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Capodanno del 2002
Nella notte di Capodanno del 2002 le luci dei piani alti delle banche centrali di dodici paesi europei
rimasero sempre accese.
I governatori e i loro più stretti collaboratori dormirono poco. I preparativi per l’introduzione dell’eu-
ro erano stati minuziosi, preceduti da un regime transitorio, ma si trattava di un esperimento mai tentato pri-
ma. Non esistevano precedenti a cui rifarsi, le variabili in gioco erano numerose; qualcosa, da qualche par-
te, sarebbe potuto andare storto. Era d’obbligo vegliare, stare pronti e sobri, rimandando di qualche ora ogni
brindisi augurale.
Dieci anni prima (il 7 febbraio 1992) i governi dei dodici paesi avevano firmato nella cittadina olandese
di Maastricht il trattato con il quale si impegnavano ad adottare una moneta comune. Il percorso per arrivarci
era stato lungo e pieno di ostacoli. Era cominciato a Roma, nel 1957, con la creazione della Comunità Economica
Europea, un’audace innovazione – senza precedenti – con la quale sei paesi si erano spogliati di una parte del-
la propria sovranità per cederla a un’istituzione sovranazionale, che sarebbe stata governata collegialmente. Si
era trattato in particolare di mettere in comune le decisioni relative a un ampio spettro di questioni economiche,
a partire da quelle relative ai dazi doganali (materia fiscale sino allora gelosa prerogativa degli stati nazionali),
alla regolazione della concorrenza, dei mercati, dei sussidi e delle agevolazioni a settori produttivi e imprese. Nei
decenni successivi la Comunità Economica Europea si era allargata a nuovi paesi, assumendo a poco a poco nuove
competenze, sino all’Atto Unico Europeo del 1986. Nel 1992 la Comunità Economica Europea, creata nel 1957, era
stata ribattezzata semplicemente Comunità Europea, e nel 1993 aveva assunto simbolicamente il nome di Unione
Europea.
In questo lungo processo non era mancata attenzione alla questione monetaria. La domanda di fondo
che ci si poneva, astraendo dalle complessità politiche e tecniche, era semplice: è sostenibile un’unione economi-
ca – cioè la piena libertà di movimento dei beni, delle persone e dei capitali – che lasci ai singoli paesi la responsa-
bilità di determinare il tasso di cambio della propria moneta? In altre parole, è possibile un mercato unico nel qua-
le i singoli governi nazionali possano ricorrere alla svalutazione delle proprie monete per rendere più competitive
le esportazioni e meno convenienti le importazioni? La questione non era sembrata di grande importanza finché
resse il regime monetario internazionale di Bretton Woods, che obbligava i paesi aderenti – tra i quali quelli della
Comunità Economica Europea – a mantenere invariato il cambio della propria moneta con quello di tutte le altre.
A partire dal 1968, tuttavia, gli scricchiolii del sistema monetario postbellico erano diventati tanto fragorosi da
indurre la Comunità Economica Europea a porre attenzione alla questione monetaria. Il Rapporto Werner del 1971
aveva suggerito la creazione di una moneta unica tra gli stati membri. La soluzione adottata nel 1978 era stata
tuttavia meno ambiziosa: la replica, a livello europeo, di una soluzione praticamente simile a quella di Bretton
Woods. Con il Sistema Monetario Europeo i singoli paesi aderenti si erano impegnati a mantenere fisso il cambio
L’UNIfIcAZIONE mONETARIA DELL’ITALIA di Gianni Toniolo
01 I tassi irrevocabili di cambio dell’euro al 31
dicembre 1998 (© European Communities, 2011).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
delle proprie monete rispetto a quelle di tutti gli altri. Variazioni del cambio sarebbero state ammesse solo con
l’accordo di tutti. Gli anni successivi erano stati, peraltro, punteggiati da numerose svalutazioni (allora dette rial-
lineamenti) e da altrettanti mugugni da parte dei produttori nei paesi che non avevano svalutato e si ritenevano,
a torto o a ragione, danneggiati. Con il completamento del mercato unico la questione si era fatta politicamente
più urgente. Il trattato di Maastricht, che stabiliva il percorso per la creazione dell’Unione Monetaria Europea con
un singolo sistema di banca centrale e una moneta unica, intendeva dare una risposta radicale al problema.
Negli anni immediatamente precedenti il 2002 erano stati compiuti i passi che si ritenevano necessari
preliminarmente all’adozione dell’euro. Nel 1998 era entrata in funzione a Francoforte la Banca Centrale Europea.
Nel 1999 era stato formalmente adottato l’euro, rimasto però – ai fini della vita quotidiana – solamente una mo-
neta di conto. Acquisti e vendite erano ancora effettuati nelle monete nazionali, anche se i negozi a poco a poco
si erano adeguati all’obbligo di esporre i prezzi tanto in queste ultime quanto in euro, nella speranza che nei tre
anni successivi gli europei si sarebbero abituati a contare in euro piuttosto che nelle monete che stavano per ab-
bandonare. Ma, si sa, conta ciò che ciascuno può toccare e vedere e, sino alla mezzanotte del 31 dicembre 2001,
l’euro era rimasto una nozione astratta piuttosto che una realtà tangibile. Si trattava, adesso, di passare a questa
realtà, sostituendo nelle tasche dei cittadini le nuove monete alle vecchie. Di qui la notte insonne dei banchieri
centrali. Le nuove monete e banconote erano state distribuite in quantità adeguata? Avevano raggiunto anche i
luoghi meno accessibili? I bancomat erano stati ben provvisti? I sistemi elettronici che gestivano i conti delle ban-
che avrebbero funzionato come previsto? Soprattutto: quale sarebbe stata la reazione della popolazione, di coloro
che, a partire dalla mezzanotte, avrebbero dovuto adeguarsi a una nuova moneta, abbandonando quella ricevuta
in eredità dalle generazioni precedenti?
02 Regno di Sardegna, Manifesto della Regia Camera
de’ Conti, datato 9 febbraio 1827. Particolare.
(Collezione privata Luca Einaudi).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
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04 Moneta da 1 euro.
03 Regno d’Italia, Vittorio Emanuele II (1861-
1878). 1 lira d’argento, Firenze, 1861. Diritto.
(Roma, Museo Nazionale Romano, Medagliere.
Collezione Vittorio Emanuele III di Savoia).
La transizione dalle singole monete nazionali all’euro fu più facile di quanto alcuni avessero temuto.
Nelle banche centrali le preoccupazioni della vigilia lasciarono spazio a sollievo e soddisfazione. Dopo un bre-
ve periodo, durante il quale l’euro circolò accanto alle vecchie monete, queste ultime furono abbandonate senza
grandi problemi, anche se con qualche nostalgia da parte di molti.
Questa mostra ci racconta un’altra unificazione monetaria, quella che diede vita alla lira italiana. È una
storia non marginale, anche se poco nota al grande pubblico, nel processo di unificazione politica della penisola
italiana. La lira fu, per il neonato Regno d’Italia, frutto e simbolo della conquistata sovranità nazionale. Simbolo
e al tempo stesso compagna della vita quotidiana. Un simbolo, con tanto di effige del sovrano, che tutti giornal-
mente maneggiavano, rigiravano nelle tasche, tenevano – i più fortunati – nel portafoglio, sotterravano – i più
prudenti – sotto l’olmo nel campo. Un simbolo, dunque, che scandiva aspetti centrali della vita: la riscossione
del salario, la spesa quotidiana, i conti di casa, i confronti fra le diverse qualità dei beni, i risparmi per il futuro
proprio e dei figli. A questi aspetti la mostra presta particolare attenzione, sullo sfondo delle vicende militari e
politiche che abbiamo tutti studiato a scuola, accanto alle questioni più tecniche della creazione e diffusione della
moneta, piuttosto sconosciute al grande pubblico.
Carlo Magno e Napoleone
Lira viene da libra (che significa bilancia), unità di peso romana, pari a circa 375 grammi, divisa in 12
unciae. Alla fine dell’VIII secolo Carlo Magno fece della libra la base ponderale del proprio sistema monetario, che
restò punto di riferimento in Europa per i successivi mille anni. Contenuta l’espansione saracena, mentre unifi-
cava sotto il proprio scettro gran parte dell’Europa occidentale, Carlo – come poi Napoleone – realizzò riforme
istituzionali destinate a durare ben più a lungo del proprio effimero Impero. La Magna Charta dei diritti dell’ari-
stocrazia è la riforma che ricordiamo dai banchi di scuola. Meno nota, ma più duratura, fu la riforma monetaria
alla quale Carlo si dedicò tra il 781 e il 794.
Con lo spegnersi dell’autorità di Roma, era venuto meno anche uno dei suoi principali segni tangibili:
la moneta con l’effige di Cesare, che era alla base dell’area monetaria romana. Pesi e misure si erano moltiplicati,
così come – in parallelo – le diverse unità e basi monetarie. Laddove era più forte l’influenza bizantina, come nella
penisola italica, si tenevano i conti prevalentemente in termini di soldi d’oro (e di tremissi che valevano un terzo
di soldo). Ma l’oro era scarso e l’Europa doveva contare sui ridotti traffici con il Levante per il proprio approvvigio-
namento di questo metallo. L’argento, del quale non mancavano miniere, fu dunque scelto da Carlo Magno come
base del sistema monetario imperiale. La libbra di Carlo, più pesante di quella romana (circa 408 grammi), non
poteva essere trasformata in moneta coniata. Restò però quale punto di riferimento del sistema monetario che
Carlo volle basato sull’argento: per ogni libbra di questo metallo le zecche dovevano consegnare 240 monete (de-
nari) del peso di 1,7 grammi. Il denaro argenteo era la sola moneta legale dell’Impero.
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
«Dalle rive britanniche della Manica, alla corte di Aquisgrana, alla pianura padana, alle colline tosca-
ne, la lira d’argento fu la comune unità di misura dei valori e dovunque essa significava 240 denari», come ha
scritto Carlo M. Cipolla ne Le avventure della lira. Carlo fece dell’Europa occidentale un’unica area monetaria – la
prima dopo quella romana – accanto alle aree monetarie bizantina e musulmana. L’Italia centro-settentrionale fu
parte integrante dell’area monetaria europea creata da Carlo Magno. L’Italia meridionale restò legata alla tradi-
zione monetaria romano-bizantina, laddove finì per prevalere l’influenza della moneta araba. La lira, dice Cipolla,
si fermò allora a Eboli.
L’area monetaria creata da Carlo Magno sopravvisse per circa un secolo al suo fondatore e allo smembra-
mento dell’Impero seguito alla morte di lui. Poi le monete seguirono la disgregazione dell’Europa politica e il suo
successivo nuovo accorpamento in “stati nazione”, al quale rimase estranea la penisola italiana. La frammentata
storia politica ed economica del nostro paese produsse la complessa diversità dei sistemi monetari documentata in
questa mostra, dalla quale trasse origine, dopo l’unificazione politica, il bisogno di una rapida unificazione mone-
taria. La situazione era complicata non solo dal fatto che ogni Stato italiano aveva una o più monete legali, ma an-
che dal secolare deposito – all’interno della circolazione – di monete d’oro e d’argento che continuavano a servire
quale mezzo di scambio per il loro valore intrinseco. Alcune di queste monete, come lo zecchino della Repubblica
di Venezia, durata per mille anni fino al 1797, avevano mantenuto nei secoli valore immutato ed erano pertanto as-
sai ricercate e quasi sempre tesaurizzate. Di altre monete si era più o meno persa la nozione precisa del contenuto
metallico e il loro uso corrente era soggetto ad abusi o richiedeva costi aggiuntivi per testarne la bontà.
