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Per piacere
Letture per il modulo di
Storia della filosofia
Master’s in
Culture moderne comparate
a.a. 2006-7
Richard Davies
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Indice dei testi in ordine cronologico
Democrito di Abdera (frr. 191, 210, 235) p. 5
Platone di Atene Fedone (59-60) p. 7
Protagora (351-9) p. 9
Gorgia (490-7) p. 18
Filebo (31-2 e 42-4) p. 28
Repubblica (schema del Lib. VIII) p. 33
Aristotele di Stagira Movimenti degli animali (capp. vi e vii) p. 34
Etica Nicomachea (I, i-v e xii-xiii) p. 36
(II, i-iii) p. 44
(III, x-xii) p. 49
(VII) p. 56
(X) p. 78
(schema comparativo di VII e X) p. 93
Politica (I, ix) p. 95
Metafisica (XII, vii-ix) p. 98
Epicuro da Samo Lettera a Meneceo p. 106
Massime capitali p. 110
Crisippo da Soli Frammenti etici (frr. 154-8 e 178-82) p. 114
Filostrato Vite dei sofisti (I, 1) p. 117
Diogene Laerzio Vite dei filosofi (VIII, viii) p. 118
Thomas Hobbes Leviatano (I, vi) p. 120
John Locke Saggio sull’intendimento umano (II, xx) p. 126
David Hume Ricerca sui princìpi della morale (Appendice I) p. 130
Pietro Verri Sull’indole del piacere (cap. ii) p. 138
Edmund Burke Inchiesta sul bello e il sublime (I, i-vii) p. 143
Jeremy Bentham Princìpi della morale e della legislazione(I, iv) p. 149
John Stuart Mill Utilitarismo (capp. ii e iv) p. 152
Gilbert Ryle ‘Il piacere’ p. 162
Robert Nozick da Anarchia, Stato e Utopia p. 174
3
Proposta di articolazione dei temi trattati
Data Argomento Letture
15/1 Edonismo e utilitarismo: dottrine malfamate ma persistenti
La figura di Eudosso di Cnido, il più influente pensatore della
tradizione occidentale
Il ragionamento del Testimone
– il ‘cognome di famiglia’
– chi è ‘l’amante del piacere’?
Diogene Laerzio,
Vite, VIII, viii
Filostrato, Vite, I, i
Aristotele, EN, X, ii
Aristotele, EN, VII,
xiii
22/1 La figura di Callicle: crescere i desideri
– l’anaplerosi del caradrio e del cinedo
– i piaceri turpi piacciono solo ai corrotti
– i piaceri del ventre
– i piaceri ‘cinetici’ e ‘catastematici’
– i piaceri ‘naturali e necessari’
– i piaceri ‘alti’ e ‘bassi’
Platone, Gorgia 490-
7
Aristotele, EN, X, v
Democrito, frr.
Epicuro, Men, 127-8
Mill Utilitarismo,
cap iv
23/1 Il ragionamento della Misura
– piacere un male (Speusippo)
– piacere un indifferente
– la presunta futilità del piacere
– gli usi educativi del piacere
– che vantaggio c’è nel ‘buon gusto’?
– il piacere del ‘sublime’
Aristotele, EN, I, xii
SVF, III, 154-8
Aristotele, EN, X, i
Burke, Inchiesta
24/1 Il ragionamento della Culla
– l’inaffidabilità dei bambini
– la culla vuota di Epicuro
– i desideri di Mill
– voglie, appetiti e l’intenzionalità delle preferenze espresse
Aristotele, EN, X, ii
SVF, III, 178-82,
Utilitarismo cap ii
25/1 Una preferenza per il dolce
– edonismo etico e edonismo psicologico
– la non-contingenza dell’inclinazione verso il piacere
– moti naturali e il piacere divino
– La realtà degli oggetti del piacere
Hobbes, Leviatano,
vi
Locke, Saggio, II, xx
Aristotele, Metaf XII
Nozick, ‘Macchina’
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30/1 Il ragionamento del Fine
– un motivo per agire
– l’archittetonica di mezzi e fini
– ‘farlo per i soldi’: mezzi puri
– il regresso dei fini
– piacere e ‘exaptation’
– evitare dolore per raggiungere aponia
Aristotele, EN, I, xii;
X, ii
Aristotele, EN I, i-iii
Aristotele, Pol, I, ix
Hume, Seconda
Ricerca, appendice I
Epicuro, Mass. cap.
31/1 Il ragionamento degli Opposti
– Socrate e le catene
– gli orci forati e i compiti delle Danaide
– piaceri impuri e falsi
– monotrofi e la generazione del piacere ‘morale’
– la base neurofisiologica: il nucleus acumbens, sistemi del
piacere, dopamina e gli endorfini
Aristotele, EN, VII,
xiii; X, ii
Platone, Fedone,
Platone, Gorgia
Platone, Filebo
Verri, Indole
1/2 Deontologia e assiologia
– le dimensioni utilitaristiche
– l’utile è dilettevole: quanti ‘hedon’ e ‘qualy’
– la commensurabilità dei piaceri
– perché calcolare sul lungo andare se, sul lungo andare,
siamo tutti morti?
– mettere i piaceri nella bilancia
– temperanza, continenza e akrasia
– il sillogismo pratico
Bentham, Princìpi,
iv
Epicuro, Men
Platone, Prot. 354-7
Aristotele, Mov. an.,
vi-vii; EN VII, i-vi
6/2 Distribuzioni del piacere
– ‘la maggiore felicità per il maggior numero’
– l’imparzialità temporale e personale
– costi e benefici nelle scelte pubbliche
– atto e omissione, e la tesi dell’equivalenza
Bentham, Princìpi,
iv
7/2 Il ragionamento dell’Energia
– la dottrina dell’eudemonismo
– piacere, attenzione e sensazione
– ragione, passioni e l’armonia dell’anima
– come assicurarsi 729 volte più piacere
Aristotele, EN, X, iv
Aristotele, EN, II, iii
Ryle, Dilemmi, IV
Platone, Rep, VIII
5
Democrito di Abdera (c. 500-c. 410 a.C.)
Frammenti dei presocratici
(a cura di H. Diels e W. Kranz, 1903 ecc.)
traduzione Matteo Andolfo
DK 68B191 (Stobeo, Antologia, III, 1, 210), Sentenza di Democrito: ‘La buona disposizione
dell’animo di ingenera negli uomini, dalla misura imposta al godimento e dall’armonia di vita:
l’eccesso e il difetto, invece, amano l’instabilità e inducono grandi turbamenti nell’anima. Le
anime perturbate dall’alterno prevalere di stati fra loro grandemente opposti non possono essere
né equilibrate e stabili né ben disposte. Pertanto, si deve indirizzare la propria attenzione alle
cose possibili e ci si deve accontentare di ciò che è alla propria portata, dandosi poco pensiero
per gli uomini che vengono invidiati e ammirati e tantomeno ossessionandosi per la loro
condizione. Al contrario, si deve osservare la vita di chi è afflitto da tribolazioni, riflettendo a
lungo su ciò che questo patisce, in modo che ti sembrino grandi e invidiabili le cose che sono alla
tua portata e che possiedi, e in modo che non ti accada di soffrire nell’anima, desiderandone di
ulteriori. Infatti, chi ammira i facoltosi e le persone ritenute felici dagli altri uomini e si dà
costantemente pensiero per loro sarà necessariamente spinto a intraprendere imprese sempre
nuove, non escluso l’essere indotto dal desiderio a compiere azioni irreparabili e vietate dalla
legge. Allore, è opportuno non bramare di conseguire qualunque cosa bensì ben disporsi
nell’animo accontendandosi di ciò che si possiede, confrontando la propria vita con quella di chi
ha una sorte peggiore, ritenendosi felici in rapporto ai patimenti sofferti da costoro e constatando
quanto sia migliore la vita che si conduce. Divenendto consapevole di tutto questo, trascorrerai la
vita con animo disposto in modo ancora più buono e respingerai non poche cause di rovina della
vita, quali l’invidia, la malevolenza e l’animosità’.
