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In partenza per le sue “lezioni veneziane”, il premio Nobel della letteratura parla dell’amore per i nostri autori Pamu k la stanza italiana DOMENICA 3 MAGGIO 2009 D omenica La di Repubblica spettacoli Audrey Hepburn eterna “fair lady” NATALIA ASPESI, LUCA DOTTI e SEAN H. FERRER l’incontro Cattelan, l’artista che non usa le mani IRENE MARIA SCALISE i sapori I profeti spagnoli della grande cucina QUIQUE DACOSTA e LICIA GRANELLO H o letto per la prima volta un libro di Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore, quando avevo vent’anni, nel 1973. Non è un Calvino molto fa- moso, forse allora è stato tradotto in turco in quan- to si trattava di un’opera politica. In ciò che racconta questo libro, cioè il rapporto fra religione e politica, è facile trovare delle simi- litudini con la Turchia di oggi. Ma a impressionarmi di più a quel tempo era l’approccio sere- no e la leggerezza usata dall’autore nell’affrontare un argomen- to politico, di per sé pesante. Per me il lato più brillante di Calvi- no, nei momenti di grande drammaticità, in cui sembrava non entrarci nulla, era per l’appunto quello di riuscire a tenere sem- pre vivo il senso dello humour e a vedere la leggerezza delle cose. (segue nelle pagine successive) ORHAN PAMUK ISTANBUL « I o sono fatto di libri». Orhan Pamuk volta per un momento le spalle agli scaffali di casa, colmi di vo- lumi, e guarda assorto le grandi finestre alte sulla strada. Sotto, la macchina della polizia con la scor- ta fa buona guardia al palazzo. L’elegante ritrovo “Caffè nero” ser- ve i clienti in veranda portando ai tavoli una profumata miscela italiana. Un gruppo di turisti giapponesi con i libri del premio No- bel in pugno alza eccitato lo sguardo verso un punto indefinito attorno all’ultimo piano. Pamuk apartmani, Palazzo Pamuk, è scritto sulla porta del caseggiato a Nishàntashi, zona bene della metropoli sul Bosforo che i lettori di tutto il mondo dello scritto- re turco conoscono da Istanbul, il libro premiato dall’Accademia di Svezia con il massimo riconoscimento internazionale. (segue nelle pagine successive) MARCO ANSALDO FOTO DI SEDAT MEHDER l’immagine L’album dimenticato di Depero ENRICO REGAZZONI cultura Enrico Mattei, l’italiano pericoloso FILIPPO CECCARELLI Repubblica Nazionale

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In partenzaper le sue “lezioniveneziane”,il premio Nobeldella letteraturaparla dell’amoreper i nostri autori

Pamukla stanza italiana

DOMENICA 3MAGGIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Audrey Hepburn eterna “fair lady”NATALIA ASPESI, LUCA DOTTI e SEAN H. FERRER

l’incontro

Cattelan, l’artista che non usa le maniIRENE MARIA SCALISE

i sapori

I profeti spagnoli della grande cucinaQUIQUE DACOSTA e LICIA GRANELLO

Ho letto per la prima volta un libro di Italo Calvino,La giornata d’uno scrutatore, quando avevovent’anni, nel 1973. Non è un Calvino molto fa-moso, forse allora è stato tradotto in turco in quan-

to si trattava di un’opera politica. In ciò che racconta questo libro,cioè il rapporto fra religione e politica, è facile trovare delle simi-litudini con la Turchia di oggi.

Ma a impressionarmi di più a quel tempo era l’approccio sere-no e la leggerezza usata dall’autore nell’affrontare un argomen-to politico, di per sé pesante. Per me il lato più brillante di Calvi-no, nei momenti di grande drammaticità, in cui sembrava nonentrarci nulla, era per l’appunto quello di riuscire a tenere sem-pre vivo il senso dello humour e a vedere la leggerezza delle cose.

(segue nelle pagine successive)

ORHAN PAMUK

ISTANBUL

«Io sono fatto di libri». Orhan Pamuk volta per unmomento le spalle agli scaffali di casa, colmi di vo-lumi, e guarda assorto le grandi finestre alte sullastrada. Sotto, la macchina della polizia con la scor-

ta fa buona guardia al palazzo. L’elegante ritrovo “Caffè nero” ser-ve i clienti in veranda portando ai tavoli una profumata miscelaitaliana. Un gruppo di turisti giapponesi con i libri del premio No-bel in pugno alza eccitato lo sguardo verso un punto indefinitoattorno all’ultimo piano. Pamuk apartmani, Palazzo Pamuk, èscritto sulla porta del caseggiato a Nishàntashi, zona bene dellametropoli sul Bosforo che i lettori di tutto il mondo dello scritto-re turco conoscono da Istanbul, il libro premiato dall’Accademiadi Svezia con il massimo riconoscimento internazionale.

(segue nelle pagine successive)

MARCO ANSALDO

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l’immagine

L’album dimenticato di DeperoENRICO REGAZZONI

cultura

Enrico Mattei, l’italiano pericolosoFILIPPO CECCARELLI

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

D entro, al quinto piano, cui siaccede prima con un piccoloascensore poi salendo l’ulti-ma rampa a piedi, la stanza del

Nobel è enorme e spoglia. Il televisore giace aterra, i fili scollegati, come uno strumentonon in uso. Niente telefono, niente computer.Solo un silenzio compresso, appena risve-gliato dal traffico lento del sabato mattina.«Ora non abito più qui», dice Pamuk, con in-dosso un comodo maglione color ruggine,«ma ci vengo spesso perché solo in questo po-sto nessuno può distrarmi mentre lavoro.Tanti anni fa, in questa stanza, quando eroancora sposato, ho scritto Il libro nero. E quil’anno scorso ho terminato Il museo dell’in-nocenza». L’ultima opera in ordine di tempo,che Einaudi si prepara a pubblicare in Italia ilprossimo autunno.

Al centro, un poco spostata di lato, c’è la suascrivania. Grande, lunga, davanti a una sediaconfortevole. Sopra, risme di carta bianca,

due portapenne pieni di matite, svariatepaia di forbici, blocchetti di post-it gialli,tazze di tè ormai freddo, due colonne di li-bri tra cui spiccano Thomas Mann e LevTolstoj, appunti sparsi. Ma a colpire, nelvuoto totale di mobili e suppellettili sul

parquet in teak dove due poltrone candideservono solo per appoggiare i volumi più gros-si, sono le pareti, rinfrescate di bianco: un sus-seguirsi di scaffali che si rincorrono per l’inte-ro soggiorno, si arrampicano sul grande sop-palco della sala, si allungano sui muri lateralisopra strutture che un sapiente architetto hacostruito nel vuoto, raggiungibili attraversoun agile camminamento. Solo legno e ferro. Elibri. Tanti. «Sedicimila», chiosa Pamuk, «nonpoi tantissimi. Li ho divisi fra qui e l’altro miostudio, a Cihangir», la zona vicina a piazzaTaksim, il centro di Istanbul.

Il Nobel per la letteratura è alla vigilia del suoviaggio in Italia. «Le mie sei belle settimane»,le definisce, contento della prospettiva di pas-sare un congruo periodo di tempo tra Firenze,Torino (al Salone del libro), Milano e soprat-tutto Venezia dove, presente alla manifesta-zione Incroci di civiltà con Salman Rushdie,Javier Marías e Kiran Desai, trascorrerà un

DOMENICA 3MAGGIO 200928 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

mese fra maggio e giugno insegnando all’uni-versità, guardandosi intorno, e scrivendo.

Pamuk torna a guardare i libri sul muro. Sa-le rapido su una scala che da una camera vuo-ta porta al soppalco che fa da sesto piano e di-ce: «Ecco la mia libreria italiana». È un’interabiblioteca composta da qualche migliaio divolumi di autori tradotti in turco o in inglese,molti in edizioni degli anni Settanta e Ottanta,altri decisamente più recenti. C’è molto ordi-ne, niente è lasciato al caso, non esiste una di-sposizione alfabetica, ma ogni scrittore è benimpilato al suo posto. «Posso trovare tutto fa-cilmente», spiega il padrone di casa, «so esat-tamente dov’è un libro nel momento in cui hobisogno di consultarlo». La libreria è in faggio,legno solido ed elastico allo stesso tempo, ca-pace di adattarsi ai pesi e alle compressioni.Ogni scaffale è protetto da una vetrina legge-ra, che si apre a scatto. «In questa zona dellacittà è necessaria», aggiunge Pamuk, «perchécostruiscono continuamente case e nell’ariagira molta polvere».

Fa segno con il dito di seguirlo nelle stanzeinterne, verso la parte opposta dell’apparta-mento. Oltrepassiamo una grande cucina, unbagno anonimo, la sua camera da letto(«avanti, avanti, non mi vergogno») dove spic-

ca una trapunta gialla. I libri più amati sono sulcomodino, Mann, Dostojevski, un volumesulla pittura cinese («mi serve per il romanzoche sto scrivendo»). Il terrazzo si affaccia su ungiardino vastissimo. «Qui giocavo da bambi-no a pallone, correvo e mi nascondevo», diceguardando in basso e indicando gli alberi checonosce uno per uno, «poi salivo da mia non-na, facevo merenda e andavo a curiosare neigiornali ingialliti pieni di notizie sportive chestavano nell’appartamento di sopra. Ma oggi— e indica verso sinistra, dove fino a poco tem-po fa si scorgevano lo stretto del Bosforo e i mi-nareti di Santa Sofia, e adesso si erge un colos-sale muro grigio con gli operai appesi sopra —ci hanno chiuso completamente la vista».

Torniamo sul soppalco, e l’umore si rasse-rena scorrendo i titoli degli autori italiani pre-feriti. Tira fuori subito due testi che gli regalòsuo padre, al quale com’è noto ha dedicato laprolusione del Nobel poi diventata un agile eintenso libretto, La valigia di mio padre. Sonouno di Giuseppe Berto, Il male oscuro(«so chein Italia oggi è quasi dimenticato»), e l’altro diCesare Pavese («Il mestiere di vivereme lo die-de il mio padre romantico», aggiunge con no-stalgia). Sorride e si vuol far fotografare con inmano un vecchio libro di Guareschi («un au-

tore che ho letto tanto da ragazzo») intitolatoin turco La libertà di stampa. A mezza altezzac’è molto Calvino. «Gli devo tantissimo, è unodei miei prediletti». Parlarne non basta, vuolescrivere qualcosa sul suo autore italiano pre-ferito. Estrae una vecchia edizione de La gior-nata di uno scrutatore, la porta al piano di sot-to, si siede alla scrivania. Dieci minuti in silen-zio, la testa un po’ piegata, le labbra concen-trate sul fluire della penna. Si alza soddisfatto,con la pagina fresca in mano. La rilegge ad al-ta voce: «È venuta abbastanza bene, direi. E so-no diventato veloce».

