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MODULO 5 Pedagogia tra natura e tecnica CONTENUTI • UNITà 1 Pedagogia tra natura e tecnica

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Page 1: Pedagogia tra natura e tecnicasopraffazione della natura da parte della tecnica. Ovviamente anche su questo piano la pedagogia riveste un ruolo tutt’altro che secondario, poiché

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• Unità 1Pedagogia tra natura e tecnica

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Unità 1Pedagogia tra natura e tecnicaContenuti• 1 • 2 • 3 • 4 • 5Biologia e adattamento La rivoluzione evoluzionista Neuroscienze e psicologia

cognitivaBiologia e cultura L’Intelligenza Artificiale

❱❱ 1. Biologia e adattamentoTra tutte le scienze umane, la biologia è quella che maggiormente aiuta a riflettere sul concetto di natura. E quindi, al fine di affrontare il tema dell’interazione tra uomo e ambiente dal punto di vista pedagogico, è indispensabile tenere conto dei suoi ap-porti più recenti. Innanzitutto, sul piano biologico, occorre osservare che l’uomo viene al mondo molto meno attrezzato di altri esseri viventi per la sopravvivenza. Alcuni antropologi, come Arnold Gehlen, hanno addirittura definito l’uomo come un «animale indebolito», cioè dotato di un insufficiente corredo istintuale e quindi bisognoso di un surplus di sforzo cognitivo per adeguarsi al mondo. Da questo punto di vista l’essere umano, a differenza dell’animale, vive necessariamente una condi-zione di forte mediazione cognitiva e simbolica con l’ambiente circostante: il suo rapporto con il mondo non è un processo spontaneo, innato e dominato dall’istinto come per gli animali. Piuttosto, esso è sempre l’esito di un lungo processo di ap-prendimento e di sviluppo delle capacità cognitive. Di fronte alla sua insufficienza biologica, dunque, l’uomo può contrapporre un’impressionante capacità di adatta-mento che gli proviene dallo sviluppo dei processi psichici superiori (pensiero, me-moria, linguaggio) dalla sua attitudine tecnica, che gli permette di intervenire sul mondo e di modificarlo. In questo senso, come abbiamo più volte ricordato, la specie umana è quella che è maggiormente segnata dal fenomeno dell’apprendimento (uno scimpanzé esaurisce nel giro di pochi mesi la propria maturazione cerebrale con un raddoppiamento del peso del cervello, mentre lo sviluppo cerebrale umano dura per oltre quindici anni, e il peso del cervello aumenta di cinque volte rispetto alla nasci-ta). Questi dati di fatto pongono alla pedagogia l’evidenza di tre punti di riflessione relativi all’interazione tra natura e tecnica:

• la natura umana in quanto caratterizzata dalla capacità tecnica;• la trasformazione della natura umana rispetto alla tecnica (si pensi a come

l’invenzione della scrittura, della stampa e dei media in genere influiscano sullo sviluppo delle nostre capacità cognitive, logiche, audio-visive);

• il rischio di sopraffazione della tecnica sul mondo naturale.

È quindi necessario riflettere sull’interazione e l’equilibrio tra natura e tecnica, e in questa riflessione la pedagogia interagisce con la biologia e con la cibernetica (intesa come sapere emblematico dell’evoluzione della ricerca tecnologica). Che l’attenzione alla biologia sia fondamentale, lo abbiamo già detto. In particolare, per la pedagogia, è fondamentale l’apporto della teoria evoluzionista darwiniana che legge il mondo

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biologico attraverso i concetti di evoluzione, cambiamento e differenza. Non esiste una natura originariamente già data e immutabile, ma si dà una evoluzione continua (inizialmente ritenuta lineare, per essere poi riformulata come caratterizzata da un andamento intermittente) e una sostanziale continuità tra le specie viventi. Anche la mente umana (considerata in continuità con il cervello) risulta essere un prodotto dell’evoluzione e organizzazione delle strutture cerebrali, strettamente collegate agli stimoli che giungono dall’ambiente. Ma se le cose stanno così, e se la natura umana è intrinsecamente creativa e quindi legata alla tecnica e allo stesso tempo dalla tecnica influenzata, è necessario considerare natura e tecnica come strettamente connesse. Alla luce di questa interconnessione, si fa chiaro l’interesse per la cibernetica e per il dibattito sul rapporto tra cervello e macchine pensanti: il rischio che si pone di fron-te a queste ricerche è una semplice assimilazione tra mente e computer, per cui è ne-cessario sottolineare gli elementi di somiglianza e le differenze radicali. Questo signi-fica anche valutare quale impoverimento (in termini di fantasia, sensibilità, creatività) possa venire alla mente dall’uso diffuso delle macchine e, viceversa, quali prospettive positive possano derivare da un loro uso consapevole. Infine bisogna valutare quali sono le possibilità che ha la cibernetica di fornire spiegazioni sul cervello e sulle sue capacità conoscitive e adattive (nella doppia direzione di capacità di riprodurle con un supporto diverso dal cervello, o di sottolinearne la sostanziale differenza almeno ri-spetto alle macchine prodotte finora).

Approfondiamo ora quali sono gli influssi fondamentali di queste due scienze e di queste prospettive sulla pedagogia: essi riguardano il piano dei rapporti tra natura (patrimonio neuro-fisiolologico) e apprendimento, e quello dei rapporti tra intelli-genza umana e intelligenza artificiale. Rispetto al binomio natura/apprendimento la pedagogia dovrà:

• ideare percorsi formativi che favoriscano lo scambio e l’interazione tra patrimo-nio genetico e stimoli ambientali;

• valorizzare le differenze del cervello umano individuando i processi formativi;• facilitare un intervento tempestivo nei periodi di massima capacità di apprendi-

mento;• organizzare l’offerta formativa per favorire e ottimizzare la naturale capacità e

tendenza all’apprendimento.

Rispetto al binomio intelligenza naturale/intelligenza artificiale la pedagogia dovrà approfondire:

• i codici attraverso i quali si elaborano le informazioni;• l’ampliamento e l’integrazione linguistica offerta dal sistema multimediale;• i problemi che dipendono dall’esposizione a stimoli ambientali eccessivamente

frantumati e disarticolati e dall’impoverimento che deriva dalla deprivazione di stimoli;

• il rapporto computer-scuola-bambino.

Infine, bisogna considerare quello che abbiamo indicato come un possibile rischio di sopraffazione della natura da parte della tecnica. Ovviamente anche su questo piano la pedagogia riveste un ruolo tutt’altro che secondario, poiché deve garantire la qua-lità e validità di modelli e contesti educativi al fine di ricomporre la frattura tra natu-ra e tecnica in maniera armonica e continua.

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❱❱ 2. La rivoluzione evoluzionistaLa teoria evoluzionista fu elaborata originariamente da J.-B. Lamarck, per essere poi definitivamente messa a punto da Charles Darwin. Ulteriori e successive con-ferme a questa teoria sono arrivate dai successi della genetica molecolare. La portata di questa teoria è talmente grande che essa ha influenzato e coinvolto in un processo di riflessione l’intero ambito delle scienze.