DK 68B207 (Stobeo, Antologia, III, 5, 22) Sentenza di Democrito: ‘Si devono scegliere non tutti
i piaceri, ma solo quelli connessi al bello’.
DK 68B235 (Stobeo, Antologia, III, 17, 35) Sentenza di Democrito: ‘A coloro che si volgono ai
piaceri del ventre, avendo superato la misura conveniente sia nei cibi sia nelle bevande sia nei
piaceri erotici, i piaceri divengono decurtati in intensità e di breve durata, nel senso che durano
solo finché banchettano e bevono, mentre i dolori sono molti. Infatti, il desiderio di tali cose
permane sempre e anche quando ottengono ciò che desiderano il piacere s’invola velocemente e
Democrito: frammenti
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non reca loro alcun giovamento, anzi, il godimento si abbrevia e hanno di nuovo spasmodico
bisogno di quegli oggetti di piacere.’
7
Platone (c. 428-347 a.C.) Fedone
traduzione Emidio Martini
Stephanus vol I p. 59
[Fedone narra all’amico Echecrate l’ultimo giorno della vita di Socrate] Ora cercherò di raccontarti tutto dal principio. Sempre, nei giorni che precedettero la morte, io e
gli altri eravamo soliti incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino, appena faceva chiaro,
nel tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al carcere e lì, chiacchierando,
aspettavamo che ci venisse aperta la prigione. A volte si aspettava anche un bel po’; ma quando
ci aprivano, correvamo da Socrate e restavamo con lui anche tutta la giornata.
Quella mattina, poi, giungemmo molto presto perché la sera prima, lasciando il carcere,
sentimmo dire che era tornata la nave da Delo e così fummo d’accordo di vederci il giorno dopo
al solito posto, al più presto possibile.
Quando giungemmo, il custode, che ci aveva sempre fatti passare, venne fuori e ci disse di
attendere e di non entrare fino a quando non ce lo avesse detto lui, perché gli Undici proprio in
quel momento stavano togliendo le catene a Socrate e comunicandogli che quello era il giorno
della sua morte. Dopo un po’ tornò e ci disse che potevamo entrare e noi, infatti, [pag. 60]
trovammo Socrate libero dai ceppi e Santippe – tu la conosci, no? –, che con il bambino più
piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena quella ci vide, cominciò a strillare e a dire le solite
cose che dicono le donne:
‘Ahimè, Socrate, ecco che è l’ultima volta che i tuoi amici parlano con te e tu con loro.’
E Socrate, rivolgendosi a Critone:
‘Che qualcuno me la levi di torno e la riporti a casa’.
Alcuni servi di Critone, così, la condussero via, mentre lei continuava a smaniare e a battersi
il petto. Socrate, intanto, che s’era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò a grattarsela a
lungo:
‘Che strana cosa, amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario
rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono nell’uomo e
pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere l’uno, si vede costretto, sempre, a
sobbarcarsi anche l’altro come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo’.
‘Credo,’ soggiunse, ‘che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a
poco così: ‹Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi, li
Platone Fedone
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legò insieme per la testa così che dove va l’uno va anche l’altro.› È quello che è capitato a me:
per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere.’
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Platone (c. 428-347 a.C.)
Protagora
traduzione Giovanni Reale
[Stephanus pagina 351C]
[È Socrate che narra la discussione con Protagora intorno alla tesi che la scienza sia il
fondamento ed essenza della virtù]
La vita morale si fonda sulla conoscenza del bene de del male
‘Che dici, Protagora? Anche tu, come molti, consideri cattive alcune cose piacevoli e buone
alcune cose dolorose? Io dico: le cose, in base al fatto che sono piacevoli, non sono forse anche
buone, indipendentemente da quello che ne potrà derivare? E a loro volta ugualmente le cose
dolorose, nella misura in cui sono dolorose, non sono anche cattive?’
‘Non so, Socrate, se devo risponderti così su due piedi, in base a come poni la domanda, che
le cose piacevoli sono tutte buone e le cose dolorose sono tutte cattive. Mi sembra però che, non
solo in relazione all’attuale risposta, ma anche in relazione a tutta la mia vita, sia più prudente
per me dire che alcune cose piacevoli non sono buone e che alcune cose dolorose non sono
cattive, mentre altre lo sono; in terzo luogo alcune cose non sono né l’uno né l’altro, né buone né
cattive’.
‘Non chiami forse piacevoli quelle che partecipano del piacere e che lo procurano?’
‘Senza dubbio’.
‘Questo dunque intendo dire: in quanto piacevoli non sono forse anche buone? E il piacere in
sé non è forse un bene?’
‘Come tu dici ogni volta, Socrate, «esaminiamo la questione»: se la ricerca avrà lo stesso esito
del nostro ragionamento e bene e piacere ci sembreranno la stessa cosa, ne converremo insieme;
se no, allora ne discuteremo’.
‘Vuoi condurre tu la ricerca o devo condurla io?’
‘E’ giusto che conduca tu; tu infatti hai iniziato il discorso’.
[pag. 352] ‘Forse possiamo chiarire la questione in questo modo. Ad esempio, se qualcuno
vuole esaminare una persona in base all’aspetto esteriore e vuole giudicarne lo stato di salute o
qualche altra qualità del corpo, dopo aver guardato il volto e le mani dice: «Su, spogliati e
mostrami il petto e la schiena, perché io possa esaminarti con più accuratezza». Io voglio fare la
stessa cosa per questa ricerca: vedendoti così disposto in relazione al bene e al piacere, come tu
Platone Protagora
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affermi, devo dirti: «Su, Protagora, svelami anche questo aspetto del tuo pensiero: che cosa ne
pensi della scienza? La pensi come la maggior parte degli uomini o in un altro modo? Ai più la
scienza sembra una cosa né forte né adatta a guidare né idonea a comandare; non solo le
attribuiscono una natura tale, ma ritengono che spesso la scienza, pur essendo presente in un
uomo, non riesca a guidarlo, ma che altre cose prendano il sopravvento: l’ira, il piacere, il dolore,
l’amore, spesso la paura. La scienza è per i più come uno schiavo, trascinata qua e là da tutto il
resto.
‘Anche per te è così o pensi che la scienza sia qualcosa di bello, che sia capace di guidare
l’uomo, e che, se uno conosce il bene e il male, non sia trascinato da niente altro e agisca solo
come ordina la scienza? Credi che l’intelletto sia sufficiente a portare aiuto all’uomo?’
‘Sembra che sia come tu dici, Socrate. Se è vergognoso per altri, figurati quanto lo è per me
affermare che la sapienza e la scienza non sono le più potenti fra tutte le cose umane!’
