paolo virno - neuroni mirror, negazione linguistica, reciproco riconoscimento

17
Neuroni mirror, negazione linguistica, reciproco riconoscimento Paolo Virno Pubblicato: 2011 Categoria(e): Tag(s): filosofia psicologia politica 1

Upload: piolino6

Post on 21-Dec-2015

76 views

Category:

Documents


3 download

DESCRIPTION

filosofia

TRANSCRIPT

Neuroni mirror, negazione linguistica, reciprocoriconoscimento

Paolo Virno

Pubblicato: 2011Categoria(e):Tag(s): filosofia psicologia politica

1

Prefazione

In questo articolo, in cui riverso alcuni appunti redatti in vista di un la-voro di lungo corso sulla negazione linguistica, mi soffermo su tre ipote-si concatenate. Lungi dal discuterle come meriterebbero, cercherò soltan-to di proporne una formulazione chiara e distinta. La prima ipotesi ètratta per l’essenziale da un bel saggio di Vittorio Gallese, Neuroscienzadelle relazioni sociali (2003). Le altre due concernono il ruolo assolto dallinguaggio verbale nel determinare la socialità della nostra mente.

2

Ipotesi 1

La relazione di un animale umano con i propri simili è assicurata dauna “intersoggettività” originaria, che precede la stessa costituzione del-la mente individuale. Il “noi” è presente prima ancora che si possa parla-re di un “io” autocosciente. Su questa basilare correlazione tra con speci-fici hanno variamente insistito pensatori come Aristotele, L. Vygotskji(1934), D.W. Winnicott (1971), G. Simondon (1989). Vittorio Gallese, unodegli scopritori dei neuroni mirror, l’ha riformulata in modo particolar-mente incisivo, incardinandola a un dispositivo cerebrale. Per sapere cheun altro essere umano soffre o gode, cerca cibo o riparo, sta per aggredir-ci o baciarci, non abbiamo bisogno del linguaggio verbale né, tanto me-no, di una barocca attribuzioni di intenzioni alla mente altrui. Basta eavanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventraledel lobo frontale inferiore.

3

Ipotesi 2

Di questa socialità preliminare, che del resto l’Homo sapiens condivi-de con altre specie animali, il linguaggio verbale non è affatto una poten-te cassa di risonanza. Non bisogna credere, cioè, che esso amplifichi e ar-ticoli con dovizia di mezzi la simpateticità tra conspecifici già garantita alivello neurale. Il pensiero preposizionale provoca piuttosto una lacera-zione in quell’originario co-sentire (l’espressione è di Franco Lo Piparo)cui si deve l’immediata comprensione delle azioni e delle passioni di unaltro uomo. Non prolunga linearmente l’empatia neurofisiologica, ma laintralcia e talvolta la sospende. Il linguaggio verbale si distingue dagli al-tri codici comunicativi, nonché dalle prestazioni cognitive prelinguisti-che, perché è in grado di negare qualsivoglia contenuto semantico. An-che l’evidenza percettiva “questo è un uomo” perde la propria incontro-vertibilità allorché è soggetta all’opera del “non”. Il linguaggio inocula lanegatività nella vita della specie. Animale linguistico è soltanto quellocapace di non riconoscere il proprio simile.

4

Ipotesi 3

Il linguaggio fa da antidoto al veleno che esso stesso immettenell’innata socialità della mente. Oltre a poter contraddire in tutto o inparte la simpateticità neurale, esso può togliere questa contraddizione.L’intersoggettività specie-soecifica dell’animale umano è definita preci-samente da questa duplice possibilità. La sfera pubblica è il risultato in-stabile di una lacerazione e di una ricucitura, della prima non meno chedella seconda. Detto altrimenti: la sfera pubblica deriva da una negazio-ne della negazione. Va da sé che la negazione della negazione non ripri-stina la compatta empatia preliguistica. Il rischio del non-riconoscimentoè introiettato una volta per tutte nell’interazione sociale.