❱ 2/1 Charles Darwin e la teoria dell’evoluzioneAlla base della teoria darwiniana, come abbiamo già visto in precedenza, c’è l’idea di una evoluzione lenta e graduale operata tramite la selezione naturale. La visione che si è sviluppata da essa è più articolata e sistemica. Gli studi paleontologici succes-sivi hanno mostrato che l’evoluzione non è stata lineare nel tempo, ma ramificata ed è avvenuta per speciazione (da un ceppo originario si può distaccare una linea evolu-tiva originale). Sono inoltre plurali anche i fattori che determinano l’evoluzione e i loro rapporti (per cui bisogna tenere conto della complicata interazione tra le varie unità del sistema evolutivo: geni, individui, popolazioni, specie, etc.). La teoria evo-luzionista così intesa, cioè arricchita dai successivi sviluppi della teoria darwiniana, permette di affrontare il tema uomo-ambiente secondo una logica che non divide più corpo e mente, ragione e istinto, sentimento e intelletto, scienze che studiano la natu-ra e scienze che studiano l’uomo. Se l’uomo viene inserito in continuità con la natura, la sua caratteristica peculiare, cioè la funzione logico-linguistica, viene vista come il prodotto più recente e avanzato dell’evoluzione nella natura. Pertanto la stessa cono-scenza è un fatto biologico, e l’apprendimento viene inteso come una strategia di sopravvivenza biologica. Tutti gli esseri viventi sono sistemi aperti e sopravvivono alimentandosi con informazioni e conoscenze, riconoscendo e scegliendo. Inserita in questo quadro figura anche, come livello più alto di evoluzione, la capacità logico-linguistica che caratterizza la specie umana. Dovrebbe essere chiaro con queste pre-messe perché, come abbiamo già notato, non è corretta un’opposizione tra natura e cultura: la cultura infatti è un evento naturale, un portato dell’evoluzione; inoltre la natura umana è culturale, in quanto la sua evoluzione si realizza con la cultura, con la mediazione di strumenti culturali. Questa osservazione può essere trasportata anche sul piano del singolo rispetto alla propria esistenza: l’individuo è un prodotto della storia naturale (della sua specie) ma è anche fortemente influenzato soggettivamente (soprattutto rispetto al proprio potenziale mentale) dall’ambiente in cui vive e dagli stimoli culturali che gli giungono da questo ambiente. Su quest’ultimo punto la peda-gogia deve riflettere e progettare un quadro che garantisca il massimo rispetto e la massima valorizzazione delle capacità logico-linguistiche di ciascun individuo. È fondamentale innanzitutto una tempestiva azione formativa fin dall’infanzia che for-nisca le opportunità di sviluppo del patrimonio linguistico. Affinché ciò avvenga, bi-sogna programmare delle strategie di insegnamento e apprendimento, e predispor-re gli spazi e le attrezzature in cui la formazione possa avvenire nel modo più comple-to, cioè con attenzione rivolta a tutti i molteplici aspetti della capacità cognitiva.

❱❱ 3. neuroscienze e psicologia cognitivaIntorno alla metà del Novecento si sviluppano delle ricerche che approfondiscono il tema dell’analogia tra mente e computer per chiarire meccanismi e processi dell’in-

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telligenza umana, il suo sviluppo, le sue caratteristiche strategiche, il suo modo di apprendere, la sua interazione con il linguaggio.

Il cervello è il risultato di milioni di anni di evoluzione, è composto da miliardi di cellule nervose che stabiliscono contatti con migliaia di altre cellule, formando un complicato sistema di reti in continua trasformazione. Ogni cervello è un unicum irripetibile in virtù della varietà di questi contatti, influenzati dall’ambiente esterno e differenti da soggetto a soggetto in ragione delle diverse matrici genetiche e di sog-gettive interazioni cognitive, affettive e culturali con l’ambiente. Questo quadro così complesso è molto difficile da spiegare e nonostante i progressi che avvengono nello studio del cervello, restano ancora molti interrogativi aperti. Due scienze in partico-lare e con prospettive differenti cercano di dare risposta ad alcuni di questi quesiti:

• le neuroscienze, che approfondiscono la struttura fisica del cervello per analiz-zarne il funzionamento;

• la psicologia, che si occupa del comportamento dell’uomo analizzandone i pro-cessi mentali attraverso la ricerca sperimentale. La psicologia cognitiva, in parti-colare, si giova dell’apporto della cibernetica e dell’intelligenza artificiale.

Le neuroscienze studiano il sistema nervoso centrale e periferico relativamente alla struttura, alla funzione, allo sviluppo, alla biochimica, alla fisiologia, alla farmacolo-gia e alla patologia. Questo studio è interdisciplinare e coinvolge vari livelli (da quello molecolare, a quello cellulare cioè neuronale, fino al sistema nervoso nella sua totalità). Al livello superiore, i metodi delle neuroscienze si legano con le scienze cognitive e con la filosofia della mente, per cui si può parlare di neuroscienze cogni-tive. Tra i temi più importanti di cui si occupano le neuroscienze figurano:

• il funzionamento dei neurotrasmettitori nelle sinapsi; • il funzionamento delle strutture neurali relativamente più semplici di altri organismi; • il modo in cui i geni contribuiscono allo sviluppo neurale nell’embrione e duran-

te vita; • i meccanismi biologici alla base dell’apprendimento; • la struttura e il funzionamento dei circuiti neurali complessi nella percezione,

nella memoria e nel linguaggio. I metodi principali che sono adottati sono gli studi anatomo-clinici, le attivazioni funzionali e la sperimentazione animale.

La psicologia cognitiva (o cognitivismo) è lo studio del comportamento e della vita mentale, caratterizzata da un approccio interdisciplinare, in quanto in essa convergo-no metodi, quadri di riferimento teorici, dati empirici di discipline diverse (la psico-logia, la linguistica, le scienze sociali, le neuroscienze e le scienze biologiche in ge-nere, l’informatica e l’intelligenza artificiale, la matematica e la fisica, la filosofia). L’obiettivo della psicologia cognitiva consiste nello stabilire una connessione tra lo studio dei comportamenti e delle capacità cognitive negli esseri umani e nella ripro-duzione di questi in sistemi artificiali.

La psicologia cognitiva è uno dei più importanti movimenti della psicologia contem-poranea, secondo il quale la mente umana funziona elaborando attivamente informa-zioni che le giungono tramite gli organi sensoriali, in analogia con i meccanismi di tipo cibernetico. A differenza di altri modelli precedenti (ad esempio il comporta-mentismo), il cognitivismo non costituisce un sistema teoretico organizzato e coeren-te: la sua prima formulazione teorica è stata realizzata da Ulric Neisser (autore di Psicologia cognitivista, 1967) almeno dieci anni dopo la comparsa delle prime tec-

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niche sperimentali definibili come cognitiviste. Le influenze che hanno inciso sulla nascita delle teorie cognitiviste sono molte ed eterogenee: le più recenti possono essere individuate nella teoria dell’informazione e nella cibernetica, discipline che forniscono un modello dell’organismo umano come sistema complesso in grado di ricevere informazioni (input), di elaborarle compiendo scelte fra gli elementi in entrata, di porre in atto sui dati selezionati una serie di trasformazioni e un imma-gazzinamento rapido ed efficace, di raggiungere decisioni dipendenti dai risultati dell’elaborazione compiuta e non predeterminate in partenza (output), come era nel modello comportamentista, dagli stimoli ambientali in entrata. I primi esperimen-ti cognitivisti vengono condotti in Inghilterra: dai risultati emerge che la mente uma-na si comporta come un meccanismo capace di autocorrezione a determinati inter-valli, che la mente può selezionare in modo molto preciso le informazioni in arrivo (teoria del filtro), che il soggetto conoscente interagisce con l’ambiente circostante, non limitandosi a recepirne passivamente le sollecitazioni (come nella prospettiva comportamentistica), ma continuamente verificando la congruenza fra il proprio progetto comportamentale e le condizioni oggettive esistenti. Negli anni successivi si differenziano diversi filoni di ricerca cognitivista che si focalizzano su percezione, memoria, attenzione, vigilanza, ragionamento (il cosiddetto problem solving) e so-prattutto il linguaggio (ambito in cui sono fondamentali i contributi di Noam Chom-sky). La differenza di impostazione e di ambiti di competenza ha portato a lungo neuroscienze e psicologia a procedere separatamente. Dagli anni Settanta del Nove-cento, però, con la revisione della divisione tra mente e cervello, è avvenuta una svolta che pone in dialogo e in raccordo neuroscienze e psicologia, cercando di su-perare l’idea di una incomunicabilità tra il livello biologico del cervello e il livello legato al pensiero. Due novità hanno aiutato il superamento della concezione dualista mente-cervello:

• l’irruzione della complessità in campo epistemologico: la scienza fa propria l’idea che la realtà è fatta di sistemi complessi, pertanto la vita mentale è una proprietà del sistema-individuo, e non può essere ridotta alle componenti fisiche (non si possono prevedere i comportamenti solo conoscendo le componenti biologiche);

• l’uso di applicazioni informatiche simulative che permettono di studiare i siste-mi complessi (mentre gli strumenti tradizionali come l’esperimento si prestano essenzialmente allo studio di sistemi semplici).