L’opinione della gente ritiene che il piacere e le passioni vincano la conoscenza del bene
‘Parli bene e dici la verità. Sai però che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te:
dicono che molti, anche se conoscono il bene, non vogliono metterlo in pratica, pur essendo
possibile per loro, ma preferiscono agire secondo altri princìpi. Se io chiedo quale sia la causa di
questo comportamento, rispondono che quelli che agiscono così lo fanno o perché vinti dal
piacere o dal dolore o perché dominati da qualcuna delle passioni di cui parlavo poco fa’.
‘Socrate, credo che anche in molte altre questioni gli uomini si sbaglino’.
[pag. 353] ‘Allora, preparati a convincere gli uomini insieme a me e a insegnare che cosa
accade loro quando affermano di essere vinti dai piaceri e di non praticare per questo motivo il
bene, benché lo conoscano. Se infatti noi dicessimo: ‘Non sono giuste le cose che dite, vi
sbagliate’ ci chiederebbero: ‘Protagora e Socrate, se quello che ci accade non è essere vinti dal
piacere, allora che cosa è mai e che cosa pensate che sia? Ditecelo!»’
‘Che bisogno c’è, Socrate, di esaminare l’opinione della massa, che parla a vanvera?’
‘Credo che la ricerca consista nello scoprire in quale relazione si trovi il coraggio con le altre
parti della virtù. Se dunque la pensi ancora come prima, cioè che sia io a condurre la ricerca
come penso sia meglio, seguimi; se non vuoi, se lo desideri, lascerò stare’.
‘Va bene; continua come hai cominciato’.
Il problema sollevato dall’affermazione ‘lasciarsi vincere dai piaceri’
‘Se ancora una volta ci chiedessero: «Che cosa pensate che sia quello che per noi è essere vinti
dai piaceri?» Io risponderei: «Ascoltate: io e Protagora tenteremo di spiegarvelo. Non vi accade
Platone Protagora
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forse la stessa cosa quando siete trascinati dai cibi, dalle bevande e dagli amori, che sono
piacevoli, e, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia cedete?»’
‘Direbbero di sì’.
‘E allora potremmo chiedere ancora: «In che senso affermate che sono cose cattive? Forse
perché sul momento procurano piacere e perché ciascuna di loro è piacevole, o perché poi
provocano malattie e povertà e molte altre cose simili? Oppure, anche se in futuro non procurano
nessuna di queste cose, ma solo godimento, sarebbero pur sempre cattive, poiché, non importa in
che modo, fanno godere chi le prova?» . Io credo, Protagora, che risponderebbero che queste
cose non sono cattive in base al fatto che procurano piacere sul momento, ma per ciò che segue,
le malattie e il resto’.
‘Penso che molti risponderebbero così’.
‘Essendo causa di malattie e di povertà non sono forse anche causa di dolori? Sarebbero
d’accordo, mi pare’.
Protagora disse di sì.
‘«Allora, in base al ragionamento mio e di Protagora, vi sembra che queste cose siano cattive
per qualche altro motivo se non perché procurano dolori e ci privano di altri piaceri?’. Sarebbero
d’accordo?».
[pag. 354] Eravamo entrambi della stessa opinione.
‘Poi se domandassimo loro il contrario: «Quando affermate che ci sono alcune cose buone che
sono anche dolorose, forse intendete gli esercizi ginnici, le campagne militari, le cure mediche,
con le loro cauterizzazioni, tagli, medicamenti, diete, che sono tutte cose buone, ma dolorose?»
Risponderebbero di sì?’.
Era d’accordo.
‘«Forse allora definite buone queste cose perché sul momento procurano estreme sofferenze e
dolori o perché in un momento successivo derivano da loro salute, benessere fisico, salvezza
degli stati, dominio su altri e ricchezza?»
Sceglierebbero la seconda ipotesi, mi pare’.
Era d’accordo.
‘«E queste cose sono buone per qualche altra ragione se non perché procurano piaceri e ci
separano e ci allontanano dai dolori? O avete un altro criterio, in base al quale le considerate
buone, che non siano i piaceri (che procurano) e i dolori (che allontanano)?» Direbbero di no, mi
sembra’.
‘Anche secondo me direbbero di no’.
‘«Perciò inseguite il piacere come un bene e fuggite il dolore come un male?»’
Platone Protagora
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Protagora era d’accordo.
‘«Ritenete dunque che il dolore sia un male e che il piacere sia un bene. Inoltre considerate un
male la stessa gioia intensa, se ci priva di piaceri più grandi di quelli che esso stesso procura o ci
causa dolori più grandi dei piaceri che contiene. Se la considerate un male per qualche altro
motivo e in virtù di un altro criterio, dovreste dirlo anche a noi, ma non vi sarà possibile’’.
‘Neppure secondo me è possibile’.
‘«Non possiamo fare le stesse considerazioni anche sulla sofferenza? Non considerate forse
un bene la
sofferenza, se allontana dolori più grandi di quelli che contiene o procura piaceri più grandi
dei dolori? Se però, considerando la sofferenza un bene, avete presente un criterio diverso da
quello che dico, dovete dircelo; ma non potrete»’.
‘Dici la verità’.
‘«E ancora, se voi mi chiedeste: ‘Perché la fai tanto lunga?’ ‘Perdonatemi’- direi. Infatti non è
facile dimostrare che cosa sia mai quello che voi definite ‘essere vinti dai piaceri’; da questa
derivano poi tutte le altre dimostrazioni». [pag. 355] Potete ancora cambiare opinione, se siete
capaci di sostenere che il bene sia una cosa diversa dal piacere, o che il male sia una cosa diversa
dal dolore; oppure a voi basta vivere felicemente la vita senza dolori? Se vi basta e se per voi
bene e male non sono altro che ciò che conduce al piacere o al dolore, ascoltate cosa ne
consegue. Infatti vi dico che, se le cose stanno così, il ragionamento diventa ridicolo. Voi
affermate che spesso l’uomo, pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa, pur essendo possibile
non farlo, trascinato e sconvolto dai piaceri; poi dite che l’uomo, pur conoscendo il bene, non
vuole farlo, vinto dai piaceri del momento’.
Il ‘lasciarsi vincere dai piaceri’ implica sempre un errore di calcolo e quindi ignoranza su
ciò che si ritiene bene
‘Che tutto questo sia ridicolo, sarà evidente se non useremo molti nomi contemporaneamente,
‘piacere’, ‘dolore’, ‘bene’ e ‘male’: poiché sembra che si tratti di due cose, chiamiamole con due
nomi, in primo luogo ‘bene’ e ‘male’ e poi ‘piacere’ e ‘dolore’. Stabilito questo, diciamo: l’uomo
pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa. Se qualcuno ci chiedesse: «Perché?» «Perché è
vinto» diremmo; «Da cosa?» quello ci domanderà; per noi non sarà più possibile dire «dal
piacere», poiché adesso il piacere ha cambiato nome e si chiama ‘bene’. Allora gli risponderemo
e diremo: «Perché è vinto»; «Da cosa?» dirà; «Dal bene, per Zeus!» diremo. Se il nostro
interlocutore è un po' arrogante, riderà e dirà: «È davvero ridicolo quello che dite, se affermate
che qualcuno fa il male, pur sapendo che è male e pur non essendo lecito farlo, perché è vinto dal
Platone Protagora
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bene. Per voi il bene può o non può vincere il male?». E’ evidente che dovremmo rispondere che
non può, se che chi è vinto dai piaceri compie il male. «In che cosa - dirà forse - i beni sono
inferiori ai mali e i mali ai beni? Forse in base al fatto che gli uni sono più grandi, gli altri più
piccoli? O che gli uni sono di più e gli altri di meno?» Non potremmo che essere d’accordo. «E’
evidente dunque - dirà - che per voi ‘essere vinti’ significa scegliere mali maggiori in cambio di
beni minori». Su questo siamo d’accordo. Attribuiamo ancora una volta i nomi di ‘piacere’ e
‘dolore’ a queste stesse cose e diciamo: l’uomo fa cose dolorose - prima dicevamo ‘cose cattive’
- pur sapendo
che sono dolorose, vinto dai piaceri, che evidentemente non sono in grado di prevalere.