Se la lira di Carlo Magno è la progenitrice della lira italiana, il franco napoleonico, detto germinale
dal mese del 1803 (circa 21 marzo-19 aprile) nel quale fu per la prima volta introdotto in Francia, ne può legitti-
mamente rivendicare la paternità. Come Carlo, Napoleone fu non solo un grande condottiero, ma altrettanto un
grande riformatore; come quelle di Carlo, le sue riforme sopravvissero alla vita effimera dell’Impero. I governi
rivoluzionari francesi razionalizzarono l’insieme dei pesi e delle misure, divenuto nei secoli confuso e localista,
introducendo il sistema metrico decimale. La riforma monetaria discese dalla medesima esigenza di razionaliz-
zazione e universalizzazione. Pur essendo la Francia da secoli uno Stato sostanzialmente unitario, vi circolava-
no monete di ogni genere. Nel 1795 la Convenzione stabilì quale moneta nazionale il franco decimale, diviso in
centesimi, con un contenuto di 4,5 grammi d’argento fino. Il momento non era tuttavia favorevole e la riforma
sostanzialmente abortì. L’inflazione, connessa all’eccessiva emissione cartacea dei cosiddetti assegnati, rese raro
il franco d’argento, utilizzato per pagamenti all’estero o tesaurizzato. Solo la stabilizzazione politica ed economi-
ca, seguita all’avvento del Consolato, rese possibile una duratura riforma monetaria. Il franco germinale, mone-
ta legale voluta da Napoleone, destinato a durare tra alterne vicende sino al franco Poincaré del 1928, pesava 5
grammi d’argento a titolo di 900 millesimi. La riforma prevedeva anche la coniazione di monete d’oro da 20 e 40
franchi di peso unitario rispettivamente di 6,451612 e 12,903224 grammi (il tasso di cambio era dunque di 15,5
05
05 Repubblica francese, Bonaparte primo
Console (1799-1804). 1 franco d’argento, Torino,
anno 12. Diritto e rovescio. (Roma, Museo
Nazionale Romano, Medagliere. Collezione Vittorio
Emanuele III di Savoia).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
grammi d’argento per ogni grammo d’oro). Chiunque avesse portato alla zecca oro o argento poteva ottenerne
in cambio monete coniate, al solo costo di produzione. Il sistema napoleonico era dunque di tipo bimetallico: la
zecca di Stato era obbligata a cambiare monete d’oro contro monete d’argento e viceversa, a scelta del portatore,
a un tasso fisso (pari appunto a 1:15,5).
Il franco germinale arrivò in Italia al seguito delle armate francesi, introdotto in Piemonte nel 1800
dopo la battaglia di Marengo. Un decreto del 21 marzo 1806 stabilì che la moneta legale del Regno (napoleonico)
d’Italia fosse uniforme a quella in corso in Francia. Si trattò dunque di un’esatta replica del sistema francese, tran-
ne che per il nome che restò quello di lira: il pezzo da una lira d’argento doveva pesare 5 grammi a 900 millesimi
ed essere convertibile in marenghi d’oro da 20 lire al tasso di 1:15,5. Napoleone fu l’artefice di un’altra importan-
te innovazione, che avrebbe avuto grande peso nelle vicende monetarie dei successivi due secoli: la creazione nel
1800 della Banca di Francia, istituto di emissione privato, ma fortemente controllato dallo Stato che ne nominava
i vertici. Nel 1808 le banconote emesse dalla Banca di Francia, convertibili in oro o argento, acquisirono lo status
di moneta legale. Questa innovazione non fu importata in Italia, dove pure le banche di emissione avevano storia
antica. Lo sviluppo ottocentesco di questa importante istituzione fu nel nostro paese lento e non privo di proble-
mi, anche gravi, fino alla nascita della Banca d’Italia nel 1893.
Babele monetaria
La Restaurazione seguita al Congresso di Vienna del 1815 riportò in Italia gli antichi sovrani e con essi
nuovi (o vecchi) ordinamenti monetari.
Nel 1823 il governo di Francesco I d’Austria attuò nel Lombardo-Veneto una riforma allo scopo di rac-
cordare il sistema monetario del Regno a quello delle altre parti dell’Impero, in vista di una loro maggiore inte-
grazione economica, con la progressiva diminuzione dei dazi doganali, fino alla creazione di una grande area di
libero scambio. La nuova lira austriaca, pesando 4,331 grammi d’argento a 900 millesimi, era un po’ svalutata
rispetto alla precedente lira del Regno d’Italia napoleonico con la quale si cambiava al tasso di 1,148. Ugo Tucci
ne Le monete del Regno Lombardo-Veneto dal 1815 al 1866 fornisce un esempio utile a capire la babele che si creava
ad ogni riforma monetaria, per il semplice fatto del sovrapporsi di nuove monete a quelle vecchie, che restavano
tuttavia in circolazione: «Nelle province venete si conservò l’uso di esprimere le contrattazioni correnti in “lire ve-
nete”. Per ridurre le lire austriache in lire venete si costumava moltiplicarne l’importo per sette e dividere il pro-
dotto per quattro realizzando così un rapporto di 1,75 mentre l’articolo 20 della Sovrana patente del 1823 l’aveva
stabilito a 1,69». È facile intuire quanto poco queste complicazioni facilitassero il commercio, tenuto conto che le
monete in circolazione erano decine e per ciascuna di esse si dovevano fare calcoli analoghi.
Un esempio simile si trova in Toscana dove, scrive Cipolla, dopo la Restaurazione «l’unità di conto e
pagamento fu la lira del peso di 3,929 grammi d’argento a 917 millesimi, [ma] in taluni tipi di contratto e paga-
06
06 Repubblica Subalpina (1800-1802). 20 franchi
d’oro (marengo), Parigi, anno 10.
Diritto e rovescio. (Roma, Museo Nazionale
Romano, Medagliere. Collezione Vittorio Emanuele
III di Savoia).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
mento si usava di preferenza fare uso del “paolo”, in altri dello “zecchino”, in altri del “ruspone”, in altri ancora
del franco francese». A complicare le cose, piuttosto che semplificarle, fu fatta nel 1826 una ulteriore riforma con
l’emissione di una nuova moneta d’argento, chiamata fiorino, del peso di 6,875 grammi d’argento a 917 millesimi
di fino. Il sistema toscano restò monometallico argenteo, senza valore legale per le monete d’oro. Secondo l’os-
servatore contemporaneo Antonio Zobi, nel Manuale storico delle massime e degli ordinamenti economici vigenti in
Toscana, il risultato della riforma fu, appunto «che l’inconveniente monetario è aumentato e non diminuito con
l’introduzione del fiorino; infatti esistono ed hanno corso legale in Toscana fra plateali d’argento e d’oro 24 specie
di moneta diversa».
Nello Stato Pontificio la moneta principale era lo scudo romano ma circolavano, tra l’altro, zecchini
d’oro, lire pontificie, soldi romani o bajocchi. Nel Regno delle Due Sicilie il ducato era la principale unità di conto
ma non mancavano zecchini, di contenuto aureo inferiore a quello di Venezia, Torino e Milano, piastre, grani e
tornesi napoletani, once, tarì e grani siciliani (di valore diverso rispetto a quelli napoletani).
Insomma, l’uso della metafora biblica della torre di Babele non è fuori posto. Solo la lira nuova pie-
montese e quella di Parma avevano mantenuto la parità con il franco francese imposta da Napoleone all’Italia
settentrionale. Ciò facilitava gli scambi internazionali, vista la preminenza e la solidità della moneta francese.
La lira italiana
Nel 1859, quando ebbe inizio la campagna d’Italia di Vittorio Emanuele II e Napoleone III, che in breve
volgere di tempo condusse all’unificazione politica di quasi tutta la penisola – superando le più rosee speranze
dell’uno e infrangendo le intenzioni dell’altro – «si contavano in circolazione oltre 90 specie metalliche effettive
appartenenti a sistemi monetari legali», come nota Renato De Mattia ne L’unificazione monetaria italiana. Altri
autori forniscono una cifra superiore, ma basta questo dato per cogliere quanto più complesso sia stato, negli
anni successivi, il compito dell’unificazione monetaria d’Italia, anche rispetto a quello non facile dell’introduzio-
ne simultanea dell’euro in dodici diversi paesi europei 140 anni dopo. Prima di descrivere alcuni aspetti di questa
complessità, che danno conto della lunghezza del processo, vediamo come è nata la lira italiana.
Il processo di unificazione politica durò, come sappiamo, un paio d’anni. Il governo piemontese este-
se immediatamente la propria autorità solo sulla Lombardia conquistata. Negli altri stati, dove avvenivano sol-
levazioni popolari, Torino – vincolata dal trattato di Villafranca – non poté subito mandare ufficialmente propri
rappresentanti. I governi provvisori, tuttavia, presero provvedimenti monetari di qualche importanza, anche col-
legandosi informalmente gli uni agli altri. Essi riguardavano soprattutto il conferimento del valore legale alla lira
piemontese, l’introduzione del sistema decimale, un primo avvio al ritiro di vecchie monete.
Lo stesso processo di unificazione, accelerando il movimento delle persone – a partire dai militari – e
stimolando i flussi commerciali con i primi abbattimenti di tariffe doganali, aveva accresciuto la domanda di una
08 Granducato di Toscana, Leopoldo II
(1824-1859). Fiorino d’argento da 100 quattrini,
Firenze, 1826. Rovescio. (Roma, Museo Nazionale
Romano, Medagliere. Collezione Vittorio Emanuele
III di Savoia).
09 Stato Pontificio, Pio IX (secondo periodo
1850-1870). Scudo d’oro, Roma, 1858. Diritto.
(Roma, Museo Nazionale Romano, Medagliere.
Collezione Vittorio Emanuele III di Savoia).
07 Ritratto di Gioacchino Pepoli (Roma, Istituto
per la storia del Risorgimento italiano).
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moneta facilmente utilizzabile in transazioni a cavallo dei vecchi confini. La lira piemontese, legata alla principale
valuta dell’Europa continentale e al potente alleato, era la naturale candidata a svolgere questo ruolo, ancora pri-
ma che esso le fosse conferito con provvedimento legislativo. L’ammissione della lira come valuta legale accanto
ad altre, nei territori nei quali era precedentemente priva di questo valore, anticipò quasi ovunque la successiva
dichiarazione della lira come sola unità monetaria legale di tutto il paese. Ad essa, come si legge nel testo di De
Mattia, le monete circolanti nelle singole province «avrebbero dovuto essere obbligatoriamente ragguagliate nelle
transazioni monetarie pubbliche e private». La moneta piemontese si diffuse dunque con una certa rapidità so-
prattutto nei centri che avevano maggiori contatti commerciali con l’Italia settentrionale o con i paesi oltre le Alpi.
Proclamato il Regno d’Italia il 17 marzo 1861, il problema dell’unificazione monetaria del nuovo Stato,
divenuto quasi contestualmente una unione doganale, si presentò come impegnativo. La coniazione e diffusione
di una nuova moneta, accompagnata dal graduale ritiro delle antiche, era solo uno dei problemi da affrontare.
Gli altri erano più complessi e di lunga lena: si trattava di colmare il divario accumulato nei due secoli precedenti
rispetto ai paesi europei economicamente più avanzati, creando un moderno sistema di pagamenti, basato sulla
diffusione della carta moneta e del credito, per il tramite di banche solide e affidabili.
Il 17 luglio 1861 il governo Ricasoli emanò un decreto che conferiva alla lira italiana d’argento corso le-
gale in tutte le province del regno, pur lasciando provvisoriamente valide le valute esistenti, per le quali il decreto
stesso stabiliva un tasso di cambio ufficiale. Si trattava di una soluzione transitoria: la disparità degli ordinamenti
monetari regionali aveva conseguenze politiche, economiche e sociali indesiderate, non compatibili con l’unità
nazionale. Un primo passo venne compiuto con la cosiddetta legge Cordova del 23 marzo 1862, con la quale veniva
esteso a tutto il territorio nazionale il corso legale anche della valuta aurea, indicando nella sostanza una prefe-
renza per l’adozione del sistema bimetallico francese (e piemontese).
La legge Cordova lasciò, almeno formalmente, impregiudicata la questione della scelta tra regime bi-
metallico o monometallico (pur avendo escluso di fatto il monometallismo argenteo, benché esso esistesse sia in
Toscana che nel Regno delle Due Sicilie). Anche la creazione di un’area italiana di libero scambio, con l’abolizione
delle tariffe interne e l’estensione a tutto il regno della tariffa doganale esterna piemontese, rendeva urgente la
definizione di una moneta unica italiana, in parte per gli stessi motivi che raccomanderanno tale scelta in Europa
130 anni dopo.
