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PANTANI È TORNATO

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Pantani è tornato

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DaviDe De Zan

Pantani è tornato

il complotto, il delitto, l’onore

Prefazione di GiorGio Terruzzi

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Si ringrazia la famiglia Pantani per la collaborazione e l’autorizzazione a riprodurre foto private nell’inserto fotografico.

redazione: Edistudio, Milano

iSBn 978-88-566-4461-6

i edizione 2014

© 2014 - eDiZioni PieMMe Spa, Milano www.edizpiemme.it

anno 2014-2015-2016 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso eLCoGraF S.p.a. - Stabilimento di Cles (tn)

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A mio padre e a Marco, nel mio cuore per sempre.

…ve l’avevo promesso.

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«L’unico vero viaggio verso la scoperta non con-siste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.»

Marcel Proust

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Prefazione

Questo libro corre lungo una cicatrice. Punti di sutura praticati sul destino drammatico e amarissimo di Marco Pantani. Per questo, di Pantani, continuiamo un po’ tutti a parlare, a discutere, a ricordare, maneggiando la sensa-zione di avere a che fare con ombre e misteri, violenze ed errori. Una sequenza di atti così controversi da impedire, soprattutto alla famiglia di Marco, una pace come com-pendio alla pena.

Davide De Zan, nel suo appassionato lavoro di ricostru-zione, fa una scelta di campo esplicita e sospinta dall’affetto per un campione ammirato, per una persona amata. Pancia e testa, dunque. Con la convinzione e l’emozione di un re-porter alle prese con molti elementi scabrosi che toccano perennemente l’emotività, che lo portano a un convinci-mento netto e finale. Davide ripercorre le tappe clamo-rose di una squalifica prima, di una morte maltrattata poi. Mette assieme le contraddizioni di un’indagine superficiale al punto da produrre, a distanza di molti anni, la riaper-tura dell’inchiesta da parte della magistratura. Quindi, un giallo, giallo vivo, che evoca l’omicidio in luogo del suicidio.

Dunque, cosa abbiamo in questo libro? Un viaggio nel dolore. Una quantità di dati contraddittori. La certezza

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di trovarci ancora molto lontani dalla verità. Poi abbiamo dell’altro. il ciclismo moderno, con i suoi scandali e le sue vergogne; il carattere ambivalente di un ragazzo fortissimo sui pedali e poi fragile, vulnerabile. L’intensità che accom-pagna un’avventura umana fatta di luci abbaglianti e di ombre scure: ciò che rende indimenticabile il protagonista.

è sempre così quando incontriamo una figura speciale. restiamo sconcertati da ciò che un campione mostra nei momenti in cui prevale il talento, qualcosa che gli per-mette gesti a noi estranei, per noi irraggiungibili. e poi ci innamoriamo quando questo stesso campione manifesta emozioni, sentimenti, debolezze che – al contrario – ci ri-guardano eccome, fanno parte della nostra umana, nor-malissima, preziosa quotidianità. Per questo, credo, Pan-tani resta qui. Luce e ombra, appunto. Un fenomeno ma anche un ragazzo che somiglia a un amico, a un figlio, a ciascuno di noi.

non c’è unanimità di giudizio su Marco. i suoi valori ematici, negli anni dei voli lungo le salite e delle sue rovi-nose cadute, mostrano una consuetudine tipica e ciclistica a forzare le regole. Chi rimprovera, ancora oggi, a Pantani di aver violato valori sportivi e persino la tutela della pro-pria persona, ha molti argomenti sui quali appoggiare una tale convinzione. Ma qui – indipendentemente dalla di-scussione sul doping e Pantani, sul doping e il ciclismo e indipendentemente addirittura dalla tutela che applica De Zan al “suo” campione – si tratta di altro.

Si tratta di misurare il lato oscuro del successo. Di attra-versare altre ombre. Quelle che di fatto permangono sulla clamorosa squalifica di Madonna di Campiglio, 1999 e, soprattutto, sulle circostanze che determinarono la morte di Pantani a rimini nel 2004. Credo sia possibile segnare una demarcazione tra ogni opinione personale su Marco

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Pantani e i curiosi, contraddittori, elementi che accom-pagnarono un crollo intimo spaventoso. Così, non credo serva star qui a giudicare i comportamenti pregressi del campione, nel momento in cui emergono sospetti palesi, connessi a una persona che ha perso la vita.