[pag. 356] E in cosa altro il piacere è inferiore rispetto al dolore, se non per l’eccesso o per il
difetto dell’uno rispetto all’altro? Piaceri e dolori possono essere reciprocamente più grandi o più
piccoli e più o meno numerosi, in maggiore e in minore intensità. Se poi qualcuno dicesse: «C’è
però molta differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il dolore o il piacere futuri!’ «E
questa differenza consiste in qualcos’altro se non nel piacere e nel dolore? No di certo. Tu, come
un bravo pesatore, dopo aver raccolto il piacere e il dolore e aver aggiunto sul piatto della
bilancia la vicinanza e la lontananza nel tempo, dimmi quale dei due piatti è più pesante. Se
infatti poni a confronto i piaceri con i piaceri, devi
sempre scegliere i più grandi e i più numerosi; se invece poni a confronto i dolori con i dolori,
devi scegliere i meno numerosi e i più piccoli. Se poi poni a confronto piaceri e dolori, nel caso
in cui i dolori siano superati dai piaceri, e se i dolori vicini sono superati dai piaceri lontani e i
dolori lontani sono superati dai piaceri vicini, devi orientare la scelta laddove c’è l’eccedenza;
qualora invece i piaceri siano superati dai dolori, bisogna rinunciarvi. Le cose stanno così o in un
altro modo?». So che non potrebbero rispondere diversamente’.
Anche lui era d’accordo.
‘«Poiché le cose stanno così, rispondetemi a questa domanda: una stessa grandezza vi appare
maggiore da vicino e minore da lontano, o no?»’
‘Diranno di sì’.
‘«E lo stesso accade per il volume e la quantità? E voci di uguale intensità non sono forse più
forti da vicino, più deboli da lontano?»’
‘Direbbero di sì’.
‘«Se dunque per noi questo fosse l’agire bene, fare e scegliere le cose grandi, fuggire e non
fare
le cose piccole, quale vi sembrerebbe la salvezza della vita? L’arte della misura o il potere
dell’apparenza? L’apparenza forse ci ingannerebbe e ci farebbe spesso prendere e lasciare senza
Platone Protagora
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criterio le stesse cose e pentirci, sia quando agiamo, sia quando scegliamo le cose grandi e
piccole. L’arte della misura, invece, renderebbe vana l’illusione dell’apparenza e, dopo aver
mostrato la verità, farebbe in modo che l’anima, accanto alla verità, fosse tranquilla e ci
salverebbe la vita’. Gli uomini sarebbero d’accordo sul fatto che l’arte della misura ci potrebbe
salvare oppure affermerebbero che è un’altra arte a salvarci?’.
‘Direbbero che è l’arte della misura’.
‘«Cosa accadrebbe se la salvezza della vita per noi dipendesse dalla scelta tra il pari e il
dispari (che consiste poi nel capire quando sia giusto scegliere il più e quando il meno, o preso
per sé o in relazione ad altro, sia che sia vicino, sia che sia lontano)? Che cosa ci salverebbe la
vita? Non sarebbe forse la scienza? [pag. 357] E non sarebbe proprio la scienza della misura,
poiché è un’arte che riguarda l’eccesso e il difetto? E la scienza del pari e del dispari non è forse
l’aritmetica?»Tutti sarebbero d’accordo con noi, o no?’. Anche a Protagora sembrava che
sarebbero stati d’accordo.
‘«Bene; poiché ci è sembrato che la salvezza della vita risieda nella giusta scelta fra piacere e
dolore - fra il più numeroso e il meno numeroso, fra il più grande e il più piccolo, fra il più
lontano e il più vicino - questa non è forse una forma di misura, poiché è una ricerca dell’eccesso
e del difetto e della reciproca uguaglianza fra piaceri e dolori?»’
‘Necessariamente’.
‘Poiché è una misura, deve essere anche un’arte e una scienza’.
‘Saranno d’accordo’.
‘«Esamineremo in un secondo momento di quale arte e di quale scienza si tratti; per la
risposta mia e di Protagora alla vostra domanda basta sapere che è una scienza. Se ricordate,
avete iniziato a farci domande quando io e Protagora abbiamo concordato che nulla è più forte
della scienza e che questa domina tutto, dovunque sia, il piacere e tutte le altre cose; voi, invece,
affermavate che spesso il piacere ha in suo potere anche l’uomo sapiente. Poiché noi non
eravamo d’accordo con voi, ci avete chiesto: ‘Protagora e Socrate, se ciò che accade in questi
casi non è essere vinti dal piacere, che cosa è mai e che cosa voi dite che sia? Ditecelo!’. Se
subito vi avessimo risposto ‘l’ignoranza’ avreste riso di noi; ora invece, se rideste di noi,
ridereste anche di voi stessi. Infatti voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta fra i piaceri e i
dolori - cioè fra il bene e il male - sbaglia per mancanza di scienza, e non solo di scienza in
generale, ma anche di quella che abbiamo chiamato arte della misura: un’azione sbagliata per
mancanza di scienza sapete forse anche voi che avviene per ignoranza. Dunque ‘essere vinti dal
piacere’ non è altro che la più grande ignoranza, di cui Protagora, qui presente, dice di essere
Platone Protagora
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medico, come pure Prodico e Ippia; voi però, poiché credete che non si tratti di ignoranza, né
andate voi stessi
né mandate i vostri figli dai maestri di queste cose, dai sofisti, come se l'arte di cui parlavamo
non fosse insegnabile. Preoccupandovi solo dei vostri soldi e non dandoli a questi maestri, agite
male sia nel vostro interesse che in quello della città». [pag. 358]
Questo avremmo potuto rispondere ai più; ora insieme a Protagora chiedo a voi, Ippia e
Prodico (infatti il discorso è rivolto anche a voi), se vi sembra che io dica la verità o che sbagli’.
Straordinariamente a tutti sembrava che le cose dette fossero vere.
‘Anche per voi dunque, il piacere è bene, il dolore è male. Tralascio la sottile distinzione di
nomi che fa Prodico: sia infatti che tu lo chiami piacere, diletto, gioia intensa, o come a te piace,
caro Prodico, rispondimi a tono’.
Dopo aver riso Prodico fu d’accordo e anche gli altri.
‘E che pensate allora di questa affermazione: tutte le azioni che tendono a una vita senza
dolore e piacevole, non sono forse belle? E un’azione bella non è forse buona e utile?’
Erano d’accordo.
‘Se dunque il piacere è bene, nessuno farebbe le cose che fa se sapesse e credesse che esistano
altre cose migliori che sarebbe possibile fare; e essere vinti da se stessi non è altro che ignoranza,
mentre dominare se stessi non è altro che sapienza’.
Tutti erano d’accordo.
‘E poi? L’ignoranza non consiste forse nell’avere una falsa opinione e ingannarsi su questioni
importanti?’