A questa definizione lavorarono due commissioni. Al loro interno, come nello stesso governo, prevalse
l’idea che quella bimetallica fosse per il momento una scelta obbligata, malgrado la consapevolezza, da parte dei
commissari, dell’opinione contraria della «scienza economica» e dell’ormai chiaro delinearsi «nei paesi più colti
d’Europa» della prevalenza del regime aureo. Il motivo della scelta era, sempre secondo i commissari che studia-
rono la questione, eminentemente pratica: «Le numerose relazioni d’interessi che ci tengono uniti alla Francia
fanno dei due paesi, per così dire, una sola associazione economica». Per quanto importante fosse la scelta del
10 Gerolamo Induno, La partenza del coscritto,
1862 (proprietà della Galleria d’Arte Moderna Ricci
Oddi, Piacenza).
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PARTE I. INTRODUZIONE
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regime monetario, il problema pratico più urgente era quello di far scomparire il più presto possibile dalla circo-
lazione le antiche monete, in modo che tutto il paese si uniformasse all’uso di una stessa unità monetaria. Ciò era
particolarmente urgente riguardo alla moneta spicciola che la maggioranza della popolazione, rimasta confusa
dai cambiamenti in atto, utilizzava per gli acquisti quotidiani.
La legge fondamentale che codificò la nascita della lira italiana fu approvata dal Parlamento di Tori-
no il 24 agosto 1862. Ne fu promotore il ministro dell’Agricoltura, industria e commercio Gioacchino Napoleone
Pepoli, nipote di Murat e Carolina Bonaparte. Napoleone I era stato, dunque, un suo prozio e inoltre egli era
cugino in terzo grado dell’allora imperatore dei francesi. Con la scelta del regime bimetallico, il legislatore do-
vette affrontare un tipico problema di questo sistema, dovuto al fatto che, nel decennio precedente, il prezzo
di mercato dell’argento era salito a un livello superiore a quello ufficiale di 15,5 rispetto all’oro. In altre parole,
l’argento avrebbe avuto sul mercato libero un valore superiore al prezzo al quale la zecca era impegnata a cam-
biarlo in oro, con la conseguenza che le monete d’argento sarebbero sparite dalla circolazione per essere tratta-
te sul mercato sulla base del valore intrinseco. La soluzione fu trovata nella riduzione del contenuto metallico
delle monete d’argento inferiori a 5 lire, utilizzate per le più comuni transazioni, mentre per quelle da 5 lire, il
cosiddetto scudo d’argento, la coniazione fu lasciata all’iniziativa dei privati, che potevano ottenerla portan-
do argento di loro proprietà alla zecca. In tal modo fu scongiurata la scomparsa delle monete d’argento dalla
circolazione interna, mentre l’oro assunse la funzione di mezzo principale di scambio nei rapporti con l’estero.
La legge Pepoli prefigurò pertanto un bimetallismo “zoppo” che in larga misura anticipava nei fatti la successi-
va adozione del gold standard. Tuttavia, dal 1869 al 1879, quando l’argento prese rapidamente a deprezzarsi,
il governo riavviò una massiccia coniazione di scudi per liberarsi dell’argento borbonico che riceveva nel Sud
come pagamento di tasse e diritti doganali. L’Italia si trovò quindi a dover rallentare il passaggio degli altri paesi
dell’Unione Monetaria Latina al monometallismo aureo, per poter smaltire gli effetti ritardati della massiccia
accumulazione di argento nel Mezzogiorno.
11 Legge 24 agosto 1862, n. 788, cosiddetta
legge Pepoli. Particolare delle firme apposte dal
re Vittorio Emanuele II, dal guardasigilli Raffaele
Conforti e dal ministro Gioacchino Pepoli (Roma,
Archivio Centrale dello Stato).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
Metalli, carta e banche
La legge fondamentale dell’agosto 1862 dettò anche le norme per il ritiro dalla circolazione e il cambio
nella valuta nazionale di tutte le monete non decimali in oro, argento e rame circolanti in Italia. Il cambio doveva
avvenire sulla base di un’apposita “tariffa” ufficiale.
Le operazioni di cambio furono ben più lente di quelle con le quali, nel 2002, le monete nazionali ven-
nero sostituite dall’euro. Le ragioni sono facilmente comprensibili. Fu necessario, anzitutto, che gli uffici perife-
rici del Tesoro incaricati delle operazioni disponessero di adeguate quantità delle nuove monete: pur lavorando
a pieno ritmo, le tre zecche ancora aperte nel 1862 (Torino, Milano e Napoli) riuscirono a soddisfare la domanda
prevista per oro e argento solo dopo alcuni mesi. Inoltre fu necessario far ricorso alle più moderne zecche stranie-
re per la coniazione di alcune centinaia di milioni di pezzi di bronzo. Ma il maggiore ostacolo venne dalle abitudini
e dalla stessa diffidenza delle popolazioni. Non si sentiva l’urgenza di sbarazzarsi delle vecchie monete, alle quali
si era fatta l’abitudine, poiché queste mantenevano pur sempre un valore intrinseco che poteva essere realizzato
sul mercato dei metalli da fondere. In ogni modo, verso la fine del 1865 le operazioni di conversione erano qua-
si ovunque bene avviate a conclusione, ad eccezione delle province meridionali, dove solo le vecchie monete di
rame erano state cambiate, mentre restava forte la tendenza a tesaurizzare l’argento. L’acquisizione del Veneto e
del Lazio comportò, ovviamente, nuovo lavoro per i funzionari del Tesoro e delle zecche addetti alle operazioni di
cambio delle vecchie monete in quelle nuove.
Il sistema bancario occupa un posto centrale in ogni sistema monetario. La relativa lentezza del pro-
cesso di unificazione italiana dipese, in non piccola misura, dall’iniziale sottosviluppo del settore del credito. Non
è questa l’occasione per ripercorrere, seppure a larghe tappe, la storia bancaria d’Italia. Vi è però un’istituzione
dei sistemi monetari del secondo Ottocento dalla quale non è possibile prescindere: la banca di emissione.
La banca di emissione fu un’importante innovazione nella tecnica dei pagamenti: essa consentì un al-
largamento della circolazione, aumentando al tempo stesso la sicurezza e la certezza delle transazioni monetarie.
Le banconote che emetteva erano convertibili (si potevano cioè cambiare) in metallo (oro, argento o entrambi,
secondo lo standard monetario dei singoli paesi) presso gli sportelli della banca stessa. Ciò le rendeva universal-
mente accette, in una cultura nella quale l’ancoraggio della moneta a una merce rara e preziosa era ancora consi-
derato necessario. Per garantire la “redenzione” della carta in metallo pregiato, la banca manteneva riserve del
metallo stesso. La riserva, tuttavia, era inferiore all’ammontare delle banconote in circolazione, nell’ipotesi – va-
lida in tempi normali – che la richiesta di cambiare carta in metallo sarebbe stata relativamente limitata. Ciò con-
sentiva di accrescere la massa monetaria circolante oltre il limite imposto dalla disponibilità di metallo. Le ban-
conote, all’epoca di taglio elevato, servivano per regolare contratti di dimensione ampia, per operare sui depositi
bancari, per il pagamento delle imposte ed erano bene accette nel commercio con l’estero. Con il Banco di Rialto
e il Banco di San Giorgio l’Italia era stata un precursore della moderna tecnica di pagamento mediante moneta
12 Ritratto di Camillo Benso,
conte di Cavour (Roma, Istituto per la storia
del Risorgimento italiano).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
cartacea convertibile (evolutasi a partire dal Settecento nell’Europa nord-occidentale), ma erano poi mancate le
condizioni politiche, economiche e giuridiche per un robusto sviluppo di moderni organismi bancari. Pertanto,
alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, la circolazione cartacea occupava una posizione secondaria, rispetto
a quella metallica, in tutti gli stati preunitari.
Al momento della proclamazione del Regno d’Italia esistevano nei suoi territori cinque istituti di emis-
sione: uno nel Regno di Sardegna, due in Toscana (uno di essi, creato dal governo provvisorio, non divenne opera-
tivo che nel 1863) e due nel Regno delle Due Sicilie. Con la presa di Roma se ne aggiunse un sesto.
Cavour era stato un sostenitore del conferimento, da parte dello Stato, del monopolio dell’emissione di
moneta convertibile a una banca, fortemente regolata e controllata dallo Stato stesso, secondo il principio stabi-
lito dal Bank Act inglese del 1844. Si era dunque adoperato per la fusione delle due banche operanti nel Regno di
Sardegna in una unica Banca Nazionale, che assorbì, immediatamente prima della proclamazione del Regno, due
banche di emissione operanti a Parma e Bologna (così come incorporerà un’altra banca al momento dell’annes-
sione del Veneto nel 1866). Questa moderna visione di Cavour si scontrò, a partire dal 1860-1861, con quella dei
sostenitori della pluralità delle banche e della libertà delle emissioni di moneta cartacea; questione che attraver-
sò, con esiti alterni, la vita politica e bancaria degli Stati Uniti per l’intero XIX secolo. Le polemiche in argomento
13 Banconota da 2 lire della Banca Nazionale
nel Regno d’Italia, 1868 (Roma, Museo della
Moneta, Banca d’Italia).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
si risolsero in uno stallo che impedì – almeno fino al 1874 e probabilmente fino al 1893 – il varo di provvedimenti
legislativi moderni e incisivi per la regolazione del settore del credito e, in particolare, delle banche di emissione.
Per questi motivi, oltre che per la complessiva arretratezza di gran parte del sistema economico preu-
nitario, attorno al 1860 la moneta cartacea costituiva una quota relativamente modesta della circolazione mo-
netaria complessiva, dominata dalle monete metalliche. La situazione cominciò a mutare con quello che allora si
chiamò il corso forzoso dei biglietti di banca, cioè la sospensione dell’obbligo di convertirli in oro pur mantenendo
ad essi lo status di moneta legale. In vista della partecipazione alla guerra austro-prussiana del 1866, il governo
chiese alla Banca Nazionale un prestito che essa concesse, a condizione però di essere sollevata dall’obbligo di
cambiare ai propri sportelli le banconote emesse in oro (e teoricamente anche in argento). Questo provvedimento
ebbe effetti contrastanti sulla diffusione della “moneta unica” italiana. Da un lato avvicinò i ceti medi e alti alla
carta moneta, denominata in lire, la cui diffusione aumentò considerevolmente. Dall’altro lato, la crescita della
circolazione di banconote non convertibili provocò una svalutazione di queste (aggio) rispetto a oro e argento,
inducendo a posporre la conversione delle monete metalliche preunitarie in lire, tanto che in alcuni luoghi si veri-
ficò una certa scarsità di mezzi di pagamento di piccolo e medio taglio.
Moneta e unificazione nazionale
L’ultima grossa partita di argento borbonico fu portata alla zecca di Napoli nel 1894. Nel complesso, tra
il 1862 e il 1894, erano state convertite monete degli antichi stati per un controvalore in lire di circa 722 milioni.
Di queste, circa il 57 per cento era stato trasformato in lire italiane entro il 1870.
La completa unificazione monetaria del nostro paese richiese, dunque, un tempo che a noi pare sor-
prendentemente lungo, ma che stupisce meno se si ricorda che le emissioni di monete metalliche, battute dai vari
stati nel corso dei secoli, continuarono a sovrapporsi le une alle altre, senza che le nuove spiazzassero completa-
mente quelle precedenti. In questa babele non era facile al cittadino raccapezzarsi su come e quando fosse più
conveniente convertire le vecchie monete o tesaurizzarle.
L’unificazione monetaria fu un aspetto della complessiva unificazione economica. La prima condizio-
nava in parte ed era condizionata dalla seconda. Entrambe avevano bisogno di adeguate infrastrutture. Entrambe
dovevano fare i conti con un deposito millenario di culture, tradizioni, istituzioni e perfino lingue diverse. Entram-
be dovevano farsi strada contro la resistenza di interessi particolaristici, che avevano qualcosa da perdere – alme-
no nel breve periodo – dal processo di unificazione.
Le infrastrutture fisiche erano condizione necessaria alla creazione di quello che oggi diremmo mercato
unico, che si realizza in pratica quando il prezzo per i singoli beni non presenta che differenze modeste nelle di-
verse parti del paese. Al momento dell’unificazione politica, la penisola aveva pochi chilometri di ferrovia (2773
contro i 10 497 della Germania), largamente concentrati nella valle padana. Il nuovo Stato diede impulso agli in-
15 Ducato di Modena, 1a emissione. Aquila
estense sormontata dalla corona ducale, 1852. 15
centesimi. (Collezione privata Francesco Ciampi).