Esaminiamo gli scaffali inferiori. Un ripia-no intero per Leonardo Sciascia («molto effi-cace anche negli scritti politici»), un altro perUmberto Eco («anche lui, come me, ha fattogrande uso di metafore e di strumenti allego-rici»). C’è il Pinocchiodi Collodi e L’Isola di Ar-turo della Morante, ci sono alcuni libri di Pie-tro Citati e uno di Alessandro Baricco. Più in al-to il Decameron di Boccaccio e La vita nova diDante, «naturalmente la mia fonte di ispira-zione quando ho scritto La nuova vita, la cuiprotagonista Canan è come Beatrice». Ci im-battiamo in alcuni volumi di Roberto Calasso.Pamuk si ritrae come spaventato: «Troppo so-

MARCO ANSALDO

ALLA SCRIVANIAIn alto al centro, uno scaffale della bibliotecadi Orhan Pamuk. Ai lati, la sua scrivania;qui accanto, una pila di libri. Nella paginadi destra, l’autografo del testo per Repubblicache pubblichiamo in queste paginee, qui sopra, il premio Nobel mentre lo scrive

La stanza di PamukL’amatissimo Calvino della “Giornata di uno scrutatore”,ma anche Pavese e Berto, regalati dal padre, e Svevo, Gadda,Sciascia, Moravia, Eco, Camilleri... A Istanbul, tra i sedicimilavolumi della sua biblioteca tenuta in grande ordine,il premio Nobel ha le opere di molti nostri scrittoriE spiega l’importanza che hanno avuto nella sua formazione

la copertina

“Io sono un uomofatto di libri”

Repubblica Nazionale

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Primo Levi, Pier Paolo Pasolini. Piccole sezioni sono dedicate ai

pittori: la tecnica di Vasari, i coloridi Morandi. Fino all’età di ventunoanni Pamuk era infatti in bilico tra lacarriera di pittore e quella di scritto-re. La passione per l’arte gli è semprerimasta, come dimostrano i titoli diquasi tutti i suoi romanzi, ispirati aicolori. Centinaia sono ad esempio ivolumi di incisioni e di fotografie con-sultati, sottolineati e fermati con i fo-glietti gialli per la redazione de Il mio no-me è Rosso.

Questa è solo la libreria italiana di Pa-muk. Mentre il Nobel in silenzio scrive-va, abbiamo scorso il resto della bibliote-ca. A fianco c’è tutta la parte dedicata agliscrittori anglo-americani. Sulla zona pen-sile si erge quella tedesca e dell’Est Europa.Più avanti, la letteratura russa. Sotto, spa-gnoli e portoghesi. Grande spazio ai france-si. Una lunga fila è dedicata al Giappone,un’altra alla Cina, poi l’India dove lo scritto-re ha appena trascorso un mese a pro-gettare il nuovo lavoro. Sterminata, ov-viamente, la produzione turca. Agli au-tori prediletti ha riservato colonne inte-re: Dostojevski, Mann, Flaubert, Tolstoj,Nabokov, Kafka. Proust ha per sé una se-zione speciale.

Scopriamo che Pamuk ha preso unaserie di appunti, mezzi in turco, mezzi ininglese, prima di incontrarci, per ferma-re il suo pensiero. Un foglio bianco sul ta-volo lo rivela. Ecco che cosa c’è scritto:«Dante, Pirandello, Vasari (sottoli-neato due volte), Gadda linguaggiobarocco, dettagli forti. D’Annunzio lastravaganza. Moravia macho. La leg-gerezza di Calvino. Lo humour italia-no: Svevo, la sua ironia si basa sul sen-timento di inferiorità del maschio.Guareschi, i film di Totò, Camilleri.Mario Praz. Claudio Magris. Citati.Eco. Tabucchi».

Pamuk, ma lei quando legge? «Ioho avuto due periodi da lettore. Holetto tutto fra i sedici e i trentacinqueanni. Per me, turco, Paese di grandi tra-dizioni letterarie ma non di primissimafila come gli altri, era importante sapereche cosa fosse stato pubblicato altrovee in Occidente. Mi sono nutrito di lette-ratura. Ecco perché sono fatto di libri.Poi mi sono messo a scrivere, senzaperdere di vista i miei punti di riferi-mento: la mia città, la mia origine, gliautori più amati, turchi e stranieri. Co-sì mi sono costruito. A leggere sonotornato solo di recente. Ma confesso difarlo più che altro per aspetti tecnici,perché devo comporre una pagina, oscrivere un articolo, un saggio, una le-zione. Leggo biografie. Ecco il miogrande dilemma. Oggi i libri non micambiano più. La lettura per me haperso la spiritualità, la sua grandio-sità, perché il mio spirito è ormai formato. Lamia anima è piena. Ed è quello che dico a miafiglia Ruya, quasi ventenne: devi leggere inquesto periodo della tua vita. Per formarti lospirito. Ti rimarrà per sempre».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 3MAGGIO 2009

fisticato, pure per me», scherza ridendo, «hopaura!». Molti Moravia: «Tutti i primi, quellipiù belli. Gli indifferenti, il suo capolavoro.Non gli ultimi, quelli semi-porno». C’è Camil-leri: «So che i suoi gialli sul commissario han-no grande successo in tv. Lui, lo scrittore, mi ri-corda Totò».

Prende un Gadda, Quer pasticciaccio brut-to de via Merulanain inglese. Si sistema in pol-trona, accanto a un grande quadro di Ataturkancora da appendere. Ne analizza il pastichelinguistico. Esamina una biografia delloscrittore alta quasi mezzo metro, piena difotografie. «Ho sempre ammirato CarloEmilio Gadda. Era un ingegnere, e anche lamia era una famiglia di ingegneri. No, nonsapevo del suo studio su come redigere te-sti per la radio, ma conoscendolo non mistupisce. Ecco, questa edizione di Meru-lana è del 1984 e c’è un’introduzione diCalvino poco prima che morisse. Qui luisostiene che Gadda intendeva scriverenon solo un giallo, ma un romanzo filo-sofico. E dunque quel libro andava in-teso non tanto come una storia inve-stigativa ma anche come una storia suRoma. Ho fatto anch’io così con Il li-bro nero, che non è soltanto una vi-cenda di investigazione ma una di-scesa nella Istanbul più profonda.Dove c’è poi, molto forte, l’influen-za di Joyce. Il primo critico a sostenere ilcontributo di Gadda in quel mio romanzo fuSusan Sontag, allora io ero un giovane autoreturco sconosciuto».

Si prosegue la visita guidata con Italo Svevo.«Lo adoro. C’è in lui un umore tutto italiano dapersona saggia, mai snob, anzi molto terrena,niente affatto sofisticata. Ho tutti i suoi libri.Trovo molto attraente questo suo approccioalla vita». Poi Tomasi di Lampedusa, che Pa-muk chiama con il secondo nome: «Il Gatto-pardo, un romanzo capitale».

Il Nobel si ferma a riflettere. «Tutti i miei li-bri sono composti da altri libri. Da Dante ho ri-cavato informazioni. Da Gadda, Eco, Svevo,Lampedusa ho imparato a scrivere». Sfioracon il dito Alessandro Manzoni: «Ma perchétutti gli italiani che incontro mi dicono diodiarlo dopo averlo studiato a scuola? È statoun gigante». Quindi Pirandello: «Per me è sul-la stessa linea di Borges, anche lui mi ha in-fluenzato molto».

Scavalchiamo casse zeppe di recensioni earticoli. In alto, sugli ultimi scaffali, ci sono letraduzioni dei suoi romanzi. «Non mi ricordopiù esattamente quante sono: fra le 55 e le 58comunque, dipende da come si calcolano ledue lingue curde, il kurmanji e ora il soranipubblicato da poco. Adesso è arrivata ancheun’ultima traduzione, in malese». Su una co-lonna, ordinati, ci sono altri autori italiani. Lepoesie di Leopardi. E poi saggi, romanzi, stu-di, biografie. Carlo Ginzburg («ho per lui gran-dissimo rispetto e ammirazione»), AntonioTabucchi («lo seguo sempre, bravissimo»),Mario Praz («un erudito per cui nutro una ve-nerazione: ho visitato il suo museo a Roma perdue volte, e mi è piaciuta molto l’idea di unacasa in cui viveva proprio come se si trovassein un museo»). C’è Natalia Ginzburg. E DaciaMaraini. Poi Dino Buzzati, le interviste dellaFallaci. Scaffali interi su Leonardo Sciascia,

I miei maestriitaliani

ORHAN PAMUK

(segue dalla copertina)

All’inizio delle sue Lezioni ameri-cane Calvino dedica un capitoloproprio alla “leggerezza”. La

“leggerezza” è nell’anima, nel caratteredi Calvino, ma nella letteratura questaspecificità non si impara, bisogna aver-la dentro, nascerci. In seguito, dopoaver letto altri libri di Calvino, ho impa-rato da lui a vedere la “leggerezza” chesi trovava dentro di me. Perché quel chepossiamo apprendere da un grandescrittore, da un romanziere, non è co-me imitarlo, ma piuttosto vedere comeguardare a noi stessi e alle nostre vite.

Oltre a Calvino ho tratto insegna-menti da molti altri scrittori italiani, eattraverso quel che ho appreso da loroho poi costruito me stesso; ho guardatocon occhi nuovi, a me e al mondo. Leg-gere altri scrittori intelligenti, farsi in-fluenzare da loro, per l’uomo vuol direguardare con occhi nuovi a sé stesso e alsuo mondo.

Traduzione di Yasemin Taskin

LEZIONI VENEZIANE

Il tour di Orhan Pamuk in Italia durerà sei settimane. Il 13 maggio

riceverà dall’Università di Firenze la laurea honoris causa

in Lettere e Filosofia. Il 16 parlerà al Salone del libro di Torino

La sera stessa verrà intervistato da Fabio Fazio

a Che tempo che fa. Il 23 parteciperà all’Università Ca’ Foscari

di Venezia alla manifestazione Incroci di civiltà. A Venezia terrà

lezioni all’università ogni settimana fino alla metà di giugno

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3MAGGIO 2009

Paurosi inventari delle vite umane, i traslochisono fonte di grande stress. E chissà quali ru-ghe ci sono furtivamente apparse sul viso ognivolta che abbiamo smontato il nostro passatoper chiuderlo in un camion e trasportarlo al-trove. Tuttavia, se a traslocare non è una fami-

glia qualunque, ma il glorioso Touring Club Italiano (chedopodomani annuncerà lo spostamento del suo ricchis-simo archivio storico in seno alla Triennale di Milano),dall’increscioso smontaggio di cose e tempi andati puòanche emergere una sorpresa bellissima. Per esempio,quella di imbattersi in un’opera sconosciuta di FortunatoDepero.