Anche su questo tutti erano d’accordo.
‘Non è forse così? Nessuno volontariamente tende al male né a ciò che ritiene essere male, e
non è nella natura umana, mi pare, andare volontariamente verso ciò che si ritiene male, invece
del bene. Quando infatti si è costretti a scegliere uno fra due mali, qualcuno sceglierà forse il più
grande, pur essendo possibile scegliere il più piccolo?’
Su tutte queste cose eravamo d’accordo.
‘Che cosa sono per voi timore e paura? Quello che sono per me? Mi rivolgo a te, Prodico. Per
me timore e paura - usate il nome che preferite - consistono in una indefinibile attesa del male’.
A Protagora e a Ippia sembrava che il timore e la paura fossero questo, a Prodico invece
sembrava che il timore fosse questo, ma la paura no.
‘Prodico, non c’è alcuna differenza! Ecco la cosa importante: se le affermazioni di prima sono
vere, forse qualcuno si dirigerà volontariamente verso le cose che teme, pur essendo possibile
andare in un'altra direzione? Oppure questo è impossibile, se è vero quello che abbiamo detto
Platone Protagora
16
prima? Infatti abbiamo concordato che ciò che si teme rappresenta un male e che nessuno
volontariamente va verso il male né lo sceglie’.
[pag. 359] Anche su queste cose tutti erano d’accordo.
‘Stabilito ciò, Prodico e Ippia, Protagora ci giustifichi come le risposte di prima possano
essere giuste secondo lui. Non mi riferisco alle prime risposte che ha dato; infatti in un primo
momento aveva detto che, delle cinque parti della virtù, nessuna è simile all’altra, ma che
ognuna ha una sua funzione. Non mi riferisco a questa affermazione, ma a ciò che ha detto in
seguito. Infatti poi ha detto che quattro parti della virtù sono abbastanza simili fra loro, mentre
una, il coraggio, si differenzia molto e ha aggiunto che io avrei potuto capirlo da questa
dimostrazione: «Infatti, Socrate, troverai uomini che sono in tutto empi, ingiusti, sregolati e
ignoranti, ma molto coraggiosi; da ciò riconoscerai che il coraggio è molto diverso dalle altre
parti della virtù». E io subito mi meravigliai della risposta, e ancor più dopo che abbiamo
discusso queste cose con voi. Di seguito gli domandavo se ritenesse audaci i coraggiosi; e quello:
«Sì, e anche temerari». Ricordi, Protagora, di aver risposto così?’
Disse di sì.
‘Su, spiegaci: di fronte a cosa i coraggiosi sono temerari? Alle stesse cose di fronte a cui i vili
sono vili?’
‘No’.
‘Allora di fronte a cose diverse?’
‘Sì’.
‘I vili si dedicano a imprese sicure, mentre i coraggiosi a quelle pericolose?’
‘Socrate, così affermano i più’.
‘È vero, ma non è questo che mi interessa. Di fronte a cosa tu affermi che i coraggiosi sono
temerari? Di fronte alle imprese pericolose, sapendo che sono pericolose, o di fronte a quelle che
non lo sono?’
‘In base ai nostri ragionamenti è stato dimostrato che la prima ipotesi è impossibile’.
‘Anche questo è vero; infatti, se quello che abbiamo detto è giusto, nessuno va verso un
pericolo che conosce, poiché è stato dimostrato che essere vinti da se stessi è ignoranza’.
Protagora era d’accordo.
‘Invece tutti scelgono le cose in cui si sentono sicuri, sia i vili che i coraggiosi, così che sotto
questo aspetto i vili e i coraggiosi si orientano verso le stesse cose’.
‘Però, Socrate, le cose verso cui si volgono i vili e i coraggiosi sono sotto molti aspetti
differenti. Per esempio i
coraggiosi vogliono andare in guerra, i vili no’.
Platone Protagora
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‘E’ bello o no andare in guerra?’
‘E’ bello’.
‘Se dunque è bello, in base ai discorsi di prima è anche buono: infatti abbiamo convenuto che
tutte le azioni belle sono anche buone’.
‘E’ vero, e anche ora la penso così’.
18
Platone (c. 428-347 a.C.)
Gorgia (il dibattito con Callicle, 490-7)
Traduzione Giovanni Reale
[Stephanus vol I p. 490]
I più intelligenti e potenti secondo Calliele sono i competenti sulle cose dello Stato e i
coraggiosi
SOCRATE: Fermati! Che cosa rispondi ora a questa domanda? Se ci trovassimo in molti riuniti
nello stesso luogo, come in questo momento, e avessimo in comune molti cibi e bevande e
fossimo uomini di costituzione diversa: alcuni forti, altri deboli e uno solo di noi si intendesse
più degli altri di queste cose, essendo medico, e questi fosse, come è naturale, più forte di alcuni
e più debole di altri: ebbene, non sarebbe forse, appunto in quanto più intelligente di noi in
materia, anche migliore e più potente in queste cose?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E allora, di questi cibi egli dovrà averne più di noi, per il fatto che è migliore?
Oppure, proprio per il fatto che egli comanda, deve distribuire tutto, e nel consumare e nel
prendere questi cibi per il proprio corpo non deve prenderne più degli altri, se non vuole averne
danno, ma deve prenderne un po’ più di alcuni e un po’ meno di altri? E se per caso costui fosse
il più debole di tutti, non dovrebbe prenderne, lui che è il migliore, meno di tutti, Callicle? Non è
così, carissimo?
CALLICLE: Tu parli di cibi, di bevande, di medici e di altre sciocchezze; ma io non parlo di
queste cose!
SOCRATE: Non dici che chi è più intelligente è migliore? Lo affermi o no?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E non dici che il migliore deve avere di più?
CALLICLE: Non certo di cibi e neppure di bevande.
SOCRATE: Capisco. Ma forse di vestiti: e il tessitore più esperto dovrà avere il mantello più
grande e dovrà andare in giro con molti e bellissimi vestiti?
CALLICLE: Ma quali vestiti?
SOCRATE: Ma per quanto concerne le scarpe, è chiaro che dovrà averne più di tutti chi più di
tutti si intende di esse ed è quindi migliore. Il calzolaio, allora, dovrà passeggiare calzando
scarpe grandissime e numerosissime.
Platone Gorgia
19
CALLICLE: Ma che cosa c’entrano le scarpe? Continui a dire sciocchezze!
SOCRATE ~ Ma se non a questo, forse ti riferisci a quest’altro: l’agricoltore, per esempio,
quello veramente intelligente e capace, dovrà forse avere più semi degli altri, e per i suoi campi
dovrà adoperarne in maggior quantità possibile?
CALLICLE: Continui a dire le medesime cose, Socrate!
SOCRATE: Non solo dico le medesime cose, Callicle, ma le dico anche intorno alle medesime
cose.
[pag. 491] CALLICLE: Per gli dèi! Continui a parlare proprio di calzolai, di cardatori, di cuochi,
di medici, come se il nostro ragionamento riguardasse costoro!
SOCRATE: Allora mi dirai intorno a quali cose il più potente e il più intelligente potrà possedere
più degli altri giustamente? Oppure non accetterai che lo suggerisca io, e neppure vorrai dirmelo
tu?
CALLICLE: Ma te lo dico già da un pezzo! In primo luogo, per «più potenti» io non intendo né i
calzolai né i cuochi, ma coloro che sono intelligenti negli affari che riguardano la Città, ossia
coloro che meglio sanno in quale modo possa essere bene amministrata, e che, anzi, non solo
sono intelligenti in materia, ma sono anche coraggiosi, cioè capaci di realizzare ciò che pensano,
e che non desistono per debolezza d’animo.