14 Stato Pontificio, 1a emissione. Stemma
pontificio (tiara e chiavi), 1852. 5 bajocchi.
(Collezione privata Francesco Ciampi).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA DELL’ITALIA
vestimenti ferroviari (i chilometri di rete aumentarono di 6,8 volte nei primi cinquant’anni di vita unitaria), dap-
prima nelle reti principali e poi in quelle secondarie, ma la loro realizzazione richiese tempo. Lo stesso vale per le
infrastrutture portuali, necessarie a rendere più sicuro e meno costoso il trasporto di cabotaggio e i collegamenti
con i mercati oltremare. Altri servizi di rete erano indispensabili all’unificazione economica, in particolare quel-
li telegrafici e postali: nel 1860 le poste smaltivano 108 milioni di lettere e pacchi, saliti a 3 miliardi nel 1914.
Comunicazioni veloci e a buon mercato erano importanti anche per l’unificazione monetaria: con il tempo esse
avrebbero consentito sia il rapido trasferimento di somme di denaro, sia la compravendita a distanza di azioni e
obbligazioni. Perché ciò fosse possibile, a servizi telegrafici e postali capillari si dovevano accompagnare, da un
lato la diffusione degli sportelli bancari, dall’altro la creazione di norme e usi uniformi in tutte le piazze finanzia-
rie del paese e, successivamente, la concentrazione della maggior parte delle contrattazioni in un unico grande
mercato di borsa.
Né meno importanti erano gli ostacoli culturali e istituzionali che si dovevano superare per realizzare
l’unificazione monetaria e quella economica. La stragrande maggioranza degli italiani aveva perfino difficoltà a
intendersi in una lingua unica. La cultura del capitalismo commerciale e industriale delle città settentrionali ave-
va perso gran parte del proprio smalto nel lungo declino dei due secoli antecedenti l’unificazione. Il diritto civile
e commerciale, ossatura istituzionale dello sviluppo economico moderno, doveva essere interamente riformato, e
poi accettato nella prassi quotidiana.
Non sorprende, dunque, che l’unificazione monetaria si sia fatta strada più lentamente di quanto molti,
sottovalutando le difficoltà, avrebbero voluto. La diffusione della moneta unica italiana procedette, come abbia-
mo esposto, con la creazione di infrastrutture fisiche, soprattutto di trasporto e comunicazione, con la diffusione
dell’istruzione, con il rafforzamento del sistema bancario, con una nuova legislazione civile e commerciale. La
storia dell’unificazione monetaria è interessante – come speriamo evidenzi questa mostra – proprio perché essa è
parte della più vasta e complessa storia dell’unificazione economica e sociale dell’Italia, iniziata il 17 marzo 1861:
un processo per molti aspetti di grande successo, per altri ancora incompiuto.
Centoquarant’anni dopo, l’ambizioso progetto dell’unificazione monetaria dell’Europa ha incontrato,
sul piano tecnico, minori ostacoli di quelli che dovette superare l’analogo processo italiano. Su altri piani – eco-
nomico, culturale e politico – l’unificazione dell’Europa è ancora in corso: chi conosca la storia del continente non
se ne stupisce, così come noi oggi, avendo presente la variegata storia delle regioni italiane, non ci stupiamo che
l’unificazione del nostro paese abbia richiesto più tempo e determinazione di quanto, forse, i padri della patria
avessero sperato, se non ragionevolmente previsto.
17 Province napoletane. Effigie di Vittorio
Emanuele II. Mezzo grano, annullo “Napoli”.
La serie, inizialmente prevista dalle Poste Sarde
in lire italiane, fu emessa (14 febbraio 1861)
con valori in moneta borbonica, l’unica
effettivamente in uso nel territorio (Collezione
privata Francesco Ciampi).
16 Regno di Sardegna, 4a emissione. Effigie di
Vittorio Emanuele II, 1855. 40 centesimi, annullo
“Genova”. I francobolli di questa serie sono stati
anche i primi in uso nel Regno d’Italia in attesa di
una emissione propriamente italiana (Collezione
privata Francesco Ciampi).
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Come il passaggio dalle monete nazionali all’euro ha mostrato a tutti, nel mondo d’oggi il cambiamen-
to dell’unità di misura (si tratti della moneta, del sistema di misurazione lineare o dei pesi) può avvenire istanta-
neamente, ovvero in un dato giorno e a una data ora. Per la natura delle transazioni e delle comunicazioni è anzi
necessario che sia così, e non potrebbe essere altrimenti. Certo, l’operazione è costosa perché comporta il cam-
biamento di una serie infinita di segnalazioni, etichette, avvisi, prezzi, calcoli, e le persone devono essere avverti-
te e istruite; questo soprattutto se non cambiano solo il nome e la misura, ma anche i suoi multipli e sottomultipli,
come è avvenuto in vari casi di cambi di monete. Allo stesso modo accade per altre misure: per esempio, se si
passa da un sistema di calcolo duodecimale (per il quale una moneta è divisa in dodicesimi) a uno decimale (quel-
lo che ha reso popolare il centesimo come sottomultiplo del dollaro, della lira, del franco e di recente anche della
sterlina). Operazione costosa, ma facile e immediata. È un’operazione che può avvenire istantaneamente, perché
il sistema economico e la società a cui si applica sono già abituati all’uso della moneta, e di una sola moneta (sia
questa il franco, la lira o il marco). Questo è lo sfondo che ha visto nascere l’euro, lo sfondo di società avanzate,
largamente monetizzate e all’interno delle quali circolava una sola moneta nazionale. Perché si potesse adottare
la moneta unica europea era dunque necessario che si fossero compiuti i processi e le trasformazioni economiche,
sociali e istituzionali che conducono alla modernità (e dei quali l’unificazione del 1861, e con essa l’unificazione
monetaria, fu in Italia un passaggio essenziale). Oggi possiamo a ragione pensare che l’Unità d’Italia sia in un
certo modo superata e che anche la lira italiana sia uno dei tanti reperti del passato. Ma dobbiamo sapere che
senza l’Unità d’Italia non ci sarebbe stata l’Unione Europea, e senza la lira italiana non ci sarebbe stato l’euro.
Prima ancora di parlare di un cambio di monete, o di adozione della stessa moneta in vari stati, occorre
richiamare l’attenzione sul fatto stesso di imporre una sola moneta come mezzo di scambio universale. Possiamo
chiamarlo processo di standardizzazione, che appunto significa uniformare tutte le misure a un unico modello. Fu
una delle grandi avventure del XIX secolo, il quale ovunque disegnò nuove carte geografiche, planimetrie e cata-
sti, uniformò il calcolo del tempo nel mondo (con l’adozione del meridiano base di Greenwich) e fece lo stesso con
i pesi e le misure, e via via con tutti i prodotti industriali, come l’elettricità, le temperature e ogni sorta di feno-
meni fisici. Così come si può dire delle monete, si trattò di provvedimenti che resero più facili gli scambi in un’area
geografica più ampia, e dunque resero più scorrevoli il commercio e in generale la circolazione di uomini e merci.
Se poi si pensa che il primo avvio di questo fenomeno di standardizzazione coincise a un tempo con la Rivoluzione
industriale e con l’utopia illuministica adottata dalla Rivoluzione francese, se ne vedono anche le implicazioni cul-
turali e politiche. L’adozione di una moneta comune nell’Italia del 1861 – così come più tardi nell’Europa del 2002
– ebbe un grande significato simbolico e politico e, ben oltre le esigenze del commercio, fornì l’idea del trionfo
della ragione e di una più larga patria comune.
Di questo carattere profondamente innovativo bisogna cogliere il significato. In tutte le società di an-
tico regime esisteva una selva indecifrabile di pesi e misure; i diversi oggetti, manufatti e beni erano misurati
L’UNIfIcAZIONE mONETARIA E LA vITA sOcIALE E IsTITUZIONALE di Raffaele Romanelli
18 Carta geografica tematica, in Ministero delle
Finanze, Ottava Relazione sull’andamento della
tassa sul macinato: anno 1874, Roma, Stamperia
Reale, 1875 (Roma, Biblioteca “Paolo Baffi”,
Banca d’Italia).
PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
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in modo diverso, con multipli e sottomultipli non omogenei e con nomi diversi anche nelle stesse località, per
non parlare delle intere nazioni. Si potrebbe dire che le misure erano funzionali a scambi specifici, come se ogni
singolo scambio avesse i suoi propri criteri di misurazione. Insomma, non esisteva una legge uguale per tutti e
le relazioni umane rispondevano a una serie complessa di regole molteplici, consuetudini e situazioni concrete
che nascondevano privilegi e arbitri, ma che mettevano al centro la società, con i suoi rapporti di forza. Le nuove
ragioni dell’economia, dei grandi commerci e della produzione industriale chiedevano maggiore uniformità, mag-
giore omogeneità. Per affermarsi, l’economia di mercato chiedeva che si instaurasse una società di mercato, una
società nella quale tutti fossero parimenti attori economici, con possibilità di vendere e comprare tutto, e dove
tutto fosse potenzialmente acquistabile e misurabile dallo stesso metro (parola che viene dal greco metron, “mi-
sura”, e che fu scelta per indicare la misura lineare standard).
Proprio la vicenda del metro lineare può mostrare le difficoltà incontrate dalla standardizzazione, pro-
cesso che appare una forzatura dell’ordine tradizionale. Infatti solo l’autorità dello Stato può imporre un livella-
mento di tale portata. E fu lo Stato rivoluzionario francese, con la sua carica utopistica, a inventare il metro line-
19 Album della Banca Nazionale 1868. Personale
della filiale di Ancona (Roma, Archivio storico
Banca d’Italia, Archivio fotografico).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
are; e per dargli una base naturale volle che fosse la decimilionesima parte del meridiano passante per Parigi, che
fu calcolato misurando… la Francia. Fu poi imposto dalle armate francesi. Non a caso, dove quelle armate non ar-
rivarono rimasero le antiche misure a base umana, come la yarda, il piede o il pollice. Ma anche in Francia la gente
continuò per lungo tempo a usare i vecchi metodi, tanto che Napoleone nel 1812 dovette arrendersi e tornare al
sistema un tempo in vigore a Parigi. Solo più tardi, nel 1840, il sistema metrico decimale divenne obbligatorio in
Francia e, dopo precisi accordi internazionali, in buona parte del mondo.
Vicende simili furono conosciute in tutti gli altri casi di standardizzazione, compreso quello riguardan-
te l’unità di misura del valore, la moneta. Entrare nella testa della gente e cambiare usi quotidiani e costumi tra-
dizionali è difficile, richiede tempo ed energia. Suggerisce gradualità. Dei vari cambi di moneta verificatisi prima
del 1861, Carlo M. Cipolla ha scritto ne Le avventure della lira: «Oggi, se la moneta viene cambiata, tutta la massa
del vecchio tipo viene in un tempo più o meno lungo tolta di circolazione e sostituita completamente con i mezzi
di nuovo tipo. Allora le cose – salvo casi del tutto eccezionali – procedevano in maniera molto meno drastica.
Dopo che s’era deciso di “cambiare” la moneta ci si accorgeva in genere che l’operazione veniva a costar troppo
e allora ci si accontentava di emettere un certo numero di pezzi nuovi limitandosi di conseguenza a ritirare solo
una parte dei pezzi vecchi in circolazione. La massa circolante risultava così, dopo ogni “cambiamento”, un ibrido
miscuglio di moneta nuova e di reliquiari più o meno archeologici di monetazioni passate».
Questo “ibrido miscuglio” non era soltanto il residuo di tempi passati, né rifletteva solo un’inefficienza
delle autorità: era anche la rappresentazione di una società variegata e multiforme, che non rispondeva solo alle
regole dell’autorità suprema, ma aveva al suo interno dei codici di comportamento capaci di una propria funzio-
nalità. Non a caso, se la babele monetaria dei secoli passati non aveva favorito lo sviluppo, non l’aveva nemmeno
impedito, come poteva testimoniare la storia stessa del capitalismo.
