palladio costruttore 6 tecnologia edilizia e organizzazione del cantiere nella milano del secondo...

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299 Nelle “Sette lampade dell’architettura” John Ru- skin scrive a un certo punto che “si cavò di più dalle rovine di Ninive che dalla ricostruita Mila- no”. Ovviamente mi accingo a fare un uso oppor- tunistico di questa sentenza: Ruskin alludeva alla Milano capitale dell’Impero Romano d’Occiden- te, e quando scriveva la Milano cinquecentesca era ancora in gran parte esistente, anche se già se- gnata dall’intensa attività edilizia del primo Otto- cento. Dopo venne la “nuova Milano monumen- tale” di fine secolo, il piano regolatore, le bombe, la ricostruzione. Sicché oggi il centro antico di Milano è davvero una città “ricostruita”, e della Milano del Cinquecento rimangono poche vesti- gia, molto alterate o restaurate (cioè, secondo Ruskin, distrutte nel peggiore dei modi). Non sorprende quindi che la storia del modo di costruire appaia oggi, a Milano, in ritardo ri- spetto ad altri contesti: non si tratta tanto di una disattenzione degli studiosi, quanto della ogget- tiva difficoltà di riscontrare sul reale gli indizi forniti dai documenti d’archivio. I riscontri sul reale possono essere svolti inda- gando le zone nascoste, meno soggette a manu- tenzioni, dove si possono perfino trovare muratu- re non intonacate e mai rimaneggiate; però appa- re davvero difficile ricostruire un quadro com- plessivo del costruire storico, che non si limita ai muri, ma comprende le finiture, soggette natural- mente a usura e, più recentemente, a cicli di so- stituzione. Così appare ancora difficile avere un quadro dei serramenti e delle pavimentazioni, e in gran parte le strutture lignee sono perdute, in particolare nelle coperture, devastate dagli incen- di seguiti ai bombardamenti del 1943, e poi ge- neralmente sostituite, anche quelle che si erano potute riparare, con strutture in cemento armato. Queste premesse giustificano lo “stato dell’ar- te” sul modo di costruire del Cinquecento mila- nese: gli studi sono per lo più recenti, e il tema si è affermato non come altrove, ad esempio a Ge- nova, quale estensione agli edifici di età moderna dei metodi dell’archeologia medievale, ma stret- tamente a partire dalle indagini archivistiche, con una ben precisa finalità esegetica. Si è trattato cioè inizialmente di capire i termini tecnici usati nei documenti relativi alla storia dell’Arte, cer- cando Bramante e trovando Amadeo, più che di fondare un diverso punto di vista nella storia del- l’architettura, una “storia speciale” con i suoi sta- tuti disciplinari e i suoi limiti. Quindi gli studi specificamente dedicati alla costruzione nel Cin- quecento lombardo non sono molti, e poiché ri- sentono di questa matrice documentaria riguar- dano gli aspetti organizzativi e i risvolti economi- ci, o la trasmissione del progetto dall’ideatore al- l’esecutore, piuttosto che le questioni strettamen- te tecniche e le pratiche costruttive. Pertanto questo mio intervento, essendo prematura qualsiasi affermazione perentoria, tenderà soltanto a fornire spunti e formulare ipotesi di lavoro: compito dal quale lo stato del- l’arte che ho descritto non esime. In particolare vorrei impostare alcune dire- zioni di ricerca, o per meglio dire di verifica, su tendenze che le conoscenze attuali sembrano in- dicare, ma soltanto studi specificamente impo- stati potranno confermare, smentire o meglio definire. Parlo di “tendenze” perché in generale prediligo una visione dinamica dei fenomeni storici, anche in quel campo del cantiere edilizio che sembra regolato da un tempo lento e da fe- nomeni di lungo periodo. Subito dopo la metà del secolo, l’edilizia milanese è scossa dall’arrivo di architetti forestieri al servizio di committenti più ambiziosi. Allora la curiosità di sapere come le cose sono fatte, perché tra l’altro ciò serve per averne efficacemente cura, assume in questo ca- so anche il fascino di un problema storiografico elegantemente complesso. Ci chiediamo se, co- Stefano Della Torre Tecnologia edilizia e organizzazione del cantiere nella Milano del secondo Cinquecento 1. Pellegrino Tibaldi, Progetto per il Battistero del Duomo di Milano (Biblioteca Ambrosiana di Milano, F 251 Inf., n. 15), particolare della struttura nascosta della trabeazione.

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Page 1: Palladio Costruttore 6 Tecnologia Edilizia e Organizzazione Del Cantiere Nella Milano Del Secondo Cinquecento

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Nelle “Sette lampade dell’architettura” John Ru-skin scrive a un certo punto che “si cavò di piùdalle rovine di Ninive che dalla ricostruita Mila-no”. Ovviamente mi accingo a fare un uso oppor-tunistico di questa sentenza: Ruskin alludeva allaMilano capitale dell’Impero Romano d’Occiden-te, e quando scriveva la Milano cinquecentescaera ancora in gran parte esistente, anche se già se-gnata dall’intensa attività edilizia del primo Otto-cento. Dopo venne la “nuova Milano monumen-tale” di fine secolo, il piano regolatore, le bombe,la ricostruzione. Sicché oggi il centro antico diMilano è davvero una città “ricostruita”, e dellaMilano del Cinquecento rimangono poche vesti-gia, molto alterate o restaurate (cioè, secondoRuskin, distrutte nel peggiore dei modi).

Non sorprende quindi che la storia del mododi costruire appaia oggi, a Milano, in ritardo ri-spetto ad altri contesti: non si tratta tanto di unadisattenzione degli studiosi, quanto della ogget-tiva difficoltà di riscontrare sul reale gli indiziforniti dai documenti d’archivio.

I riscontri sul reale possono essere svolti inda-gando le zone nascoste, meno soggette a manu-tenzioni, dove si possono perfino trovare muratu-re non intonacate e mai rimaneggiate; però appa-re davvero difficile ricostruire un quadro com-plessivo del costruire storico, che non si limita aimuri, ma comprende le finiture, soggette natural-mente a usura e, più recentemente, a cicli di so-

stituzione. Così appare ancora difficile avere unquadro dei serramenti e delle pavimentazioni, ein gran parte le strutture lignee sono perdute, inparticolare nelle coperture, devastate dagli incen-di seguiti ai bombardamenti del 1943, e poi ge-neralmente sostituite, anche quelle che si eranopotute riparare, con strutture in cemento armato.

Queste premesse giustificano lo “stato dell’ar-te” sul modo di costruire del Cinquecento mila-nese: gli studi sono per lo più recenti, e il tema siè affermato non come altrove, ad esempio a Ge-nova, quale estensione agli edifici di età modernadei metodi dell’archeologia medievale, ma stret-tamente a partire dalle indagini archivistiche, conuna ben precisa finalità esegetica. Si è trattatocioè inizialmente di capire i termini tecnici usatinei documenti relativi alla storia dell’Arte, cer-cando Bramante e trovando Amadeo, più che difondare un diverso punto di vista nella storia del-l’architettura, una “storia speciale” con i suoi sta-tuti disciplinari e i suoi limiti. Quindi gli studispecificamente dedicati alla costruzione nel Cin-quecento lombardo non sono molti, e poiché ri-sentono di questa matrice documentaria riguar-dano gli aspetti organizzativi e i risvolti economi-ci, o la trasmissione del progetto dall’ideatore al-l’esecutore, piuttosto che le questioni strettamen-te tecniche e le pratiche costruttive.

Pertanto questo mio intervento, essendoprematura qualsiasi affermazione perentoria,tenderà soltanto a fornire spunti e formulareipotesi di lavoro: compito dal quale lo stato del-l’arte che ho descritto non esime.

In particolare vorrei impostare alcune dire-zioni di ricerca, o per meglio dire di verifica, sutendenze che le conoscenze attuali sembrano in-dicare, ma soltanto studi specificamente impo-stati potranno confermare, smentire o megliodefinire. Parlo di “tendenze” perché in generaleprediligo una visione dinamica dei fenomenistorici, anche in quel campo del cantiere edilizioche sembra regolato da un tempo lento e da fe-nomeni di lungo periodo. Subito dopo la metàdel secolo, l’edilizia milanese è scossa dall’arrivodi architetti forestieri al servizio di committentipiù ambiziosi. Allora la curiosità di sapere comele cose sono fatte, perché tra l’altro ciò serve peraverne efficacemente cura, assume in questo ca-so anche il fascino di un problema storiograficoelegantemente complesso. Ci chiediamo se, co-

Stefano Della Torre Tecnologia edilizia e organizzazione del cantiere nella Milano del secondo Cinquecento

1. Pellegrino Tibaldi, Progetto per il Battistero del Duomo di Milano (BibliotecaAmbrosiana di Milano, F 251 Inf., n. 15),particolare della struttura nascosta dellatrabeazione.