Con l’apporto del paradigma della complessità e della metodologia della simulazione si è potuta superare, o meglio integrare, l’idea secondo la quale la mente è il softwa-re del cervello, con l’idea che bisogna partire dalla struttura delle singole componen-ti elementari dell’apparato neurofisiologico per comprendere la mente. Non si tratta più di dividere studio del corpo e studio della mente, ma di approfondire il comples-so sistema mente-corpo. Il risultato che offrono gli studi che seguono questa pro-spettiva è che il modo in cui un pensiero si determina dipende da due fattori:

• dalla struttura cerebrale geneticamente determinata;• dall’influsso culturale dell’ambiente esterno sul cervello.

Le esperienze che un soggetto compie nel proprio ambiente di vita naturale e cultu-rale hanno come causa la selezione di alcune combinazioni sinaptiche rispetto ad altre (una sinapsi è una giunzione specializzata tra due cellule nervose o fra una cellula nervosa e l’organo periferico di reazione). Il vantaggio che ha l’uomo rispet-to ad altri esseri viventi è proprio in questa maggiore influenzabilità da parte dell’ester-

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no: vale a dire che, evolutivamente, è vantaggioso che il cervello sia meno vincola-to alla propria formazione biologica, in favore di una maggiore formazione sinap-tica in dipendenza dall’ambiente di vita. Le conseguenze sono un maggiore sviluppo del pensiero, un arricchimento della comunicazione tra individui, un’intensificazione dei legami sociali, e la maggiore originalità di ogni soggetto. La duttilità del cervello (cioè la sua capacità di elaborare una grandissima quantità di informazioni e la sua capacità di conoscere, imparagonabile a quella di qualsiasi essere vivente) è strettamente legata a questa apertura, che determina anche la cre-atività umana. È fondamentale che l’ambiente in cui si trova il bambino fin dalla nascita sia ricco di stimoli (percettivi, affettivi, cognitivi, espressivi e comunicativi) poiché l’infanzia è un momento particolarmente importante per lo sviluppo del cer-vello, e un ambiente povero di stimoli riduce in maniera importante la ricchezza del patrimonio neurologico e la flessibilità adattiva dell’individuo.

❱ 3/1 Conseguenze pedagogicheLa pedagogia può e deve giovarsi delle scoperte su questo campo assumendo il com-pito di comprendere e valorizzare la capacità evolutiva del cervello-mente: in questo modo è possibile programmare una strategia di formazione che utilizzi l’am-biente per permettere il massimo e migliore sviluppo del potenziale mentale. Vediamo più in dettaglio alcune riflessioni in campo pedagogico che conseguono le conoscen-ze che vengono dalle neuroscienze. Presenteremo cinque punti fondamentali.

• Offerte formative per l’infanzia: fin dalla nascita il cervello deve nutrirsi di in-formazioni; è questo un bisogno fondamentale del bambino, per cui è necessario predisporre a attrezzare ambienti adatti per la formazione che consentano un esercizio del pensiero che permetta di realizzare al meglio le potenzialità di ogni individuo. È necessario prevenire la perdita di potenziale mentale offendo un ambiente di vita cognitivamente e affettivamente ricco.

• Offerte formative tempestive per i periodi critici: per poter stabilire al meglio interventi pedagogici mirati, è necessario individuare quali sono i periodi critici in cui determinate capacità cognitive emergono, si stabilizzano o sono inaccessi-bili. Anche nel caso di un individuo di «talento», l’assenza di questo progetto educativo che offra un sostegno positivo e «al momento giusto», potrebbe arriva-re a risultati solamente mediocri. Bisogna dunque valorizzare l’idea di Maria Montessori secondo la quale bisogna presentare ai bambini numerose e varie sollecitazioni, in modo da intercettare per tempo e positivamente le capacità co-gnitive che devono avere un sostegno esterno per poter venire fuori e progredire.

• Offerte formative che valorizzino le differenze: sia la base fisiologica, sia l’evo-luzione di essa in rapporto all’ambiente di vita, contribuiscono a fare di ogni in-dividuo un unicum, caratterizzato dunque da specifiche differenze rispetto agli altri. Bisogna pertanto comprendere e valorizzare queste differenti propensioni intellettuali già in età precoce, in modo da permettere che si sviluppino al meglio. Questo significa sia permettere un percorso speciale a quegli individui che pre-sentano alcune spiccate propensioni e capacità, sia aiutare con programmi specia-li di arricchimento chi si trovasse ad avere competenze intellettuali minori o non ben funzionanti. Carenze e deficit sarebbero in questo modo intercettati e aiutati, così come le dotazioni cognitive superiori, con un giovamento per la società in entrambi i casi.

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• Qualità della formazione: la pedagogia deve essere alleata con la didattica al fine di sfruttare al meglio le conoscenze che ci giungono dalle neuroscienze, in parti-colare la consapevolezza di quanto influisca l’ambiente esterno sulla formazione neurologica dell’individuo. Il contesto educativo è dato da tanti fattori concomi-tanti: il tempo, lo spazio, i mediatori culturali, il clima affettivo, le relazioni inter-personali, etc., ed è particolarmente importante che tutti questi fattori siano bene organizzati per sostenere la naturale tendenza all’apprendimento.

• Promozione di un pensiero ecologico: riassumiamo con l’espressione «pensiero ecologico» un particolare modo di intendere il mondo che deriva dalla consape-volezza della partecipazione dell’uomo alla natura comune degli esseri viventi, della propensione naturale dell’individuo alla cultura e alla tecnica e della dipen-denza e compartecipazione dell’uomo all’ambiente in cui vive. Questa triplice consapevolezza deve informare di sé anche la pedagogia, la quale è chiamata a riflettere sul fatto che: non c’è una gerarchia nel mondo vivente in cui l’uomo si trova all’apice come signore e padrone; la tecnica non deve essere vista sempre negativamente; la natura è indispensabile per la sopravvivenza dell’uomo, che deve pertanto rispettarla e proteggerla. L’uomo deve considerarsi come parte della natura e ad essa strettamente collegato, e deve riflettere sull’estensione dei diritti anche agli animali non umani e all’insieme della natura. Bisogna dunque sollecitare il passaggio da una modello antropocentrico a uno ecosistemico, in cui riconsiderare le relazioni tra uomo, natura e cosmo.