Pantani? tutt’altro che innocente. Pantani? vittimista al punto da perdere voglia di correre, voglia di vivere, di-sposto a cedere alla cocaina. Bene, anche pensandola così, abbiamo un caso spalancato. Pantani è stato “catalogato” come vittima di se stesso. Quando invece – come racconta Davide – per la stessa vittima possiamo e dobbiamo aspi-rare a un atto di giustizia più fermo e meno sommario; at-tento e credibile. Un atto dovuto, ecco, nei confronti di un uomo perduto.

ogni lettore credo possa farsi un’idea personale. Penso sia possibile accogliere il punto di vista di De Zan in toto, in parte o per niente. non importa. Davide è mosso dalla curiosità a sua volta mossa dall’affetto. Ma anche riper-correndo con glaciale razionalità ciò che accadde in quella stanza di rimini durante l’ultimo atto della vita di Pantani, credo sia impossibile dare per buona la versione ufficiale, considerare chiuso questo capitolo.

Sono i fatti concreti, dunque, a rendere rilevante que-sto libro. nuove prove che emergono a distanza di anni proiettando una luce diversa su quella prima indagine che appare ora come un insieme di mattoni sghembi, inutili per costruire una casa, una teoria consistente. il che costringe Marco Pantani a pedalare ancora, come un fantasma senza pace, tra i nostri pensieri e l’amarezza che nega, alla fine, una quiete, quella serenità che sopraggiunge dopo una lunga corsa, a traguardo tagliato.

Giorgio Terruzzi

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Pantani è tornato

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Prima ParTe

5 giugno 1999Il giorno che cambiò la storia di quel Giro d’Italia.

Il giorno che cambiò la storia del ciclismo.Il giorno che cambiò la vita di un uomo.

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Questo era Pantani

Marco da piccolo giocava a pallone, il calcio gli piaceva da matti, ma era molto attratto anche dalle biciclette e dai ragazzi che facevano le gare.

Un giorno alcuni suoi amici, vedendolo per strada, lo chiamarono e lo invitarono a unirsi a un gruppetto di gio-vani ciclisti che stava andando a fare un giro d’allenamento.

Marco non ci pensò due volte: si buttò subito e con en-tusiasmo in mezzo a tutte quelle ruote.

Ma gli altri possedevano delle bici da corsa, mentre Marco pedalava su una bici normale, oltretutto da donna, pesante, con le ruote larghe e fuori misura per lui. tutta-via non esitò un istante.

Come spesso accade tra ragazzini, non ci volle molto per-ché quell’invito si trasformasse in una sfida, in un gioco di cui il piccolo Pantani doveva essere l’inconsapevole vittima.

i suoi amici, infatti, cominciarono un po’ per volta ad aumentare l’andatura, a forzare il ritmo con l’evidente in-tento di staccarlo e di lasciarlo solo per strada. era una gara impari, eppure non ci fu nulla da fare per i suoi agguer-riti sfidanti. Per quanto scattassero e attaccassero, non ce la facevano a togliersi di ruota quel ragazzino indiavolato sulla bici da donna.

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Marco pedalava come un matto su quel cancello trave-stito da bicicletta, mentre gli altri, sulle loro fiammanti bici da corsa, gli scattavano in faccia senza pietà. Lui su un ma-cigno scricchiolante e pesantissimo, gli altri sulle bici da corsa leggere che filavano frusciando sull’asfalto.

tornando a casa Marco vide suo padre.Quel campioncino in erba era tutto sudato per la fatica

e per quelle corse a perdifiato con gli amici.Con la dolcezza e l’entusiasmo che solo un bambino

può avere, gli urlò con tutta la voce che aveva in corpo: «Babbo! Babbo! Sono stato con quei ragazzi che vanno sempre in bicicletta, le hanno provate tutte per staccarmi, ma non ce l’hanno fatta!».

Questo era Pantani.

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5 giugno 1999 Madonna di Campiglio

Come ogni mattina ero arrivato presto al villaggio di par-tenza. Si annunciava una splendida giornata di sole per il penultimo atto del Giro d’italia.