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me appare verosimile, le novità formali ebberoun corrispettivo sul piano della scelta dei mate-riali, dei metodi per la loro posa in opera, dellaorganizzazione del cantiere, della composizionesociale dell’ambiente dei costruttori. Le tesi chepropongo si possono sintetizzare in tre punti:nel secondo Cinquecento a Milano si riscontre-rebbe una generalizzata pratica della costruzio-ne “alla moderna”, un maggior uso della pietrain funzione decorativa, una progressiva conqui-sta del mercato dell’edilizia, o almeno di un set-tore di esso, da parte di famiglie di costruttori especialisti provenienti dalla vicina “regione deilaghi”: ovvero intelvesi e ticinesi.

La costruzione alla modernaLa struttura di S. Fedele, che sembra essere il ca-so limite, è così giocata sulla riduzione degli spes-sori murari da sorprendere se confrontata con al-tre architetture coeve; ma non si tratta certo di uncaso isolato, né le volte a vela accoppiate esibisco-no audacia costruttiva, o rispondenza “goticheg-giante” della forma allo schema statico. Quindidubito che nel caso di Pellegrino si possa parlarepropriamente di una immaginazione strutturalenuova: semmai il suo atteggiamento consente di

portare alla ribalta una tendenza generale del se-colo, ovvero la costruzione “alla moderna”.

Traggo questa espressione dalle categoriecon cui gli archeologi classificano le murature.Muratura “alla moderna” è quella, non a casoapparsa tra Quattro e Cinquecento, in cui l’ap-parecchio è apparentemente meno curato, menorispondente alla logica propria di ciascun ele-mento, eppure svolge perfettamente la sua fun-zione di muro portante, solido quanto l’opera diun provetto muratore-scalpellino medievale.Spesso questo modo di costruire viene condan-nato, descritto come uno scadimento qualitati-vo. Quando restaurò il palazzo Spinola devasta-to dal bombardamento, il Cassi Ramelli lamentòle “marachelle” del capomastro Pietro da Lona-te, che aveva fissato i pezzi di ceppo del corni-cione non con opportuni voltini di laterizi emalta ma con la sbrigativa disposizione di travidi castagno, e aveva fornito “una sconsolantequalità di malta nelle porzioni di muro versocortile”1. È appena il caso di notare che queste“marachelle”, da affiancare all’uso generalizzatodi tiranti lignei annegati nelle murature, nonavevano impedito alla struttura di stare in piediper quasi quattrocento anni.

In un siffatto contesto tecnologico succedeche l’architettura “all’antica” recupera gli ordinie le proporzioni della classicità, ma non l’anticomodo di costruire per masse murarie: si costrui-sce invece secondo pratiche che rispondono alregime economico del tempo, e di fatto si tradi-sce la logica strutturale ostentata come idealedell’architettura. Si verifica cioè uno scarto tra laforma visibile e la struttura che la materializza.La forma classica rappresenta di per sé un’ideacostruttiva, ma la sua costruzione reale rispondea un’idea diversa, a un funzionamento struttura-le che non è quello esibito, ma quello ottenutoattraverso una serie di artifici, che costituisconoil sapere non dei trattatisti ma dei pratici, nondei disegnatori ma della gente di cantiere curio-sa non tanto di teoria quanto, semmai, di mec-canica. Nella maggior parte dei casi, l’architettovive a cavaliere di questa contraddizione, nonl’avverte o non la confessa: ma si vale del sapercostruire “alla moderna” per adattare il linguag-gio classico alle esigenze contingenti.

Nel Cinquecento milanese l’esempio forsepiù clamoroso di questo dissidio è la questioneinsorta attorno al battistero del Duomo di Mila-no. A proposito di questo progetto di Pellegri-no, Vignola pronunciò la famosa, e perentoria,sentenza: “le fabriche bene intese, vogliono reg-gersi per se stesse, & non stare attaccate con lestringhe”2. Una sentenza che avrebbe comporta-to la condanna della quasi totalità degli edificirinascimentali, e che sembra figlia dell’ipocrisia,perché è vero che nel corso del Cinquecento lecatene intradossali vengono in molte fabbriche

2. Milano, S. Fedele, fianco verso Casa Professa, dettaglio dell’ammorsamento di una semicolonna lapidea nella muraturalaterizia.

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evitate, ma non per questo si rinunciava all’usogeneralizzato di catene nascoste, estradossali espesso a braga. La questione è notissima, e fuchiamato in causa anche Palladio il quale, coe-rentemente con la propria impostazione, appog-giò l’idea di un progetto diverso, con interassiminori; però val la pena di esaminare con atten-zione la risposta data da Pellegrino alle conte-stazioni. Chiamato “a dare conto per qual causahabbiati posto tanta quantità di ferramento neliarchitravi del battistero”, Pellegrino rispose“ch’el battistero non ha se non li ferramenti ne-cessari per tenerlo si fortemente legato insie-me...”, con “dui ligati di ferro: uno nascosto so-pra delle architravi, che per esser loro de quat-tro pezzi, gli conviene detto legamento per te-nerli insieme, et l’altro alla somità di tutta l’ope-ra, ch’è nascosto sopra della cornice, ch’essendolei de molti pezzi, non vi vole manco rimedio; edambidui si vanno ad incatenarsi con le stangheche suono sopra le quattro colonne...”. E ag-giunse: “Ma se si fosse saputo con quanta dili-genza et arte si sia provisto, che li detti architra-vi restino forti et perpetui, non si sarebbe... cre-duto che io li avessi... indeboliti, perché s’è pro-visto per la perpetuità sua di fare, che tutti limarmi che suono sopra di sé non aggravano nés’appoggiano sopra li detti architravi, se non aldritto delle colonne; anzi il carico che vi è sopracome frigio, cornice et frontespicio, s’è accomo-dato con tal arte, che se bene li architravi si vo-lessero rompere solo per la sua propria gravez-za, non potrebbono, perché il peso di sopra tie-ne per forza il detto architrave solevato, et quan-to più detto architrave pesa, tanto più la forza diquello di sopra diventa magiore per sostentaredetto architrave, et come dimostra il presentedisegno conforme a l’opera”3.

Il disegno cui Pellegrino allude è quello delfondo F 251 Inf dell’Ambrosiana (ill. 1), chemostra questa invenzione trovata per realizzareuna trabeazione su “intercolumnij che passanodi sei grossezze di colonna”. In sostanza, il fre-gio nasconde una struttura a doppio puntone,chiusa inferiormente dal tirante metallico; il sot-tostante architrave è collegato a tale strutturamediante un tirantino, che in pratica ne dimez-za la luce4, e lo stesso effetto è ottenuto per lacornice, che trova un appoggio centrale.

È stato scritto che “in un secolo nel quale im-perversò la varianza egli ordini mentre pochi onulli furono gli avanzamenti nel campo dellestrutture... il Pellegrini, entro i limiti delle suepossibilità, impersonò l’esigenza di rimettere inmoto l’immaginazione strutturale”5. A me pareche l’apporto di Pellegrino non giunga a un rin-novamento delle concezioni strutturali, ma sia sta-to tutto compreso in quella ricerca di far quadra-re le forme classiche con la costruzione alla mo-derna che fu comune al suo secolo, a partire dallostesso Bramante. Per un precedente si può pensa-re alle alterne fortune di Jacopo Sansovino come“strutturista”, e alla icastica frase con cui PietroAretino commentò il crollo della incatenatissimavolta della Libreria: “Gli abiti de le architettureantiche non si confanno ai dossi delle moderne”6.

È significativo che la “capriata” pellegrinianasia tutta compresa nel fregio del battistero, a di-mostrare quanto l’architetto ci tenesse ad armo-nizzare la propria invenzione con la logica degliordini. Tuttavia il brano che abbiamo letto mo-stra anche come il compiacimento di Pellegrinoper la propria invenzione si esprimesse quasi neitermini del gusto per la meraviglia, per l’esperi-mento che sorprende, per il paradosso apparen-te, che non è tale per chi conosce e pratica lameccanica. Il pensiero corre ai contemporaneirepertori di macchine, come quello di AgostinoRamelli. Se il Trattato pellegriniano offre scarsielementi per un’indagine in tal senso, nuovi in-dizi vengono dal catalogo della biblioteca pelle-griniana, reso noto da Marzia Giuliani7. Si veri-fica la presenza di due volumi di Euclide, Gale-no e Plinio; inoltre nella biblioteca si conserva-vano manoscritti pellegriniani oggi perduti, tracui un trattato di scienza militare che poteva bendiffondersi nel campo delle invenzioni di mec-canica, e lascia ipotizzare un aspetto della cultu-ra pellegriniana finora sottovalutato.