❱❱ 4. Biologia e culturaAbbiamo già visto che l’essere umano è caratterizzato da una naturale propensione alla tecnica e alla cultura. Inoltre, sappiamo che lo sviluppo dell’individuo avviene in diretto contatto con l’ambiente in cui egli si trova, un ambiente che è quello natu-rale ma anche quello modificato dalla propensione umana alla cultura. Siamo giunti dunque alla conclusione che natura e tecnica, biologia e cultura, debbano essere viste in continuità. Approfondiremo ora il tema dell’evoluzione biologica e degli artefatti culturali, con un percorso che va dalla semplice capacità manuale fino alla progettazione di macchine pensanti. Innanzitutto ritorniamo alla differenziazione dell’uomo e introduciamo il concetto di neotenia. Ci riferiamo con questo termine a una particolare teoria che parte dall’osservazione di tratti comuni tra gli esseri umani e i cuccioli dei primati: l’idea che ne scaturisce è quella di un mantenimento dei tratti giovanili nella specie umana, cioè quest’ultima presenterebbe un ritardo di sviluppo rispetto agli altri animali che, come abbiamo già osservato, nascono molto più attrezzati alla sopravvivenza rispetto agli esseri umani e hanno un periodo di apprendimento fortemente minore.

❱ 4/1 L’ipoteso della neoteniaPer neotenia si intende la persistenza di caratteri tipici della non-maturità o dello stato larvale, in animali adulti capaci di riprodursi. La riproduzione degli animali che presentano queste caratteristiche è definita pedogenesi (cioè riproduzione di un individuo che non ha raggiunto l’età adulta, dal greco páidos, che significa fanciullo). La nozione di neotenia si è affermata grazie allo studio di un anfibio americano (l’Ambystoma mexicanum) le cui larve hanno una particolare caratteristica: non tutte si trasformano in ambistomi adulti. Alcune di esse, infatti, a causa dell’arresto (o di

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una diminuzione) della secrezione degli ormoni tiroidei, restano allo stato larvale e sviluppano la capacità di riprodursi. Ne risulta un animale, chiamato «axolotl» im-maturo nell’aspetto, ma adulto nelle funzioni (da studi di laboratorio si è scoperto che, aggiungendo una minima quantità di iodio all’acqua in cui vive, esso si trasfor-ma in ambistoma; lo iodio è il costituente essenziale dell’ormone che produce la metamorfosi: se manca lo iodio nei laghi in cui l’ambistoma depone le uova, le larve che nascono non riescono a diventare esseri adulti e muoiono. L’axolotl invece è sia in grado di trasformarsi in ambistoma se le acque in cui vive sono ricche di iodio, sia di rimanere allo stato embrionale e continuare a riprodursi, se le acque sono prive di iodio). In questo caso di parla dunque di neotenia facoltativa. Si parla invece di neotenia obbligatoria nei casi in cui non avvengono metamorfosi, e tutti gli individui che si riproducono conservano dei caratteri larvali. Anche in alcune specie di insetti si riscontrano casi di neotenia, per esempio nelle termiti, nel momento in cui la cop-pia di riproduttori scompare, per assicurare la sopravvivenza della colonia. In questo caso la spiegazione che viene data è che in un termitaio normale, la coppia di ripro-duttori (il maschio, o re, e la femmina, o regina), secerne una sostanza che inibisce lo sviluppo dell’apparato riproduttore degli altri membri della colonia. Quindi solo alla loro scomparsa appaiono gli individui neotenici. In altri tipi di insetti, invece, come nel caso delle mosche cecidomie, le larve producono quattro o cinque uova di grandi dimensioni, che si schiudono all’interno della larva-madre e la divorano. Que-sto accade per alcune generazioni nella cattiva stagione, mentre il modo di riprodu-zione normale (non pedogenico) ricompare con la bella stagione. Secondo molti studiosi l’uomo sarebbe propriamente un prodotto neotenico. Si ipo-tizza anche che tutto il gruppo degli animali più evoluti (cioè i cordati, di cui i ver-tebrati sono un sottotipo) potrebbe essere il risultato di una mutazione neotenica: questi animali sono provvisti di una corda cartilaginea dorsale che funge da organo propulsore e di sostegno; non si riscontra però nessun invertebrato che assomigli ai cordati tanto da poter essere considerato un suo antenato, e questo porterebbe ad escludere che i cordati possano essere derivati da una mutazione comparsa su un individuo adulto. Viceversa, la larva del riccio di mare (un animale che non ha carat-teristiche comuni ai cordati da adulto), assomiglia molto a questo gruppo di animali, tanto da lasciar supporre che i cordati si siano evoluti proprio a partire dalla struttura immatura del riccio di mare che, in seguito a una qualche mutazione, si è trovata in condizioni di riprodursi. Le caratteristiche neoteniche dell’uomo adulto sono nume-rose: se si osserva il feto di un mammifero qualsiasi, si nota che la testa è molto sviluppata rispetto al resto del corpo, sproporzione che è destinata a ridimensionar-si nel corso dello sviluppo. Un ridimensionamento che nel caso dell’uomo è minore: la nostra testa, infatti, conserva dimensioni notevoli anche nell’età adulta, consenten-do la produzione di una massa cerebrale di grosse proporzioni. Un’altra caratteristica neotenica è il corpo glabro, caratteristica giovanile dei mammiferi, che da adulti hanno tutti il corpo ricoperto di peli. E questo vale anche per la pelle sottile e delica-ta, le ossa fragili e i denti di piccole dimensioni caratteristiche giovanili dei mammi-feri e dell’uomo adulto.Anche l’ipotesi neotenica, dunque, conferma che l’uomo, rispetto agli altri animali, viene al mondo con una grave carenza biologica e meno guidato dagli istinti. Tut-tavia questo aspetto all’apparenza negativo se non fornisce all’uomo una iniziale e precoce capacità di adattarsi e sopravvivere in un determinato ambiente, ha però dei lati positivi: l’uomo non è dotato di una specializzazione biologica ben definita, ma

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proprio per questo è costretto ad attrezzarsi per colmare questo deficit e a modificare il mondo in cui vive. Il primo e fondamentale strumento che l’uomo usa è la mano, lasciata libera grazie alla posizione eretta. Essa media tra la volontà umana e il mon-do su cui l’uomo interviene. Non solo l’uomo trasforma direttamente, ma crea stru-menti a loro volta destinati a modificare il mondo. Se però, come abbiamo osservato, l’uomo è a sua volta fortemente influenzato dall’ambiente in cui vive, allora anche quelle stesse modificazioni che l’uomo apporta all’ambiente sono destinate ad avere un influsso sull’uomo stesso, che ne risulta a sua volta modificato. In questa com-plessa e continua interazione tra uomo e mondo, con la continua ricerca umana di superamento della propria incompletezza e limitatezza, si avvicendano gli sviluppi della tecnica, per cui dalle prime rudimentali creazioni di strumenti, si passa all’ela-borazione di sistemi simbolici per l’espressione e la comunicazione, fino alle sofisti-cate tecnologie informatiche. Possiamo virtualmente spingere avanti questo progres-so dell’uomo in quanto animale culturale, con il sogno di realizzare delle macchine che sappiano vivere, pensare e apprendere: massima espressione caratteristica «na-turale» dell’uomo, cioè della tecnica, che intende riprodurre la natura stessa.