Ma ora occorreva procedere più speditamente. L’estrema varietà degli usi vigenti nelle varie province
della penisola fu evidente allorché l’amministrazione centrale della Banca Nazionale nel Regno d’Italia, progeni-
trice della Banca d’Italia, inviò dei funzionari a saggiare la possibilità di aprire sedi o succursali. «Secondo l’uso
di questa piazza – scrisse per esempio il funzionario inviato ad Ancona – quando si fanno i pagamenti si danno dei
così detti cartocci contenenti quasi sempre ciascuno scuti 50. Ora questi scuti non sono effettivi scuti ma bensì
sono formati da tutta sorta di spezzati che non si possono rifiutare perché ciascun spezzato è tariffato nella pro-
porzione dello scuto intero...». In quel caso l’ibrido miscuglio assumeva una forma quasi istituzionalizzata, che
del resto evocava usi molto antichi – lo stesso termine cartoccio aveva probabili origini romane – o la pratica, già
nota in età moderna, di effettuare transazioni sulla base di certificati di deposito.
Mentre l’amministrazione della Banca Nazionale studiava il modo di diffondere forme di credito omoge-
nee e più moderne, tutte le autorità del nuovo regno erano occupate a dotarlo di quell’infinita serie di infrastrut-
ture in grado di sostenere il mercato, i suoi circuiti e dunque anche la diffusione della nuova moneta nazionale.
20 Repubblica di Venezia, Ludovico Manin (1789-
1797). 9 zecchini d’oro, Venezia. Diritto e rovescio.
(Roma, Museo Nazionale Romano, Medagliere.
Collezione Vittorio Emanuele III di Savoia).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
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Del resto, a cosa sarebbe servito avere una moneta unica tra le varie regioni del regno se le merci o le persone non
avessero attraversato i vecchi confini? O se l’avessero fatto con i tanti e tali ostacoli che prima di allora avevano
intralciato ogni comunicazione? Ostacoli di natura fisica come la mancanza di strade, o di strade ferrate che sca-
valcassero le montagne (tanto che la maggior parte dei commerci a lunga distanza avveniva per cabotaggio) e,
comunque, di collegamenti. Ma anche ostacoli di natura culturale o istituzionale, giacché le leggi, come i sistemi fi-
scali, erano diversi da provincia a provincia, la lingua italiana era poco diffusa e le informazioni difficili da ottenere.
L’unificazione monetaria è dunque parte di un quadro molteplice di interventi, li alimenta e ne è a sua
volta sostenuta. Per quanto riguarda gli aspetti economici basti pensare ai collegamenti stradali, marittimi e fer-
roviari che furono decisi in quell’arco di tempo. La classificazione delle strade nazionali, provinciali e comunali, e
l’approntamento di un intenso programma di costruzioni e di una politica volta a incoraggiare i municipi a costru-
ire, occuparono subito i nuovi governanti. Lo stesso valga per le ferrovie. Al momento dell’unificazione politica
la penisola aveva pochi chilometri di ferrovia (2773 contro i 10 497 della Germania) largamente concentrati nella
valle padana e non collegati in una rete. Il nuovo Stato diede impulso agli investimenti ferroviari e vi concentrò
ingenti risorse, pubbliche e private. Si aggiunga il potenziamento delle infrastrutture portuali, le quali avrebbero
dovuto sostenere un commercio crescente, locale e internazionale. Quando nel 1869 si inaugurò il canale di Suez
si sperò che i porti italiani avrebbero ospitato il grande traffico con l’Oriente, la cosiddetta “valigia delle Indie”.
La cosa non fu possibile, e il maggior contributo italiano all’evento fu la composizione dell’Aida di Giuseppe Verdi,
opera di ambiente egiziano la cui prima avvenne appunto a Suez. E ancora, furono potenziati i servizi telegrafici e
postali, necessari anche per sostenere l’interscambio finanziario.
Ma prima ancora delle infrastrutture materiali si dovette fondare il quadro istituzionale. La legge
sull’unificazione monetaria fa parte di una costellazione di provvedimenti che nel giro di pochi anni costruì l’inte-
ro ordinamento dello Stato e degli enti locali. Si legiferò su pubblica sicurezza, opere pubbliche, sanità. A tacere
dei decreti riguardanti leva, esercito, rapporti con la Chiesa, ordinamento giudiziario, istruzione, università, pro-
fessione medica e così via, conviene ricordare almeno le materie che più da vicino riguardano la disciplina delle
attività economiche e degli scambi, o la fiscalità. È del 1860 un progetto di legge sulle borse di commercio e sui
mediatori, che unificava le norme lombarde con quelle sarde, le prime più rigide (vi si stabiliva il numero chiuso
dei sensali e mediatori di commercio, l’albo etc.), le seconde più liberali. Un altro decretava riguardo alle tasse di
registro, sul bollo e sulla carta bollata; altri ancora su appalti di opere pubbliche, sulle società anonime e in acco-
mandita, e sulla Cassa depositi e prestiti.
Riguardo alla standardizzazione della quale si è parlato, abbiamo poi il regio decreto 13 ottobre 1861,
che approva il regolamento per la fabbricazione di pesi e misure, per il quale chi voglia fabbricare pesi e misure
(ma anche barili, botti e altri vasi chiusi di misura determinata) deve indicare il luogo della fabbricazione alle-
gando un certificato di buona condotta e l’impronta del marchio depositata negli archivi del comune. Sono auto-
21 Vignetta sulla cosiddetta legge Coppino
relativa all’istruzione obbligatoria (Roma, Istituto
per la storia del Risorgimento italiano).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
rizzate le seguenti misure lineari: doppio decametro, decametro, mezzo decametro, doppio metro, metro, mezzo
metro, doppio decimetro, decimetro (in legno, metallo, avorio o altra materia resistente); misure di capacità (li-
tro etc.), misure per i grani (cilindri retti di diametro eguale all’altezza); pesi, pesi in ottone, cavi etc. Un articolo
elenca altresì gli strumenti per pesare: bilance a braccia eguali, stadera, bilancia a bilico e così via.
Negli stessi giorni del tardo 1861 un decreto approvava la classificazione delle dogane, delle vie d’ac-
cesso e delle merci di cui era permessa l’importazione, e un altro regolava l’amministrazione delle zecche di Stato,
stabilendo che la fabbricazione delle monete d’oro e d’argento sarebbe stata eseguita nelle zecche di Milano, Na-
poli e Torino (salvo che i tipi, le matrici e i conii sarebbero stati forniti dagli incisori di Torino). Una commissione
di tre membri avrebbe assistito alle operazioni di saggio delle monete. Un successivo decreto disponeva del per-
sonale, delle procedure e dell’intero processo di fabbricazione. Nel dicembre altri decreti furono emessi sul conio
delle monete, il tipo per l’impronta delle monete d’oro e d’argento, le ritenenze da farsi dalle zecche per la fabbri-
cazione delle monete d’oro e d’argento, la cessazione del corso e il ritiro e cambio delle monete erose in circola-
zione nelle province dell’Emilia, delle Marche, dell’Umbria e così via. Negli stessi giorni un altro decreto approvava
il regolamento disciplinare per l’amministrazione del debito pubblico del regno.
Ma, fra i tanti provvedimenti di quel periodo, alcune scelte fiscali appaiono particolarmente significati-
ve, giacché all’esigenza di dare ordine al prelievo si sommarono gli effetti della gravissima crisi finanziaria seguita
all’unificazione. Dunque le necessità di uniformare il territorio e diffondere l’uso della nuova moneta si fusero con
quella di inasprire la pressione fiscale. Nel giro di pochi anni furono introdotte, tra le tante altre imposte, quelle
sui terreni e sui fabbricati, l’imposta diretta sul reddito mobiliare, i dazi interni di consumo e infine la tassa sul-
la macinazione dei cereali. Ciascuna di esse, applicata senza distinzioni a tutto il territorio nazionale, risultava
inevitabilmente sperequata rispetto agli usi e alla conformazione economica, demografica, produttiva, degli in-
sediamenti e degli usi alimentari; così, la legge che nel 1861 assoggettò le proprietà rustiche e urbane a un unico
tributo fondiario assorbì i tanti tributi preesistenti e limitò le esenzioni, ma dovette scontrarsi con la mancanza di
una comune cultura catastale, e pose un problema di perequazione che si sarebbe trascinato per quasi un secolo.
Non minori furono i problemi derivanti dall’applicazione di imposte dirette sui redditi mobiliari a partire da una
stratificazione di diverse imposte, personali e mobiliari, e dall’applicazione di tasse sulle patenti, accumulata nei
diversi stati. Dopo molti progetti e discussioni, la legge del luglio 1864 tentò una descrizione della ricchezza bor-
ghese, espressione che nelle varie province del regno aveva connotazioni profondamente diverse. A sua volta, la
legge che pochi giorni prima aveva regolato il dazio sui consumi, facendo distinzione tra comuni chiusi e comuni
aperti in base alla popolazione (essendo “chiusi” quei comuni compresi da una cinta muraria, dove quindi i dazi si
riscuotevano all’ingresso delle merci nella cinta daziaria, e “aperti” quelli in cui i dazi si riscuotevano sulla ven-
dita al minuto dei vari generi), operava una classificazione astratta del reticolo urbano del regno che non corri-
spondeva alle sue conformazioni storiche.
22 Scorcio del palazzo della Zecca
che si affaccia su piazza San Marco di Venezia
(Archivi Alinari, Firenze).
23 Macchina coniatrice della moneta di nichelio.
Fotografia di Dante Paolocci in Matteo Pierotti, Nel
regno dell’oro, dell’argento e del nikel. La Zecca di
Roma, in “Il Secolo XX”, 1902 (Roma, Biblioteca
“Paolo Baffi”, Banca d’Italia).
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L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
Ma, tra tutte, la tassa sulla macinazione dei cereali varata con legge 7 luglio 1868 era forse la più pe-
netrante, giacché colpiva direttamente la popolazione rurale e il bene primario dell’alimentazione contadina;
un’imposta antica, che rappresentava un prelievo diffuso e impopolare, e progressivamente caduta in disuso. Nel
1860 resisteva ancora nello Stato Pontificio (e dunque in Umbria e nelle Marche) e in Sicilia (dove però era stata
appena abolita da Garibaldi). L’imposta doveva essere versata dall’utente direttamente al mugnaio al momento
della molitura e in proporzione alla quantità macinata. La legge prevedeva tariffe differenziate e decrescenti per
il grano, il granoturco e la segale, per l’avena e gli altri cereali, per i legumi secchi e le castagne, con il risultato
di gravare maggiormente nelle province in cui la derrata più comune era il frumento, come in quelle del Mez-
zogiorno. Tradizionalmente l’imposta era riscossa tramite il controllo del peso, cosa che dava luogo ad arbitri
d’ogni tipo e richiedeva un severo controllo sui mugnai. Nel solco dell’intento razionalizzatore proprio delle po-
litiche modernizzanti dell’epoca, si pensò di evitare gli arbitri di un tempo stabilendo che la riscossione avvenis-
se tramite un meccanismo automatico di stampo francese: un contatore applicato ai mulini in cui il mugnaio si
sarebbe abituato a riconoscere «la maestà della legge», come ebbe a scrivere un illustre sostenitore del sistema,
l’economista Francesco Ferrara. Ora, al di là del fatto che secondo alcuni i contatori erano costosi, imprecisi e
soggetti a frequenti rotture (tutti difetti che però Ferrara negava), prima ancora di dare i suoi frutti la tassa su-
scitò ondate di proteste e sommosse che specialmente in Emilia, dove intervenne l’esercito facendo morti e feri-
ti, rimasero a lungo nella memoria popolare. Ne Il mulino del Po, un romanzo di Riccardo Bacchelli, da cui furono
poi tratti un film e uno sceneggiato televisivo, un mulino veniva incendiato dallo stesso proprietario perché i
gendarmi non scoprissero che aveva manipolato il famigerato contatore.
25 Immagine dallo sceneggiato televisivo
Il mulino del Po, 1971 (© RAI su licenza
Fratelli Alinari).
24 Limonata uso Sella. Vignetta sulle nuove
tasse introdotte dal ministro Sella, in “La Raspa”,
1871 (Roma, Biblioteca di storia moderna e
contemporanea).
PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
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Dicevamo che la tassa sul macinato ben rappresenta la forzatura fiscale, militare e pedagogica che ac-
compagnò l’unificazione del regno, l’inasprita imposizione fiscale e il processo di standardizzazione – in questo
caso di monetizzazione – incarnato dall’unificazione monetaria. Ce lo mostrano certi opuscoletti di propaganda
governativa redatti, secondo lo stile del tempo, nella forma di un dialogo “istruttivo” tra due contadini, in cui uno
erudisce l’altro sulla ragione patriottica della tassa e sulla sua lievità. Nel caso in esame sono contadini padani,
e per cominciare l’uno deve spiegare la conversione delle libbre tradizionali nelle lire italiane e poi tutti i calcoli
da fare per valutare la tassa. Calcoli invero alquanto complessi, ma ai quali il contadino governativo si è subito
applicato dopo aver imparato a leggere e a scrivere, cosa che col nuovo governo tutti avrebbero potuto fare nelle
scuole serali. Si aggiunga, sostiene il primo, che la tassa colpisce soprattutto la macinazione del frumento, e che
«la tassa sulla macinazione di questo cereale la pagano i Signori, le persone civili, gl’impiegati e i professionisti»,
mentre i contadini si cibano soprattutto di granoturco; cosicché, facendo il calcolo sul consumo di una famiglia di
dieci persone, l’imposizione pro capite risultava minima. Accanto a queste valutazioni sui lievi effetti della tassa
c’era tutta una catena di considerazioni che riguardavano la riforma della coscrizione, che rispetto al passato to-
glieva meno braccia alle campagne, i connessi miglioramenti delle condizioni di vita dei contadini, il benessere
dei proprietari e la convenienza a migliorare le colture.
Quasi a far da pendant con il brigantaggio nel Mezzogiorno, i moti del macinato in area emiliana e lom-
barda – e di lì l’estendersi negli anni seguenti della protesta bracciantile – costituiscono l’apice di una protesta
contro lo Stato e contro la modernità che ben rappresenta la forzatura implicita nella scelta della moneta unica.
In tema di natura simbolica torna anche qui utile il paragone tra la lira del 1862 e l’euro del 2002. Se le figure
impresse sulle lire di allora, tutte recanti l’effigie del re e il suo stemma, simboleggiano la superiore autorità della
patria comune italiana nel suo accentramento monistico, al contrario sugli euro, come segno di una integrazione
di società già sviluppate, prevale l’identità multicentrica e pluralistica fatta di sovranità molteplici e diffuse: le
monete illustrano i simboli delle varie patrie nazionali, mentre sulle banconote si è scelto di disegnare una serie
di ponti, simbolo di collegamenti tra sponde diverse, anziché di autorità politiche comuni.
Anche dal punto di vista simbolico l’unificazione monetaria è dunque il segno di una fondazione costi-
tuzionale. I ponti europei disegnati sulle banconote di oggi richiamano però la nostra attenzione sui biglietti di
banca, che – ne abbiamo accennato – avevano una circolazione assai limitata all’indomani dell’Unità. La gravissi-
ma crisi finanziaria del 1866 mutò radicalmente la situazione. Mentre si assicurava alla Tesoreria un mutuo di 250
milioni di lire con la Banca Nazionale, il decreto n. 2873 del 1° maggio di quell’anno dichiarava il corso forzoso
dei biglietti della Banca stessa, e il corso legale dei titoli fiduciari delle altre banche di emissione e dei banchi
meridionali. Nell’immediato la fine della convertibilità, e dunque del valore intrinseco della moneta, aumentò la
confusione monetaria e determinò una carenza di moneta spicciola alla quale si fece fronte un po’ con tutto: mar-
che da bollo, biglietti emessi un po’ da tutti (banche commerciali, cooperative, negozianti). Determinò inoltre
26 Il brigante Ninco Nanco fotografato
dopo la morte (Raccolte Museali Fratelli Alinari
RMFA, Firenze).
26
25
PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA E LA VITA SOCIALE E ISTITUZIONALE
la tesaurizzazione delle monete metalliche, contribuendo a rallentare la conversione delle vecchie monete con
quelle nuove (soprattutto nel Mezzogiorno). E tuttavia costituì un passo decisivo verso il trasferimento di autorità
sullo Stato, che non era più soltanto rappresentato sulle monete attraverso il profilo del sovrano, ma era definiti-
vamente divenuto il garante unico effettivo del loro valore. Se nel 1861 la moneta metallica in tutte le sue svaria-
te forme, moderne e residuali, rappresentava il 78 per cento dei mezzi di pagamento circolanti, già dieci anni più
tardi la percentuale si sarebbe ridotta al 43 per cento, per diventare il 17 per cento nel 1911.
Un processo irreversibile, ma non per questo accettato senza contrasti. Le antiche abitudini genera-
vano una nuova resistenza, non tanto all’uso della moneta, quanto più specificamente all’uso di quella cartacea.
Anzi, si potrebbe dire che proprio laddove era più antico e consolidato il costume dei pagamenti monetari rispetto
alle pratiche degli scambi in natura, più forte era il rifiuto della carta. In Lombardia, dove il grande affitto versava
il canone in denaro senza eccezione fin dal suo primissimo apparire tra Quattro e Cinquecento, i contratti conte-
nevano la garanzia del titolo delle monete utilizzate, stabilendo per esempio che le monete fossero «per una terza
parte d’oro e per gli altri due terzi d’argento», oppure «zecchini gigliati dello stampo di Firenze», come si legge in
alcuni contratti, fino al punto di dichiarare che tali clausole dovevano essere considerate immodificabili anche se
nuove disposizioni legislative avessero concesso la facoltà di utilizzare altri mezzi di pagamento. In un contratto
dell’anno 1800 si legge che l’affitto doveva essere pagato «in effettivo denaro sonante al corso delle veglianti
grida di Milano, escluso qualsiasi surrogato di carta moneta anche nei casi nei quali, per sovrana autorità, questa
venisse perequata all’effettivo numerario, rinunciando ad esso per allora i conduttori per qualsiasi accezione in
contrario». I costumi del mercato si opponevano così alla forza della legge: ancora nel 1891 era possibile trovare
la clausola che impegnava il fittabile a versare il canone, come ricorda Luigi Faccini, «in buona moneta metallica».
Tra i rapporti inviati dai funzionari della Banca Nazionale nel 1867, da Udine si legge che «questi friulani, essendo
abituati a fare i loro contratti tutti indistintamente in oro, cioè in marenghi, sovrane e genova, hanno una ripu-
gnanza pella carta ed infatti la circolazione dei nostri biglietti è insignificante». Era la ripugnanza diffusa che
ritroviamo nelle Novelle rusticane di Verga: «Ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per
contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a com-
prare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri».
Superare questa diffidenza e garantire la fiducia nella carta moneta sarebbe stato il compito non fa-
cile di un nuovo tipo di istituzione: le banche di emissione. Come aveva scritto il più eminente economista ingle-
se della prima metà dell’Ottocento, David Ricardo, in un testo significativamente tradotto in italiano alla vigilia
dell’unificazione, le banche di emissione, nate quasi ovunque come banche private, ma in stretti rapporti con i
sovrani, avrebbero potuto affermarsi solo se fossero riuscite a conquistare la fiducia del pubblico, superando quei
condizionamenti d’origine. 27 Quintinate. Vignetta sul corso forzoso, in
“Il Pasquino”, 1870 (Roma, Biblioteca di storia
moderna e contemporanea).
27
27
Introduzione
Gli anni dal 1850 al 1875, nei quali si realizzano l’unificazione monetaria italiana e quella tedesca e si
creano la lira e il marco, sono testimoni di avvenimenti importanti per il mondo intero. È un quarto di secolo in
cui si affermano nuove idee che vedono nella liberalizzazione dei mercati e nella integrazione mondiale obiettivi
positivi e irrinunciabili.
I progressi della tecnica, veramente notevoli in quel periodo, favoriscono la costruzione di grandi reti
di infrastrutture che uniscono i territori, a livello sia nazionale sia sovranazionale, e rendono più facili e veloci i
rapporti tra le persone e gli scambi delle merci. Si realizza una rete ferroviaria europea, mentre quella telegrafica
arriva a coprire la gran parte del mondo; si collegano, mediante la navigazione a vapore, località tra loro agli
antipodi, i cui prodotti raggiungono mercati di sbocco distanti migliaia di chilometri; si crea una rete mondiale di
servizio postale stringendo legami fra le poste nazionali. Il clima intellettuale ed economico volge ovunque verso
una marcata fiducia nella positività della tecnica, del progresso e della libertà degli scambi. Sono questi gli anni
in cui l’evento, assai raro, di una convergenza tra Francia e Inghilterra a favore del libero commercio conduce al
fiorire di trattati che promuovono “a cascata” la riduzione delle barriere commerciali.
In questo clima si sviluppano anche una serie di iniziative volte a favorire le unioni monetarie tra pa-
esi; si assiste non solo alla creazione di nuove monete nazionali là dove l’unificazione monetaria segue quella
politica, come in Italia e Germania, ma anche alla stipula di trattati che creano unioni monetarie tra stati che ri-
mangono stati sovrani. Walter Bagehot, il più celebre direttore del londinese “The Economist”, si diceva convinto
che nell’Europa continentale dovesse prevalere una sola moneta.
In questi anni è dunque marcata la trasformazione dei sistemi monetari: alla loro base restano le mo-
nete metalliche che per millenni li hanno costituiti, ma si intensifica la creazione di banconote da parte delle co-
siddette banche di emissione e, in particolare in Inghilterra, si sviluppano i depositi bancari. Sul totale della mas-
sa monetaria cresce sempre più la parte costituita da banconote e depositi, mentre arretra quella delle monete
metalliche. Comincia a delinearsi in questi decenni quello che oggi chiamiamo sistema monetario internazionale,
un insieme di trattati internazionali e di istituzioni sovranazionali che regolano le transazioni commerciali e va-
lutarie non solo tra stati e istituzioni, ma anche fra agenti economici privati. Sino allora la storia dei rapporti in-
ternazionali tra stati non aveva contato molti episodi significativi in campo monetario. Ogni Stato europeo si oc-
cupava esclusivamente della propria sovranità monetaria e, fino al termine dell’Ancien Régime, elaborava misure
di politica monetaria volte ad assicurare ai propri sudditi non tanto un sufficiente livello di benessere aggregato,
quanto quella che Aristotele e Tommaso d’Aquino chiamavano giustizia distributiva, il cui fine era mantenere gli
individui e le loro famiglie nei ceti di nascita e di appartenenza.
Finché i regimi monetari rimasero totalmente legati alle monete metalliche, obiettivo delle misure di
politica monetaria dei governanti fu di evitare le conseguenze sociali negative delle oscillazioni dei prezzi dell’oro
di Marcello de Cecco
L’UNIfIcAZIONE mONETARIA ITALIANA NEL cONTEsTO mONETARIO E fINANZIARIO INTERNAZIONALE
28 Studi sull’abolizione del corso forzato.
Vignetta del celebre caricaturista Casimiro Teja,
in “Il Pasquino”, 1880 (Roma, Biblioteca nazionale
centrale Vittorio Emanuele II).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
e dell’argento, provocate dalla scarsità relativa di questi metalli sui mercati europei, i quali – esauritesi da seco-
li le miniere locali – dipendevano dalle importazioni extraeuropee. La politica monetaria dell’Ancien Régime era
dunque volta a mantenere i valori relativi tra monete dello stesso metallo ma di diverso conio e peso, tra quelle di
metallo diverso, e tra le monete di metallo pregiato e quelle senza valore intrinseco, fuse in metallo vile, chiama-
te normalmente monete di biglione o monete nere.
Questa tradizione, che si era formata nel corso di due millenni ed era giunta a elaborazioni sapien-
ti della teoria della sovranità monetaria, inizia ad essere sconvolta, nel Settecento in Inghilterra e all’inizio
dell’Ottocento in Francia, dall’affermarsi sempre più deciso della dottrina metallista. Questa nega ogni ruolo a
una politica monetaria tendente ad assicurare la giustizia distributiva, e afferma invece che il valore delle mo-
nete è dato dal valore del metallo che esse contengono, al quale si aggiungono una maggiorazione fiscale e una
legata ai costi della coniazione. I valori relativi delle monete, cioè i loro tassi di cambio, devono quindi rispec-
chiare fedelmente le oscillazioni dell’offerta e della domanda dei metalli utilizzati non solo per coniare le mone-
te, ma anche per molti altri usi. Qualsiasi politica monetaria che faccia divergere il valore relativo delle monete
da quello dei metalli di cui sono fatte, secondo la teoria metallista, è nociva e può condurre a più o meno gravi
squilibri economici.