SOCRATE: Vedi, ottimo Callicle, che le accuse che tu mi muovi sono diverse da quelle che ti
muovo io? Tu, infatti, affermi che io dico sempre le stesse cose e mi rimproveri; invece io di te
affermo l’opposto, ossia che non affermi mai le stesse cose circa i medesimi oggetti: prima
definivi i migliori e i più potenti come i più forti, poi, a loro volta, come i più intelligenti, e
adesso salti fuori con un’altra definizione ancora, e dici che i più potenti e i migliori sono i più
coraggiosi. Ma deciditi una buona volta, caro, e dicci chi pensi che siano i migliori e i più potenti
e rispetto a che cosa.
CALLICLE: Ma io l’ho già detto: sono coloro che sono intelligenti sulle cose che riguardano la
Città e che sono coraggiosi. A costoro, infatti, spetta dominare le Città, e questa è la giustizia:
che costoro abbiano più degli altri, cioè quelli che dominano più di quelli che sono dominati.
I più potenti secondo Callicle sono coloro che dominano gli altri e non se medesimi
SOCRATE: E allora? Rispetto a se medesimi, caro amico, che cosa saranno? Domineranno o
saranno dominati?
CALLICLE: Come dici?
SOCRATE: Intendo dire questo: ciascuno di essi ha dominio di se stesso, oppure non è per nulla
necessario che uno domini se stesso, e importa solamente che domini gli altri?
Platone Gorgia
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CALLICLE: Come intendi «avere dominio di se stessi»?
SOCRATE: Nulla di complicato, ma come tutti lo intendono: essere temperante e padrone di sé,
saper dominare i piaceri e le passioni che si hanno dentro di sé.
CALLICLE: Quanto sei soave! Tu chiami temperanti gli stolti!
SOCRATE: E perché? Non c’è nessuno che non capisca che io non dico affatto questo.
CALLICLE: Proprio questo, Socrate! Infatti, come potrebbe essere felice un uomo, servendo a
chicchessia? E, invece, il bello e il giusto secondo natura è questo che io ora ti dico con i tutta
schiettezza: chi vuole vivere rettamente deve lasciar crescere i propri desideri il più possibile e
non deve affatto reprimerli [pag. 492]; e invece, quando siano cresciuti al massimo, deve saperli
assecondare con coraggio e con avvedutezza e deve essere in grado di togliersi il gusto di tutto
ciò di cui continuamente gli possa venir voglia.
Ma questo, com’è ovvio, non è possibile ai più. Perciò i più biasimano quelli che possono,
perché si vergognano di non potere anch’essi e, per nascondere la propria impotenza, sostengono
che la dissolutezza è cosa turpe, come già dicevo in precedenza, cercando, così, di sottomettere
gli uomini che per natura sono migliori. E poiché essi non sono in grado di dare soddisfazione ai
loro piaceri, per questo esaltano la temperanza e la giustizia, non altro che a causa della propria
mancanza di virilità.
Infatti, a coloro ai quali fin da principio toccò la fortuna di essere figli di re, oppure di essere
per loro natura capaci di procacciarsi un dominio, sia una tirannia sia una signoria, che cosa, in
verità, potrebbe essere più brutto o più odioso della temperanza e della giustizia? Questi uomini,
dico, i quali, pur avendo possibilità di godersi i beni senza che nessuno glielo impedisca,
dovrebbero essi stessi imporre a se medesimi, come padroni, la legge della moltitudine degli
uomini, il loro pensiero e il loro biasimo?
E come potrebbero non essere ridotti a infelici dalla bellezza della giustizia e della
temperanza, non potendo dare ai loro amici nulla di più che ai loro nemici, pur dominando nella
propria Città?
Ma, Socrate, per quella verità che tu dici di voler persegulire, la cosa sta in questo modo: la
sfrenatezza, la dissolutezza e la libertà, se si trovano in condizioni a loro favorevoli,
costituiscono la virtù e la felicità; tutte queste altre cose non sono che orpelli, convenzioni degli
uomini contro natura, chiacchiere che non valgono assolutamente nulla.
La vita esaltata da Callicle potrebbe essere vita nella dimensione della morte e quella difesa
da Socrate vera vita
Platone Gorgia
21
SOCRATE: Callicle, hai affrontato questo discorso in modo veramente franco e coraggioso.
Infatti tu, ora, dici apertamente cose che gli altri certamente pensano, ma non vogliono dire.
Perciò ti prego di non desistere in alcun modo, affinché possa risultare veramente chiaro in quale
modo si debba vivere. E dimmi: tu affermi che non bisogna frenare le passioni, se si vuole essere
come si deve, ma che, lasciandole crescere quanto più è possibile, si deve dar loro soddisfazione
con ogni mezzo, e che proprio in questo consiste la virtù?
CALLICLE: Sì, affermo questo.
SOCRATE: Dunque, non è vero che quelli che non hanno bisogno di nulla sono felici!
CALLICLE: Infatti, le pietre e i morti, a questo modo, sarebbero i più felici.
SOCRATE: Però anche come sostieni tu, la vita è terribile. E non mi meraviglierei se Euripide
affermasse il vero là dove dice:
Chi può sapere se il vivere non sia morire
e se il morire non sia vivere?
[pag. 493] Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da
sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte
dell’anima in cui si trovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e da mutare facilmente
direzione in su e in giù. Un uomo ingegnoso, un siculo o forse un italico, par ando per immagini,
mutando di poco il suono del nome chiamò «orcio» questa parte dell’anima perché seducibile e
credula e chiamò dissennati i non iniziati, e disse che la parte dell’anima di questi dissennati
nella quale hanno sede le passioni, la quale è senza regola e senza ritegni, è come un orcio forato,
intendendo raffigurare così la sua insaziabilità.
E, al contrario di quel che dici tu, costui, Callicle, dimostra come di coloro che sono nell’Ade
(così egli chiama l’invisibile) i più infelici siano i non iniziati e come siano costretti a portare
nell’orcio forato dell’acqua con un crivello esso pure forato. E il crivello, secondo quel saggio,
come affermava chi me lo riferi, è l’anima: ed egli paragonava l’anima degli stolti a un crivello
in quanto è come bucata, perché essa non è capace di tenere nulla per la sua incredulità e
smemoratezza.
Queste immagini sono certamente un poco strane, ma esprimono bene quello che io ti voglio
dimostrare, al fine dipersuaderti, posto che ne sia capace, a cambiar parere e a scegliere, invece
della vita intemperante e sfrenata, la vita beneordinata, che è paga e soddisfatta di quello che si
trova adavere. Ma riuscirò a persuaderti, in qualche modo, a cambiareparere e a farti credere che
sono più felici gli uomini ordinatiche non gli uomini dissoluti, oppure, se anche ti narrassi molti
altri miti simili a questo, non muteresti tuttavia parere?
CALLICLE: Questa tua ultima affermazione, Socrate, è quella vera.