5

Corollari all'ipotesi 1

Corollari all’ipotesi 1. scrive Vittorio Gallese: <<Circa dieci anni fa, ilnostro gruppo ha scoperto nel cervello della scimmia l’esistenza di unapopolazione di neuroni premonitori che si attivavano non solo quando lascimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (ad es. afferrare un og-getto), ma anche quando osservava la stessa azione eseguite da un altroindividuo (uomo o scimmia che fosse), abbiamo denominato questi‘neuroni mirror’ >>. La regione della corteccia premotoria ventrale dellascimmia, all’interno della quale i neuroni mirror realizzano la simulazio-ne, è quella preposta a programmare il comportamento motorio, “nontanto nei singoli passaggi […] quanto i quelli astratti della relazione glo-bale tra l’agente e gli scopi dell’azione” (Napoletano 2003).L’esperimento è stato esteso con successo alla nostra specie. Si è constata-ta la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano: per la preci-sione […] regione del Broca, aree 44 e 45. Quando osserviamo qualcunoche compie una determinata azione, “nel nostro cervello sono reclutati ascaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, inprima persona, a compiere quell’azione” (ibid.). È questo il presuppostoneurofisiologica che consente di riconoscere immediatamente le tonalitàemotive di un con specifico, nonché d’inferire lo scopo a cui mirano lesue azioni.

I neuroni mirror, secondo Gallese, costituiscono il fondamento biologi-co della socialità della mente. Comprendo il pianto di un altro uomo imi-tandone il comportamento a livello neurale, insomma grazie ad un iniziodi innervazione delle mie stesse ghiandole lacrimali. Questo co-sentireautomatico e irriflesso è chiamato da Gallese 'simulazione incarnata’. Leinterazioni di un organismo corporeo con il mondo sono radicalmentepubbliche, già sempre condivise dagli altri membri della specie.L'intersoggettività, di gran lunga anteriore alla formazione di soggetti in-dividuali, non può essere spiegata a partire dai modelli cognitivi di cui siservono questi ultimi: “Molto di ciò che nel corso dei nostri rapporti in-terpersonali attribuiamo all'attività di una supposta capacità di formula-re teorie sulla mente altrui, deriva in realtà da meccanismi molto meno'mentalistici'. Sarebbe cioè il risultato della capacità di creare uno spazio'noi-centrico' condiviso con gli altri. La creazione di questo spazio condi-viso sarebbe il risultato di questa attività di ‘simulazione incarnata’, defi-nita a sua volta in termini sub-personali dell’attività dei neuroni mirror

6

che permettono di mappare sullo stesso substrato nervoso azioni esegui-te e osservate, sensazioni ed emozioni esperite personalmente e osserva-te negli altri” (Gallese. 2003).

L’individuazione di uno spazio noi-centrico – là dove il “noi” nonequivale affatto ad una pluralità di “io” ben definiti, designando piutto-sto un ambito pre-individuale o sub-personale – è il punto filosofica-mente cruciale della riflessione di Gallese. Il medesimo punto è statomesso in luce, ma con altri argomenti e diversa terminologia, anche dallopsicologo sovietico Vygotskji e dallo psicoanalista inglese Winnicott. PerVygotskji la mente individuale, anziché incontrovertibile punto di avvio,è il risultato di un processo di differenziazione che avviene in seno aduna socialità originaria: “il movimento reale del processo di sviluppo in-fantile non dall’individuale al socializzato, ma dal socialeall’individuale” (Vygotskji, 1934). Secondo Winnicott, nella prima infan-zia predomina un’area intermedia tra io e non-io (l’area dei cosiddetti“fenomeni transizionali”): essa non collega due entità già formate, ma, alcontrario, rende possibile la loro successiva formazione come polarità di-stinte. La relazione preesiste, dunque, ai termini correlati (Winnicott,1971). L’importante, per Winnicott come per Gallese, è che questa sogliaindifferenziata o preliminare chiamata “spazio noi-centrico” non è sol-tanto un episodio ontogenetico che si lascia alle spalle, ma la condizionepermanente della relazione sociale. Osserva Gallese: “Lo spazio interper-sonale in cui viviamo fin dalla nascita continua a definire per tutta la no-stra vita una parte sostanziale del nostro spazio semantico” (Gallese,2003). Non è il caso di approfondire, qui, l’inopinata convergenza tra au-tori così distanti. La si consideri, però, il sintomo prezioso di un’obiettivanecessità teorica.