Il metallismo riflette molto bene la crescente importanza dei ceti mercantili a discapito di quella dei
governi, dei parlamenti nei confronti dei sovrani, dell’economia privata nei confronti di quella pubblica. Nell’Ot-
tocento, infatti, il valore del commercio internazionale acquista più importanza rispetto a quello del commercio
interno; declina perciò il potere fiscale dello Stato espresso come capacità di diminuire il valore intrinseco della
moneta mantenendo tuttavia quello facciale. Il trionfo della “moneta merce” porta alla graduale scomparsa della
sovranità monetaria. Dopo la fine della grande inflazione, che coincide in Francia con il periodo del Terrore, in Eu-
ropa comincia a prevalere la diminuzione dei prezzi (deflazione) o almeno la loro stabilità. Contro questa tenden-
za, che favorendo i creditori nei confronti dei debitori scoraggia l’imprenditoria e incoraggia invece il commercio
e la finanza, risulta utile il permanere nel paese di monete sia d’oro sia d’argento, perché raramente accade che
l’offerta dell’uno e dell’altro metallo aumenti o diminuisca simultaneamente. Ad esempio, se diminuisce l’offerta
di oro mentre continua a crescere quella di argento, la quantità di monete d’oro in circolazione si riduce, perché
chi vede aumentarne il prezzo tende a tesaurizzarle. La possibilità di continuare a coniare monete d’argento, tut-
tavia, contribuisce a ridurre l’impatto deflazionistico creato dalla rarefazione dell’oro. Proprio nell’Ottocento, le
condizioni di offerta dei due metalli vanno incontro a variazioni profonde e ripetute, sia per la scoperta di nuovi
giacimenti in territori extraeuropei, sia per le innovazioni introdotte nelle tecniche di estrazione, in particolare
dell’argento. È allora interessante osservare come variarono nel tempo i regimi monetari adottati in Europa: alcu-
ni stati scelsero di ancorare la moneta all’argento, altri all’oro, altri scelsero invece di coniare monete in entrambi
i metalli, mantenendo però tra di essi rapporti di cambio fissi.
29 Cedolino sul corso dei cambi giornalieri
datato Venezia, 26 agosto 1769 (Roma, Biblioteca
“Paolo Baffi”, Banca d’Italia).
29
PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
29
L’unificazione monetaria italiana nel contesto monetario internazionale
Le vicende della lira italiana, introdotta come moneta nazionale nel 1862 e scomparsa nel 2002 con
l’integrazione monetaria europea, sono state per lo più legate a quelle del franco francese, in particolare nei pri-
mi anni di vita della lira, per l’importanza dei rapporti commerciali e finanziari tra Italia e Francia. Nei primi de-
cenni successivi all’unificazione italiana, la Francia assorbiva una parte cospicua delle esportazioni italiane, e i
capitali francesi costituivano la maggior parte degli investimenti esteri nel nostro paese.
Nell’analisi del contesto internazionale in cui si realizza l’unità monetaria italiana, è dunque opportuno
partire dall’introduzione in territorio italiano del franco germinale, moneta d’argento puro al 900 per mille, pe-
sante 5 grammi, che si scambiava con oro al tasso fisso di 15,5 grammi d’argento per ogni grammo d’oro. Questa
moneta fu diffusa dalle armate di Napoleone, nel cui vasto, anche se poco duraturo, impero si realizzava la prima
integrazione monetaria europea dell’età moderna.
Con la Restaurazione, in Italia i governi tentarono, quasi sempre invano, di tornare ai regimi monetari
precedenti l’occupazione francese: il Regno delle Due Sicilie decise di coniare quantità rilevanti di vecchie mone-
te argentee, ma d’argento meno puro, 833 millesimi rispetto ai 900 del franco germinale. Il Regno di Sardegna,
fallito un tentativo di restaurazione monetaria, decise di tornare al regime introdotto dai francesi, chiamando la
propria moneta lira piemontese ma ricalcandola sul franco germinale – mantenendo cioè lo stesso titolo di purezza
– poiché il partner commerciale di gran lunga più importante per il Piemonte restava comunque la Francia. Nelle
province che erano appartenute all’Impero austriaco tornò il sistema monetario precedente, un monometallismo
a base argentea. Le vicende monetarie del Lombardo-Veneto furono poi complicate dal tentativo dell’Austria di
30 Regno di Sardegna, Vittorio Amedeo III
(1773-1796). 20 soldi di mistura, Torino, 1796.
Diritto e rovescio. (Roma, Museo Nazionale
Romano, Medagliere. Collezione Vittorio Emanuele
III di Savoia).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
aderire all’Unione Monetaria Tedesca; tentativo riuscito, dopo alterne vicende, solo nel 1857, alla vigilia dell’uni-
ficazione italiana. Dopo che, nel 1866, anche il Veneto fu annesso all’Italia, il sistema austriaco rimase in vigore
fino al 1918 solo in Trentino, nel Friuli, nella Venezia Giulia e nel Sud Tirolo.
Come avevano già notato nel Settecento gli economisti italiani, pochi erano gli stati della penisola la
cui area monetaria fosse abbastanza grande da risultare economicamente vitale. Un’unione monetaria a livello
europeo, «una sola moneta Imperiale», era stata auspicata già nel Cinquecento dal reggiano Gasparo Scaruffi,
nel primo trattato monetario in lingua italiana. Nei primi decenni dell’Ottocento, nonostante gli stati italiani si
fossero ridotti a sette, solamente i territori facenti parte dell’Impero austriaco, collegati quindi a una grande area
monetaria, e il Regno delle Due Sicilie, per via delle sue dimensioni, furono in grado di tornare al sistema moneta-
rio precedente. Se il Regno di Sardegna non poté che adottare un sistema monetario ricalcato su quello francese,
parimenti il regno del Sud, che esportava materie prime (zolfo e prodotti agricoli, come l’olio d’oliva utilizzato
nell’industria del cotone e della lana) soprattutto in Inghilterra, scelse un monometallismo argenteo con monete
a basso tenore per permettere alle sue merci di restare competitive rispetto a quelle degli altri paesi mediterranei
entrati nell’area economica inglese. Gli stati italiani facevano dunque riferimento ad aree monetarie europee più
vaste, pur mantenendo la propria moneta.
Il rincaro dell’argento
Quando l’Italia realizzò la sua unificazione monetaria, i mercati internazionali erano sotto l’influenza
di due importanti avvenimenti. Il primo era stato, alla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, la scoperta in Cali-
fornia di nuovi filoni d’oro, che ne aumentò lo stock mondiale mentre quello d’argento rimaneva stabile. Il secon-
do, proprio in concomitanza con l’unificazione italiana, fu lo scoppio della guerra di secessione americana, che
innescò una drastica diminuzione delle esportazioni di cotone dagli stati del Sud e spinse le industrie produttrici
di filati e tessuti a rivolgersi all’India, un paese con una moneta a base argentea e un avanzo negli scambi com-
merciali con l’estero (e che attirava quindi argento dal resto del mondo). Il prezzo dell’argento registrò pertanto
una crescita continua per tutti gli anni Cinquanta dell’Ottocento, innescando fenomeni imponenti di arbitraggio:
chi aveva oro lo cambiava con argento nei paesi che avevano monete di quel metallo ad alto contenuto intrinseco.
Questi paesi si trovarono a perdere buona parte della loro monetazione argentea e ad assorbire monete d’oro, as-
sai poco utili per le transazioni di scarso e medio valore, che sempre costituiscono la maggior parte degli scambi.
Mentre i disagi derivanti dalla rarefazione dell’argento furono circoscritti ai piccoli stati del Centro e del Nord Ita-
lia, il Mezzogiorno ne fu risparmiato perché aveva una monetazione argentea di minor purezza.
La presenza cospicua di monete d’oro nella maggioranza degli stati italiani alla vigilia dell’unificazione
avrebbe consigliato all’Italia l’adozione del sistema aureo, in vigore in Inghilterra e sostenuto apertamente dagli
economisti italiani. Alla data dell’introduzione della lira, invece, il governo decise di estendere il sistema moneta-
31 Clipper Ship Poster. Manifesto pubblicitario
di viaggi verso le regioni aurifere della California,
1849 (Collezione privata Peter Newark American
Pictures, The Bridgeman Art Library).
31
PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
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rio piemontese a tutto il nuovo regno, considerato giuridicamente come la continuazione del Regno di Sardegna.
Inoltre, dal punto di vista economico, la Francia sarebbe prevedibilmente rimasta il maggior partner commerciale
anche per il Regno d’Italia, che aveva peraltro ereditato l’imponente debito pubblico piemontese, quasi tutto de-
tenuto da creditori francesi e quotato quindi essenzialmente sulla piazza di Parigi, dove avveniva il pagamento
periodico di gran parte degli interessi sul debito. Si ritenne dunque conveniente legare la nuova moneta italiana
all’area monetaria francese per non rischiare una rivalutazione del franco nei confronti della lira, e per la consa-
pevolezza, da parte del governo, della necessità di continuare a indebitarsi sulla piazza di Parigi, la più aperta ai
prestiti sovrani europei. Questo spiega anche il permanere della Casa Rothschild come intermediario e agente per
il debito estero dell’Italia. Il nuovo governo del regno, pur non rinunciando a sporadici e infruttuosi tentativi di
mettere i Rothschild in concorrenza con le case finanziarie londinesi, come aveva fatto senza risultati anche il Re-
gno di Sardegna, concluse che la rendita italiana aveva un vero mercato solo a Parigi.
Le unioni monetarie europee ottocentesche
Abbiamo già accennato alla ventata di entusiasmo per la globalizzazione e in particolare per l’inte-
grazione europea che attraversò l’Europa negli anni Sessanta dell’Ottocento. Essa coinvolse anche il campo più
gelosamente protetto dalla sovranità nazionale, quello monetario, grazie soprattutto all’attivismo del governo
francese di Napoleone III, ansioso di fare di Parigi il centro dell’economia e della finanza europea e mondiale.
L’ambizione di Napoleone III tramontò per sempre qualche anno dopo, distrutta dalla sconfitta nella guerra con-
tro la Prussia scatenata dall’imperatore francese.
Il dinamismo diplomatico francese in campo economico e monetario internazionale condusse a un ri-
sultato concreto: la firma nel 1865 del trattato internazionale che istituiva l’Unione Monetaria Latina, alla quale
parteciparono, oltre alla Francia, l’Italia, la Svizzera e il Belgio. A questi paesi si aggiunse poi la Grecia, che fu
ammessa come membro esterno nel 1868. L’Unione restò formalmente in vigore per molti decenni. Fu abrogata
definitivamente solo nel 1927, ma cominciò a perdere rilevanza dopo appena un decennio dalla firma del trattato
istitutivo, perché la marcia inarrestabile del sistema aureo, iniziata nella seconda metà degli anni Settanta con il
crollo del prezzo dell’argento, la rese gradualmente obsoleta.
Il Secondo Impero riuscì, con le capacità della sua diplomazia e con l’influenza dei suoi capitali, a re-
plicare l’unificazione monetaria che il primo Napoleone aveva imposto all’Europa con le armi. Vi contribuì mol-
to, tuttavia, la divergenza fra il prezzo dell’argento e quello dell’oro, che provocava problemi monetari gravi per
quei paesi europei che avevano mantenuto il regime bimetallico francese, a tasso di cambio fisso tra i due metal-
li. Gli inglesi avevano da tempo risolto questi problemi adottando con decisione il sistema monometallico aureo,
abbandonando il prezzo dell’argento al suo destino, ricorrendo a banconote, depositi e conti correnti bancari e
sviluppando contemporaneamente una “terza circolazione”: quella delle cambiali commerciali, assai convenienti
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
per i pagamenti tra imprese. Nell’Europa continentale, invece, le monete d’argento e quelle fatte di metallo vile
restavano al centro del sistema dei pagamenti, sia per la ancor limitata diffusione delle banche di emissione e di
deposito, sia per la modesta circolazione delle cambiali commerciali.