La tappa era bellissima: partenza da Campiglio e arrivo ad aprica, con il tonale, il Gavia e il Mortirolo a fare da palcoscenico all’ultima vera fatica dei corridori prima della grande festa di Milano.

Prima della celebrazione finale per il dominatore asso-luto di quel Giro: Marco Pantani.

il Pirata aveva già vinto quattro tappe in maniera spet-tacolare ed era in maglia rosa da sette giorni, con un van-taggio sui suoi avversari che era progressivamente aumen-tato di tappa in tappa fino a diventare incolmabile. anche perché in salita nessuno al mondo sarebbe stato in grado di competere con lui.

in quel Giro, a ogni tappa, quello del mattino era un piccolo rituale. a parte le solite interviste e i servizi che dovevo realizzare per i telegiornali, c’era un momento particolare che segnava il vero inizio della mia giornata. il segnale era sempre lo stesso: un boato fragoroso che all’improvviso scuoteva l’aria del villaggio di partenza. Gli applausi festosi e le urla della gente mi dicevano che

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Marco stava arrivando, e io ero lì, pronto come sempre, ad aspettarlo.

ogni giorno incrociavo il suo sguardo, il suo sorriso, e bastavano quei pochi secondi per capire come stava, come si sentiva, e in che condizioni fossero le sue gambe e la sua testa.

Lo conoscevo ormai troppo bene e mi bastava scrutare quella luce che aveva sempre negli occhi per immaginare come sarebbe stata la giornata.

La sua e, di conseguenza, la mia.anche in mezzo a mille persone, c’era sempre un istante

preciso nel quale lui si girava verso di me. ogni santa mat-tina.

era come se io gli chiedessi, pur senza parlare: “Marco come stai?” e lui mi rispondeva subito con il suo sguardo, con un cenno di assenso o con un gesto delle mani e del corpo.

Segnali che valevano più di mille parole.Fino a quel momento era stato un Giro magnifico e

spettacolare. Marco era il re della corsa e l’italia intera si fermava al suo passaggio.

Grazie a lui il ciclismo era tornato a vivere momenti ed emozioni che sembravano d’altri tempi. i tifosi lo venera-vano e gli avversari, costretti a patire ogni giorno sonore sconfitte in salita, lo rispettavano profondamente. era un rispetto che derivava dalla sua indiscussa superiorità in gara, ma anche dal suo carisma personale e dal fatto di aver sempre preso le difese dei corridori, anche nelle situazioni più critiche.

Quel Giro era cominciato tra mille durissime polemiche per i controlli sul sangue e Marco aveva coraggiosamente messo la sua faccia e il suo nome a difesa del gruppo. tutti gli atleti in gara avevano apprezzato quel coraggio, peral-

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tro già dimostrato l’anno precedente sulle strade del tour de France, quando per una situazione analoga si era stac-cato, in maglia gialla, il numero dalla schiena come gesto di solidarietà verso tutti i suoi compagni del gruppo che si sentivano umiliati e maltrattati dalla polizia e dalle autorità francesi dopo l’esplosione del caso Festina, lo scandalo che a inizio tour de France portò all’arresto di un massaggia-tore con la macchina piena di ePo e di altri prodotti dopanti e all’esclusione di una squadra intera dalla gara ciclistica.

togliersi il numero di gara significava rischiare la squa-lifica.

Da più di trent’anni aspettavamo un italiano vincente al tour, eppure Marco non esitò un secondo a sfilarsi quel numero dalla schiena.

Questo era Pantani.

a un giorno dalla fine del Giro, Marco era il domina-tore assoluto della corsa; il secondo in classifica, Paolo Sa-voldelli, si trovava a 5 minuti e 38 secondi, mentre il terzo, ivan Gotti, era staccato di 6 minuti e 12 secondi.

tutto sembrava perfetto, tutto era pronto per il gran fi-nale, per un’altra giornata di spettacolo e per un’altra im-presa del Pirata delle montagne.

alla partenza c’erano bandiere gialle ovunque, a incor-niciare la passione e l’amore per Pantani.