L’impressione comunque è che simili ricer-che e invenzioni fossero patrimonio diffuso, an-che se forse non generale, e che semmai Pelle-grino sia stato, soprattutto a Milano, portatoredi un “pensare in grande” che finiva per richie-dere innovazione tecnologica nell’uso dei mate-riali, nelle dimensioni e nelle ambizioni.

A Milano invece non sembra aver trovato spa-zio una riproposizione “integralista” del modo di

3. Sezione del muro laterale della chiesa di S. Fedele di Milano.

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costruire degli Antichi, fondata sull’uso di grandimasse murarie senza le stringhe condannate dalVignola. Lo stesso Martino Bassi, che si fece pa-ladino di una stabilità discendente soltanto dallecorrette proporzioni, a S. Lorenzo finì per sentir-si rinfacciare da Tolomeo Rinaldi, architettoemergente che si faceva forte della propria for-mazione romana, proprio l’uso delle catene, e conle stesse parole di Vignola che nei Dispareri ave-va divulgato: “Che m. Martino abbia produto fal-se propositione veggasi per el libro fatto contra dim. Pellegrino, dove con fede de tanti valenthomi-ni lo condanna dicendo che le opere ben intesevogliono per se stesse mantenersi et non star at-taccate con le stringhe et oggi in San Lorenzo volper principal fondamento et resistenza siano li ap-parenti et nascosti incatenamenti”8.

Per saperne di più avremmo bisogno di qual-che caso controverso accompagnato da una ar-gomentata documentazione. Purtroppo gli indi-zi trovati sul crollo in corso d’opera del tiburiodi S. Vittore non hanno finora portato a cono-scere meglio i termini della questione: alla fine ilcrollo viene imputato a fondazioni insufficienti,e si ripara allargandole e inserendo nei pilastridelle pietre di collegamento. Molto ricca sembraessere soltanto la documentazione sulla ricostru-zione di S. Lorenzo, caso interessantissimo perla presenza delle quattro torri antiche a con-trafforte della cupola, che meriterebbe uno stu-dio specificamente orientato che vada oltre i li-miti di quello compiuto pochi anni fa da unaéquipe dell’Università di Firenze9.

I materialiLa seconda questione che intendo discutere è senel secondo Cinquecento l’edilizia milanese ve-da qualche significativo cambiamento nell’im-piego dei materiali.

La struttura muraria degli edifici milanesi delsecondo Cinquecento è costituita, secondo latradizione padana, prevalentemente di mattoni.Le forniture venivano pagate a numero, un tan-to al migliaio di pezzi. In particolare sappiamoche il prezzo delle costruzioni era aumentato“dalla peste in qua (cioè dopo il 1576), per la ca-restia delle materie”10: secondo una testimonian-za dell’epoca i prezzi dei laterizi erano passati dacirca 18 a circa 22 lire al migliaio11. Di solito icontratti di fornitura ne specificavano la qualitàcon la formula “pro medietate fortium et promedietate albasiorum”. La distinzione, funzionedella temperatura di cottura, garantiva al forni-tore l’accettazione di prodotti meno riusciti nel-la percentuale fissata, e al committente la certez-za che almeno una parte della fornitura avrebbeavuto caratteristiche ottimali.

Le fornaci da laterizio erano diffuse in tuttoil circondario di Milano, ma le condizioni più fa-vorevoli per impianti destinati a fornire un gran-

de mercato si avevano dove oltre all’argilla erapossibile disporre a buon prezzo di sabbia e dilegname da ardere, e soprattutto dove era possi-bile accedere a comode vie di comunicazioneverso la città: sicché le fornaci si ritrovavano pre-valentemente lungo gli assi costituiti dai Navigli,tanto che in taluni contratti si precisa se i lateri-zi dovessero provenire dal Naviglio Grande, oda quello di Bereguardo, o da quello di Martesa-na. L’industria e il mercato dei materiali da co-struzione e della pietra, a Milano, si basò sempresulle infrastrutture create in età medievale. Il si-stema dei Navigli consentiva il trasporto a Mila-no di materiali da costruzione provenienti da unvasto settore della regione prealpina, dal lagoMaggiore all’Adda, e la struttura produttivacreata per costruire il Duomo con il marmo del-le cave di Candoglia, donate dal Duca alla Vene-randa Fabbrica, costituiva il modello. Mi pareche questo sia un esempio convincente di quan-to lo studio della costruzione riesca a connetterel’esame delle cose, la rievocazione di fatti e lostudio delle vocazioni territoriali.

Per i laterizi, Milano costituiva un mercatocon i suoi luoghi di produzione e i suoi magaz-zini; soltanto nelle campagne, lontano dalle vienavigabili, sopravvisse, anche nei secoli successi-vi, l’uso di impiantare fornaci temporanee, i co-siddetti “pignoni”, appositamente per il cantiereche si andava ad aprire. Nel 1560 troviamo undecreto che stabilisce la misura dei mattoni edelle altre principali tipologie di laterizi. I mat-toni comuni, o “pietre grosse”, dovevano misu-rare, prima della cottura once 6 per 3 per 1,5,cioè circa cm 30 per 15 per 7,5. Tali misure, do-po un tentativo nell’ultimo decennio del Cin-quecento di aumentarle, contro il parere sia deifornaciai che degli ingegneri, furono conferma-te da successivi decreti per tutto il Seicento. Na-turalmente un mercato come quello milanesepresentava tutte le condizioni perché i fornaciainon si attenessero a tali decreti, tanto più cheper lunghi periodi il prezzo dei mattoni fu fissa-to a sua volta per decreto, mentre variavano ta-lune voci di costo. Una ricerca recentementeconclusa12 ha dimostrato come nell’arco di duesecoli, a dispetto delle leggi, i mattoni prodotti aMilano abbiano avuto una significativa diminu-zione di spessore: lo spessore medio rilevato at-torno al 1460 è di cm 7,2, nel 1580 si è già scesia 6,4, nel 1700 a 5,6. Invece la lunghezza, più fa-cile da controllare, rimane costante, e accusa an-zi una leggera crescita, di circa un centimetrolungo l’arco dei due secoli studiati. Tale dato,sorprendente, può essere attribuito a un minorritiro dovuto a una minor temperatura di cottu-ra. In altre parole, non potendo rubare sullaquantità di argilla, i fornaciai avevano trovato ilmodo di risparmiare sul combustibile, a scapitonaturalmente della qualità del prodotto.

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I tetti venivano generalmente coperti con cop-pi. Soltanto per le chiese “quae insigni structuraexaedificantur” le Instructiones borromaiche pre-scrivevano l’impiego di tegole di rame o almenodi piombo, secondo antiche memorie: per la chie-sa di S. Fedele, tuttavia, va segnalato un brano dilettera, in cui si dice che il tetto era in corso direalizzazione, e non sarebbe stato coperto nellaconsueta maniera lombarda, di coppi “mal fatti”,bensì “di tegole e canali con le sue pianelle sotto,alla romana”13. Nel suo trattato Pellegrino parlaripetutamente di coperture a “coppi et ombresi(embrici)”, specificando anche il consiglio che i“travelli squadrati si posano non più lontani checomodamente ve si possi coprire con tavolete opianelle di terra cotta poste in calcina, acciò che,penetrando delle ombreci alcune goce, possi so-pra esse pianelle passare alli stelicidi senza trovarfessatura da penetrar in lo edeficio”14.

Il cotto era anche una soluzione frequente perle pavimentazioni; in alcune fabbriche importantila provenienza dei laterizi destinati alla pavimen-tazione era differenziata rispetto a quelli ordinari,nella ricerca di materiali più resistenti al calpestio.Le forniture più ricercate a tal fine provenivano,attraverso il Naviglio della Martesana, dalla pia-nura bergamasca e in particolare da Caravaggio,tanto che nei documenti si trova spesso la locu-zione breve “suolo di Caravaggio”. La finitura delpavimento in cotto poteva essere più o meno raf-finata: nei capitolati lo standard migliore sembraessere quello in cui gli elementi venivano “stilatiet fregati”, equivalente, in linea di principio, al“tagliati et rodati” dei documenti romani.

Sembra che nel Cinquecento milanese fosseperaltro già in uso il seminato (“astrico alla ve-neziana”), e naturalmente il commesso di pietrecolorate, perfettamente esemplificato dal pavi-mento del Duomo, sul quale esiste una notevo-lissima documentazione tecnica.

La produzione e il mercato della calce avevauna organizzazione economica e una dislocazio-ne geografica non dissimile da quella vista fino-ra: talvolta le fornaci erano le stesse in cui cuo-cevano i laterizi, ma più interessante è il caso incui si produceva calce a piedi delle cave, utiliz-zando il materiale di scarto. Ad esempio esiste-vano attivissime fornaci ad Angera. La calce pro-veniente dal Lago Maggiore era del resto moltoapprezzata, e quella prevalentemente impiegataa Milano; alla luce delle conoscenze odierne ciòè significativo, in quanto spesso tali calci risulta-vano dalla cottura di dolomie e contevano quin-di una rilevante percentuale di carbonato di ma-gnesio15. Del resto studi in corso portano a pen-sare che anche in altre zone si preferisse, appenapossibile, utilizzare calci magnesiache.