È un album di fotografie, per l’esattezza, un volume incartoncino grigio di quaranta centimetri per cinquanta, lecui immagini (diciotto per ventiquattro, in bianco e nero)ritraggono il lavoro dei legnaioli di uno «stabilimento perla selezione dei semi di conifere» sullo sfondo dei boschidella Val di Fiemme. Titolare dell’azienda in questione ètale Mario Rizzoli che «ammirando offre» il prezioso al-

bum «al Touring Club Italiano, strenuo propugnatoredel rimboschimento d’Italia». Davvero prezioso, il li-bro in omaggio, perché ciascuna stampa fotografica èincorniciata da didascalie e decorazioni eseguite ad ac-

quarello e china da Depero, che scrive il suo nome nellaprima pagina, accanto a luogo e data: Rovereto 1912.

Fregi, sagome umane e fiori, una piccola meraviglia. Untratto che sa di Vienna, un Depero ventenne non ancorafuturista, ma che già opta per l’essenziale e predilige l’a-simmetria. Accostamenti che a volte si candidano a cor-nice e sorreggono fisicamente la foto (anche se l’azzera-no, nel confronto), altre volte prendono spunto dai sog-getti al lavoro per cavarne forme simboliche di grande in-tensità. Una gemma, sbucata dal caso. «È stato un paio dimesi fa», raccontano Luciana Senna ed Elisabetta Porro,ricercatrici del Touring e bambinaie dell’archivio, come siautodefiniscono. «Stavamo facendo i nostri giri di rico-gnizione per impostare il trasloco, e ficcavamo un po’ il

naso dappertutto. In uno degli scaffali più nascosti, riser-vato ai volumi fuori formato, c’era un librone… L’abbia-mo messo su un tavolo e sfogliato: un Depero! La primacosa che ci è venuta in mente, dopo averlo guardato e ri-guardato, è stata di chiuderlo in cassaforte».

Ridono, Luciana ed Elisabetta, come ride chi è sorpresodalla fortuna. E ricordano come continuassero a pensarea quel Depero, in cassaforte, mentre inscatolavano l’ar-chivio. Così un giorno decidono di chiamare un espertod’arte, il professor Valerio Pilon, per chiedere lumi e avereun riscontro (non un expertise, che toccherà al Mart). «Pi-lon è venuto a vederlo, ne è rimasto molto colpito, e ha dia-gnosticato: acquarello e china, grande libertà nella deco-razione, imprinting espressionista. E poi ci ha detto dichiamare Carlo Cainelli, nipote dell’omonimo pittore chemorì molto giovane e fece parte della Scuola Reale Elisa-bettina, che all’epoca raccoglieva il meglio dell’arte trenti-na. In quella scuola Cainelli pittore conobbe anche Depe-ro, e ne divenne amico. Suo nipote, ci ha spiegato Pilon, haspeso parte della vita a valorizzare l’opera dello zio, e dun-que è in contatto con critici e istituzioni del luogo. Per que-sto ci ha suggerito di incontrarlo».

Così, dopo aver cercato anche qualche traccia del do-natore Mario Rizzoli («ma alla Magnifica Comunitàdella Val di Fiemme non risulta più nulla di lui, sannosolo che Rizzoli è un cognome di Cavalese»), le due ri-cercatrici del Touring telefonano a Cainelli. Uno squillo,e lui è già qui, a Milano, col suo pile e camicia a scacchi, isuoi modi sciolti e la parola svelta. Guarda l’oggetto, lo tro-va bellissimo, lo fotografa. Osserva però che l’unica firmaautografa è quella di Mario Rizzoli, il nome di Depero è in-vece scritto nei caratteri della didascalia. Comincia alloraa snocciolare tutte le cose che sa della vita di quell’artista,che non sono poche. Ricostruisce luoghi, tempi e sposta-menti, cerca una casella esatta dove inserire quell’album.E in una sola visita mette insieme una tale quantità di os-servazioni critiche, dettagli e aneddoti da lasciare impres-sionate Luciana ed Elisabetta. Che nel loro racconto ac-cendono anche in noi la voglia di chiamarlo, Cainelli.

«Pronto? Buongiorno, sì sono io, Cainelli Carlo, nipote

ENRICO REGAZZONI

L’ARCHIVIO

Una nuova “casa”

per il Centro

documentazione

del Touring Club

Italiano. È quella

che, presentata

martedì prossimo

5 maggio

alle 11.30, aprirà

da mercoledì

al pubblico

alla Triennale

di Milano

Sarà questa

la nuova sede

dell’archivio

con più di 10mila

mappe, 300mila

fotografie

e una biblioteca

con oltre

90mila volumi

Gialli d’arteIl Touring Club Italiano sta spostando il suo ricchissimoarchivio storico in seno alla Triennale di MilanoNel corso di questo lavoro, su uno scaffale dimenticato,è stata trovata un’opera sconosciuta dell’artista trentinoEcco la storia e le immagini di questa piccola gemmarealizzata ad acquarello e china e rinvenuta per caso

l’immagine

L’album di Deperosbucato da un trasloco

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31

La Scuola Reale Elisabettina, ri-corda Cainelli, era il solo luogo inTrentino dove si insegnassero le artifigurative applicate, costume diffusonell’impero austroungarico ma nonin Italia. Lì Depero aveva studiato persei anni, a fianco di artisti come Bo-nazza, Melotti, Caproni, Fiumi e Cai-nelli zio, e sotto la guida di un inse-gnante, Luigi Comel, che aveva avu-to una grande influenza su di lui. «Ioho avuto la fortuna di conoscere per-sonalmente Depero nel 1953, quan-do avevo quattordici anni. Fu pro-prio alla presentazione della collanasugli artisti trentini dell’editore Ma-roni. Mi trovai di fronte a un omettopiccolo e con un grande naso, frontespaziosa e occhi a mandorla, tuttovestito di nero. Gli dissi poche paro-le, che avevo finito la terza media eche avevo dieci in disegno, ma mi eroiscritto a ragioneria. “Malissi-mo”, sentenziò lui. “Bisognasempre seguire le proprie incli-nazioni”. Ma io non le seguii. Holavorato in banca tutta la vita, e orami occupo delle cose di mio zio».

Dell’autenticità di quest’operagiovanile di Depero si occuperà inve-ce il Mart di Rovereto. È vero, il nomedi Depero in calce ai disegni non è ap-

posto come firma, ma è quasi impensabile che nel 1912qualcuno abbia costruito un falso di un artista ventenne eancora sconosciuto. Cainelli ha fatto vedere le foto del-l’album alla dottoressa Boschiero del Mart che si è dettaimpressionata molto favorevolmente. Lo esaminerannocon attenzione, assicura, e ne decideranno il valore arti-stico. Quello narrativo, però, è accertato fin d’ora, e ap-partiene alla storia infinita dei traslochi.

DOMENICA 3MAGGIO 2009

dell’omonimo pittore», rispondelui, con voce energica che non de-nuncia i suoi settant’anni. «A pri-ma vista, mi ha colpito l’idea, unindustriale del legno a cui viene inmente un regalo simile. Le foto,per essere scattate all’inizio delNovecento, sono fantastiche. E leimmagini di Depero ricordanoquelle del suo primo libro, Spez-zature, che è del 1913. Un librofatto di segni, direi simbolista, co-me questo. Poi c’è un particolaremolto significativo: una figura dilegnaiolo, eretta e con un grossomartello, è identica a quella di unolio che Depero dipinse proprionel 1912. Si chiama Il delitto e fuesposto a Trento nel 2000».

Poi passa a un’analisi biografi-ca, citando una collana dell’edi-tore Riccardo Maroni sulle vite

degli artisti trentini. Il quartovolume è dedicato, appunto, aDepero. «Da quel testo sap-

piamo che all’epoca il nostroera povero in canna. C’era già Ro-setta, sua moglie. Depero scriveche la incontrò a quattordici an-ni, “mi infiammai di lei a diciotto,due anni la rapii a Roma”. Pensa-va di viaggiare con lei, insomma,ma non aveva un soldo, e forse gli bruciava che Rosetta,con lavori di cuoca e cucito, guadagnasse una lira e cin-quanta al giorno. Dev’essere stato in quel periodo che Riz-zoli gli offrì di decorare il suo album fotografico per il Tou-ring. E Depero certo non si tirò indietro. Era ancora un fi-gurativo e un verista, allora. Balla l’avrebbe incontrato aRoma l’anno seguente, e il suo motto sarebbe diventato“marciare, non marcire”».

LE IMMAGINILe immagini di queste

pagine sono trattedall’album illustrato

da Fortunato Depero,da poco ritrovato

nell’archiviodel Touring Club Italiano

Repubblica Nazionale

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3MAGGIO 2009

Mentre va in onda su Rai Uno lo sceneggiato sul fondatoredell’Eni, pubblichiamo gli sconcertanti rapporti riservatisul suo conto dei diplomatici di Sua Maestà:“Minaccia

i nostri interessi”; “è una spina nel fianco”; “vuole far uscire il suo Paesedall’Alleanza atlantica”. Fino all’articolo del “Financial Times” alla vigiliadel mortale incidente aereo: “Se ne deve andare”

CULTURA*

italiano pericolosoMattei

L’uomo che guardava al fu-turo: con questo titolo,stasera e domani, va inonda su Rai Uno la fictionsu Enrico Mattei. Ma aisuoi tempi, per i sussie-

gosi e pragmatici funzionari della di-plomazia britannica, più che guardareal futuro il capo dell’Eni era l’uomo cheintralciava il loro presente. Anzi, seria-mente e decisamente lo minacciava.

Fino al punto di...? Alt, no, questo nonsi può dire. Anche se il cospicuo dossierarrivato in Italia include carte a loro mo-do profetiche — tipo la fotocopia di unarticolo del Financial Times che a duegiorni dalla morte di Mattei si chiede sequesti «dovrà andarsene» (Will signorMattei have to go?) — i documenti recu-perati da Mario J. Cereghino negli ar-chivi britannici non autorizzano forza-ture, né automatismi cospirativi. Eppu-re, a meno di tre mesi dall’incidente ae-reo di Bascapé, 27 ottobre 1962, in undocumento classificato come «segre-to», dal ministero dell’Energia scrivonoal Foreign Office: «L’Eni sta diventandouna crescente minaccia agli interessibritannici. Ma non dal punto di vistacommerciale [...] La minaccia dell’Eni sisviluppa, in molte parti del mondo, nel-l’infondere una sfiducia latente neiconfronti delle compagnie petrolifereoccidentali». Insomma, l’Eni incorag-gia «l’autarchia» energetica a scapitodell’Inghilterra.