C’erano gioia, allegria ed emozione.Ma all’improvviso tutto cambiò.La notizia fu come una martellata in testa.«Davide, hai sentito? C’è un problema con Pantani!»«Un problema?»«Sì, pare che l’abbiano trovato con l’ematocrito alto!»Capii immediatamente la portata distruttiva di quella

notizia e dell’uragano che stava per abbattersi sul Giro e

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sulla vita di Marco, ma rimasi per più di un minuto immo-bile, quasi paralizzato, incapace di qualsiasi gesto.

in quel minuto infinito era come se tutto si fosse con-gelato attorno a me e a quella frase che cambiava in un at-timo l’orizzonte di quel piccolo grande mondo chiamato Giro d’italia.

vedevo persone, volti e oggetti che fluttuavano come al rallentatore davanti ai miei occhi.

era esploso all’improvviso un casino assurdo, eppure io ero assordato da un silenzio irreale, ovattato, e non riuscivo a sentire nient’altro che quella voce nella mia testa che con-tinuava a ripetermi: “C’è un problema con Pantani! C’è un problema con Pantani!”.

in un istante prendevano forma tutti gli oscuri presagi che a più riprese avevano accompagnato i discorsi più o meno espliciti di molti “suiveurs” che in diverse occasioni avevo dovuto, mio malgrado, ascoltare.

La cattiveria e il sospetto sono da sempre compagni dell’uomo, e in questo senso il ciclismo non fa differenza; in molte squadre c’era chi pensava che Pantani facesse uso di chissà quale propellente per potenziare il suo mo-tore. e non passava giorno senza che qualcuno dicesse la sua sull’argomento. Sospetti, insinuazioni e accuse più o meno velate, condite da un’invidia senza fine per l’atleta che stava vincendo il Giro alla grande.

Come in un déjà vu rimasi lì fermo, immobile, con mille pensieri che mi urlavano nella testa e con le gambe incapaci di portarmi verso parole e conferme che non volevo sentire.

Come in trance risalii dal villaggio di partenza fino all’ho-tel di Marco, il touring. arrivato lì, mi trovai immerso in una bolgia incredibile.

C’erano microfoni, telecamere e giornalisti di tutto il mondo.

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C’erano tifosi inviperiti o curiosi, bambini che piange-vano e genitori incapaci di dare loro spiegazioni plausibili.

La notizia era esplosa come un ordigno nucleare, pro-pagando ovunque rabbia, disperazione e sconcerto. era-vamo tutti sotto shock e come automi cercavamo di ca-pire quale fosse, in quella situazione allucinante, la cosa giusta da fare.

io stavo malissimo, ero disorientato e sconvolto, eppure dovevo svolgere come sempre il mio lavoro: ero un cronista e non potevo farmi trascinare da quello che sentivo den-tro, non potevo cedere alla voglia di gridare al mondo che tutta quella vicenda mi sembrava impossibile.

Dovevo rimanere calmo, coerente e lucido. Questo im-poneva la mia professione.

Dovevo raccontare quella notizia clamorosa, e dovevo farlo nel modo migliore.

in quel momento l’uomo faceva a pugni col professio-nista.

nella camera numero 27, Marco Pantani era disperato.Sapeva di essere innocente, ma sapeva anche che nes-

suno gli avrebbe creduto.vibrò un pugno contro un vetro, imprecò, pianse.Di colpo il re era diventato un intruso nel proprio mondo.Un mondo che lui adesso doveva affrontare, da reietto,

prima di andarsene via.respinto, espulso, sgradito.Marco provava disperazione e vergogna. Una vergogna

che mai prima di allora aveva conosciuto e che da quel mo-mento non l’avrebbe più abbandonato.

a quel punto accadde qualcosa di incredibile: le sue gambe, che fino a quel momento lo avevano portato a volare sulle montagne più impervie, di colpo cedettero di fronte

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al peso di tutte quelle emozioni tremende. erano diventate instabili e malferme per lo shock e il dolore.

non appena Pantani uscì dall’ascensore per fare il suo ingresso nella hall dell’albergo, con tutta quella gente che lo aspettava fuori, ebbe un cedimento. Le gambe si piegarono.

Fu in quel preciso istante che i carabinieri, chiamati dai proprietari dell’hotel per presidiare una situazione che po-teva degenerare da un momento all’altro, corsero verso di lui per sorreggerlo.