Mattoni e calcina erano gli ingredienti per lacostruzione delle murature (ill. 3-5). Secondo do-cumenti coevi16, per metter in opera un migliaio

di mattoni e fare un muro finito si impiegavanocinque “centenara” di calcina, mentre ne bastava-no quattro o quattro e mezzo lasciando il muronon “rebocato”. Secondo un altro documento17,un quadretto cubo di muro comprende settanta-due mattoni. Inoltre il muro richiedeva qua e làdegli elementi lapidei di rinforzo e collegamento,che prendevano il nome di “ligati”. A tal fine siimpiegavano blocchi appena sbozzati di pietrad’Angera, di sarizzo18 o di granito, che venivanoforniti dagli scalpellini insieme con le pietre lavo-rate.

Il termine “ligati” designava anche i tiranti diferro o di legno che si disponevano dentro il mu-ro, detti anche “chiavi morte”, mentre “chiavivive” erano dette le catene lasciate in vista all’in-tradosso degli archi. A questo riguardo possiamoregistrare che in molti dei capitolati pellegrinia-ni da noi reperiti e studiati sono citati “ligati derogore”19, e che Pellegrino dedica nel suo Trat-tato20 un ampio passo a questa pratica costrutti-va, considerata dagli altri trattatisti non confor-me alle regole del buon costruire, e quindi igno-rata o condannata21.

Sembra accertato che nel secondo Cinque-cento l’edilizia milanese affidi alla componentelapidea una importanza maggiore di quanto nonavvenisse nel Quattrocento e nel primo Cinque-cento. Si tratta evidentemente di un’affermazio-ne un po’ grossolana, che molti esempi potreb-bero smentire in tutto o in parte, ma credo chein qualche misura possa reggere. Divengono in-fatti sempre più rare le fabbriche di qualche am-bizione che si possano definire totalmente rea-lizzate in laterizio; scompare la terracotta stam-pata, i cornicioni sono in pietra o, se in mattonicomposti a formare gli aggetti, in malta sagoma-ta a imitare la pietra. Nell’economia di un can-tiere, il costo della fornitura lapidea è spesso del-lo stesso ordine di grandezza della fornitura eposa in opera della struttura muraria, ed è gene-ralmente oggetto di un appalto separato. Inoltresi amplia la gamma delle pietre impiegate, dellequali converrà fare una ordinata rassegna, tacen-do solo del marmo di Candoglia, riservato perducale privilegio alla costruzione del Duomo.

Via via più raro divenne l’impiego in elemen-ti d’importanza del sarizzo ricavato dai massi er-ratici di cui pullulava l’alata pianura lombarda,spesso vicini alle strade e quindi comodi da car-reggiare una volta ridotti a pezzi semilavorati.Invece nel secondo Cinquecento si perseguìl’impiego di pietre più belle e più simili a quelleesotiche impiegate nei monumenti della Romaantica. Di qui, ritengo, la fortuna, per le innu-merevoli colonne dei tipici cortili milanesi, delgranito di Baveno, pietra bella e resistente, di fa-ticosa lavorazione, dapprima quindi molto co-stosa, poi sempre più accessibile grazie al siste-ma economico impiantato dagli intraprendenti

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scalpellini22. Il punto di svolta nell’impiego diquesta pietra, già presente ad esempio nei chio-stri di S. Ambrogio, fu la realizzazione dei fustidelle grandi colonne dell’interno di S. Fedele, apartire dal 1569. Alte quasi otto metri e mezzo,esclusi base e capitello, esse rappresentano cer-tamente un richiamo all’antico, ed in particolarealle colonne di granito dei monumenti romani:in seguito il mito della colonna gigante si legò alsogno di trasfigurare “alla romana” il Duomo,finché il fallimento del trasporto della prima co-lonna non impose di abbandonare il progetto diPellegrino per la facciata23.

Mentre l’esecuzione delle prime colonnesembra aver comportato per gli appaltatori nu-merose difficoltà24, anche a giudicare dal ritardocon cui si pervenne alla consegna, gli scalpellinidevono aver poi tratto profitto dalla specializza-zione tecnologica, o almeno organizzativa, cosìmaturata. Si trattava di mettere a frutto i conso-lidati rapporti con i cavatori locali e con i tra-sportatori, ma probabilmente anche di ammor-tare una serie di investimenti per utensili, arga-ni, legnami, funi e così via, che sarebbe stato as-surdo ed antieconomico utilizzare soltanto perle colonne di S. Fedele. In quegli stessi anni per-tanto gli stessi scalpellini, Scala e Boni, preseroaltri appalti o subappalti per grandi colonne digranito: ad esempio per S. Agostino di Piacen-za25, per la colonna che avrebbe dovuto costitui-re la Croce di Porta Tosa a Milano26, per due la-ti del cortile del Collegio Borromeo27. Per cono-scere il mondo di queste cave è prezioso il trat-tatello scritto da Federico Borromeo in vista deltaglio e trasporto delle grandi colonne per la fac-ciata del Duomo. Da esso apprendiamo che ilmetodo era quello delle tagliate, fatte non con icunei lignei gonfiati dall’acqua, ma con cunei diferro battuti a giusto tempo28. Una volta incisa,la colonna doveva essere sollevata, con cunei oleve, e poi trasportata, via Ticino e NaviglioGrande, fino solitamente al Laghetto, cioè alla

darsena della cerchia dei navigli vicina all’Ospe-dale Maggiore, che era un punto d’approdo pri-vilegiato per la sua centralità e la sua vicinanzaalla “Cassina” della Fabbrica del Duomo29.

Le colonne uscivano dalla cava già sgrossate earrotondate, ma giungevano sul cantiere ancorabisognose di lavori di finitura. Secondo il capito-lato del 14 settembre 1570 per S. Fedele30, gliscalpellini dovevano consegnare i fusti “forniti etsaldi et senza machula”. Nel contratto con i lu-stratori si precisa che le colonne “sarano lassatedali scharpellini... lavorate ordinariamente et for-nite deli tasselli principale come l’uso suo ordi-nario comporta”. Anche se i documenti non lodicono esplicitamente, è del tutto verosimile chel’espressione “lavorate ordinariamente” signifi-chi che i fusti avessero effettivamente subito unaprima lavorazione alla martellina. Comunque ailustratori competeva di “ribatter le dette colonnede minuto”, dove il “de minuto” dovrebbe signi-ficare altre due mani di martellinatura31. Succes-sivamente si sarebbe dovuto “fregarli unitamenteet spoltigliarle in modo fregate che le dette colo-ne tornino tutte hunite et del lustro che è loesempio dato dali detti maestri fatto sopra di unadelle dette colone in la detta fabrica”: per questaoperazione sembra che venissero usati non stru-menti metallici ma abrasivi in polvere o in pasta.Inoltre toccava ai lustratori “empir minutamentedi schaiole et stuchi fortissimi dove sarano li bu-si profondi et levar li altri difetti che possinoofender il lustro et la loro perfecione”. La lustra-tura delle colonne avveniva a pie’ d’opera, ed intale operazione esse dovevano essere girate fin-ché fosse lustra tutta quella parte che sarebbe sta-ta in vista, secondo il giudizio dell’architetto.

La facciata e il fianco di S. Fedele, ma anche lafacciata di S. Raffaele, mostrano l’impiego diun’altra delle pietre caratteristiche del panoramamilanese: la pietra d’Angera, una dolomia cavatapresso le rive del lago Maggiore32. Nel periodo checi interessa le principali cave di Angera erano pos-

4, 5. Diverse soluzioni di apparecchiatura dei mattoni nei voltini dei camminamenti nel muro laterale della chiesa di S. Fedeledi Milano.

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sedute da membri della famiglia Besozzi, che die-dero un certo impulso allo sfruttamento, tanto dacausare a fine secolo le rimostranze dei Borromeo,possessori della Rocca sovrastante, preoccupatiche lo scavo non ne compromettesse la stabilità33.

Il ceppo (ill. 6), detto “cieppo di Vaprio” neidocumenti per S. Sebastiano34 e per il Palazzodei Giureconsulti35, ma largamente utilizzato an-che in Palazzo Marino e in S. Lorenzo, è unconglomerato di origine fluviale e fluvioglaciale,i cui clasti, costituiti prevalentemente da quarzoe da feldspato, muscovite e frammenti di roccesedimentarie36, provengono dall’erosione deimonti attorno alle valli dell’Adda e del Brembo:infatti le cave che rifornivano Milano erano col-locate appunto nella zona di Vaprio, Trezzo ePaderno, appena a valle della confluenza delBrembo nell’Adda, dove tra l’altro si stacca dal-l’Adda il Naviglio della Martesana. A secondadella granulometria dei clasti, si distingue inceppo rustico, mezzano e gentile, quest’ultimodel tutto assimilabile a un’arenaria.