Una questione di principio. A set-tembre, al ministero degli Esteri del go-verno di Sua Maestà, fanno il punto «suipassi per contrastare il gruppo italia-no». Ovviamente «è una materia da trat-tare con attenzione». Ci sono questionida girare all’intelligence: «Fino a chepunto l’Eni dipende dal petrolio russo?[...] È possibile distinguere tra le attivitàdell’Eni e gli interessi italiani? [...] Siamoin grado di affrontare il problema dellavirulenta propaganda di Mattei control’imperialismo e contro le compagniepetrolifere?». Non si conoscono le ri-sposte. Eppure tante altre carte rico-struiscono in modo abbastanza im-pressionante lo scenario, il contesto,l’atmosfera che nell’autunno del 1962 siera venuta a creare attorno a quello cheè diventato un eroe da tele-fiction.

Lo storico Nico Perrone, il massimostudioso di Mattei, ha esaminato questidocumenti: «Contengono giudizi piùsottili, più articolati e più intelligenti diquelli che si trovano negli archivi ame-ricani. A Washington reagivano grosso-lanamente e in ritardo; mentre gli ingle-si avevano capito meglio e subito».

I funzionari britannici stanno addos-so al presidente dell’Eni. Abbondano leschede, i rapporti, i memorandum. Siinventano pure il termine Matteismperindicare un modo di fare politica e affa-ri. A loro modo lo ammirano anche.Questo si legge in un rapporto del Fo-reign Office alla legazione britannica diWashington: «Mattei punta in alto. Anostro parere è un manager tosto e unuomo potente nonché pericoloso». È il

1957 quando l’ambasciatore a Roma,Ashley Clarke, nota: «A differenza dimolti esponenti democristiani nonsembra corrotto a livello personale. Vi-ve in modo tutto sommato modesto. Ilsuo unico svago è la pesca: non ci pen-sa due volte a volare in Alaska per unabattuta di pesca di una settimana [...] Sitrova nelle condizioni di fare gran beneo gran male all’Italia».

È vanesio, certo, e dittatore. Mostra«tendenze napoleoniche» ed «estremasuscettibilità». Gli americani, fanno sa-pere a Londra i diplomatici di Sua Mae-stà, pensano che «soffra di megaloma-nia». I difetti di un personaggio rag-guardevole sono spesso la faccia in om-bra delle sue virtù: «Come tutti gli uo-mini che si sono fatti da sé, Mattei è va-nitoso e non tollera il benché minimoaffronto, soprattutto se proviene dauno straniero. Nel lavoro è autocraticoe spietato, ma al contempo molto am-mirato e rispettato». Dinamismo e de-dizione al lavoro, gli riconosce ancheun dirigente della Bp: «È l’apostolo del-le imprese statali. Però molti ritengonoche la sua psicologia si avvicini molto alconcetto de “Lo Stato sono io”».

Questo orgoglio può solleticare uncerto spirito sportivo degli inglesi, macerto non li rassicura negli affari. Matteifa il diavolo a quattro, fa abbassare iprezzi del petrolio dall’Iran all’Etiopia,dal Marocco al Pakistan all’Arabia Sau-dita. Un po’ bluffa, ma dal punto di vi-

sta degli inglesi un po’ anche bara. O al-meno: «Gioca con più mazzi di carte al-lo stesso tempo», si legge in un memo-randum del ministero dell’Energia.Clarke insiste: «È un tipo che non si fer-ma dinanzi a niente».

Dai documenti si capisce che il «peri-colo» è doppio. Riguarda da un lato lequestioni dell’energia, ma dall’altro va asbattere sulle alleanze e sulla stabilità diintere aree del mondo, a partire dal Me-dio Oriente, per giunta all’indomanidella crisi di Suez. Il guaio supplemen-tare è che dell’anticolonialismo questoitaliano ha fatto una bandiera. Il petro-lio è un mezzo per affermare una politi-ca sociale e nazionale: «I successi inEgitto e in Persia gli hanno dato alla te-sta [...] Di fatto ha dato fuoco alle navi».Le compagnie petrolifere cominciano a«preoccuparsi seriamente della loroposizione in Italia», avvisa l’addettocommerciale dell’ambasciata di Romanel luglio del 1960. Ma già ad agostoClarke prevede: «Non vi è dubbio che infuturo Mattei diventerà una notevolespina nel fianco delle nostre imprese,anche in altre aree del mondo». E colpi-scono le conclusioni su questo perso-naggio «indubbiamente infido» che «inpassato ha già utilizzato tattiche ricatta-torie [...] E Mattei non solo non è crolla-to, ma al momento è più forte che mai».

Ha appena concluso accordi com-merciali con l’Urss e si dispone a strin-gerne con la Cina comunista: «In futu-

ro», scrivono all’ambasciata britannicadi Pechino, «potrebbe fornire ai cinesitutto il petrolio di cui hanno bisogno».Così da Londra cercano di capire se ilgoverno italiano ispira o si limita a co-prire le scorribande dell’Eni, o se èpronto a scaricare il leader del cane a sei

I rapporti top secretinviati a Londra

FILIPPO CECCARELLI

DUE RITRATTIIl fondatore dell’Eniin due scatti;Francesco Rosi portòal cinema la sua storianel 1972, girandoIl caso Mattei

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 3MAGGIO 2009

zampe. Le carte offrono reso-conti mortificanti sui politiciitaliani: distratti, ambigui,sfuggenti. Il ministro degliEsteri, il liberale Martino, faspallucce; il presidente Segni ètutto preso dall’agricoltura.

Meno vaghi, anche se sor-prendentemente ostili all’Eni,appaiono due diplomatici ita-liani. Un funzionario del Fo-reign Office contatta a Londraun diplonatico italiano, Pru-nas: «La sua impressione èche, se non affrontato in ma-niera appropriata, Mattei po-trebbe diventare pericoloso:e nel dirmi ciò», specifica MrBeeley, «mi ha chiesto dimantenere il massimo riser-bo». Lo stesso riserbo che intempi non sospetti il segre-

tario generale della Farnesi-na, marchese Rossi-Longhi,

chiede a Mr Hohler, incaricatod’affari dell’ambasciata: «Secon-

do Rossi-Longhi potremmo rag-giungere migliori risultati assumen-do un atteggiamento fermo e piut-tosto duro con Mattei».

In realtà, dai documenti trovati daCereghino viene fuori che il governobritannico, per tutto il 1961, spingela Bp e la Shell, due delle sette sorel-le, a trovare un accordo con l’Eni: «Fi-no a quando», scrive nell’agosto del1961 Mr Laskey, un funzionario del-

l’ambasciata, «continueranno a consi-derare Mattei come una sorta di verru-ca o di escrescenza da ignorare (o che almomento non può essere asportata) èdifficile che egli si comporti in manieraamichevole». Niente di più difficile: einfatti Mattei insiste nel suo gioco — an-che se forse non si rende conto che staoltrepassando il terreno petrolifero perentrare di slancio nel campo scivolosodegli equilibri geopolitici. È di nuovo unitaliano, il banchiere Lolli, Bnl, a mette-re sull’avviso gli inglesi: «I sentimentiantiamericani di Mattei sono così fortiche potrebbero trasformarsi in un peri-colo sostanziale. In altre parole, potreb-be commettere qualche sciocchezza».

Meglio quindi che le compagnie inglesitrovino un’intesa.

L’unico leader italiano che tiene testaa Mattei è Fanfani. Nell’autunno del1961 l’allora presidente del Consiglioconvoca a Palazzo Chigi Arnold Ho-fland, responsabile del settore Europameridionale della Shell. Fanfani tentauna spericolata mediazione: «Perso-nalmente il premier non vede di buonocchio l’intesa con Mosca e si è dettopronto ad annullarla. A patto però cheMattei sia messo in condizione di ag-giudicarsi quei diritti estrattivi che per-metterebbero all’Italia di disporre diuna fonte di rifornimento autonoma».Il colloquio dura due ore e mezzo, manon produce risultati. Peggio: Hofland,petroliere disincantato, concorda conl’ambasciatore sul fatto che Mattei «ri-sulta sempre più pericoloso, anche se»,aggiunge, «personalità come Paul Gettysono in grado di creare grane ben peg-giori». Clarke è più risoluto e pessimi-sta: quelli che chiama «i ricatti di Mat-tei» sono «meno marginali di quantosembrano». In questo cupo scenario,pur venato da un garbato understate-ment, si apre il 1962: l’ultimo della vitadi Mattei.

Ora, anche in politica internaziona-le, i «pericoli» è meglio sventarli pertempo; e nessuno ama farsi «ricattare».C’è parecchio nervosismo all’amba-sciata di Roma, al ministero dell’Ener-gia, alla Bp, alla Shell. Il 7 agosto i fun-zionari del Foreign Office inserisconoin un già corposo dossier una strana, maeloquente nota semi-anonima. La spe-disce, su carta intestata, un non meglioidentificato Mr Searight: «Di recenteuna certa persona ha sostenuto unaconversazione con una importantepersonalità dell’industria petroliferache recentemente è entrata in contattocon Mattei. A suo dire, Mattei gli avreb-be confidato la seguente riflessione: “Ciho messo sette anni per condurre il go-verno italiano verso una apertura a sini-stra (in italiano nel testo, ndr). E possodire che ce ne vorranno di meno per faruscire l’Italia dalla Nato e metterla allatesta dei Paesi neutrali”». I «Non Alli-neati», come si diceva in quegli anni.Aggiunge la noticina: «Non ci sono mo-tivi per dubitare che tali affermazionisiano state effettivamente fatte». Possi-bile: il personaggio era quello che era.Gli eroi da tele-fiction guarderanno pu-re al futuro, ma intanto è ancora la le-zione del passato che bisognerebbe ca-pire meglio.

I DOCUMENTI

I documenti del Foreign Office su Enrico

Mattei su cui sono basate queste pagine

sono stati trovati dal ricercatore

Mario J. Cereghino negli Archivi nazionali

britannici di Kew Gardens,

a sud di Londra, e sono ora consultabili

presso l’Archivio Casarrubea di Partinico,

in provincia di Palermo

(www.casarrubea.wordpress.com)

LA FICTION

Vanno in onda stasera

e domani in prima serata

su Rai Uno le due puntate

della fiction dedicata

alla vita di Enrico Mattei:

L’uomo che guardava al futuroDiretta da Giorgio Capitani,

ha per protagonisti Massimo

Ghini, nel ruolo di Mattei,

e Vittoria Belvedere,

che interpreta la moglie Greta

Scritto e sceneggiato

da Monica Zapelli, Claudio Fava

e Giorgio Mariuzzo, il film tv

è una coproduzione

Rai Fiction - Lux Vide firmata

da Matilde e Luca Bernabei

DOCUMENTIUn ritrattodi Enrico Mattei;a destra e in basso,i rapportidel Foreign Officesu di lui stilatipochi mesiprima della morteavvenutail 27 ottobre 1962

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Era nata il 4 maggio 1929, dunque in questi giorni avrebbecompiuto ottant’anni. Ma il pubblico per sempre la ricordatrentenne in “Colazione da Tiffany”, sofisticata e semplice,

una Cenerentola vestita da Givenchy. E continua ad amarla,mentre lei diceva, depressa e disperata dopo due matrimonifiniti anzitempo: “In amore sono stata sfortunata”

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3MAGGIO 2009

Colazione da Tiffany, il filmdiretto da Blake Edwards,era stato il Sex and the Citydegli anni Sessanta: NewYork, sesso (d’epoca,quindi pudico), feste e al-

col, voglia d’amore, lieto fine, vestiti, ve-stiti, vestiti. Truman Capote, autore delromanzo a cui il film si ispirava, avreb-be voluto come protagonista MarilynMonroe: «Sarebbe stata perfetta inquella parte. Holly doveva avere un chedi patetico, qualcosa di incompleto, eMarilyn ce l’aveva».