La tesi di Gallese si condensa in questa affermazione: “L’assenza di unsoggetto non cosciente con preclude […] la costituzione di uno spazioprimitivo ‘sé/altro, caratterizzando così una forma di intersoggettivitàpriva di soggetto” (ibid., c.vo mio). Questa formulazione assai radicalerompe i conti con il simulazionismo egocentrico (anzi, solipsistico) se-condo il quale l’animale umano generalizzerebbe alle altre menti ciò cheha appreso della propria. La frase di Gallese appena citata postula unasimulazione operante ben prima che si formino menti individuali in gra-do di apprendere, proiettare, ecc. Il merito grande di questa posizione stanel liquidare molte entità concettuali superflue: un autentico “rasoio diOckam”, direbbe lo storico della filosofia. È del tutto incongruo ascrivere

7

al linguaggio verbale quell’immediata simpateticità aspecifica che i neu-roni mirror realizzano anche in “assenza di un soggetto autocosciente”.Di fronte al comportamento altrui, “quasi mai ci vediamo coinvolti in unprocesso di esplicita e deliberata interpretazione”: non è necessario, cioè,tradurre le informazioni sensoriali in “una serie di rappresentazionimentali che condividono col linguaggio lo stesso formato preposiziona-le” (ibid.). ma è ancora più incongruo evocare una schiera di concetti-fantasma, ubicati a metà strada tra i neuroni mirror ed il linguaggioverbale, post-neurali o pre-linguistici, inetti a dar conto sia di una simu-lazione cerebrale che di una proposizione. La tesi di Gallese restituisce aciascuno il suo: alla neurofisiologica ciò che è neurofisiologica, alla lin-guistica ciò che è linguistico. Così facendo, rende la vita difficile ai pre-tendenti illegittimi. Per spiegare la relazione sociale, non è affatto neces-sario, ad esempio, ipotizzare che ogni animale umano disponga di unaimplicita “teoria della mente”, ovvero sia capace di rappresentarsi le al-trui rappresentazioni. “Se mentre siedo in un ristorante vedo qualcunodirigere la mano verso una tazzina di caffè, comprendo immediatamenteche il mio vicino di tavolo sta per sorseggiare quella bevanda. Il puntocruciale è: come faccio? Secondo l’approccio cognitivista classico, dovreitradurre i movimenti del mio vicino in una serie di rappresentazionimentali riguardanti il suo desiderio di bere il caffè, le sue credenze circail fatto che la tazzina che sta per afferrare sia effettivamente piena di caf-fè, e la sua intenzione di portare la tazza alla bocca per bere. […] Pensoche questa caratterizzazione, in base alla quale la nostra capacità di inter-pretare le intenzioni alla base del comportamento altrui sia esclusiva-mente determinata da mtarappresentazioni create ascrivendo agli altriatteggiamenti preposizionali, sia del tutto implausibile dal punto di vistabiologico” (ibid.).