La pietra di Viggiù è una pietra calcarea, che siricava nel territorio dei comuni di Brenno Useria,Viggiù e Saltrio37. Come “preda di Bren” si trovaindicata nei documenti relativi al Palazzo deiGiureconsulti38, al Collegio Borromeo39, ai capi-telli delle grandi colonne interne di S. Fedele, maanche alla Cappella Trivulzio in S. Stefano, dovese ne prospetta l’uso in alternativa con la pietrad’Angera, e al Santuario di Saronno.

Il calcescisto di Ornavasso fu usatissimo aMilano sotto la denominazione di “marmo ba-stardo”. Lo Scamozzi ricorda che “il marmo Ba-stardo è di color biggio; come il Macigno; ma digrana viva, e durissimo... e di esso si servonoquasi universalmente per far base, e capitelli, &ornamenti di porte e finestre per la Città... la suacava è parimente sul Lago Maggiore, e dirim-petto a quelle del marmo del Duomo di Mila-no”40. Tipica era l’associazione di basi e capitellidi calcescisto con fusti di colonna di granito di

Baveno (ill.7).Un discorso a parte meritano i marmi e le

pietre più ricercate, impiegati nella costruzionedi strutture decorative, come gli altari. Qui sitrovavano le rare pietre d’importazione, tra cui ilmarmo bianco di Carrara, usato soprattutto pergli elementi figurativi. Questo materiale di mag-gior pregio veniva acquistato sulla piazza di Ge-nova; di lì veniva portato a Milano attraverso unitinerario che, dovendo valicare gli Appennini,comprendeva necessariamente un lungo trattostradale, con tutte le conseguenti difficoltà. Nelcaso di partite più consistenti, peraltro, il marmonon era disponibile nelle sostre genovesi, ma dilì si poteva ordinarlo dalla cava. Ovviamente lavicenda poteva essere lunga ed il costo finale delmateriale portato a Milano risultava assai alto,specialmente al confronto dei prezzi ai quali sipotevano avere gli analoghi, ma certo non al-trettanto belli, marmi bianchi provenienti dallemontagne lombarde.

Un allargamento del mercato, ed un conse-guente maggior impiego di pietre di provenien-za lontana, si sarebbe verificato nel corso delSeicento: si impiegheranno marmo rosso di Ve-rona e marmo di Carrara, alabastri, broccatellodi Spagna, pietra nera e gialla di Portovenere,rosso di Linguadoca...

Importante fu nell’architettura milanese l’o-pera dei Ferrari di Arzo, principali fornitori del-le pregiate pietre policrome cavate nei monti delloro paese, ma anche accreditati di qualche me-rito per la capacità di innovazione tecnologica:sul loro conto si registra una testimonianza diLelio Buzzi41: “Tutti i marmi mischi che sono inopera in Domo sono stati dati tutti dalli dettiDomenico e Giovanni Maria (Ferrari di Arzo), iquali hanno anco trovata l’inventione di segarlicon l’acqua”42. La macchia vecchia di Arzo è lapietra che, lucidata, imita le brecce dell’antichitànelle colonne e nei fregi del battistero del Duo-mo e in innumerevoli altari e balaustre.

6. Milano, S. Sebastiano: particolare del paramento in ceppo d’Adda del primo ordine. L’altezza dei giunti, evidenziatadalle stuccature del recentissimo restauro(1998), era prescritta dal capitolato.

7. Milano, S. Sebastiano: dettaglio del portale con la tipica associazione di pietre diverse: granito di Baveno per ilfusto della colonna, calcescisto di Ornavassoper il capitello, ceppo d’Adda per l’elementodi trabeazione.

8. Milano, S. Sebastiano: la ripresa dalponteggio evidenzia come, per un leggeroeccesso di altezza delle colonne, l’architravesi incassi nel muro senza appoggiare sul capitello della controlesena.

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È noto, ma i documenti milanesi danno l’oc-casione di rilevarlo e ribadirlo, che l’ultima fini-tura dei pezzi si eseguiva sui ponteggi. Questoper almeno due motivi. Pellegrino stesso avverteche “le pietre di marmo o d’altre pietre vive dacavo impediscono molto le fabriche, quando tut-te si vogliono lavorare for de l’opera, perché la-vorandole impedirà a altri lochi. Nel condure epore in opera molto si scantonano e si rompanocon dano della borsa e della bellezza della operae molto perdimento di tempo, che meglio sarà afar infender li giusti piani delle pietre e di soprae di sotto e della parte onde vano comesso unapresso a l’altra. Nel resto che apar de fuori si las-sino roze con tanta pietra che li venghi netti tut-ti li resalti e sporti delli ornati che si vol far,abondantemente tanto che basti, e por così a la-voro, e poi in opera lavorare tutto quello che apa-re de fuori: risalti, capiteli, base o tonde o quadre,cornize e qual si voglia cosa che resti atacato allamuraglia”43. D’altra parte non è facile, e gli scal-pellini lo sapevano bene, preparare a pie’ d’operapezzi perfettamente combacianti (ill. 8). Perciò ipezzi venivano predisposti di misura leggermen-te maggiore, per poi rifilarli in opera, come af-ferma lo stesso Michele Scala: “Io quando mettouna preda in opera et che la lavoro la lasso sem-pre uno poco più lunghetta della misura perchémolto meglio è che sia lunga, perché se ne puòtaliare via, che corta perché non si può slongarema bisogna farli taselli cosa che sta male, et se lipicapredi harano iudicio tutti farano a questomodo perché come la pietra in opera sendo agor-da se li leva quello poco et si comoda seconda lamisura benissimo et chi fa altrimenti non sano la-vorare”44. Questa prassi contribuisce a spiegare lediscrepanze tra liste di misure in opera e a pie’d’opera che si riscontrano nei documenti.

Altra questione cruciale nella realizzazione diun paramento lapideo è quella dell’aggrappaggiodei pezzi alla muraglia retrostante (ill. 2): è ovvioche un incastro troppo debole andrebbe a pre-giudizio della stabilità, mentre un incastro ecces-sivo comporterebbe uno spreco di materiale co-stoso. I costruttori erano anche perfettamentecoscienti degli effetti deleteri del peso dei rivesti-menti lapidei, in particolare delle facciate, sullastabilità delle fabbriche: il che suggeriva efficacicommessure in verticale, affinché i pezzi posasse-ro uno sull’altro, e non fossero semplicementeappesi come mensole alla muratura. I giunti poidovevano essere sottili per motivi estetici, mad’altra parte le pietre vive non dovevano essere acontatto tra loro in superficie, poiché ciò avreb-be potuto dar luogo a concentrazioni di sforzocon il pericolo di rotture locali non meno antie-stetiche e pregiudizievoli per la durata dell’opera.Si denuncia coscienza di questo problema in uncapitolato del 1582, probabilmente ispirato daPellegrino, per S. Sebastiano: “Avertendo ancho-

ra di non mettere in opera pietre de vivo che ser-ri le commissure in superficie di fuori, anci dettecommissure non serri ma solo il serramento siialla volta del mezzo del muro aciò il carico posinel mezzo et non nelle superficie”45. Ad un giun-to “invisibile”, cioè di altezza minima, era dun-que preferibile un giunto più alto, da stuccare, edunque visibile, ma sicuro.

Un altro importante aspetto della tecnica del-lo scalpellino è la scomposizione dei pezzi in par-ti separate, per razionalizzare la lavorazione ed ilmontaggio. Ad esempio nei capitolati per S. Fe-dele si prevede che i capitelli delle grandi colon-ne interne “possino essere di pezi 3 l’uno, per l’al-teza compiendo però ogni pezo tutta la circonfe-renza de la foglia et caulicoli”46; ma anche i capi-telli dell’ordine superiore esterno sono costituitidi due parti assemblate. Perfino il collarino dellacornice d’imposta esterna è suddiviso in una par-te liscia congiunta ad una parte elaborata che for-ma cavetto, listello e astragalo: in questo caso èevidente come si separasse la parte di più facileesecuzione da quella più difficile, così da poterleaffidare a maestranze di differenti abilità.

L’aspetto che i documenti meglio evidenzianoè quello del prezzo delle pietre e dei criteri di sti-ma. La questione offre diversi aspetti degni d’in-dagine: in primo luogo, sarà da distinguere il ca-so in cui la pietra è fornita dagli scalpellini, in talcaso “appaltatori”, da quello in cui gli scalpellinilavorano materia prima fornita da committenti: intal caso gli scalpellini sono semplici “imprendito-ri”. Poi sono significativi il metodo usato per mi-surare l’opera, ed i parametri di apprezzamento.