Fu scelta invece Audrey Hepburn,che aveva già vinto il suo unico

Oscar per Vacanze roma-ne. Lo scrittore si ar-

rabbiò, ma il cinema conquistò una del-le sue immagini più celebri e indimenti-cabili, quella di una meravigliosa tren-tenne che tutte le ragazze avrebbero vo-luto essere e tutti gli uomini amare: unagiovane donna di Manhattan, sventata eromantica, promiscua e sola, senza unsoldo e appassionata di diamanti, raffi-nata e alcolica, sofisticata e semplice,una Cenerentola vestita da Givenchyche conquistava il suo principe scrittore(l’insignificante attore gay George Pep-pard) strappandolo a una strega matura(Patricia Neal) che lo manteneva.

I critici arricciarono il naso giudican-do il film zuccheroso e con un lieto fineche snaturava la storia di Capote: ma noi,il pubblico, ancora oggi se ci capita di ve-

NATALIA ASPESI

MyFairAudreyCosì sexy, così signoraeterna ragazza del cinema

‘‘AppealIl sex appeal è una cosache sentiamonel più profondo di noi stessiPosso sprigionarneanche completamente vestita,o mentre raccolgo meleo anche in piedi sotto la pioggia

Audrey Hepburn

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derlo o ri-vederlo, nerestiamo in-cantati, comese fosse nuovo,mentre tra poco,nel 2011, Colazioneda Tiffany compirà cin-quant’anni: come Audrey,nata il 4 maggio 1929, ne compirebbe do-mani ottanta. Non è la storia, la solita,non è la regia, scialba, non sono neppu-re i dialoghi pur carini, a invadere il filme la nostra memoria: è lei, Audrey Hep-burn, con quella figura filiforme e fragile,quel lungo collo candido, quel sorriso lu-minoso, quei grandi occhi stupefatti delmondo sotto le celebri spesse sopracci-glia ad ala, inventate per lei dal truccato-re italiano De Rossi, con quei tubini neriperfetti che milioni di donne adottaronoanche su corpi meno eterei, e quei gran-di cappelli importabili da chiunque senon da lei, e quel lungo bocchino tuttoradi massima seduzione visiva, anche sediventato un oggetto archeologico comel’aratro a mano.

Di tutte le immagini femminili deglianni Cinquanta e Sessanta, sognate,amate, imitate, quella dei personaggi af-fidati a Audrey Hepburn è fisicamente lapiù duratura e contemporanea: come ècontemporanea una specie di nostalgiache certamente molti uomini, ma forseanche non poche donne, possono pro-vare tuttora per la femminilità che i suoifilm hanno rappresentato: bellezza, ma-grezza, eleganza, ma anche innocenza,arguzia, intelligenza, oltre a due virtù, opecche, oggi del tutto fuori moda: la clas-

se, che lavolgarità dei

tempi ha or-mai reso obso-

leta, e la castità.Era implicito infat-

ti che la pur facile Hol-ly (gli spettatori si rifiuta-

rono di capire che era una pro-stituta), la principessa Anna (Vacanzeromane) o la libraia esistenzialista Jo (Ce-nerentola a Parigi) o la fioraia Eliza (MyFair Lady) fossero intoccate e intoccabi-li — viene quasi da dire la parola alloraancora in voga e oggi quasi tabù — vergi-ni. Il sesso, eventuale, sarebbe avvenutodopo, nel proseguimento immaginariodel film, a nozze avvenute, ammesso chelo si fosse ritenuto necessario.

Forse non è un caso che questa bellaragazza nata in Belgio, adolescenza inOlanda, passaporto inglese (figlia di unanobile olandese e di un nullafacente in-glese di simpatie naziste), divenne unastar avendo accanto come cinepartnersinnamorati molto più vecchi e ben pococredibili che la lasciavano intatta nellafantasia degli spettatori: oltre a Peppard,il rugoso Gary Cooper (Arianna), l’alco-lista Humphrey Bogart (Sabrina), l’ases-suato Fred Astaire (Cenerentola a Pari-gi), il legnoso Gregory Peck (Vacanze ro-mane), il lacrimoso Henry Fonda(Guerra e pace). Solo con Cary Grante William Holden passò sullo scher-mo una accettabile attrazione fisi-ca e sentimentale: anche se aveva59 anni (e Audrey 33) ai tempi deldimenticabile thriller Sciarada, ilfascino di Grant era intatto, alme-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 3MAGGIO 2009

no per le spettatrici. Quanto a Holden,troppo spesso ubriaco sul set di Sabrina,Audrey se ne innamorò sul serio e secon-do la biografia di Donald Spoto, i due eb-bero una breve relazione, terminataquando lui le rivelò di essere sterile: Au-drey aveva 24 anni e voleva una famiglia,un marito e dei figli. L’anno dopo, in set-tembre, sposò l’attore Mel Ferrer, pluri-sposato (tre volte) e pluripadre (quattrovolte), da cui ebbe il primo figlio Sean,oggi quasi cinquantenne e autore di unbel libro fotografico sulla madre. L’eter-na fanciulla che tutti i grandi fotografi, acominciare da Richard Avedon,amavano come modella raffina-ta che non si lasciava soverchia-re dai vestiti, nella vita reale at-traversava le ombre dell’insod-disfazione e dell’infelicità, cau-sata anche da più di unaborto spontaneo. Ilsuo agente pubbli-citario Henry Ro-gers ai tempi diGuerra e paceaveva scrit-to: «Per Au-drey la car-riera vienesempre als e c o n d oposto […]S e b b e n ea d o r a s s erecitare, de-siderava la-vorare meno eavere più tempoper sé […] Era col-ma d’amore, Mel eracolmo di ambizione, perlei come per se stesso».

Il primo matrimonio durò 14anni. Dopo il divorzio, a Roma,

un’amica, sensale di matrimo-ni, le procurò qualche corteggiatore,un torero e un paio di principi, malei si era già innamorata del conteAndrea Dotti, un fascinoso e poiinfedele psichiatra trentenne,quindi più giovane di lei di quasi

dieci anni, specialista di depressionefemminile, male che ogni tanto ghermi-va Audrey. Nel febbraio del 1970 era na-to Luca, ma a poco a poco anche questosecondo matrimoniò si sfaldò, conclu-dendosi col divorzio nel 1981. Tutto ilmondo amava ancora l’incancellabileAudrey Hepburn che aveva rappresen-tato dallo schermo una irresistibile ra-gazza ideale, ma nella vita ormai, supe-rati i cinquant’anni, lei diceva, depressae disperata: «In amore sono stata sfortu-nata». La fecero soffrire Albert Finney eancora di più Ben Gazzara con cui in

un’età che il cinema non perdona ave-va girato due bruttissimi film, Lineadi sangue e E tutti risero. Aveva pau-ra della solitudine, ma presto trovòun compagno, un uomo molto bel-

lo, più giovane di 7 anni, vedovo dapoco di Merle Oberon, diva

degli anni Trenta, cheaveva 25 anni più di

lui. Robert Wol-ders, olandese, le

fu al fianco intutti quegli an-ni in cui lei,ancora piùsmagrita, di-v e n n eun’appas-sionata am-basciatrice

dell’Unicef,girando tutto

l’universo dellamiseria, della fa-

me, delle guerre,della disperazione,

dello sfruttamento,sconvolta dall’indifferenza

e del colpevole abbandono da par-te dei Paesi ricchi. Divorata dal can-

cro, l’attrice si spense circondata daisuoi mariti e figli nel gennaio del 1993: dasotto il grande cappello nero, dentro ilsuo vestitino nero che le lascia scopertele spalle aguzze, Holly continua a sorri-derci, immagine eterna di una gioia di vi-vere che così poco Audrey Hepburn haconosciuto.

“Con noi teneva Hollywood fuori dalla porta”Il ricordo dei figli Sean e Luca

SEAN H. FERRER E LUCA DOTTI

Domani, 4 maggio, nostra madre avrebbe compiuto ottant’anni e sarebbe stata «la beata nonna di quattrobellissimi nipoti». Questo era tutto il suo segreto. Spesso ci chiedono com’era essere figli di una star, espesso restano delusi e perplessi alla nostra risposta: «Non ne abbiamo proprio idea».

Era la nostra mamma, una mamma come tutte le altre. Ascoltava meravigliata le nostre storie di tutti i giorni,ci dava qualche consiglio e ci raccontava un po’ della sua vita. Veniva a prenderci a scuola, organizzava le nostrefeste, amava passeggiare con i suoi cani e andare al mercato, chiacchierava con i nostri amici, e proprio attra-verso loro abbiamo imparato che qualcosa di straordinariamente normale regnava a casa nostra: «Hollywoodrestava fuori dalla porta».

Non fu, la sua, una vita facile; tutt’altro. Ma questo importava poco. Anche la sua fortunata carriera di attriceera per lei solo questo, «molto fortunata». Quello che contava veramente era vederci crescere sani e felici. Eraconvinta che solo un bambino che avesse ricevuto questo regalo sarebbe potuto essere «un uomo migliore».

Portata a termine questa «missione» con noi, mamma iniziò la sua seconda carriera, sicuramente la più im-portante per lei, quella di «ambasciatrice di buona volontà» per l’Unicef. Lavoro che la impegnò completamen-te, determinata e felice, finalmente libera di ridare indietro un po’ di «quella fortuna che aveva ricevuto». Anda-va dove c’era bisogno, anche quando era estremamente rischioso. Si seccava per le nostre suppliche di restarea casa: «Voi avete avuto abbastanza da me, ora tocca ad altri».

Come era essere figli di questa Audrey? Ce lo chiedono un po’ meno spesso. In sua memoria abbiamo fonda-to nel 1995 l’“Audrey Hepburn Children’s Fund”; e quest’anno, insieme a Unicef Italia, “Amici di Audrey” per ri-cordare quello che è stata e continua ad essere: una star per migliaia di fan e una stella per milioni di mamme ebambini in pericolo.