8

Corollari all'ipotesi 2

Il funzionamento dei neuroni mirror connette la socialità umana allasocialità di altre specie animali. Resta da chiedersi dove passi, e in checosa consista di preciso, la linea di confine tra la prima e la seconda. An-cora Gallese: “La notevole messe di dati neuroscientifici qui brevementeriassunti suggerisce l’esistenza di un livello di base delle nostre relazioniinterpersonali che non prevede l’uso esplicito di atteggiamenti preposi-zionali” (ibid.). D’accordo, ma quali effetti provoca l’innesto del linguag-gio su questo ‘livello di base’? gli atteggiamenti preposizionali (credere,ipotizzare, presupporre, ecc.) assecondano e potenziano la simulazionegià realizzata dai neuroni mirror? O invece la perturbano e ne limitano laportata? Propendo decisamente per la seconda alternativa. Non ho dubbisull’esistenza di un ‘livello di base’ della socialità: a patto, beninteso, chelo si ancori alla neurofisiologica e soltanto ad essa. Mi sembra inverosi-mile, invece, l’idea secondo cui il pensiero verbale si limiterebbe a ornaredi mille raffinatezze lo ‘spazio noi-centrico’ già perimetrato per tempodai neuroni mirror. Ritengo piuttosto retroagisca distruttivamente suquesto ‘spazio’, lacerandone la compattezza originaria. La socialitàspecie-specifica della mente umana è qualificata da una retroazione sif-fatta. Come dire: è qualificata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensio-ne duratura e dalla parziale divaricazione tra co-sentire neurale e pensie-ro preposizionale.

Ogni pensatore naturalista deve rendere ragione di un dato di fatto:l’animale umano può non riconoscere un altro animale umano come pro-prio simile. I casi estremi, dall’antropofagia ad Auschwitz, non fanno cheattestare in modo virulento questa possibilità permanente. Essa si mani-festa perlopiù con modalità mediane, incuneandosi in forme edulcolora-te e allusive negli interstizi della comunicazione quotidiana. Collocata allimite dell’interazione sociale, l’eventualità del non-riconoscimento si ri-percuote tuttavia anche nel suo centro e ne permea l’intera trama.

Che cosa significa non-riconoscere il proprio simile? Il vecchio ebreo èroso dalla fame e piange dall’umiliazione. L’ufficiale nazista sa cosa pro-va questo suo con specifico, in virtù della “simulazione incarnata”, ossiadella “capacità basilare di modellare il comportamento altrui attraversol’impiego delle stesse risorse neurali utilizzate per modellare il nostrocomportamento” (ibid.). ma è in grado di disattivare, almeno

9

parzialmente o provvisoriamente, l’empatia prodotta dai neuroni mirror.Sicché arriva a trattare il vecchio ebreo come un non-uomo. È troppo co-modo imputare la neutralizzazione del co-sentire intraspecifico a ragioniculturali, politiche, storiche. Sempre pronto a sottolineare i tratti inva-rianti della natura umana, il naturalista non può indossare a tradimento,quando più gli fa comodo, i panni dell’ermeneuta relativista. Niente gio-co delle tre carte per cortesia. Va da sé che la dimensione politico-cultu-rale, contraddistinta da una intrinseca variabilità, ha un peso preponde-rante nell’esistenza di qualsiasi essere umano: quel che conta però è met-tere a fuoco la base biologica di questa dimensione e della sua variabilità.L’ufficiale nazista non può non-riconoscere il vecchio ebreo grazie a unrequisito tutt’affatto naturale (dunque innato e invariante) della specieHomo sapiens. Può non riconoscerlo, cioè, perché la sua socialità non èdeterminata soltanto dai neuroni mirror, ma anche dal linguaggio verba-le. Se quei neuroni <<permettono di mappare sullo stesso substrato ner-voso […] sensazione ed emozioni esperite personalmente e osservate ne-gli altri>> (ibid., p. 13), gli atteggiamenti proposizioni autorizzano invecea mettere tra parentesi e contraddire la primitiva rappresentazionedell’altro <<come persona simile a noi>> (ibid., p. 27). La messa tra pa-rentesi del co-sentire neuronale è doveta a quella che forse è la più tipicaprerogativa del linguaggio verbale: la negazione, l’uso del “non”, i moltimodi in cui un locutore può confinare un predicato o un’intera asserzio-ne nella regione del falso, dell’errore, dell’inesistente.