❱ 4/2 La macchina pensanteIl sogno di creare delle macchine pensanti affonda le radici molto lontano, nella tra-dizionale analogia tra l’uomo e la macchina. Fra tutti gli oggetti del mondo l’uomo è in assoluto quello che è più difficile riprodurre, e il sogno di riuscire in questa im-presa ha spesso influenzato anche la letteratura: si pensi al mito del Golem (un uomo di argilla creato come servitore dal rabbino di Praga, una leggenda molto antica tra-sposta in un racconto da Jakob Grimm e da Gustav Meyrink) o al Frankenstein di Mary Shelley, o, infine, ai tanti racconti di fantascienza che hanno come protago-nisti dei robot. La produzione di alcune macchine apparentemente viventi o pensanti può essere fatta risalire molto indietro, al IV secolo a.C. quando si narra che Archita costruì un uccello che si muoveva grazie a un getto di vapore, passando per la Cina del III se-colo a.C., quando venivano costruiti automi dalla forma animale e persino un’orche-stra meccanica, per arrivare fino alla presunta costruzione di una testa parlante da parte di Ruggero Bacone. Costruzione di automi e tecnologia vanno di pari passo, ma è solo dalla rivoluzione scientifica del Seicento che si può parlare correttamente di «macchinismo» o di tecnologia basata sulla scienza. La passione per gli automi e gli androidi dilaga nel Settecento, quando se ne fa un oggetto di studio nelle Acca-demie e di chiacchiera nei salotti: si può fare il nome di Jacques de Vaucanson, in-ventore di celebri automi (come l’anatra, il flautista automatico, il suonatore di tamburello), o di Julien Offroy de La Mettrie autore de L’uomo-macchina (1747).Dopo una breve parentesi durante il Romanticismo, periodo in cui il mito dell’uomo-macchina subisce una battuta d’arresto, con l’evoluzione delle scienze logico-mate-matiche alla fine dell’Ottocento e ancor più con i progressi tecnologici del Novecento, la strada alla realizzazione della macchina pensante sembrava ormai definitivamente aperta. Cambia il modello di realizzazione, per cui ora si parla di una macchina non più legata al meccanismo e alla metafora dell’orologio ben funzionante, ma piuttosto di una macchina chimico-fisica, governata da principi di natura elettrica, per arriva-re all’idea della macchina vivente come calcolatore (che sostanzialmente si sofferma a riprodurre non l’intero meccanismo ma la sua centrale, cioè il cervello). Questa strada si incammina verso il trasferimento della capacità cognitiva umana in una mac-

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china, e in questo modo, la direzione va anche verso una comprensione della mente umana grazie allo studio della sua realizzabile o irrealizzabile riproduzione. Si tratta di una concezione emulativa, più che simulativa, della macchina nei confronti del cervello. L’uomo realizza delle macchine sempre più complesse e riflettendo sulle tecnologie prodotte cerca di comprendere il funzionamento del suo stesso pensiero. Il viaggio delle informazioni è su un duplice binario: da una parte lo studio del cervello artificiale, elettronico, aiuta nella comprensione del cervello naturale, biologico, dall’altra parte l’analisi delle strutture naturali offre degli spunti per modelli che ven-gono poi trasferiti sul piano artificiale perfezionando la tecnologia. Gli studi informatici ottengono un contributo fondamentale negli anni quaranta del Novecento grazie a scienziati come John von Neumann (1903-1957) e Norbert Wiener (1894-1964).Un passo fondamentale per la costruzione di un computer sequenziale che sia dotato di magazzini di memoria, viene dall’opera di von Neumann, che elabora un program-ma di controllo del computer custodito nella macchina stessa, collegando dati mate-matici, logici e attinenti al sistema nervoso. Per migliorare i primi computer, macchi-ne limitate, quasi del tutto prive di memoria e di elasticità c’era bisogno di riprende-re l’intuizione di Alan Turing nel suo articolo sui numeri computabili: bisognava cioè permettere al computer di modificare il proprio comportamento, ovvero di im-parare un software. Nel 1945 viene creato l’EDVAC (Electronic Discrete Variables Automatic Computer): la prima macchina digitale programmabile tramite un softwa-re e basata su quella che sarà poi definita l’architettura di von Neumann.

John von Neumann➜Il matematico e informatico ungherese naturalizzato statunitense John von Neu-mann (1903-1957), è stato una delle personalità scientifiche preminenti del XX secolo, cui si devono fondamentali contri-buti in campi come teoria degli insiemi, analisi funzionale, topologia, fisica quan-tistica, economia, informatica, teoria dei giochi, fluidodinamica e in molti altri set-tori della matematica. Nato a Budapest nel 1903 da una famiglia di banchieri ebrei (il nome originale è Janos Neumann), già nell’infanzia mostra straordinarie doti di memoria e intelligenza. Cresciuto in un ambiente ricco di stimoli culturali, matura una visione secondo la quale gli aspetti economici e sociali della società e le rela-zioni tra individui possono essere trattati in termini matematici. A ventidue anni si laurea in ingegneria chimica presso il Po-litecnico di Zurigo e in matematica a Bu-dapest, dopo aver seguito a Berlino i corsi di Fritz Haber e di Albert Einstein. Si tra-sferisce poi a Göttingen, dove si occupa dei

fondamenti della matematica e della mec-canica quantistica, sotto la supervisione di David Hilbert, divenendo convinto soste-nitore dell’approccio assiomatico della matematica e del pensiero. Quando poi il teorema di incompletezza di Kurt Gödel mette in crisi questo approccio (dimostran-do l’impossibilità di conseguire una dimo-strazione completa della coerenza dell’arit-metica nel contesto del pensiero metama-tematico), von Neumann deriva (parallela-mente a Gödel stesso) come conseguenza del teorema di incompletezza l’indimostra-bilità della coerenza dell’aritmetica. Nel 1930 si trasferisce negli Stati Uniti, a Princeton (a causa dell’ascesa del nazismo in Germania). Qui si interessa alla risolu-zione delle equazioni differenziali non li-neari, che gli serviranno come stimolo per studiare nuove possibilità legate alla com-putazione elettronica e approfondisce la conoscenza della teoria dei giochi (dimo-strando il teorema secondo cui in molti giochi, ad esempio negli scacchi, esiste un

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algoritmo che permette di scegliere qual è la mossa migliore). Durante la Seconda guerra mondiale von Neumann partecipa al progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica. Nel pieno della Guer-ra Fredda, a metà degli anni Cinquanta, si impegna al massimo per appoggiare la costruzione del missile balistico intercon-tinentale (ICBM) Atlas che successivamen-te verrà utilizzato per la missione di John Glenn nello spazio (nel 1962). Costretto su una sedia a rotelle da un tumore alle ossa (forse legato alla partecipazione agli espe-rimenti sulle esplosioni nucleari) non smette di seguire di persona le riunioni strategiche con i militari, e si dedica a nuovi studi che riguardano programmi ca-paci di autoriprodursi e che lui chiama automi cellulari.Il contributo di Wiener viene da progetti sull’automazione in campo bellico. A tal fine studia i meccanismi di retroazione, autore-golazione e autocorrezione, gettando le basi di una nuova disciplina: la cibernetica, che prende il nome dal greco kybernètes: timo-niere (da cui anche la parola «governo» con la mediazione del latino), poiché secondo Wiener i meccanismi del timone di una nave

sono una delle migliori e più sviluppate forme di meccanismo di feedback. La ciber-netica è dunque la scienza che si occupa dell’organizzazione e dello studio compa-rato dei sistemi di controllo e comunicazio-ne negli esseri viventi e nelle macchine. In base allo studio del cervello umano, la ci-bernetica intende progettare e costruire un sistema che sia altrettanto capace di auto-organizzarsi e autoregolarsi, vale a dire un automa. L’automa è capace di rappre-sentare la realtà servendosi del codice bi-nario, un sistema astratto, discreto, lineare e convenzionale, che è costruito su una successione di numeri interi (0/1), pertan-to elabora delle informazioni digitali, è capace di utilizzare il feedback (cioè è un sistema adattativo) e segue sequenze fini-te e programmate di istruzioni. Se l’intelli-genza umana è una proprietà di un sostrato fisico, ovvero del cervello, allora se si studia la base materiale dei processi cognitivi deve essere possibile riprodurre la stessa intelli-genza su un altro sostrato materiale. Alla base della progettazione di una macchina pensante, dunque, c’è innanzitutto lo studio dell’uomo e delle peculiarità del pensiero umano.