I paesi partecipanti all’Unione Monetaria Latina, pur mantenendo tutti il sistema monetario eredita-
to dall’Impero napoleonico, avevano reagito in modo disuguale ai problemi del rincaro del prezzo dell’argento,
adottando monete di diverso peso e tenore argenteo. Ciò produsse arbitraggi e fuga delle monete a più elevato
valore intrinseco e tenore metallico dalla circolazione dei paesi che le avevano emesse. Con il trattato del 1865
i paesi firmatari speravano di risolvere il problema degli arbitraggi, unificando a uno standard unico di quantità
e di tenore del metallo le coniazioni di monete d’argento, e impegnandosi a farle circolare liberamente in tutto il
territorio dell’Unione, senza distinzione di nazionalità.
L’Unione Monetaria Latina conobbe molteplici traversie originate non solo dalla perdita di potenza
della Francia dopo il 1870, ma anche dalle dispute interne sulla quantità e sul tenore di metallo delle emissioni di
32 Padiglione delle monete, in “L’Esposizione
universale del 1867 illustrata”, 1867 (Roma,
Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte).
PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
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33 Regno d’Italia, Vittorio Emanuele II (1861-
1878). 20 lire d’oro, 1866. Diritto e rovescio.
Moneta coniata in vigenza del trattato sull’Unione
Monetaria Latina (Roma, Museo della Moneta,
Banca d’Italia).
monete nuove da parte degli stati membri, che spesso non rispettarono strettamente i patti. Il trattato istitutivo
si prestava a varie interpretazioni e lasciava libertà agli stati membri di condurre una politica monetaria autono-
ma. Pur tra molte difficoltà, il prezzo relativo dell’argento rimase sostanzialmente stabile negli anni successivi
alla stipula del trattato, fino a quando (dal 1873) iniziò a scendere sempre più rapidamente, invertendo la ten-
denza del ventennio precedente.
Nel 1867, quando il prezzo dell’argento non aveva ancora iniziato la sua rovinosa corsa al ribasso, fu
convocata a Parigi una conferenza monetaria internazionale, in coincidenza con l’Esposizione universale voluta
dalla Francia per celebrare il culmine della sua potenza. I delegati di 20 stati di tutto il mondo votarono a favore di
un progetto di unificazione monetaria mondiale, basato sul sistema aureo. Una nuova moneta d’oro del valore di
25 franchi sarebbe divenuta la base del sistema; Stati Uniti e Inghilterra avrebbero dovuto diminuire il valore del-
le rispettive monete base, la mezza aquila americana e la sovrana inglese, fino a eguagliare in peso e tenore aureo
questa nuova moneta francese. Le tre monete, dopo un periodo di transizione, avrebbero dovuto avere corso le-
gale in tutti i paesi. Purtroppo, dopo la conclusione della conferenza il piano non fu adottato dai tre paesi chiave
e decadde.
Gran parte del merito di aver tenuto in vita l’Unione Monetaria Latina fu della Banca di Francia, che
– pur osteggiando l’Unione – continuò ad assorbire monete d’argento e a conservarle nelle sue riserve, poiché
difendeva a spada tratta il bimetallismo (che considerava più stabile e meno propenso a rischi di caduta dei prezzi
e depressione economica). Tuttavia, quando il prezzo dell’argento intensificò la sua caduta, il regime monetario
nei paesi aderenti si trasformò in un bimetallismo zoppo, così definito perché la coniazione di monete d’argento
fu interrotta e si passò a un sistema basato in sostanza sull’oro – anche se in alcuni casi (come in Italia, dove ciò
avvenne solo nel 1927) l’oro non fu messo per legge alla base del sistema monetario.
Le altre unioni monetarie europee
Alcuni anni prima del trattato dell’Unione Monetaria Latina, gli stati di lingua tedesca avevano deciso
di completare l’unione doganale creata nel 1834 (il celebre Zollverein) con una unificazione monetaria. L’Unio-
ne Monetaria Tedesca (Münzverein) consisteva in realtà in due alleanze di stati, ciascuna con moneta propria: gli
stati del Sud avevano a base del sistema la moneta d’argento chiamata tallero, mentre quelli del Nord il fiorino,
anch’esso d’argento, chiamato in tedesco Gulden. Le due monete non si scambiavano alla pari, ma al tasso fisso di
1 tallero per 1,75 Gulden. L’accordo consentiva la libera circolazione delle monete di base, ma i vari stati manten-
nero il diritto di coniare altre monete, non standard, circolanti e valide solo al loro interno. Nel 1857 anche l’Au-
stria aderì al trattato, aggiungendo una terza moneta di base. L’Unione Monetaria Tedesca fu messa in crisi dalla
guerra austro-tedesca del 1866; dopo la vittoria prussiana sui francesi nel 1870, nel territorio del Reich si realizzò
un’unificazione monetaria a base monometallica aurea, che diede vita al marco.
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
Conseguenza dell’unificazione monetaria tedesca fu la creazione dell’Unione Monetaria Scandinava del
1873. Il trattato legava Danimarca e Svezia (e dal 1877 anche la Norvegia, unita alla Svezia da un’unione politica)
con l’adozione di una moneta a base aurea, affiancata dal 1885 dalla intercircolazione di banconote e di bonifici
bancari. Per questa via, il sistema monometallico aureo adottato in Germania si estese ai paesi a preponderan-
te influenza tedesca come quelli scandinavi (compresa la Danimarca che, sconfitta nel 1864 dalla Germania nella
guerra per lo Schleswig-Holstein, aveva l’Inghilterra come principale partner commerciale). L’Unione Monetaria
Scandinava, sulla cui gestione la banca centrale svedese non nascondeva perplessità, si protrasse formalmente
fino a dopo la Prima guerra mondiale, resistendo anche alla dichiarazione unilaterale di scioglimento dell’unione
politica fatta dalla Norvegia nel 1905.
L’Unione Monetaria Scandinava fu in realtà un accordo di collaborazione speciale tra paesi che già ave-
vano adottato il sistema aureo, finalizzato a rinforzare i rapporti monetari e finanziari mediante l’adozione di
una moneta unica che in ciascun paese fosse gestita dalla banca centrale nazionale. Quando, con lo scoppio della
Prima guerra mondiale, fu abbandonata la convertibilità in oro, non si trovò accordo sulla quantità di moneta car-
tacea da creare nei vari paesi aderenti. Emerse così che l’elemento fondamentale dell’unione monetaria era stato
l’ancoraggio al sistema aureo di ciascuno dei tre paesi; né l’intesa si ricostituì stabilmente dopo il breve ritorno
all’oro dei paesi scandinavi avvenuto negli anni Venti. L’Unione Monetaria Scandinava fu infine vittima della crisi
finanziaria internazionale che concluse quegli anni del Novecento.
L’affermazione del sistema aureo a livello internazionale
L’adozione del sistema aureo da parte della Germania può essere considerato il punto di svolta in favo-
re dell’oro del sistema monetario internazionale. Non tanto perché l’esempio tedesco fu seguito da molti paesi,
quanto piuttosto perché la scelta monetaria del nuovo Reich contribuì in modo decisivo a determinare negli anni
successivi il crollo del prezzo dell’argento.
In Francia, alla fine degli anni Settanta, si verificò un ritorno alla convertibilità su base aurea, dopo
il suo abbandono indotto dalla sconfitta di Sedan e durato fino al 1878. Negli stessi anni ritornò la convertibilità
aurea anche negli Stati Uniti. Tutto ciò rese assai più difficile il governo del bimetallismo a cambio fisso tra i due
metalli, che risaliva al franco germinale ed era stato esportato in molti stati dell’Europa continentale.
A differenza degli accordi monetari precedenti, il passaggio del sistema monetario internazionale alla
base aurea richiedeva solo una serie di decisioni unilaterali con le quali ogni Stato stabiliva, con propria legge
nazionale, il contenuto di oro delle monete e la convertibilità in oro delle banconote delle proprie banche di emis-
sione. Quando tale decisione fu presa da molti stati si creò un sistema mondiale di cambi fissi basato sulla parità
aurea di ciascuna moneta, senza bisogno di realizzare unioni monetarie che richiedessero accordi e trattati inter-
nazionali, difficili da stipulare e ancor più difficili da rispettare.
34 Regno di Danimarca, Cristiano IX (1863-
1906). 20 corone d’oro, 1873. Diritto e rovescio.
Moneta coniata in vigenza del trattato sull’Unione
Monetaria Scandinava (Roma, Museo della
Moneta, Banca d’Italia).
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PARTE I. INTRODUZIONE
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA NEL CONTESTOMONETARIO E FINANZIARIO INTERNAZIONALE
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La propensione degli stati ad adottare il sistema aureo si consolidò solo dopo la fine della grande de-
pressione che colpì l’economia mondiale tra il 1875 e il 1896. In quel ventennio, infatti, nei paesi che avevano già
adottato il sistema aureo si verificò una profonda deflazione dei prezzi, che sembrò invece parzialmente rispar-
miare i paesi a moneta argentea o a base bimetallica.
Mentre nei paesi che aderivano al sistema aureo ci si interrogava sempre più spesso sulla possibilità
che la depressione fosse causata dalle tendenze deflazionistiche di tale sistema, il Regno d’Italia decideva, nei
primi anni Ottanta e apparentemente in controtendenza, di aderire al sistema aureo, rendendo convertibile la
lira in oro. Era la conclusione di un lungo periodo di circolazione cartacea inconvertibile, iniziato con la guerra
del 1866 contro l’Austria e prolungatosi nel tempo, anche per l’appoggio del ceto industriale settentrionale. La
decisione a favore del sistema aureo fu presa per attrarre verso l’Italia capitali esteri, sui quali si sarebbe basata e
sostenuta la convertibilità della lira. La decisione italiana coincise in effetti con un’ondata decennale di esporta-
zioni di capitale da parte dell’Inghilterra e della Francia; il cambio della lira fu effettivamente sostenuto, ma i ca-
pitali stranieri provocarono una bolla immobiliare senza precedenti nella città di Roma, che nel 1870 era divenuta
capitale del Regno. Interi quartieri sorsero in pochi anni dal nulla (come il quartiere Prati e, attorno alla stazione
Termini, il quartiere Esquilino), ma le banche che intermediarono i capitali esteri si trovarono presto in difficoltà,
perché le società immobiliari alle quali avevano prestato i capitali giunti dall’estero tardavano a vendere gli im-
mobili appena costruiti. Quando, all’inizio degli anni Novanta, l’insolvenza finanziaria dell’Argentina colpì i Ba-
ring, suoi banchieri inglesi, esplose una grande crisi finanziaria internazionale che si trasmise a tutto il mondo in
coincidenza con il richiamo da parte delle istituzioni finanziarie inglesi dei capitali prestati all’estero.
La crisi edilizia italiana divenne così crisi bancaria, trascinando, dopo le banche impegnate nei prestiti
all’edilizia, anche le banche di emissione. La convertibilità fu sospesa e fu necessario riformare profondamente il
sistema bancario italiano con la creazione della Banca d’Italia.
La lira fu dichiarata di nuovo inconvertibile e riuscì a tornare in salute solo dopo il 1897, con l’inizio
di una grande ripresa dell’economia internazionale che favorì un’emigrazione di massa dal Mezzogiorno verso le
Americhe. Furono le rimesse dei nostri emigranti, in maggioranza meridionali ma anche veneti e piemontesi, che
permisero di tornare a una convertibilità aurea ufficiosa. Questa volta la convertibilità non ebbe dunque alla base
capitali esteri, difficili da attrarre e facilissimi da perdere, ma i risparmi in valuta pregiata frutto del sudore di mi-
lioni di nostri lavoratori emigrati. Furono essi a permettere il riacquisto del debito pubblico italiano che si trovava
in mani straniere. Le rimesse in valuta finanziarono anche il grande balzo in avanti dell’industria del Nord Italia,
fornendole i mezzi finanziari per importare le materie prime e i macchinari di cui aveva bisogno per produrre.
Cambiò così definitivamente la struttura economica di metà del nostro paese che da allora fu incluso nel novero
dei paesi sviluppati.
35 Adesione dell’Italia al trattato dell’Unione
Monetaria Latina. Copia conforme dell’atto di
ratifica da parte di Vittorio Emanuele II (Roma,
Archivio Centrale dello Stato).
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