La negazione, se non ci lascia andare a usi metaforici o semplicementedissennati del termine è una funzione solo verbale. Non nego il nero in-dicando il bianco. Lo nego se, e solo se, dico <<non-nero>>. Il tratto di-stintivo della negazione linguistica consiste nel riproporre con segno al-gebrico rovesciato un solo e medesimo contenuto semantico. Il “non” èapposto dinanzi ad un sintagma che continua ad esprimere la cosa o ilfatto di cui si parla in tutta la sua consistenza. La cosa o il fatto sono pursempre designati, e così conservati come significati, nel momento stessoin essi vengono (verbalmente) soppressi.

Supponiamo che l’SS pensi: <<Le lacrime di questo vecchio ebreo nonsono umane>>. La sua proposizione conserva e sopprime ad un tempol’empatia prodotta dalla “simulazione”: la conserva, giacché si parla co-munque delle lacrime di un conspecifico, non di umidore qualsiasi; lasopprime, togliendo alle lacrime del vecchio quel carattere umano che,pure, era implicito nell’immediata loro percezione-designazione come

10

“lacrime-di-un-vecchio”. Solo grazie a questa potere di abrogare ciò cheperaltro si ammette, o per l’appunto di sopprimere-conservando, la ne-gazione linguistica può interferire distruttivamente con un dispositivobiologico “sub-personale” qual è il co-sentire neuronale. La negazione(strettamente correlata alla diade vero/falso e alla modalità del possibile)non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambi-guo reversibile il significato. L’ufficiale nazista può considerare “non-uo-mo” il vecchio ebreo, anche se ne comprende appieno, per immedesima-zione simulatoria, le emozioni. Il pensiero verbale dissesta l’empatia in-traspecifica: in questo senso, esso costituisce la condizione di possibilitàdi ciò che Kant ha chiamato il “male radicale”.

L’ipotesi 2 fa da premessa ad un insieme di ricerche concettuali ed em-piriche. Offre la chiave, forse, per una lettura inconsueta di uno dei testipiù prestigiosi che siano mai stati scritti sulla mente sociale: il capitolo IVdella Fenomenologia dello spirito di Hegel, dedicato per l’appunto al“reciproco riconoscimento delle autocoscienze”. È opinione diffusa chequelle pagine contengano una storia a lieto fine, ossia illustrino il modoin cui il reciproco riconoscimento, superati molti e drammatici intralci,riesce in ultimo a realizzarsi. A me pare un fraintendimento. Se solo sisfoglia senza pregiudizi il capitolo IV ci si accorgerà subito che esso dàconto piuttosto dei diversi modi in cui il reciproco riconoscimento traanimali linguistici può fallire. Hegel presenta un nutrito catalogo di scac-chi e di colpi a vuoto: aggressività che distrugge ogni empatia e trascinaverso la generale autodistruzione; riconoscimento unilaterale del signoreda parte del servo; graduale emancipazione del non-uomo asservito, cheperò smette di riconoscere come uomo colui che in precedenza nonl’aveva riconosciuto; infine, a coronamento sarcastico dell’intero tragitto,la “coscienza infelice” che interiorizza la negatività insita nei rapporti so-ciali, fino a fare dell’aporia e del fallimento un cronico modo di essere. Sipotrebbe anche dire: Hegel delineando questa vistosa catena di insucces-si, mostra come il vivente che pensa con le parole può rendere labile, etalvolta mettere in mora, l’immediata simpateticità intraspecifica, ovverol’opera del neuroni mirror. Pur decifrando immediatamente le emozionie gli scopi del suo simile in base ad un dispositivo neurofisiologico,l’animale umano è tuttavia in grado di negare che costui sia un suo simi-le. L’eventualità del non-riconoscimento: ecco il contributo hegeliano auna ricognizione naturalistica (ma niente affatto idilliaca) della socialitàspecie-specifica dell’Homo sapiens.