Norbert Wiener➜Norbert Wiener (1894-1964) ha una infan-zia da bambino prodigio: capace di leggere già a tre anni, completa a undici anni la scuola superiore, per studiare poi presso la Cornell University, la Columbia University, le Università di Harvard, Cambridge (con Bertrand Russell) e Göttingen (con David Hilbert), laureandosi in matematica, fisica e biologia. Tornato negli Stati Uniti, inse-gna presso la Columbia, l’Università di Harvard e del Maine, divenendo infine pro-fessore di matematica al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Durante la Seconda guerra mondiale partecipa a im-portanti progetti bellici, in particolare per la realizzazione di computer specializzati nei calcoli da utilizzare nella balistica, dove era richiesto un enorme numero di opera-

zioni ripetitive. Il primo interesse scienti-fico di Wiener fu per la matematica, campo in cui offre dei contributi importanti alla teoria delle probabilità e all’analisi delle funzioni. Lavorando a un progetto bellico per il tiro automatico, sviluppa la nozione di feedback (o retroazione): il sistema che progetta è basato su un radar che fornisce informazioni a un calcolatore sulla rotta dell’aereo nemico da abbattere; il calcola-tore orienta il cannone in base alla previ-sione della posizione dell’aereo calcolata in base alla sua velocità e al tempo impie-gato dal proiettile a raggiungerlo; la novi-tà fondamentale è che dopo ogni colpo, il radar comunica al sistema l’entità dell’er-rore di tiro, in modo che il calcolatore possa effettuare le necessarie correzioni,

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finché l’obiettivo non viene colpito (questo processo di calcolo richiede molte opera-zioni in tempo reale che i sistemi analogi-ci non possono garantire, pertanto si inizia così a sviluppare una tecnologia digitale più veloce su base binaria – cioè che sfrut-ta le condizioni on/off –, impiegando valvole elettroniche). Il feedback, dunque, fornisce una forma di intelligenza, a un programma realizzato per eseguire deter-minate funzioni, e che prima d’allora non aveva l’abilità d’imparare nulla di nuovo, né di correggere i propri errori. Questa idea di trasmissione retroattiva dell’informazio-ne tra le diverse parti di un sistema com-plesso, col fine di una stabilizzazione, viene poi applicata in altri campi, portan-do alla scoperta che anche alcuni mecca-nismi neurofisiologici possono essere simu-lati con sistemi a feedback. L’esperienza compiuta durante e dopo la guerra si con-cretizza nell’opera Cybernetics, or Control and Communication in the Animal and the Machine (1948), nella quale viene descrit-ta la nuova prospettiva che pone al centro dell’attenzione i problemi del controllo

dell’azione e il modo con cui l’informazione viene trasmessa ed elaborata. Lo stesso Wiener considera il convegno di Princeton del 1945 organizzato con von Neumann, e al quale partecipano numerosi matematici, logici, fisici e ingegneri, l’atto di nascita della cibernetica (anche se il nome è in-trodotto più tardi). Successivamente Wiener si dedica soprattutto a temi come il rap-porto tra matematica, neurofisiologia e ingegneria, con particolare attenzione anche alle possibili conseguenze in campo medico. Muore per infarto nel 1964, salen-do la scalinata dell’Università di Stoccolma, prima di una riunione sull’assegnazione dei premi Nobel. Oltre ad occuparsi di logica, matematica e cibernetica, nelle sue ricerche Wiener approfondisce anche diverse proble-matiche filosofiche, dall’epistemologia alla metafisica, soffermandosi anche sugli aspetti morali legati all’introduzione delle nuove tecnologie (contrario all’impiego militare delle scoperte scientifiche, ipotiz-za un suo ritiro dalla scena, dopo lo sgan-cio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki).

❱❱ 5. L’intelligenza ArtificialePer affrontare il tema dell’Intelligenza Artificiale, il punto da cui dobbiamo partire è la tradizione, che va da Leibniz fino a Boole, in cui il pensiero viene definito come calcolo, ovvero come combinazione di simboli (linguistici) secondo le regole della logica. L’intelligenza si identifica in questo caso con il ragionamento deduttivo, ovvero con la capacità di ricavare conclusioni necessarie in base a premesse gene-rali, applicando le regole della logica. L’altra parte della storia che dobbiamo con-siderare è la realizzazione di macchine capaci di svolgere alcune operazioni, in particolare dei calcoli matematici: dobbiamo allora risalire al XVII secolo e alla realizzazione da parte dello scienziato e filosofo francese Blaise Pascal di una mac-china (capostipite dei calcolatori a ingranaggi) capace di eseguire automaticamente addizione e sottrazione, denominata pascalina. In età vittoriana, il matematico bri-tannico Charles Babbage creò macchine calcolatrici a rotelle capaci di eseguire calcoli differenziali. Negli anni ottanta dell’Ottocento Hermann Hollerith (statistico americano di origine tedesca) ideò le schede perforate applicate a calcolatrici (usate per fare i calcoli dell’undicesimo censimento negli USA, nel 1891). Il punto di svolta arriva con un famoso articolo di Alan Turing su «Mind» nel 1950, in cui è indicata la possibilità di creare un programma al fine di far comportare un computer in maniera intelligente. Se i linguaggi formalizzati dei logici rappresentano tradizio-nalmente la manifestazione più esauriente del pensiero, allora, se si istruisce un

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computer a manipolarli, si arriva così a simulare le funzioni fondamentali dell’in-telligenza umana, esibendone i comportamenti e, di conseguenza, la progettazione di macchine intelligenti dipende fortemente dalle possibilità di rappresentazione simbolica del problema. Questa era l’idea che guidava un gruppo di giovani mate-matici, logici e scienziati (tra i quali John McCarthy, Marvin Minsky, Herbert Simon e Allen Newell) che si incontrarono nel 1956 nel Dartmouth College di Hannover negli Stati Uniti. Da questa idea nasce una nuova disciplina che nel giro di pochi anni si impone negli studi dei rapporti tra uomo e macchina: l’Intelligenza Artifi-ciale (secondo il nome dato da McCarthy), generalmente indicata (in italiano) con la sigla «IA». Per IA si intende dunque l’abilità di un computer di svolgere funzioni e ragionamen-ti tipici della mente umana, o meglio, come affermò Marvin Minsky, uno dei pionie-ri dell’IA, lo scopo di questa nuova disciplina è quello di far fare alle macchine delle cose che richiederebbero l’intelligenza se fossero fatte dagli uomini. Partecipano al dibattito in questa disciplina, che presenta aspetti teorici e pratici, scienziati e filosofi. Uno degli scopi fondamentali dell’IA è quello di dare una defi-nizione formale delle funzioni sintetiche/astratte di ragionamento, meta-ragionamen-to e apprendimento dell’uomo, per poter poi costruire dei modelli computazionali che li concretizzano e realizzano. Dal punto di vista semplicemente informatico, si intende la formulazione teorico/pratica per lo sviluppo di algoritmi che consentano alle macchine (calcolatori) di mostrare un’abilità e/o attività intelligente, sia pure solo in alcuni domini. L’IA apporta un cambiamento di paradigma fondamentale rispetto alla cibernetica, poiché non è più volta a studiare e individuare l’intercon-nessione tra sostrato materiale e pensiero: per l’IA gli stati mentali vanno conside-rati e descritti a prescindere da quanto si verifica nel corpo e nel sistema nervoso centrale. Considerare una equivalenza di funzione tra cervello e computer non si rispecchia necessariamente in una equivalenza strutturale tra neuroni e circuiti elet-tronici, poiché il software di una macchina è indipendente dal l’hardware: la solu-zione di un problema può essere identica pure utilizzando programmi diversi su macchine differenti. Dopo il 1962 gli studiosi dell’Intelligenza Artificiale tendono a dare minore impor-tanza all’apprendimento, e maggior peso alla rappresentazione della conoscenza e al problema connesso del superamento del formalismo. Sono fondamentali da questo punto di vista gli studi di Minsky sulla rappresentazione distribuita della conoscenza (la cosiddetta «società delle menti»), e il lavoro di John McCarthy sulla rappresen-tazione dichiarativa della conoscenza. Vengono così poste numerose basi teoriche dell’IA. Ci si occupa anche del punto di vista psicologico (per esempio la relazione tra memoria associativa e l’atto di dimenticare, o gli esperimenti per riprodurre i passi del ragionamento, inclusi eventuali errori).