Nella Milano del Cinquecento non si pratica-va un solo metodo di misura per le pietre da ope-ra, e la determinazione del prezzo era riferita a di-versi parametri che nelle varie occasioni potevanoassumere pesi maggiori o minori. Inoltre il prez-zo di una pietra lavorata si componeva di più vo-ci: la materia prima, la lavorazione, il trasporto, idazi... Mentre per quanto riguarda le forniture digranito di Baveno Scala e soci figurano semprecome appaltatori, invece per la pietra d’Angera ri-sultano modalità diverse, cioè fasi in cui i gesuititrattano direttamente con i padroni delle cave peravere fornite navate di pietra grezza, e fasi in cuiagli scalpellini viene pagata sia la pietra che la“manifattura”: di conseguenza cambiano le mo-dalità dell’operazione di misura e stima.

In generale, dai documenti si può osservareche alcuni pezzi, quelli ben individuabili, veniva-no pagati a numero, ad un prezzo concordatopreventivamente o definito a posteriori dallo sti-matore: così le colonne, i piedestalli. Nel casoinvece di elementi seriali continui, in cui si po-tesse riconoscere una dimensione prevalentesulle altre, si pagava a quantità, mediante unamisura lineare. In altri casi i pezzi si pagavano apeso. Ad esempio a S. Fedele nel documento del

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22 dicembre 1581 i pezzi di sarizzo venivano sìdescritti attraverso le loro tre dimensioni massi-me, ma caratterizzati attraverso il loro peso,espresso in libbre e centenara47, e valutati ad unprezzo, di 30 soldi, riferito al centenaro: “per lipezi numero 4 ciave di sarizo: primo pezo brac-cia 2 oncie 10 longo, largo oncie 19, grosso on-cie 7 da centenara numero 22 libre 25 a soldi 30per centenaro...”. Questo criterio di stima è delresto ampiamente documentato in altri casi48.

In alcuni casi il prezzo delle opere si riferiscealla sola manifattura, essendo la pietra fornita dal-la committenza o pagata a parte; in altri casi si os-serva che il prezzo si compone di “preda” e di “fa-tura”. Questo significa che la fornitura della ma-teria prima era appaltata anch’essa agli scalpellini.

È anche importante notare che, ad esempio, ilrivestimento del fianco di S. Fedele non è tutto dipietra d’Angera, ma comprende anche parti, e se-gnatamente le semicolonne dell’ordine superio-re, in mattoni rivestiti da intonaco, probabilmen-te fin dall’origine un intonaco a finta pietra, se-condo un uso ampiamente attestato. Tuttavia sul-l’intonaco in ambiente milanese le ricerche ap-paiono particolarmente arretrate, sicché non èancora possibile darne conto in questa sede.

Qualche maggiore precisazione può esserefornita a proposito dell’uso dello stucco, la cui an-tica arte era stata riproposta dall’architettura rina-scimentale, in particolare, secondo Vasari, nellacerchia di Raffaello per merito di Giovanni daUdine49. Non si può certo affermare che si debbaa Pellegrino l’introduzione dello stucco nella Mi-lano cinquecentesca, ma non sembra fuori luogoricordare la fama che Pellegrino si era guadagna-ta come stuccatore grazie alle opere eseguite aBologna ed Ancona50, e l’ampio uso da lui fatto diquesta tecnica in opere milanesi quali lo scurolodel Duomo o la cupola di S. Ambrogio.

È interessante che i principali imprenditori diopere in stucco siano anche imprenditori di operein pietra: Antonio Abbondio fa gli stucchi in S.Ambrogio e gli Omenoni della casa di Leone Leo-ni, Bernardo Paranchino fa gli stucchi in S. Fede-le e innumerevoli imprese da scalpellino tra lostesso S. Fedele, il Duomo, la cappella Trivulzio...

L’impiego dello stucco riguarda sia la decora-zione architettonica realizzata attraverso gli ordiniche le figure antropomorfe o zoomorfe che ten-dono al tutto tondo. Pellegrino indica che la “stuc-catura” è anche un rivestimento superficiale: “...stuco, cioè calcina di marmo et, incontro di arena,marmor pisto. Con questo non solo si copron lemura, ma ancor le pietre vile e roze di natura, co-me tufi et altre simili (e) le pietre delicate”51.

Quanto alla composizione, nelle opere dimaggior corpo si nota la presenza della “polveredi matton pesto”, che ha funzione idraulicizzan-te per consentire alla massa del modellato di farperfettamente presa in tempi rapidi, così da con-

sentire l’applicazione del velo superficiale dimarmorino.

Il mercato del lavoroIl quadro tracciato si completa con una organiz-zazione del lavoro corrispondente a quella per-fettamente descritta da Luisa Giordano negli at-ti del convegno di Tours sul cantiere del Rinasci-mento52. Tuttavia, rispetto alla crescente impor-tanza delle opere in pietra o in stucco, un datostoriografico significativo è che nella Milano delsecondo Cinquecento si assiste alla conquista diquesto settore del mercato da parte di imprendi-tori provenienti dalla “regione dei laghi”: cam-pionesi, luganesi, intelvesi, viggiutesi...

In altre situazioni, le regole dei paratici degliscalpellini instaurarono delle vere e proprie poli-tiche protezionistiche, facendo pagare ai forestie-ri una soprattassa: è il caso di Brescia e di Rezza-to per fare un esempio, e analoghe restrizioni vi-gevano a Milano da parte dell’Università dei mu-ratori. Per l’arte degli scalpellini non esisteva aMilano un vero e proprio paratico, ma possiamoaffermare con ragionevole sicurezza che tale fun-zione era svolta dalla confraternita dei SantiQuattro Coronati, che raccoglieva gli scalpellinioperanti attorno al cantiere del Duomo.

Su questa istituzione un recente studio53 haevidenziato alcuni fatti rilevanti. All’inizio delCinquecento gli iscritti alla “Scola” sono lom-bardi, provenienti da svariate località. A fineCinquecento la confraternita non risulta più at-tiva, ma viene ricostituita nel 1622. A questopunto, e per tutto il Seicento, sarà del tutto ec-cezionale che uno scalpellino non provenga dal-la vicine montagne, parte delle quali, ricordia-mo, non apparteneva al Ducato. Soltanto nel1716 fu restaurato l’antico statuto che impone-va ai forestieri il pagamento di una tassa.

Gli scalpellini operanti in Milano al tempo diPellegrino erano comunque già prevalentementeoriginari dei dintorni del Lago di Lugano, e vi-vevano in città nella condizione tipica degli im-migrati, lontani dalla famiglia, benché il loropaese distasse in realtà non più di tre giorni dicammino. Ad esempio “Jeronimo Quadrio scar-pelino d’anni 32”, da identificare proprio col bra-vo intagliatore operoso a S. Fedele, risulta abita-re nel 1574 come “pisonante” (affittuario) in unacasa nelle vicinanze del Castello, insieme con al-tri sette conterranei e colleghi d’arte, tra i quali ilgiovanissimo Fulgenzio Muttoni, che diverrà“famulo” di Pellegrino negli anni a venire54.

Ancora non disponiamo di ricerche miratesulle cause e le conseguenze di questa nuova si-tuazione del mercato. Possiamo ben immagina-re che i magistri dei laghi abbiano messo incampo sia la loro competenza tecnica e intra-prendenza, che la loro capacità di organizzarsieconomicamente e sorreggersi mutuamente at-

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traverso gli inestricabili grovigli delle fideius-sioni. L’evento scatenante sembra poi essere sta-ta la riforma imposta da Pellegrino alla Cassinadel Duomo, dove fu quasi del tutto abolito il pa-gamento a giornata, pagando invece a incanto ea stima, così da innescare una competizione tragli scalpellini che mise fuori gioco i meno abilie i meno solidi economicamente. Anche tra gliscalpellini vale quanto è stato osservato in gene-rale a proposito dei lavoratori dell’edilizia; ecioè che “nella dinamica storica si produsse, difatto, una gerarchia sociale che vedeva maestrimuratori economicamente forti e quindi in gra-do di assumere il ruolo di imprenditori, accantoa maestri egualmente qualificati dal punto di vi-sta professionale, ma economicamente deboli equindi destinati a prestare lavoro come manod’opera salariata”55. I maestri che compaiononegli atti notarili, dunque, appartengono allaprima di queste categorie. Ma alle loro dipen-denze operavano, oltre agli apprendisti che an-cora non si potevano fregiare del titolo di “ma-gister”, molti altri scalpellini dei quali soltantoper vie traverse e un po’ casuali ci è stato tra-mandato il nome, in qualche caso accompagna-to da brevi note che ne lasciano intravedere lacollocazione sociale e la sostanza umana.