Gli uomini in divisa avevano un unico scopo: proteg-gere Pantani, fargli da scudo in mezzo a quel trambusto che stava montando all’esterno e difenderlo da quella calca infernale, sempre più pressante e pericolosa.

i carabinieri erano lì solo e soltanto per questo: volevano aiutarlo in quel momento terribile.

Ma l’immagine che rimbalzò in ogni angolo del mondo, con quei militari in divisa di scorta attorno a lui, trasmise l’impressione di uno scenario delittuoso. Marco sembrava una persona tratta in arresto.

nel vederlo andare via compresi, con il cuore scorticato, che la carriera del più grande scalatore di tutti i tempi era giunta al traguardo finale.

anche quella mattina i nostri sguardi si incrociarono, ma stavolta in quegli occhi non c’era più alcuna luce. al suo posto vidi solo un nero profondo e impenetrabile.

Quel giorno non gli strapparono solo la maglia rosa e una grande vittoria. Gli lacerarono l’anima, gli pugnala-rono il cuore e gli rubarono la dignità.

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«Ci sono tanti dubbi su tutto. Anche sulla sua morte.»

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L’uscita di scena

Le parole pronunciate da Marco poco prima di andare via non facevano che confermare ciò che in quel momento nes-suno, forse, voleva vedere: la sua vita di atleta era finita, e probabilmente non solo quella.

«io sono stato controllato già due volte, avevo già la ma-glia rosa e avevo 46 di ematocrito… oggi mi sveglio con una sorpresa. Credo ci sia qualcosa sicuramente di strano e devo dire che ripartire, questa volta… sono ripartito dopo dei grossi incidenti… ma moralmente, questa volta, credo che abbiamo toccato il fondo.

in questo momento vorrei solamente un po’ di rispetto e un saluto ai tifosi.

Mi dispiace solo per il ciclismo che ancora una volta esce in un modo…»

Marco non riuscì a terminare quell’ultima frase.abbassò lo sguardo e se ne andò.Sconfitto.tutti in quel maledetto giorno stavano perdendo qual-

cosa, e da allora nulla sarebbe stato più come prima: la storia di quel Giro era stata stravolta, la storia del ciclismo sarebbe cambiata per sempre e la vita di un uomo iniziava il suo conto alla rovescia verso un tragico destino.

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Quel famigerato test ematico di Campiglio era da in-validare.

il regolamento prevedeva infatti che ogni atleta avesse la possibilità di scegliere la provetta in mezzo ad altre, in modo che la decisione fosse assolutamente casuale. Strana-mente, però, quel giorno non fu così e la scelta del conte-nitore per il sangue di Marco avvenne in un’altra maniera: l’ispettore incaricato consegnò personalmente a Pantani la provetta per l’esame del sangue senza alcuna possibilità di scelta; e Marco, che evidentemente aveva la coscienza pulita, non si oppose a quella incredibile – e vietata – va-riazione della procedura.

Di fronte a quell’errore grossolano Pantani poteva tran-quillamente rifiutarsi di sottoporsi al controllo. non lo fece. era tranquillo e sicuro di non aver nulla da nascon-dere.

Qualche ora dopo, nella concitata e improvvisata confe-renza stampa all’hotel touring, andrea agostini, addetto stampa della Mercatone Uno e amico di vecchia data di Pantani, disse a caldo: «Se qualcuno voleva orchestrare un attentato al ciclismo, questa volta ci è riuscito!».

nel 2013, in una delle sue tante velenose rivelazioni, l’ex ciclista statunitense Lance armstrong ha accusato aperta-mente Hein verbruggen – ex presidente dell’uci (Unione Ciclistica internazionale) – di averlo coperto e salvato dopo un controllo antidoping positivo durante il tour de France del 1999, il primo vinto dal texano.

L’episodio sarebbe avvenuto a un mese di distanza dalla cacciata di Pantani dal Giro d’italia.

Che strana storia: il Pirata trattato come un traditore e umiliato, neanche fosse un delinquente, e il texano tutelato

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e celebrato come un divo, oltretutto con la benedizione del comandante in capo del ciclismo mondiale.

è la storia di quel 1999: Pantani iniziava il suo calvario e armstrong la sua prodigiosa ascesa. L’americano veniva protetto a qualunque costo, mentre Marco cominciava a morire.