Platone Gorgia
22
Ulteriori chiarificazioni delle implicanze della vita dissoluta difesa da Cafficle
SOCRATE: Ebbene, io ti voglio riferire un’altra immagine, proveniente dalla stessa scuola di
quella di prima. Prova a riflettere sull’uno e sull’altro tipo di vita, ossia su quella del temperante
e su quella del dissoluto, se ti pare di potere paragonarle alle condizioni di due uomini, ciascuno
dei quali abbia molti orci, e l’uno di essi li abbia sani e pieni, rispettivamente, alcuni di vino, altri
di miele, altri di latte e molti altri di molti altri liquidi, e che i liquidi contenuti in ciascuno di
questi orci siano tutti preziosi e difficili da trovare. Ebbene, costui, una volta riempitili, non
avrebbe più bisogno di versarvi altro liquido né di darsene cura, ma potrebbe starsene tranquillo.
Immagina, invece, che il secondo possa, sì, procurarsi i liquidi, ma sempre con difficoltà, e
che, per di più, abbia i vasi bucati e consumati e che sia costretto a riempirli continuamente
giorno e notte, per evitare le più gravi sofferenze.
[pag 494] Ebbene, tale essendo la vita di ciascuno di questi, dirai che è più felice la vita dello
sregolato o che è, invece, più felice la vita del temperante?
Dicendo queste cose ti persuado ad ammettere che la vita ordinata è migliore di quella
dissoluta, oppure non ti persuado?
CALLICLE: Non mi persuadi, Socrate. Infatti, colui che ha tutti i vasi pieni non prova più alcun
piacere, e si riduce, come poco fa dicevo, a vivere come una pietra, e dopo che ha riempito i suoi
vasi non ha più né dolore né piacere. Ma il piacere della vita consiste in questo: nel versare
quanto più è possibile nei vasi!
SOCRATE: Ma, allora, non è necessario che, se molto si versa, molto sia anche ciò che viene
perduto e che grandi siano i buchi per l’uscita?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Tu parli di una vita che è come quella del caradrio, ben altra da quella di un morto
o di una pietra! E dimmi. La vita di cui parli è di questo genere: aver fame, poniamo, e quando si
ha fame mangiare?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E aver sete e bere quando si ha sete?
CALUCLE: Sì, dico questo: in breve, dico che il vivere felice consiste nefl’avere tutte le altre
passioni e nel soddisfarle piacevolmente.
Secondo Calliele il vero bene per l’uomo è il piacere in tutti i sensi
SOCRATE: Bene, carissimo: continua cosi come hai incominciato e cerca di non avere ritegni. E
a quanto pare bisogna che non ne abbia neppure io. Dimmi, innanzi tutto: se uno avesse la
Platone Gorgia
23
scabbia e il prurito e potesse grattarsi come vuole, passando tutta la vita a grattarsi, questa è per
lui una vita felice?
CALLICLE: Sei ben stravagante, Socrate, e parli proprio come un oratore da plebe!
SOCRATE ~ Appunto per questo, Callicle, ho turbato gia Gorgia e Polo; ma tu non turbarti e
non lasciarti venire scrupoli, coraggioso come sei! Devi solo rispondermi.
CALLICLE: Allora ti dico che anche colui che si gratta, dovrebbe vivere in modo piacevole.
SOCRATE: E se in modo piacevole, anche felice?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Forse se ha prurito solo alla testa... o ti devo fare ancora delle altre domande?
Guarda, Callicle, che cosa potresti rispondere se qualcuno ti rivolgesse, una dopo l’altra, tutte le
altre domande, per tutte le restanti parti del corpo! Stando così le cose, in conclusione, la vita
degli impudichi (ho ton kinaidon bios) non è forse spaventosamente turpe e sciagurata? O avrai
la sfrontatezza di affermare che costoro sono felici, purché abbiano in abbondanza ciò che
occorre loro per soddisfare i loro bisogni?
CALLICLE: Non ti vergogni, Socrate, di portare il discorso su cose di questo genere?
SOCRATE: Sono io che li porto su queste cose, nobile uomo, o è invece colui che afferma senza
alcun ritegno che sono [pag 495] felici coloro che godono e in qualunque modo godano, e non
precisa quali piaceri siano buoni e quali cattivi? Ma dimmi ancora: affermi tu che piacere e bene
sono la stessa cosa, o che c’è qualche piacere che non è buono?
CALLICLE: Dico che sono la stessa cosa, perché, se lo negassi, il mio discorso risulterebbe
incoerente.
SOCRATE: Tu distruggi, Callicle, i discorsi che abbiamo fatto prima e non potrai più esaminare
con me le cose come si conviene, se dici cose contrarie alle tue convinzioni.
CALLICLE: E anche tu, Socrate!
SOCRATE: Se facessi questo, non farei bene neppure io cosi come non fai bene tu. Ma,
carissimo, sta’ bene attento che il bene non consista nel godere in qualsiasi modo. Infatti, se così
fosse, quelle brutte cose di cui si è fatto cenno, evidentemente ne deriverebbero di conseguenza,
e con esse molte altre.
CALLICLIE: Al modo in cui pensi tu, Socrate.
SOCRATE: Ma tu, Callicle, sostieni veramente questo?
CALLICLE: Io sì.
SOCRATE: Vogliamo dunque metterci a ragionare, ammettendo che tu parli sul serio?
CALLICLE: Ma certamente.
Platone Gorgia
24
Dimostrazione della tesi che bene non può essere il piacere e male il dolore
SOCRATE: E allora, dal momento che così ti sembra, precisami quanto segue. C’è qualche cosa
che tu chiami scienza?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E non dicevi poco fa che c’è anche un corag gio che è unito alla scienza?
CALLICLE: Sì, lo dicevo.
SOCRATL: E parlavi di due cose, intendendo il coraggio come altro dalla scienza?
CALLICLE: Precisamente.
SOCRATE: E allora? Il piacere e la scienza sono la stessa cosa oppure cose diverse?
CALLICLE: Certamente diverse, sapientissimo!
SOCRATE: E anche il coraggio è diverso dal piacere?
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: Allora cerchiamo di ricordarci di queste cose: che Callicle del demo di Acarne ha
affermato che il piacere e il bene sono la medesima cosa e che la scienza e il coraggio sono
differenti tra loro e sono differenti dal piacere.
CALLICLE: E invece Socrate del demo di Alopece non è d’accordo su queste cose. Oppure è
d’accordo?
SOCRATE: Non è d’accordo. E credo che neppure Callicle, sia d’accordo, quando avrà riflettuto
in modo corretto. Dimmi, infatti: non credi che si trovino in stati contrari coloro che stanno bene
e coloro che stanno male?
CALLICLE: Io sì.
SOCRATE: E allora, se queste cose sono tra loro contrarie, i non è necessario che ci sia fra esse
il medesimo rapporto che c’è fra la salute e la malattia? Infatti l’uomo non può certamente
essere, a un tempo, sano e ammalato; né può, a un tempo liberarsi dalla malattia e dalla salute.
CALLICLE: Come dici?
SOCRATE: Prendi per esempio una qualsiasi parte del corpo e [pag. 496] fa’ queste
considerazioni. L’uomo può avere una malattia agli occhi che si chiama oftalmia?
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: E non potrà certo, nello stesso tempo, avere l’oftalmia e gli occhi sani!
CALLICLE: Assolutamente no.
SOCRATE: Ebbene, e quando si libera dall’oftalmia? Si libera forse, insieme, anche dalla salute
degli occhi? O alla fine si libera, insieme, dall’una e dall’altra?
CALLICLE: Niente affatto.
SOCRATE: Sarebbe, evidentemente, cosa ben strana e assurda! Non è così?
Platone Gorgia
25
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Invece l’uomo contrae l’una e perde l’altra e viceversa.