11

Tra le ricerche concettuali ed empiriche da sviluppare in baseall’ipotesi 2 spicca per importanza, come ovvio, quella sulla negazionelinguistica. Non solo molti i logici moderni che hanno messo apertamen-te a tema quest’ultima, evitando così di tenerla per un segno operaziona-le primitivo. Quanto ai linguisti, oltre a valorizzare qualche cenno rapso-dico di Benveniste, bisognerebbe leggere e rileggere con attenzione i sag-gi di Culioli sulle diverse forme che prende la negazione nelle linguestorico-naturali (Culioli 1990-2000). I materiali più promettenti sono re-peribili, però, nelle indagini degli psicologi sperimentali e nelle operedella tradizione metafisica. Per quanto riguardo le prime, mi limito a ri-cordare le analisi delle “relazioni tra affermazioni e negazioni” nel pen-siero infantile prodotte dai collaboratori di Piaget (Piaget e altri 1973 e1974). Per quanto riguarda le seconde, la cittadella da espugnare è e restail Sofista di Platone.

A me pare che l’epicentro teorico di questo dialogo, ossia la discussio-ne serratissima su come si può negare ciò che è e affermare ciò che non è,descriva minuziosamente una tappa ontogenetica. Il rivoluzionamentoprovocato nei primi anni di vita dall’innesto del linguaggio sulle prece-denti forme di pensiero è ricostruito lì, nei minimi particolari. La possibi-lità di negare, di asserire il falso, di intrattenere alacri rapporti con il non-essere, non è data per scontata, ma, anzi, suscita una genuina meravigliae pone questioni spinose. <<Il fatto che si possa dire una cosa, e che que-sta cosa non sia vera, è un problema di straordinaria difficoltà>> (Soph.,236 e 1-3). Il Sofista è forse la sola opera filosofica che prenda sul serio iltraumatico avvento del “non” nella vita umana. In un certo senso, il testoplatonico non fa che interrogarsi su quel che accade quando il bambino,a un certo stadio del suo sviluppo, diventa capace di dire irosamente asua madre <<Tu non sei la mia mamma>>. La prima e decisiva scopertadi ogni locutore debuttante è la facoltà di dire le cose come non sono:proprio questa facoltà, infatti, determina una cesura rispetto alle pulsionipre-linguistiche e consente di contravvenire in certa misura al co-sentirenaturale.

Il fedele ritratto di una tappa ontogenetica, nonché la rivendicazionedella sua duratura attualità, non sono però gli unici motivi che consiglia-no di tenere sotto gli occhi il Sofista allorché si discute – da naturalisti, ofcourse – della mente sociale. C’è di più. È abbastanza noto che per Plato-ne negare un predicato significa asserire che l’oggetto del discorso è“diverso” (heteron) rispetto alle proprietà attribuitegli da quel predicato.

12

L’eterogeneità non ha nulla a che fare con la contrarietà: <<Se dirannoche la negazione significa il contrario del termine negato, noi non saremod’accordo limiteremo tale asserzione a questo; che il ‘non’, il segno dellanegazione cioè, premesso a uno o più termini, indica soltanto qualcosa didiverso dai termini che lo seguono, o meglio, qualcosa di diverso dellecose a cui si riferiscono i termini pronunciati dopo di esso>> (ibid., 257b9-c39). Se dico “non bello”, non dico “brutto”, ma lascio aperta la stradaa un insieme potenziale di predicati diversi: “rosso”, “noioso”, “gentile”,ecc. questi ulteriori predicati non sono incompatibili con quello negato,cioè con “bello”, tant’è che in un diverso contesto enunciativo possonoessere anche correlati ad esso. L’heteron, vera posta in palio della nega-zione linguistica, aiuta a capire la dinamica del non-riconoscimento traanimali umani. Il tenente nazista, che dice “non uomo” a proposito delvecchio ebreo piangente, non intende il contrario di “uomo” (non ritiene,cioè, di avere davanti a sé un gatto o una pianta), ma qualcosa di diversoda “uomo”: per esempio “totalmente inerte”, “privo di ogni dignità”,“tale da esprimersi solo con lamenti inarticolati”. Nessuno può affermareche l’ebreo (o l’arabo, nel caso di Oriana Fallaci) sia il contrario logico delpredicato “umano”, dato che i neurosi mirror attestano la cospecificitadel vivente in questione. Il non-riconoscimento si radica piuttosto nel po-tere linguistico di evocare una diversità che, essendo di per sé potenzialee indeterminata, viene circostanziata di volta in volta mediante il ricorsoa qualche proprietà contingente (il comportamento fattuale dell’ebreo odell’arabo, per esempio). Quando il bambino dice alla madre <<Tu nonsei la mia mamma>>, dice in effetti che essa non è ciò che per altri versiindubbiamente è. Il bambino prende dimestichezza con l’heteron, con ildiverso. Il nazista e Oriana Fallaci esibiscono il profilo atroce di questastessa dimestichezza.