Per capire quel che accadde a Milano biso-gnerà forse verificare qui i modelli interpretati-vi con cui è stato spiegato, ad esempio, il suc-cesso dei costruttori ticinesi nella Roma baroc-ca, da Domenico Fontana a Carlo Fontana56.Non sembra però che a Milano succeda tra i co-struttori quel che si verifica per i lapicidi e stuc-catori, anche se qualche famiglia di costruttori“svizzeri”, almeno d’origine, avrebbe assuntoun ruolo determinante nel primo Seicento. Lefabbriche pellegriniane sono appannaggio di ungruppo abbastanza ristretto di capimastri: iCiocca, i Piantanida, i Cucchi, i Motella...

Come è noto nel secondo Cinquecento Mila-no si dotò di un paratico dei muratori e di unCollegio degli ingegneri-architetti, entrambiconnotati da norme fortemente protezionistichee da un chiaro sistema di regole deontologicheche doveva garantire la distinzione tra appaltato-re e ingegnere-architetto, quello al quale nonconverrebbe “prendere le fabbriche sopra di sé”.

Ciò non impediva la presenza di muratoriforestieri, eventualmente in qualità di salariati.Troviamo ad esempio un Cantoni, forse di pas-saggio da Genova, a S. Maria della Passione, eun personaggio come il valsoldese DomenicoMariano q. Francesco di Puria, che aveva fre-quentato Pellegrino “in Bologna, in Ancona, inPavia et qua a Milano”, dove poteva dire di es-sere “stato quello che ha murato tutte due leporte laterale del Domo, la volta della capelladel Arcivescovato, la porta della Canonica versoil Domo et solo dello scurolo fatto di cotto”, per

poi trasferirsi a Vigevano lavorando per la regiaCamera”57. Evidentemente il Mariano era unacreatura di Pellegrino, il quale si inserì su unambiente consolidato, ma portando certamentealcuni compaesani al seguito: va ricordata anchel’apparizione del fratello di Pellegrino al cantie-re della Canonica degli Ordinari, apparizionefugace, forse, proprio perché era ai limiti delladeontologia che Pellegrino progettasse e il fra-tello prendesse in appalto le opere.

La figura dell’ingegnere collegiato milanese,la posizione privilegiata di Pellegrino, le affer-mazioni albertiane raccolte nel suo Trattato, ilsuo modo di mettere in pratica il “primato deldisegno” sono argomenti già trattati in un’am-pia e spesso ottima letteratura. Vorrei quindi in-sistere soltanto sull’aspetto che mi sembra an-cora da chiarire, che è quello dei rapporti eco-nomici reali che si instauravano tra queste variecategorie cooperanti nel settore dell’edilizia.

Pellegrino si era posto in pochi anni al centrodella produzione edilizia milanese, dal momentoche praticamente tutti i progetti di una certa im-portanza passavano per le sue mani; il processodel 1582/85, se portò ad un verdetto di assolu-zione, fece comunque chiaramente emergere lerelazioni di solidarietà che si erano create tra l’ar-chitetto ed alcuni artigiani ed impresari. Potrem-mo anche affermare, con buona probabilità, chegli operatori vicini a Pellegrino erano i più qua-lificati, quelli in grado di gestire i cantieri mag-giori e di realizzare le opere più raffinate.

Tuttavia esisteva certamente una più vastarete di relazioni e di scambi, che costituiva il ve-ro tessuto connettivo dell’attività edilizia mila-nese. Era frequentissima la costituzione di so-cietà, in cui il ruolo di un socio poteva essereanche limitato alla fornitura di materiali, o allasua capacità di garantire facilitazioni di qualsi-voglia genere; d’altra parte le varie clausolecontrattuali degli appalti per cui era necessariala figura di un fideiussore finiva per dar luogoad una sequenza infinita e intricata di relazionieconomiche tra gli operatori. Ma i rapporti po-tevano anche essere di natura più semplice: ilprestito di attrezzi, il noleggio di macchine, lacessione di materiali. Qual era il ruolo degli in-gegneri, e di un Pellegrino, in queste iniziativeeconomiche? Il pagamento degli ingegneri av-veniva soltanto in proporzione al valore dell’o-pera disegnata o stimata, o vi erano regole nonscritte sui donativi? Quale assetto aveva assuntoil mercato immobiliare58, e chi ne muoveva le fi-la? Queste, per quanto ne so, sono domande an-cora senza risposta, alle quali forse non si trove-ranno mai risposte esplicite. Credo però chesarà utile tenerne conto per una più profondacomprensione degli aspetti organizzativi che so-stanziarono il contesto dell’architettura milane-se del secondo Cinquecento.

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1. A. Cassi Ramelli, Vita e rinascita del Pa-lazzo Spinola a Milano, in Idee, progetti,realizzazioni per Milano. Studi in onore diCesare Chiodi, Milano 1957, p. 193.

2. Riportato in Martino Bassi, Dispareriin materia d’architettura et perspettiva,Brescia 1572, p. 46.

3. Trascritto in G. Rocco, Pellegrino Pelle-grini. “L’architetto di S. Carlo” e le sue operenel Duomo di Milano, Milano 1939, p. 45.

4. Un precedente romano di questoespediente adottato da Pellegrino puòessere indicato nella loggia di Villa Lan-te: cfr. P.N. Pagliara, Le tecniche di costru-zione nel XVI secolo, in Il Palazzo dei Con-servatori e il Palazzo Nuovo in Campido-glio. Momenti di un grande restauro a Ro-ma, Pisa 1997, p. 62.

5. G. Rocchi, Di alcune architetture attri-buite a Pellegrino Tibaldi: valutazione, in“Arte lombarda”, 94/95, 1990, p. 46.

6. G. Lupo, “Gli abiti de le architetture an-tiche non si confanno ai dossi de le moderne”:il crollo della volta della Libreria Marcianadi Jacopo Sansovino, in S. Della Torre (acura di), Storia delle tecniche murarie e tu-tela del costruito. Esperienze e questioni dimetodo, Milano 1996, pp. 31-51.

7. M. Giuliani, Nuovi documenti per la bio-grafia e la formazione culturale di Pellegri-no Pellegrini, in “Studia Borromaica”, 11,1997, pp. 47-69, in particolare pp. 56-58.

8. Biblioteca Ambrosiana di Milano, S130 Sup., c. 243.

9. Vedi Milano ritrovata. La Via Sacra daSan Lorenzo al Duomo, a cura di M.L.Gatti Perer, Milano 1991, pp. 85-140.

10. Archivio della Curia Arcivescovile diMilano (d’ora in poi ACAM), X, Metro-politana, vol. 60 q. 8.

11. ACAM, X, Metropolitana, vol. 63, c.108; la calce era salita a 25-26 soldi ilcentenaro.

12. L. Casolo Ginelli, Indagini mensiocro-nologiche in area milanese, in “Archeologiadell’architettura”, III, 1998, pp. 53-60.

13. Cfr. S. Della Torre, R. Schofield,Pellegrino Tibaldi architetto e il S. Fedeledi Milano. Invenzione e costruzione di unachiesa esemplare, Como 1994 (d’ora inpoi Della Torre-Schofield), p. 205 e p.354. La definizione della copertura allaromana è offerta, tra gli altri, dallo Sca-mozzi: “Hoggidì gli edifici di Roma, ela d’intorno, quasi comunemente sicuoprono di tegole piane alla Romana,e di sopra gli orli d’alcuni coppi ristret-ti, e gl’uni e gl’altri di terra cotta, mes-si in malte”: Vincenzo Scamozzi, L’ideadell’architettura universale, Venezia1615, p. 353.

14. Pellegrino Pellegrini, L’architettura, acura di G. Panizza e A. Buratti Mazzotta,Milano 1990, p. 114.

15. Per la produzione e il commerciodella calce del Verbano cfr. Fornaci da cal-ce in Provincia di Varese. Storia, conserva-zione e recupero, atti del convegno (Ispra28 ottobre 1995), Varese 1995.

16. ACAM, X, Metropolitana, vol. 63, c.108.

17. Contratto del 1573 relativo alle nava-te di S. Maria della Passione: cfr. C. Ba-roni, Documenti per la storia dell’architet-tura a Milano nel Rinascimento e nel Baroc-co, vol. II, Roma 1968, p. 70, doc. 468.

18. Roccia ignea intrusiva (diorite quar-zifera), di aspetto simile al granito, di co-lore grigio scuro e grana uniforme. Dif-ficilmente lavorabile, era però molto im-piegata sia per le sue caratteristiche mec-caniche che per l’ampia disponibilità informa di massi erratici diffusi in tuttal’alta pianura lombarda. Il termine desi-gnava anche il ghiandone (granodiorite)e talvolta il granito stesso, nonché i varitipi di gneiss originati per metamorfismodi tali rocce, a loro volta ampiamente di-sponibili in forma di massi erratici.