Dedichiamo questi ricordi ai nostri figli, i suoi nipoti, nella speranza di riuscire a spiegare loro quanto straor-dinariamente potente possa essere la normalità di una persona determinata a dare amore.

IL LIBRO

Audrey Hepburn,l'intramontabile fascinodell'eleganza, curato

da Yann-Brice Dherbier

e Pierre-Henri Verlhac

con la prefazione di Hubert

de Givenchy (White Star,

192 pagine, 29,90 euro,

da domani in libreria),

è una biografia illustrata

da una carrellata di immagini

dell'attrice: foto e provini

dei film, momenti della vita

privata e dell'impegno

a fianco dell'Unicef

(am.so.)

‘‘L’abbandono del padreMio padre ci aveva lasciatoTutte le mie relazioni personali sono state segnateda questo sentimento di abbandono,che mi ha accompagnata per tutta la vita

Audrey Hepburn

• STATI UNITI, LA RISCOSSA DEI SINDACATIDopo anni di declino aumentano le iscrizioni alle Unions, e Obama affida al sindacato il compito di rilanciare la classe media

• IL QUARTO CAPITALISMO ALLA SCOPERTA DELL’AMERICANon c’è solo Fiat-Chrysler. Le medie imprese italiane, come quelle francesi e tedesche, fanno acquisti al di là dell’Atlantico

• L'INFLUENZA “SUINA” ARRICCHISCE BIG PHARMASchizzano in Borsa i titoli delle aziende farmaceutiche che distribuiscono vaccini e medicinali specifici per la malattia,

crollano linee aeree e turismo

• TWITTER, L’INFORMAZIONE IN UN SMSGrande successo in America per il nuovo servizio, un sistema che consente di diffondere le notizie con messaggi di 140 caratteri

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3MAGGIO 2009

i saporiPrimati

In principio, venticinque anni fa, ci sono El Bulli e FerranAdrià, il ristorante e il cuoco all’origine della cucinachiamata tecno-emozionale. Oggi, nella più recente top tendella gastronomia mondiale, spiccano quattro chef ibericiE i loro seguaci raccolgono successi ormai in tutto il pianetaapparecchiando tavole-teatro per spettatori-buongustai

Una cucina sola al comando: quella spa-gnola. Non c’è guida gastronomica, clas-sifica, concorso, festival, che manchi dicertificare la promozione della nueva co-cina tecno-emocionalalla guida della cul-tura gastronomica del terzo millennio. I

puristi inorridiscono, i tradizionalisti fremono. Ma al di làdello scorbutico Santi Santamaria — che li pratica senzaammetterlo — tutti i grandi vecchi dell’alta cucina iberi-ca hanno dichiaratamente contaminato il proprio baga-glio gastronomico con i principi della nuova gastronomiabasca-catalana.

Tutto è cominciato un quarto di secolo fa con un cuo-co, giovane e sconosciuto — Ferran Adrià — e un ardi-mentoso gestore di locali, Juli Soler. “El Bulli” esisteva già:due stelle Michelin e una cucina elegantemente tradizio-nale. Soler rilevò il ristorante, scelse Ferran, gli proposeun viaggio di studio «per capire cosa NON servire nel no-stro ristorante». Risultato: una ristorazione informale eamichevole nei modi, ossessivamente professionale nel-la sostanza, incredibile e stupefacente nei sapori, capacedi guadagnare al locale un milione di richieste a stagione,l’inserimento come opera d’arte a laterenella fiera-cultodi Kassel, la promozione di Adrià a maître-à-penser tra ipiù influenti a livello internazionale.

Dalla “rilettura” di utensili banali — sifone, grattugia,macchina per la sfoglia e per filare lo zucchero, freezer —all’uso creativo di sostanze comuni ma sconosciute ai piùperché appannaggio dell’industria alimentare o sempli-

cemente di altre culture gastronomiche — azoto liquido,lecitina, alghe, carbonati — tutto è guidato dall’idea ful-minante che se la cucina è arte, il ristorante è teatro e lospettatore-gastronomo deve poterne godere attivando icinque sensi e il palato nel suo intero (dolce-salato-aci-do-amaro). A seguirlo, una generazione di giovani cuo-chi, che — da dietro i grembiuli di Adrià (al Bulli, ogni an-no ne ruotano una trentina) — hanno imparato a coniu-gare materie prime e ricerca, memoria e concetti nuovis-simi, anche in forme inconsuete, come le tapas ispano-asiatiche di “Casa Camper” a Barcellona o quelle che Pe-dro Almodovar assapora ai tavolini del negoziod’antiquariato “Asiana” di Madrid.

Un movimento così potente da indurre un giornalistacurioso e inventivo, Rafael Garcia Santos, a costruirci in-torno un congresso internazionale, “Lo mejor de la ga-stronomia”, capace di raccogliere ogni anno a San Seba-stian (Paesi Baschi) i migliori cuochi del pianeta, tra mo-nologhi di filosofia gastronomica e concorsi per la migliortortilla di patate (piatto nazionale spagnolo).

I detrattori non mancano: in parte perché — comesempre nelle avanguardie — c’è chi copia senza capire, inparte per orrore del nuovo che avanza. Così, nel giorno incui a Londra l’emiliano Massimo Bottura — uno dei gran-di allievi di Adrià — entrava nella classifica dei migliorichef del pianeta, in Italia un programma tv lo bollava co-me «piccolo chimico» della cucina. Eppure, basterebbeassaggiare i suoi tradizionalissimi cinque bocconi di bol-lito, però cotti sotto vuoto a bassa temperatura, esaltan-do al massimo il sapore delle singole cinque parti (guan-ciale, coda…), per gridare Que viva Espana! Facendo sob-balzare il centro storico di Modena.

La nueva cocinae i suoi profeti

Ferran Adrià (1°)Il “Leonardo da Vinci della cucina” ha reinventato il corso

della storia gastronomica con il motto: “Imparata la cucina

tradizionale, l’unico limite è la fantasia”. Come nel caviale, granita

di barbabietola e crema di yogurt

EL BULLICala Montjoi

Roses (Girona)

Tel. (+34) 972-150457

Aperto da giugno a novembre, menù da 180 euro

Joan Roca (5°)Un fantastico mix di genialità e modestia, cucina sofisticata

e sapori primitivi, condivisi con i due fratelli: Jordi,

che lo affianca in pasticceria, e Josep, sommelier

Magnifico il giardino zen al profumo di agrumi

EL CELLER DE CAN ROCA Can Sunyer 46

Girona

Tel. (+34) 972-222157

Chiuso domenica e lunedì, menù da 75 euro

Luis Andoni Aduriz (4°)Il più concettuale tra i protagonisti della nueva cocinausa ingredienti come colori e tecniche come pennelli

per i “quadri del gusto”, imprevedibili e toccanti

Suoi i cetrioli di mare saltati con yucca al nero di seppia

MUGARITZAldura Aldea 20

Erenteria-Rentería

Tel. (+34) 943-522455

Chiuso dom. sera, lunedì e martedì a pranzo, menù da 75 euro

Juan Mari Arzak (8°)Il padre dell’alta cucina spagnola è un vitalissimo signore basco

Nella sua “cucina d’autore, ricerca, evoluzione e avanguardia”,

imperdibile il riso soffiato allo zafferano con camembert

al porto e prugne

ARZAKAvenida Alcalde Elosegui 273

San Sebastián

Tel. (+34) 943-278465

Chiuso domenica e lunedì, menù da 120 euro

SpagnaGrandidi

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 3MAGGIO 2009

itinerariTalentuoso e perfezionista,Quique Dacostadefinisce la sua cucinaavanguardista y flamencaNel ristorante di Denia

(Alicante) El Poblet, si gustanopiatti come Corallo, Iceberg,Bruma, ispirati alla naturae agli ecosistemi

In una delle valli più verdi

dei Paesi Baschi,

Bittor Arginzoniz

ha inventato l’alta cucina

alla griglia. Carbone

di quercia e di olivo,

padelle microforate

col laser, pesci, carni

e verdure con profumi

e consistenze

incredibili

DOVE DORMIREOLAZABAL AZPIKOAAxpe-Olazabal

Tel. (+34) 619-322252

Camera doppia da 70 euro,

colazione inclusa

IL RISTORANTEETXEBARRIPlaza San Juan 1

Tel. (+34) 946-583042

Chiuso domenica sera e

lunedì, menù da 70 euro

AtxondoSergi Arola domina

a scena della nueva cocinadella capitale

con il suo “Gastro”,

bistrò ipermoderno,

premiato

con due stelle Michelin

Strepitoso il lombo

di cervo con noci

caramellate

e burro alle spezie

DOVE DORMIREDESIGN HOTEL ABALUPez 19

Tel. (+34) 915-314744

Camera doppia da 95 euro,

colazione inclusa

IL RISTORANTESERGI AROLA GASTRO Calle de Zurbano 31

Tel. (+34) 913-102169

Chiuso sabato a pranzo

e domenica, menù da 85 euro

MadridNato per soddisfare

l’appetito dei visitatori,

il piccolo ristorante

del museo Guggenheim

si è trasformato

in fantastico approdo

gastronomico grazie

a Josean Martínez Alija,

allievo prediletto

del maestro

Berasategui

DOVE DORMIREMIRÓ HOTELAlameda Mazarredo 77

Tel. (+34) 946-611880

Camera doppia da 115 euro,

colazione inclusa

IL RISTORANTEGUGGENHEIM BILBAOAbandoibarra Etorbidea 2

Tel. (+34) 944-239333

Chiuso domenica sera, lunedì

e martedì sera, menù da 70 euro

Bilbao Top ten*

*

Martín BerasateguiUna cucina da gran parade, dove tutto è semplicemente perfetto,

come testimoniano i suoi allievi migliori, sparsi nell’intera Spagna

Strepitoso il piccione asado con pasta all’erba cipollina

e salsa di tartufo

MARTIN BERASATEGUILoidi 4

Lasarte-Oria

Tel. (+34) 943-366471

Chiuso domenica sera, lunedì e martedì, menù da 130 euro

Carme RuscalledaTre stelle Michelin per la minuta, indomita chef capace

di coniugare generosità di sapori, assemblati con sensibilità

e cura meticolosa nella presentazione. Fra le sue creazioni,

una memorabile ratatouille catalana

SANT PAUCarrer Nou 10

Sant Pol de Mar (Barcelona)

Tel. (+34) 937-600662

Chiuso dom. sera, lunedì e giovedì a pranzo, menù da 90 euro

Pedro SubijanaUna lunga carriera e tre stelle Michelin per questo chef colto

e curioso, pronto a continue evoluzioni. Risultato: una cucina

rigorosa, complessa, golosa come il guscio di cioccolato

ripieno di crema di albicocche

AKELARREPaseo Padre Orcolaga 56

San Sebastián (Gipúzcoa)

Tel. (+34) 943-311209

Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 120 euro

Manuel de la OsaCampione della gastronomia autoctona pastoral, figlio d’arte

(nonna, zia e mamma cuoche), elabora materie prime naturali

e freschissime con una tecnica mirabile, come nella zuppa fredda

d’aglio manchego

LAS REJASCalle General Borrero 49

Las Pedroñeras

Tel. (+34) 967-161089

Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 60 euro

Una classifica internazionale, un grande ri-sultato: quattro ristoranti spagnoli nei pri-mi dieci. Certo, non sono io a dover dire se

la lista sia o meno corretta: tutti sappiamo che lacucina, i cuochi, i ristoranti, la degustazione di unpasto sono qualcosa di puramente soggettivo e in-discutibilmente sensoriale, costruito su percezio-ni e gusti molto personali. Però sta di fatto che la cu-cina spagnola — a livello nazionale e mondiale —sta vivendo un momento unico e storico.