Corollari all’ipotesi 3. Il linguaggio non civilizza l’aggressività intra-specifica, ma la radicalizza oltremisura , portandola a quel limite estremoche è il dis-conoscimento del proprio simile. È senz’altro legittimo affer-mare che il pensiero proposizionale riplasma da cima a fondo il co-senti-re neurofisiologico. Salvo aggiungere una precisazione essenziale:“riplasmare” significa anzitutto che il pensiero proposizionale erodel’originaria sicurezza del co-sentire. Soltanto questa erosione, di per sétragica, apre il varco ad una socialità complessa e duttile, costellata dipromesse, regole, patti, progetti collettivi. Sarebbe sbagliato credere cheun discorso inteso a persuadere gli interlocutori sia il prolungamento“culturale” dell’empatia “naturale”, istituita fin da principio dai neuroni

13

mirror. Il discorso persuasivo è piuttosto la risposta tutt’affatto naturalealla lacerazione dell’empatia neurofisiologica a opera della negazionelinguistica. L’argomentazione retorica, con tutte le sue finezze espressi-ve, introietta la possibilità del non-riconoscimento e la sventa sempre dinuovo. Non fa che disattivare, con proposizioni perspicue, la parziale di-sattivazione del co-sentire provocata dal pensiero proposizionale. Neiparagrafi 23 e 25 delle Ricerche filosofiche (1953), Wittgenstein affermache la “storia naturale” della nostra specie consiste (anche) in un insiemedi pratiche linguistiche: comandare, interrogare, raccontare, chiacchiera-re, elaborare ipotesi, coniare una battuta di spirito, ringraziare, impreca-re, salutare, e così via. Ebbene, queste pratiche linguistiche tengono a fre-no la negatività inoculata nella vita animale dallo stesso linguaggio ver-bale; regolano l’uso del “non” e delimitano la gittata dell’heteron; con-sentono insomma il reciproco riconoscimento tra viventi che potrebberoanche dis-conoscersi.

La sfera pubblica tipicamente umana ha il suo baricentro nella nega-zione di una negazione: è un “non” collocato dinanzi al latente sintagma“non-uomo”. Il potere della negazione linguistica si esplica anche rispet-to a sé medesima: il “non” che sopprime-e-conserva può essere a sua vol-ta soppresso (e conservato come eventualità catastrofica, passibile di infi-nito differimento). Lo “spazio noi-centrico”, che la simulazione incarnatadischiude al momento della nascita, diventa una sfera pubblica non giàmediante un rafforzamento evolutivo, ma, tutto al contrario, in seguito alsuo infragilimento carico di rischi. Lo “spazio noi-centrico” e la sferapubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui simanifesta l’innata socialità della mente prima e dopo l’esperienza del-la negazione linguistica. Prima di questa esperienza, un compatto einfallibile co-sentire neurale, dopo, l’incertezza della persuasione, le me-tamorfosi tumultuose della cooperazione produttiva, l’asprezza dei con-flitti politici. Per definire la negazione della negazione, grazie alla qualeil linguaggio verbale inibisce il “male radicale” che proprio esso ha resopossibile, utilizzo un concetto teologico-politico dalla storia non pocotravagliata: il concetto di kat’echon. Questo termine, presente nella se-conda epistola ai tessalonicesi dell’apostolo Paolo, significa perl’appunto “forza che trattiene”. Kat’echon è il dispositivo che rinvia sen-za posa l’estrema distruzione: la fine del mondo per il teologo, il disfaci-mento dell’ordine sociale per il pensiero politico medievale e moderno. Illinguaggio verbale è il kat’echon naturalistica che, assecondando la for-mazione della sfera pubblica, trattiene la catastrofe del non-