19. Archivio di Stato di Milano (d’ora inpoi ASMi), Notarile, 14348, rog. 1568marzo 26 relativo alla fabbrica della chie-sa di S.Vittore di Milano.

20. Pellegrini, L’architettura, cit. [cfr. no-ta 14], pp. 311-312.

21. Sull’argomento cfr. S. Della Torre,Alcune osservazioni sull’uso di elementi li-gnei in edifici lombardi dei secoli XVI-XVII,in Il modo di costruire. Atti del I Seminariointernazionale, Roma 1990, pp. 135-145.

22. Sullo sfruttamento, fino a tempi re-centi, di questa pietra cfr. G. Margarini,C.A. Pisoni, Il granito di Baveno. Un pio-niere: Nicola Della Casa, Verbania 1995.

23. Sull’argomento segnalo tre atti del1617 che illuminano la fase iniziale dellarealizzazione della prima colonna, tuttiin ASMi, Notarile, 25902, notaio Cri-stoforo Sola: il 1° marzo la V. Fabbricadel Duomo stipula convenzioni con laComunità di Baveno; il 21 marzo con gliscalpellini Antonio Rossone e AntonioFerrari detto il Balerna; il giorno seguen-te questi ultimi si associano con AntonioAdamo di Baveno.

24. Michele Scala si era impegnato a for-nire sei colonne di miarolo anche per unPalazzo Annoni (Della Torre-Schofield,Pellegrino..., cit. [cfr. nota 3] p. 220).

25. ASMi, Notarile, 17975, rog. 1578aprile 17 e ottobre 13 di Gio. Paolo Ai-cardi; ASMi, Notarile, 17978, rog. 1581marzo 18 di Gio. Paolo Aicardi. Cfr. an-che B. Adorni, L’architettura farnesiana aPiacenza 1545-1600, Parma 1982, pp.371-408.

26. Cfr. P. Ghinzoni, La Colonna di PortaVittoria a Milano, in “Archivio StoricoLombardo”, a. XIV, 1887, pp. 90-94; se-condo il Latuada la colonna fu disegnata daPellegrino, ma secondo i documenti il col-laudo era affidato a Giovan Battista Lonati.

27. C. Baroni, Il Collegio Borromeo, in“Bollettino della Società Pavese di StoriaPatria”, 1, 1937-38, pp. 85-87: cfr. ASMi,Notarile, 14403, rog. 1581 luglio 11 diGio. Pietro Scotti. ASMi, Notarile,17978, rog. 1581 luglio 24 e 1581 agosto10, che rimanda ad un rog. del settembre1580 del notaio di Pavia Gio. GiacomoMedici della Stradella; ASMi, Notarile,

14807, rog. 1583 luglio 11 di Gio. Gia-como Crivelli.

28. Interessante nel discorso del Borro-meo l’accenno al rischio che l’uso dei cu-nei anche per sollevare la colonna indu-cesse, nel caso che la frequenza delle on-de elastiche indotte dalla battitura deicunei si trovasse a coincidere con la fre-quenza propria del banco di roccia, il fe-nomeno della risonanza (“strambo”) conla conseguente rottura della colonna pri-ma ancora che fosse sbozzata: cfr. F. Bor-romeo, Le colonne per la facciata del Duo-mo, Milano 1986, p. 30.

29. L. Bisi, Il sistema dei navigli a Milano,in “Quaderni del Dipartimento di Pro-gettazione dell’architettura”, 6, 1987, pp.86-96.

30. Della Torre-Schofield, Pellegrino..., cit.[cfr. nota 3], pp. 213-214 e fonti ivi citate.

31. Nei documenti milanesi dei secc.XVI-XVII si usano per la martellinaturai sinonimi “battere” e “frapare”: cfr. S.Della Torre, I. Giustina, Documenti nota-rili per la storia del cantiere seicentesco, in LaCa’ Granda di Milano. L’intervento conser-vativo sul cortile richiniano, Milano 1993,p. 114.

32. Cfr. G. Alessandrini, Le pietre del mo-numento, in La Ca’ Granda..., cit. [cfr. no-ta 31], pp. 173-205.

33. Cfr. Della Torre-Schofield, Pellegri-no..., cit. [cfr. nota 3], pp. 208-209.

34. Baroni, Documenti.., cit. [cfr. nota17], vol. II, p. 162.

35. Baroni, Documenti.., cit. [cfr. nota17], vol. II, p. 337.

36. G. Alessandrini, R. Bugini, R. Peruz-zi, Palazzo dei Giureconsulti in Milano. Imateriali lapidei, il degrado, la conservazio-ne, in “TeMa”, 4, 1993, pp. 22-24.

37. Per le caratteristiche litologiche cfr.ibidem, p. 24.

38. Baroni, Documenti.., cit. [cfr. nota17], vol. II, p. 330.

39. Baroni, Il Collegio Borromeo..., cit. [cfr.nota 27], p. 49.

40. Scamozzi, L’idea dell’architettura...,cit. [cfr. nota 13], p. II, pp. 188-189.

41. ACAM, X, Metropolitana, vol. 69, c. 119.

42. Sull’uso di seghe per marmi in Lom-bardia cfr. Pellegrini, L’architettura, cit.[cfr. nota 14], p. 187. I Ferrari ebberoanche in gestione la cava di marmobianco di Mergozzo dove apprestaronola via per condurre i marmi “al bassodov’è la sega”: ACAM, X, Metropolitana,vol. 60, q. 8.

43. Pellegrini, L’architettura cit. [cfr. nota14], p. 418; cfr. anche p. 189.

44. ACAM, X, Metropolitana, vol. 63, c.140. Si noti la differenza tra questa ri-sposta dello Scala e quella che ad unaanaloga domanda aveva dato Pellegrinonel 1574: “Io non faccio lavorare corni-ce né altra cosa più longa di quello che fa

bisogno per scurtarle, anzi non si fa co-sa, se prima oltra al disegno picciolo etmodelli, non si segni in grande come l’o-pera va o sopra li muri o sopra li pavi-menti, dalle quali linie il capo maestroregola et cava le soe misure et sagome; sìche errandosi in trasportare le misuresopra li sassi, sarebbe difetto del capomaestro...” (Rocco, Pellegrino Pellegri-ni..., cit. [cfr. nota 3], p. 47).

45. ASMi, Notarile 16466, rog. 1582maggio 21 di Marcantonio Torriani.

46. Della Torre-Schofield, Pellegrino...,cit. [cfr. nota 3], p. 338.

47. Il centenaro corrisponde a cento lib-bre grosse, e ciascuna libbra grossa mila-nese valeva Kg 0.7625.

48. Si veda ad esempio il celebre docu-mento relativo al sepolcro di GiovanGiacomo Trivulzio, in Baroni, Documen-ti..., cit. [cfr. nota 17], vol. II, pp. 136-137.

49. L. Scolari, La finitura delle opere instucco: per una ricerca tra fonti documenta-rie e manufatti, in Scienza e beni culturali.Manutenzione e conservazione del costruitofra tradizione e innovazione, Padova 1986,pp. 197-205. Interessanti, anche se rife-rite a tempi più recenti, le notazioni tec-nico-linguistiche raccolte in C. Patoc-chi, F. Pusterla, Cultura e linguaggio dellaValle Intelvi, Senna Comasco 1983, pp.183 sgg.

50. Ad esempio nuove informazioni suilavori in Ancona sono fornite in J.Alexander, Documentation of the Loggia deiMercanti in Ancona, 1556-1564, in “Stu-dia Borromaica”, 11, 1997, pp. 193-238.

51. Pellegrini, L’architettura cit. [cfr. nota14], p. 178.

52. L. Giordano, I maestri muratori lom-bardi. Lavoro e remunerazione, in LesChantiers de la Renaissance, Actes du Collo-que tenu à Tours en 1983-84, ed. J. Guil-laume, Paris 1991.

53. O.L. Fossi, La Scuola dei Santi Quat-tro Coronati nel Seicento. Una fonte per lastoria del lavoro nell’architettura milanese,tesi di laurea, Politecnico di Milano, Fac.di Architettura, rel. prof. L. Patetta, cor-rel. prof. S. Della Torre, a.a. 1995/96.

54. ACAM, X, Milano, S.Fedele, vol. 47,Stato delle anime della Parrocchia di S.Protaso in Campo l’anno 1574.

55. Giordano, I maestri muratori lombar-di..., cit. [cfr. nota 52], p. 166.

56. Cfr. in particolare L. Spezzaferro,Dalla macchinazione alla macchina, in G.Curcio, L. Spezzaferro, Fabbriche e archi-tetti ticinesi nella Roma barocca, Milano1989.

57. ACAM, Sez. X, Milano città, Metropo-litana, vol. 63.

58. Per il periodo precedente vedi E. Sai-ta, Case e mercato immobiliare a Milano inetà Visconteo-Sforzesca (secoli XIV-XV),Milano 1997.