Gli ambiti fondamentali di attività dell’IA sono: la rappresentazione della cono-scenza e il ragionamento automatico in maniera simile a quanto fatto dalla mente umana, l’apprendimento automatico (machine learning – per esempio nel gioco degli scacchi), la pianificazione (planning), la cooperazione tra agenti intelligenti (sia software che hardware, cioè robot), l’elaborazione del linguaggio naturale (Natural Language Processing), la simulazione della visione e dell’interpretazione di immagini. La domanda che sta alla base di tutte queste attività e del dibattito riguarda la capacità di pensare dei computer. Ma questa stessa domanda rimanda ancora indietro a una questione preliminare, ovvero alla definizione del pensiero.

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In base alle risposte che si possono dare a questa domanda si hanno anche due di-verse concezioni dell’IA:

• Intelligenza Artificiale forte: questa espressione (originalmente coniata dal filoso-fo statunitense John Searle) indica la teoria secondo la quale un computer corretta-mente programmato potrebbe mostrare una intelligenza pari a quella umana, cioè sarebbe una mente (e quindi, per converso, considera la mente umana come un complesso insieme di calcoli eseguiti dal cervello), anche dotata di autocoscienza;

• Intelligenza Artificiale debole: secondo la quale un computer non può eguaglia-re la complessità della mente umana, ma può solo simularne alcuni processi co-gnitivi. Si creano programmi per studiare o risolvere alcuni specifici problemi o modelli di ragionamento umani (per esempio un computer programmato per gio-care a scacchi, come nel caso di Deep Blue, che fu posto a confronto con alcuni campioni di scacchi e, nel 1996, vinse contro un campione del mondo in carica), ma non si ritiene possibile sostituire in toto la complessità della mente dell’uomo.

Nonostante i grandi progressi degli studi sulle reti neurali, che farebbero auspicare un vantaggio della prospettiva che sostiene l’Intelligenza Artificiale forte, è la secon-da concezione che parrebbe comunque più plausibile. Anche il padre della psicologia cognitiva, Ulrich Neisser, di cui parleremo nel prossimo capitolo, sottolinea che nessuno dei programmi di informazione computerizzata rende ragione della comples-sità dei processi mentali umani: la mente che essi simulano, infatti, è priva di emo-zioni, povera e piena di fissazioni. Numerosi altri studiosi evidenziano l’impossibili-tà di ridurre il pensiero umano al computer. Le macchine possono raggiungere il li-vello del ragionamento formale basato sulle regole della logica, ma non si esaurisce con ciò il pensiero umano. Quantomeno, un livello di intelligenza che si avvicini maggiormente a quella umana potrebbe essere raggiunta da robot dotati di un qualche corpo che permetta loro di interagire con l’ambiente, perché la mente umana non può realmente prescindere dalla sua interazione con il corpo e il mondo. E poiché il mondo non può essere completamente previsto da un programma (data la sua enorme complessità e l’imprevedibilità dei casi), e quindi non possono essere fornite al com-puter le regole per affrontare tutti i casi che si presentano, allora sarebbe fondamen-tale permettere alla macchina di «imparare», per poter veramente riprodurre una intelligenza simile alla umana. Alcuni studiosi sostengono anche che i computer (o robot) per poter apprendere veramente le capacità umane (anche solo quella di gio-care a scacchi) dovrebbero comunque avere prima una sorta di «infanzia» che per-metta loro di apprendere dal mondo adattandosi all’ambiente.Il riconoscimento dei limiti dell’IA (forte) unito agli apporti delle neuroscienze con gli studi delle basi neuronali di fenomeni cognitivi come la percezione, l’attenzione e l’apprendimento, portano alla nascita di una nuova scienza: la scienza cognitiva. Essa non ha più l’intento di simulare sulla macchina i processi cognitivi dell’uomo, ma intende interrogarsi su questi ultimi per individuarne l’architettura interna. Per fare questo la mente deve essere studiata raccordando gli apporti di diverse discipli-ne: informatica, IA, linguistica, filosofia, psicologia, antropologia e neuroscienze.

❱ 5/1 Ricadute sulle scienze pedagogicheQuali conseguenze deve trarre la pedagogia da questo ampio dibattito? Gli spunti che giungono dalle ricerche della cibernetica, dell’IA e della scienza cognitiva sono nu-merosi e fondamentali per la pedagogia.

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Ne elenchiamo alcuni.

• La pedagogia deve confrontarsi con la neuroetica. Questo termine nasce in con-seguenza del grande interesse per le scienze cognitive in genere, a indicare le implicazioni etiche che ne conseguono: sia le dimensioni etiche della ricerca spe-rimentale in campo neuroscientifico, sia i numerosi studi sulle basi biologiche dell’agire morale dell’uomo. Il modo in cui un uomo agisce, le scelte che compie, sono il prodotto della sua biografia, della sua storia: a partire dalla vita fetale inizia a strutturarsi un sistema di apprendimenti e si intreccia progressivamente una rete neuronale sempre più complessa. Da questo punto di vista la scuola ha un ruolo fondamentale, come luogo sia di socializzazione, sia di trasmissione delle conoscenze e delle esperienze, ovvero come luogo di formazione. È neces-sario che in questo processo di formazione non ci si limiti al semplice passaggio delle nozioni, nella consapevolezza che ogni informazione ricevuta produce una riorganizzazione sinaptica che interesserà particolari strutture cerebrali, in stretto legame con il canale di comunicazione utilizzato per lo scambio informativo (che può essere più o meno emotivo, più o meno partecipativo, più o meno personale o impersonale). Ai fini di una neuroetica applicata al processo della formazione, dunque, non è tanto importante porre attenzione alla natura della materia costitu-tiva del cervello, ma piuttosto alla forma e all’organizzazione che questa assume a seguito della ricezione dell’informazione.

• È necessario riflettere sull’influsso delle nuove tecnologie. Sono molto impor-tanti in questo campo gli studi di Marshall McLuhan (1911-1980) sugli strumen-ti del comunicare e sugli effetti che produce la comunicazione sui comportamen-ti dei singoli individui o, più in generale, sulla società. Nell’opera Understanding media (tradotta in italiano con Gli strumenti del comunicare), egli sottolinea che i mezzi meccanici possono essere considerati una semplice estensione del sistema muscolare umano mentre i mezzi elettronici sono piuttosto il prolungamento del sistema nervoso. Come l’invenzione della scrittura e la stampa hanno modificato il modo di apprendere umano, così le nuove tecnologie determinano una progres-siva riorganizzazione delle dimensioni neuropsicologiche del soggetto e un mu-tamento nell’uso delle sue competenze cognitive. Secondo McLuhan «il mezzo è il messaggio», ovvero i mezzi tecnologici che caratterizzano la comunicazione hanno di per sé un effetto sull’immaginario collettivo, a prescindere dall’informa-zione che veicolano. Un’altra tesi molto importante enunciata da McLuhan riguar-da il torpore che può generare una nuova tecnologia: per evitare questa sorta di «ipnosi», è necessario sviluppare degli «anticorpi» intellettuali, che ci permettano di valutare quella tecnologia con distacco, dall’esterno, riconoscendone i principi e le forze sottostanti. In questo modo diveniamo capaci di intuire e controllare (per quanto possibile) anche i mutamenti sociali.