14

riconoscimento. Si tratta èerò di un kat’echon molto singolare, giacchésalvaguarda da quel “male radicale” che esso stesso ha messo al mondo.L’antidoto, qui, non è cosa diversa dal veleno.

Neuroni mirror, negazione linguistica, reciproco riconoscimento: sonoquesti i fattori, coesistenti e però anche contraddittori, che configurano lamente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fonda-mento ogni teoria politica (per esempio, quella di Chomsky) che postuliuna originaria “creatività del linguaggio”, poi repressa e mortificata daapparati di potere tanto più iniqui, quanto più innaturali. La fragilità del-lo “spazio noi-centrico”, dovuta con la negatività che il linguaggio verba-le porta con sé, deve costituire invece il presupposto realistico di ognimovimento politico che miri ad una drastica trasformazione dello statodi cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Sch-mitt, ha scritto con evidente sarcasmo: <<Il radicalismo ostile allo Statocresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della naturaumana>> (Schmitt 1932 p.71). È venuto il tempo di confutare questa as-serzione. Una analisi adeguata della mente sociale permette di fondare ilradicalismo ostile allo Stato (e al modo di produzione capitalistico) sullapericolosità della natura umana, anziché sulla sua originaria armonia.L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presuppostopositivo da rivendicare. Suo compito eminente è sperimentare nuovi epiù efficaci di negare la negazione, di apporre il “non” davanti a “non-uomo”. Là dove attinge il suo fine, questa sua azione incarna una “forzache trattiene, ossia un kat’echon.

15

Bibliografia

BIBLIOGRAFIA:

q Culioli A. (1985), Pour une lingusitique de l’énounciation, Ophirys,Paris 1990-2000, 3 voll. In particolare : La négation pp.91-114

q Hegel G. W. F. (1807), Die Phanamenologie del geistes, trad. it. Feno-menologia dello Spirito. La Nuova Italia, Firenze 1973.

q Gallese V. (2003) Neuroscienza delle relazioni sociali, in Ferretti F (acura di), Lo specchio delle parole, Bollati Boringhieri, Torino.

q Piaget J. et al. (1973-74), Recherches sur la contradiction : 1 Les diffé-rentes formes de la contradiction ; 2 Les relations entre affermations etnégations, <<Etudes d’épistemologie genetique>> Voll XXXI e XXXII,Presses Universitaries de France, Paris.

q Platone (Soph.= Sophista), trad. it. Con testo greco a fronte Il Sofista.Bompiani, Milano 1992

q Simondon G. (1989), L’individuation psychique et collective, trad.it.L’individuazione psichica e collettiva, Derive Approdi, Roma 2001.

q Vygotskji L.S. (1934), Mislenie i rec’, trad .it. Pensiero e Linguaggio,Laterza, Bari 1990.

q Winnicott D. W. (1971), Playing and reality, trad. Fr. Jeu et réalité,Gallimard. Paris 1975.

q Wittgenstein L. (1953), Philosophische Untersuchungen, trad. It Ri-cerche Filosofiche, Einaudi, Torino 1974.

16

www.feedbooks.comFood for the mind

17