In Spagna si sono riunite tre generazioni di cuo-chi. Già si intravede una quarta, che tra meno dicinque anni traccerà linee di lavoro molto impor-tanti e differenti. È un elemento fondamentale eforse questo rende la nostra cucina più forte e plu-rale di tutte.

Fra i grandi di Spagna eletti nella Top World Re-staurant ci sono differenze di età di una decinad’anni, più o meno. Juan Mari Arzak ha ses-sant’anni. Ferran Adrià poco meno di cinquanta,Juan Roca ha poco più di quarant’anni, Aduriz po-co meno. Tra tutti loro, tra tutti noi, è avvenuta unasaldatura, una specie di patto, che ha finito percoinvolgere tutto il Paese, dal contadino al notaio.Abbiamo capito che la cucina d’avanguardia — laparola “molecolare” è fuorviante e non la uso vo-lentieri — sta diventando un’icona, un modo diidentificare una nazione intera e di far salire sensi-bilmente il Pil, che significa maggior ricchezza pertutti. Oggi, un turista su quattro viene in Spagnaper il piacere del cibo. Fantastico, no? Questo nonsignifica che non esistano invidie e gelosie. Maquando vince Nadal, quando vince Alonso, quan-do vince una delle nostre squadre, è un bene pertutti, non di uno solo. Un concetto che ci hanno in-segnato i nostri padri, e che per fortuna abbiamomantenuto ben vivo.

Con l’aiuto del governo catalano e di uno spon-sor intelligente abbiamo messo in piedi un pro-getto incredibile. La Fondazione Alicia è un istitu-to che si occupa di cibo a trecentosessanta gradi,dalla ricerca alla divulgazione. Qualsiasi cuocospagnolo abbia una richiesta — approfondire laconoscenza di un ingrediente, il rapporto tra ciboe malattie o la semplice sperimentazione di nuovecotture — le porte della fondazione sono sempreaperte. Ormai arrivano cuochi, dietologi, biochi-mici, insegnanti da tutto il mondo!

Per questo fatico a comprendere le divisioniche squassano la cucina italiana, oggi importan-te, solida e forte come mai. Quando in Italia tuttoil movimento della cucina d’autore remerà in unasola direzione, sarà senza dubbio il migliore delmondo.

Intanto, io, Quique Dacosta, ristorante El Pobletdi Denia, paesino della regione di Valencia, 61° nel-la classifica stilata a Londra, vi invito a venire dallemie parti, ad assaggiare la mia cucina, a godere delmio locale e della mia brigata. È l’unico modo cheho per mostrarvi la mia opera, farvi sentire la miapassione e il mio progetto di vita, che è la cucina chefaccio e dove la faccio.

Traduzione di Fabio Galimberti

Avanguardieai fornelli

QUIQUE DACOSTA

1 El BulliSpagna

2 The Fat DuckInghilterra

3 NomaDanimarca

4 MugaritzSpagna

5 El Celler de Can RocaSpagna

6 Per SeUSA

7 Michel BrasFrancia

8 ArzakSpagna

9 Pierre GagnaireFrancia

10 AlineaUSA

The San Pellegrino World’s50 Best Restaurants 2009

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 3MAGGIO 2009

Neo vintageEra un decennio in cui la gente si divertiva, le sue iconesi chiamavano Madonna o Grace Jones, donne forti e amantidell’eccesso. E oggi, quasi un esorcismo anti-crisi, rieccoi leggings, i pantaloni stretti come guaine, i micro-abitidai colori fluo, gli short inguinali, insomma lo stile rockstar

Gli anni Ottanta alla riscossa. Con tutti i pezzi più “hot”resi celebri da Madonna e da Grace Jones, le due grandiicone di quella fase, donne con una immagine forte etrasgressiva. I guardaroba femminili dovrebbero esse-re giganti, perché prima o poi tutto torna e chi ha avutola fortuna o l’accortezza di conservare gli abiti-cult

adesso se li ritrova lì, perfettamente vintage e pronti all’uso. Degli an-ni Ottanta, tornano in scena i leggings, i pantaloni stretti quasi fosse-ro una seconda pelle, gli short inguinali e i micro abiti dai colori fluo. Econ loro tornano anche le amate-odiate spalline da infilare ovun-que, nelle giacche come nei vesti-ti. Con la moda che rifà il verso aGrace Jones e a Madonna primaversione, la silhouette femminilecambia. Sopra i volumi si fannopiù ampi e sotto tutto si stringe.Una linea che richiede un corpotonico e palestrato. Come quellodelle rock star.

Dietro questa “ventata Ottan-ta” che ha contagiato la moda atutti i livelli, Armani compreso, si nasconde una voglia di edonismo.«Quelli erano anni in cui la gente si divertiva e così ho voluto recupera-re un po’ di quello spirito», spiega il guru della moda italiana. Ma, comeArmani, sono molti gli stilisti che in tempi di crisi hanno scelto di offri-re una visione più ottimista del futuro, riportando in auge gli anni Ot-tanta. «Io sono innamorata della musica di quel periodo — ammetteFrida Giannini, la stilista di Gucci — e, inseguendo questa passione, hofatto abiti pensati per donne che hanno voglia di vivere la notte e diver-

tirsi». Da Gucci gli abiti, corti e attillati, si portano con i panta-stivali inpelle, stretti come guaine, decisamente sexy. Ovunque le gambe tor-nano in primo piano, fasciate da leggings o da jeans a sigaretta, megliose risvoltati sopra la caviglia e meglio ancora se portati con calza a retee il classico “tronchetto”, lo stivaletto grintoso, con tacco diabolico.

Gli anni Ottanta hanno le loro regole e vanno rispettate. I colori de-vono essere forti, squillanti, decisi. Ne sanno qualcosa Rocco Baroccoe Anna Molinari, che ha fatto collezioni “Madonna style” con mini-bu-stier maculati, jeans “super skinny”, t-shirt e cascate di collane. Gli Ot-

tanta sono un inno agli eccessi, al-la spettacolarità dell’abito. «E nonpotrebbe essere diversamente —spiega Paolo Gerani, il creativo diIceberg — visto che quegli abitidovevano essere fantasmagoricisotto le luci stroboscopiche dellediscoteche». Come lo Studio ‘54 diNew York, dove furoreggiavanopersonaggi come Jerry Hall, Bian-ca Jagger e Diane von Fürsten-berg. E dove la gente faceva gara achi osava di più.

In omaggio a Grace Jones e alle “femmine volutamente pericolose”,Alessandro Dell’Acqua ha ingabbiato nei suoi micro abiti catene, pail-lettes, borchie e cristalli. «Gli anni Ottanta hanno portato una bella ri-voluzione nel guardaroba femminile e il colore è decollato alla gran-de», ricorda Francesco Martini di Coveri. Una rivoluzione che con-templava capelli biondo platino alla maniera di Madonna o teste-scul-tura come quelle di Grace Jones, la regina della disco music, diventatapresto l’icona gay.

Parola d’ordine“trasgressione”

LAURA ASNAGHI

ANNI ’80

ALLEGRIACome gli abiti, anche

gli accessori sono coloratissimi

Il bauletto di Coveri,

creato da Francesco Martini,

è per ragazze allegre

e divertenti

ARCOBALENOArcobaleno di coloriper la pochette da portarea tracolla con una piccolacatena di metallo. Da Etrogli Ottanta si traduconoin gonne di pitone spalmatooro e sandali con laccetti

VITA STRETTAStivali in pelle che arrivano

all’inguine e mini abitistretti in vita da cinturecorsetto. È lo stile anniOttanta secondo Guccicreato da Frida Giannini

EDONISTACascata di collane,

top maculato e short

È edonista la donna

Blumarine, il marchio

che si rifà a Madonna

FANTASIOSADa Angelo Marani gli anni

Ottanta sono un mix

di borchie, calze in lattice

e abiti dove le fantasie

esplodono con forza

PELLE SU PELLESpirito ribelle

per le ragazze di Dsquared

con pantaloni attillati

in pelle nera, maglietta

e gilet decorato con strass

ACCESSORIATAÈ super accessoriata

la donna di Louis VuittonBorsa, cintura e collana

si portano con minigonna,maxi giacca e stivali alti

POP ARTStampe pop art a base

di copertine di riviste

di moda per i leggings

di Miss Sixty, portati

con coprispalle di piume

TRONCHETTOSono firmati Pura Lopez i classici

stivaletti a tronchetto, un pezzoforte del look anni Ottanta

Si portano con la minigonnao con pantaloni stretti a guaina

MODA IN VIOLATra i colori degli anni

Ottanta, torna

con forza il viola

Lo stivaletto

di Costume National

è armato di zeppa

e tacco molto robusto

ROSE E SPINEI sandali feticciodi Roger Vivier,

disegnati da BrunoFrisoni, sono in raso

fucsia con decoridi paillettes. Sul tacco

la spina di una rosa

PAILLETTESStivaletto da sera

con profili e punta dorata,

incrostato di paillettes

nere per la collezione

anni Ottanta di Armani,

arricchita da un doppio

giro di cinturini

le tendenze

GR

AC

E J

ON

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NI’80 / F

OT

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Repubblica Nazionale

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3MAGGIO 2009

l’incontroProvocatori Non ha uno studio, non usa né le mani

né i colori.Eppure, appendendo cavalliimpagliati al soffitto o impiccandobambini-fantoccio nelle piazze,

è diventatouno dei più quotati artisticontemporaneiUno dei suoi segretiè l’azzurro delle piscineche frequenta al mattino:“È meraviglioso tuffarsi

con le idee confuse e, dopo una decinadi vasche, vedere come tutto nella testacomincia a funzionare”

Io ho sempredetestato lavorareE pensareche ho fatto di tutto:il contabile, il cuoco,l’infermiere,il tecnico di computer,perfino la donnadelle pulizie...