Un caso particolarmente chiaro di tecnologia che genera torpore è quello della televisione, che non crea delle novità, ma consola e blocca gli spettatori sia sul piano fisico (perché si sta seduti a guardarla) sia sul piano mentale (poiché non favorisce l’interazione, a differenza, per esempio, di internet).

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Marshall McLuhan➜Il sociologo canadese Herbert Marshall McLuhan studia ingegneria alla Manitoba University, poi lingua e letteratura inglese all’Università di Cambridge, dove consegue il dottorato con una tesi dedicata allo studio della storia delle arti verbali (gram-matica, logica e dialettica, retorica). Nel 1962 pubblica un’opera destinata a diven-tare molto celebre, The Gutenberg Galaxy (La galassia Gutenberg): secondo McLuhan con l’invenzione (da parte di Gutenberg) della stampa a caratteri mobili si compie definitivamente il passaggio dalla cultura orale (in cui la parola è una forza viva, risonante, attiva e naturale) alla cultura alfabetica (ove la parola assume un signi-ficato mentale, legato al passato), con l’accentuazione dell’importanza del senso della vista. Inoltre, è in questa opera che si sottolinea per la prima volta l’importan-za dei mass media nella storia umana: la stampa viene collegata all’individualismo, al nazionalismo, alla quantificazione, alla meccanizzazione, all’omogeneizzazione, tratti tipici dell’era moderna. Il discorso prosegue e viene approfondito due anni dopo nell’opera Understanding Media, di cui abbiamo già parlato nel testo. Un’altra espressione utilizzata da McLuhan (si ve-dano le opere War and Peace in the Global

Village del 1968 e The Global Village del 1989) destinata ad essere molto famosa è quella di villaggio globale: tale è il mondo, che a seguito dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione (si pensi in particolare all’avvento del satellite che ha permesso comunicazioni in tempo reale a grande distanza), è diventato piccolo, e ha assun-to i caratteri tipici di un villaggio. Agli studi di McLuhan si affianca l’approfondi-mento delle relazioni tra lingua orale e lingua scritta da parte di D.R. Olson. Se-condo Olson, nella lingua orale la compren-sione è legata al contesto dei colloquianti e al senso comune che regola il comporta-mento nelle situazioni quotidiane (nelle quali si svolge il colloquio). Poiché la co-municazione in questo caso si svolge anche tramite gesti ed espressioni del volto, e tutti i sensi sono chiamati in causa, è coin-volta l’intera persona sia di chi parla sia di chi ascolta. La lingua scritta invece, che privilegia le strutture logico-formali del discorso, prevede una preponderanza del senso della vista, e la comprensione non è legata al senso comune ma al senso del vero e del falso, proprio della scienza. La scrit-tura, insomma, è connotata da una forte artificialità, ancor più accentuata dalle moderne tecnologie di scrittura informatica.

• È doveroso integrare tecnologie, codici e intelligenze. Le novità apportate dalle nuove tecnologie non devono essere viste solo per i loro possibili effetti negativi, rispetto ai quali la pedagogia deve proporre un argine e una risposta. È necessario anche sfruttare positivamente le nuove tecnologie, valorizzandone le potenzialità nel campo della formazione senza inutili allarmismi e demonizzazioni. I bambini e i ragazzi mostrano una netta predilezione per le tecnologie multimediali che hanno il merito di coinvolgere di più il corpo e la mente, favorendo una immer-sione nell’apprendimento, con un uso maggiore dell’ascolto rispetto alla vista (caratteristica dell’astrazione legata all’apprendimento basato sulla scrittura). Il sistema di apprendimento per immersione deve essere sfruttato per la formazione, affiancandosi ai metodi tradizionali (legati all’astrazione) rispetto ai quali rappre-senta un’importante integrazione. Che la scuola integri questo nuovo modello di apprendimento è particolarmente importante sia al fine si aprirsi agli altri luoghi di vita dei giovani, sia allo scopo di aumentare la capacità critica e astrattiva nei confronti delle tecnologie che permettono un’immersione. Non solo, dunque, un’integrazione del modello astrattivo classico con quello a immersione, ma anche

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di quest’ultimo col primo. La diversificazione conoscitiva e comunicativa offerta dalle nuove tecnologie influisce sia sulle intelligenze, sia sui saperi, sia sui conte-nuti della formazione: le intelligenze sono stimolate dai media a diventare retico-lari e associative; i contenuti della formazione non sono più circoscritti al testo scritto ma sono maggiormente aperti e dinamici e il sapere diventa più fluido e plurale.

L’integrazione tra i linguaggi tradizionali e i nuovi linguaggi tecnologici è opportuna e necessaria per fornire degli strumenti adeguati alla comprensione della società e della cultura attuale in tutta la loro complessità: tra i vantaggi legati alle nuove tec-nologie citiamo l’accessibilità a un numero illimitato di conoscenze, l’ipertestualità (che consente di accedere a informazioni tra loro collegate), lo sfruttamento di una memoria superiore a quella del singolo, l’interattività con altri soggetti.

❱ 5/2 La macchina viventeIl confronto tra pedagogia, biologia e scienze legate alla comprensione e riprodu-zione dei meccanismi conoscitivi umani può portare risultati molto importanti, so-prattutto se coglie gli aspetti positivi dei nuovi settori del sapere, ampliando l’oriz-zonte della conoscenza e della formazione, senza legarsi alle conseguenze negative che possono avere sull’individuo le nuove tecnologie, conseguenze negative che vanno comprese e limitate. In tal senso, possiamo concludere questo capitolo con un’osservazione che propone Giorgio Israel a proposito delle visioni meccanicistiche dell’uomo, nel suo libro La macchina vivente (2004):

«Dimostrare che l’uomo è una macchina si è rilevato un’impresa senza prospettive e che ha come solo effetto quello di produrre un impoverimento sul piano conoscitivo. Tentare di realizzare delle macchine che si comportino come un uomo ha avuto stra-ordinari effetti sullo sviluppo della tecnologia, ci ha dotato di strumenti di enorme efficacia che, se soggetti a finalità dotate di senso, agevolano il lavoro e la vita quo-tidiana; ma non ha avvicinato di un passo l’obiettivo iniziale. Modificare l’uomo costringendolo a comportarsi sempre più in modi simili a quelli delle macchine che si pretende ne siano l’immagine (e sono, invece, tutt’altra cosa) è tuttavia possibile almeno in parte. La necessità di fare un uso crescente delle macchine, di adattarsi ai modi della loro “vita”, e quindi a operare entro la loro sfera logica, spaziale e tempo-rale può indurre delle modifiche sostanziali nei comportamenti dell’uomo, abituarlo (o costringerlo) a considerare naturale l’identificazione del ragionamento con i pro-cedimenti logici delle macchine, a introiettare un’immagine puramente quantitativa del tempo».

Fortunatamente, però, «è altresì chiaro che le esigenze e i moventi umani hanno un carattere difficilmente comprimibile, per cui non ci sembra motivato nutrire pessimi-smi eccessivi».