marzo 2007
PROVINCIADI BERGAMO
Settore Politiche SocialiVia Camozzi, Passaggio Canonici Lateranensi 10
20121 Bergamoe-mail: [email protected]
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