MILANO

Le albe di Maurizio Cattelanhanno tutte lo stesso colo-re. Quello azzurro elettricodelle piscine di ogni città

del mondo dove, ogni mattina, nuota.Un’ora e trenta minuti senza fermarsimai. Parigi, Tokyo o New York non con-ta. L’importante è immergersi. Unabracciata dietro l’altra. Respirare espezzare il fiato. Per lavare idee e tor-menti. Perché lui, il più quotato e pro-vocatorio degli artisti italiani, di tor-menti se ne intende. E sotto quella fac-cia sghemba, da apparente burlone,non riesce a nascondere gli occhi ma-linconici. Ma poi spazza via tutto conuna risata.

Quella stessa risata con cui rompe ilsilenzio irreale di un pomeriggio pri-maverile, nella magia fiorita di ParcoSempione. Mentre intorno la freneticaMilano della finanza si agita, lui arrivalento pedalando su una bicicletta scal-cinata. Sguardo fulminante e battutapronta. Jeans neri e scarpe assurde. È al-to e lievemente abbronzato. Sembra unragazzo e non l’artista che Le Monde hadefinito «il primo surrealista del terzomillennio». E neppure quel maestro diprovocazioni noto in tutto il mondo peraver colpito il Papa con un meteorite eaver messo Hitler in ginocchio.

Maurizio Cattelan si sposta veloceper schivare l’insolenza di un raggio disole e finge di cadere dalla panchina. Siagita irrequieto mentre spiega come ilnuoto, ogni giorno, gli regola l’esisten-za. «Ho cominciato da adulto e ho unpessimo stile, però la piscina segna il rit-mo delle mie giornate, anzi direi che or-mai mi muovo in funzione di dove an-dare a nuotare. E poi vedere la gente inacqua aiuta a capire un popolo. Gli ita-liani per esempio vivono nel privilegio,i tedeschi sembrano dei lottatori inun’arena, gli austriaci entrano in acqua

a otto anni e escono a ottanta». Perché Cattelan è uno che la gente la

osserva. In una bustina di plastica, nelcestino della bici, c’è un taccuino dovescrive quello che vede. E poi pensa, leg-ge giornali, risponde alla posta, annusail mondo che lo circonda. Il telefonoquello invece no, lo infastidisce. Ha bi-sogno del vuoto. Giornate solitarie incui cerca di creare. La fantasia come an-tidoto al lavoro. «Io ho sempre detesta-to lavorare e pensare che ho fatto di tut-to: il contabile, il cuoco, l’infermiere, iltecnico del computer. Anche la donnadelle pulizie». Ogni volta però finiva al-lo stesso modo: quel nodo alla gola chefa scappare lontano. «Vengo da Padova,da una famiglia di operai con tre figli, esono cresciuto con la chiarissima rego-la che, se non lavori, non mangi. A di-ciassette anni ero apprendista contabi-le e la sera studiavo in un istituto tecni-co. Non è facile quando sei ancora unragazzo e vedi i tuoi amici che si diver-tono mentre tu fatichi tredici ore al gior-no. Ogni tanto pensavo: ma come fac-cio ad andare avanti?».

Alla seconda bocciatura a scuola hadeciso di abbandonare gli studi ed è en-trato come infermiere in ospedale. C’èrimasto quattro anni: «La cosa più bellaera far ridere i malati, capire che gli re-galavi un’emozione. Poi mi hanno tra-sferito nella camera mortuaria e a poiancora a smistare i rifiuti, e allora ho de-ciso che era l’ultima volta che volevo es-sere schiavo degli altri. Quando mi so-no licenziato, mi hanno guardato comese fossi pazzo perché rinunciavo al po-sto fisso ma, in quel momento, ho rico-minciato a respirare».

Non ha più ripreso neppure gli studiperò recentemente l’Università diTrento gli ha conferito una laurea ho-noris causa e lui, burlone come sempre,ha regalato all’ateneo un asino imbal-samato. Titolo: Un asino tra i dottori.Tra i venticinque e i trent’anni si è tra-sferito a Forlì e per arrangiarsi ha cerca-to d’inventarsi quelle che definisce«forme parallele di sopravvivenza».«Un giorno sono entrato in un negozioe ho comprato il mio primo libro di Car-lo Giulio Argan. Ho passato la notte sve-glio a guardare le foto e mi sembravad’impazzire dalla bellezza. Ho sempreamato sapere e anche nel mio rapportocon l’arte non c’è mai stata determina-zione ma curiosità». A un certo punto èarrivata l’urgenza, forte e incontrollabi-le, di fare qualcosa con le mani. Un pro-getto che gli frullava nella testa. «Ho rea-lizzato delle lampade di design e le hoportate a Milano. Così per un anno hovissuto in un negozio di mobili in viaSolferino. Ho dormito in tutti i letti del-

lo show room ma il mio sogno era tra-sferirmi a New York e, appena ho potu-to, ho realizzato una piccola pubblica-zione a mie spese e su mille copie nove-cento le ho inviate in America».

Non c’è stata scuola d’arte per Mauri-zio Cattelan. I suoi professori sono statiil fabbro e i venditori di mobili. «Ci homesso dieci anni per avere il coraggio didire in giro che facevo l’artista. Mi aspet-tavo che l’arte fosse qualcosa di specia-le invece, quando sono entrato in quelmondo, la magia è scomparsa». Nono-stante questo, continua ad emozionar-si. Gli occhi scuri che brillano solo a par-larne. «Quando finisco un’opera, perdue ore provo un’emozione di grandeintensità, violenta come un sentimento.Continuo nella ricerca proprio per capi-re dove porta quel tipo di piacere così to-tale e, soprattutto, per riuscire a passarela stessa emozione al pubblico».

È diventato famoso per i suoi colpi diteatro. Una volta ha appeso il suo galle-rista a un muro con lo scotch. Un’altraha organizzato la “sesta biennale” del-l’arte ai Caraibi (peccato che nessunoavesse mai fatto le prime cinque) dove

non c’erano opere ma solo giornalistisenza parole. Nel ‘93 a Venezia ha mes-so in scena Lavorare è un brutto mestie-re: un modo tutto alla Cattelan, tra laburla e l’ironia, per criticare il sistemadelle esposizioni. Ma soprattutto hasconvolto il pubblico, e il mercato del-l’arte, con le sue opere. Ha debuttato nel1991 realizzando Stadium un lunghis-simo tavolo da calcetto con undici gio-catori senegalesi e altrettanti del Cese-na. Poi si è inventato una tela squarcia-ta alla maniera di Lucio Fontana con laZ di Zorro e uno zigzag come firma.

Ha messo Hitler in ginocchio per far-gli chiedere perdono al mondo e, con-temporaneamente, ha portato la scrit-ta Hollywood su una discarica di Paler-mo. Ha appeso un cavallo imbalsama-to ai soffitti del Castello di Rivoli e lo hachiamato La ballata di Trotsky. Ha lega-to un lenzuolo bianco alla finestra di unmuseo per simulare la fuga d’artista. Lasua Nona Ora, quella che raffigura Gio-vanni Paolo II, è stata battuta dalla casad’aste Christie’s per quasi novecento-mila dollari e, solo tre anni dopo, daPhillips de Pury al prezzo record di tremilioni di dollari. «E pensare che quel-l’opera l’ho odiata, non riuscivo a farmivenire un’idea e più guardavo il Papaseduto e meno mi piaceva. Allora hopensato di distruggerlo ma, per farlo,l’arma doveva arrivare dall’alto. Per meè stato un modo per sconfiggere l’Edipoe per sistemare un irrisolto che stava lìda troppo tempo». Infine ha rischiato diessere linciato a Milano quando ha ap-peso dei bambini fantoccio impiccati inpiazza XXIV Maggio: «Pensavo fosse unmodo per rivedere la fiaba di Pinocchioin una versione Cnn e sono dovutoscappare perché la gente mi voleva ag-gredire fisicamente».

Lo hanno accusato di aver contribui-to alla bolla del mercato, con le sue quo-tazioni da capogiro, ma lui della febbredell’arte parla con dispiacere: «Anchel’opera è diventata un prodotto. Per cin-que anni siamo stati prigionieri di un si-stema mostruoso in cui parlavamo solodi soldi, al vertice c’erano degli specula-tori raffinati che, tutti insieme, ti tra-sformavano in un dio. Poi si passava aun’altra spremitura e tu, se eri al massi-mo, vivevi nel terrore di quando si sa-rebbero stancati di te e cominciavi asentire l’odore della fine». La sua vitaperò non è cambiata. A New York, comea Milano, vive in case minimali e senzaun quadro alle pareti. Ovunque bici-clette per muoversi liberamente. Pochiamici. Nei rapporti sentimentali è un ir-requieto. «Talvolta sono un single ma-lefico ma soprattutto la mia priorità è illavoro. Diciamo che oscillo tra il ro-

manticismo e la mostruosità». Gli pia-cerebbero dei figli, perché li consideraun modo per rigenerarsi della coppia eun testamento genetico, ma potrebbepensarci sul serio solo se potessero ave-re la stessa indipendenza dei suoi lavo-ri. Quando ha completato un’opera, in-fatti, non vuole più vederla. «I miei figliartistici nascono già orfani, li devo eli-minare per purificarmi».

Della morte non ha paura ma pensache «la vita potrebbe anche finire conun suicidio, non per disperazione soloper stanchezza di vivere». Cattelan pro-duce pochissimo. Una o due volte in unanno. Non ha uno studio. Non usa lemani e neppure i colori. Più che un crea-tivo si considera uno che aggiungequalcosa al linguaggio. «Siamo tempo-raneamente in questo mondo e, se unoè bravo, riesce a inserire dei significati.Io mi muovo in un perimetro in cui miconfronto e cerco di capire cosa succe-de intorno». Quando ha finalmente leidee chiare alza il telefono e dispone. «Iprimi tempi l’ansia della scadenza midistruggeva, era un bestia che mi porta-va a gesti estremi e originava l’atto crea-tivo. Ora sono più sereno e so che sonoun professionista: alla fine qualcosapresento sempre». Anche in questo lapiscina lo aiuta. «La cosa meravigliosa ètuffarsi con le idee confuse e, dopo unadecina di vasche, vedere come tuttonella testa comincia a funzionare». Ladisciplina e il rigore al primo posto. Nona caso è un uomo della Vergine.

Per anni non ha rilasciato interviste.Ha usato delle maschere. «Quando haisuccesso, sei costretto a essere pubbli-co perché niente di quello che arriva ègratis». Forse è solo un timido. Ora ha ri-preso a parlare ma sembra stupito che igiornalisti lo vogliano incontrare: «Per-ché hai pensato d’intervistare propriome?». Di una cosa sola sembra aver pau-ra. Di perdere tempo. E non ha dubbiquando dichiara: «Oggi ho capito chel’unico lusso che non puoi comprare èil tempo».

IRENE MARIA SCALISE

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Maurizio Cattelan

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Repubblica Nazionale