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E non è così anche per quanto concerne la forza e la debolezza?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E anche per quanto concerne la velocità e la lentezza?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E per quanto concerne i beni e la felicità e i loro contrari, i mali e l’infelicità?
Quando si acquistano gli uni non si perdono gli altri e viceversa?
CALLICLE: Certamente!
SOCRATE: Dunque, se troviamo delle cose che l’uomo può contemporaneamente avere e
perdere, evidentemente queste non potranno essere il bene e il male. Siamo d’accordo su questo?
Rifletti bene prima di rispondere!
CALLICLE: Sono assolutamente d’accordo.
SOCRATE: Ritorniamo, ora, su quello che prima abbiamo ammesso di comune accordo. L’aver
fame è piacevole o doloroso? Intendo l’avere fame di per sé considerato.
CALLICLE: lo dico che è doloroso. Mentre l’avere fame e mangiare è piacevole.
SOCRATE: Capisco. Ma, allora, l’avere fame, di per sé, è doloroso. O no?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E, dunque, anche l’avere sete?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Ti devo fare ancora ulteriori domande, oppure sei d’accordo che ogni bisogno e
ogni desiderio sono dolorosi?
CALLICLE: Sono d’accordo e non c’è bisogno che tu mi faccia altre domande.
SOCRATE: Ebbene, bere quando si ha sete, affermi tu che sia piacevole?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: Ma questa espressione «quando si ha sete» equivale a quest’altra «quando si ha
dolore».
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E il bere non è la soddisfazione di un bisogno e un piacere?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: Dunque, nel bere tu dici che c’è un piacere?
CALLICLE: Precisamente.
SOCRATE: Però, quando si ha sete.
Platone Gorgia
26
CALLICLE: Sì.
S(X-RATE: E, quindi, quando si ha dolore?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: E ti accorgi della conseguenza che ne deriva? Quando dici che uno beve avendo
sete, tu dici che prova piacere e dolore insieme. O non avviene questo, insieme, nello stesso
tempo e nello stesso luogo dell’anima o del corpo? Non credo, infatti, che ci sia alcuna
differenza. È così o no?
CALLICLE: È così.
SOCRATE: Però tu dici che è impossibile [pag. 497] che uno stia bene e stia male a un tempo.
CALLICLE: Sì. Lo dico.
SOCRATE: E, invece, hai ammesso che è possibile che uno provi piacere essendo sofferente.
CALLICLE: Pare.
SOCRATE: Dunque, il godere non è stare bene né il soffrire è stare male, di modo che il piacere
è diverso dal bene.
CALLICLE: Non capisco queste tue sottigliezze, Socrate.
SOCRATE: Le capisci, Callicle, ma fai finta di non capire. Procediamo ulteriormente, in modo
che possa sapere quanto sei saggio nell’ammonirmi. Ciascuno di noi, quando beve, non cessa
forse d’aver sete e nello stesso tempo di godere?
CALLICLE: Non capisco quello che dici.
GORGIA: Non fare così, Callicle, rispondi, nel nostro interesse, affinché il nostro ragionamento
possa giungere a una conclusione.
CALLICLE: Ma Socrate è sempre così, Gorgia: egli domanda e ribatte sempre su cose da nulla e
che non hanno la minima importanza.
GORGIA: Che te ne importa? Non è certo colpa tua, Callicle. Lascia che Socrate ribatta come
vuole.
CALLICLE: Allora domandami pure queste tue piccolezze, t queste tue meschinità, dal
momento che Gorgia così desidera.
SOCRATE: Sei fortunato, Callicle, perché sei stato iniziato ai grandi misteri, prima che ai
piccoli: io non credevo che fosse possibile. Rispondi dunque dal punto in cui hai interrotto il
discorso: se cioè ciascuno di noi non cessi, a un tempo, di avere sete e di godere.
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: E non cessa, allora, a un tempo, anche dall’avere fame e dagli altri desideri e
piaceri?
CALLICLE: È così.
Platone Gorgia
27
SOCRATE: E allora non cessa, insieme, dai piaceri e dai dolori?
CALLICLE: Sì.
SOCRATE: Però non cessa, insieme, dai beni e dai mali, come tu hai ammesso. Non lo ammetti
più ora?
CALLICLE: Sì. E allora?
SOCRATE: Allora non sono più, caro, la medesima cosa i beni e i piaceri e neppure i mali e i
dolori. Infatti piaceri e dolori cessano nello stesso momento; i beni e i mali, invece, no, perché
sono appunto diversi. E come potrebbero essere la stessa cosa i piaceri e i beni e i dolori e i
mali?
28
Platone (c. 428-347 a.C.)
Filebo
traduzione A. Zadro
[Stephanus vol II, p. 31]
L’origine fisiologica del piacere
SOCRATE: Dopo di ciò allora noi dobbiamo vedere dove risieda ciascuno di essi due [sc.
piacere e dolore] e, quando si generano, per quale affezione si generino. Prima il piacere: così
come per primo abbiamo vagliato il genere al quale il piacere appartiene diamo ancora la
precedenza al piacere in questa ricerca. Io penso d’altra parte cheo noi non potremmo condurre
un esame soddisfacente sul piacere prescindendo dal dolore.
PROTARCO: Se dunque bisogna passare di qui, passiamoci senz’altro.
SOCRATE: E tu sei del mio stesso parere sull’origine di questi due, piacere e dolore?
PROTARCO: Quale parere?
SOCRATE: A me pare che secondo natura l’origine del dolore e insieme anche quella del
piacere appartengano al genere della congiunzione.
PROTARCO: Caro Socrato, richiama un po’ alla nostra memoria quale mai delle cose di cui s’è
parlato prima tu vuoi indicare con il termine ‘congiunzione’.
SOCRATE: Ciò sarà fatto nei limiti delle mie possibilità, straordinario amico.
PROTARCO: Dici bene.
SOCRATE: Noi dunque dobbiamo intendere per genere della congiunzione quel genere che
ponevamo terzo dei quattro.
PROTARCO: Quello che nominavi dopo l’infinito e il finito, quello in cui ponevi anche la salute
e mi pare anche l’armonia?
SOCRATE: Benissimo. Ed ormai prestami attenzione quanto più ti è possibile.
PROTARCO: Non hai che a parlare.
SOCRATE Io dico dunque cito quando si dissolve l’armonia ch’è in noi, negli animali viventi,
subito allora, proprio nello stesso momento, si dissolve l’organisino naturale ed hanno la loro
origine i dolori.
PROTARCO. Quanto dici è del tutto verosimile.
SOCRATE: E invece quando l’armonia si ricompone e ritorna al suo ordine naturale, noi
dobbiamo dire che è allora che nasce il piacere; diremo cosi, se è lecito in breve e
rapidissimamente trattare di cose di importanza grandissima.
Platone Filebo
29
PROTARCO. lo penso che tu hai ragione, Socrate, ma proviamo ad enunciare queste stesso cose
in modo ancora più chiaro.
SOCRATE: Non è più facile assolutamente comprendere ciò che in qualche modo è di pubblico
dominio e di comune evidenza?
PROTARCO. Che cosa, cioè?
SOCRATE. La fame non è forse dissoluzione di noi stessi e dolore?
PROTARCO. Certo.
SOCRATE: E il mangiare, poiché è un ritorno alla completezza, non è piacere?
PROTARCO. Sì.
SOCRATE: Anche la sete d’altra parte è similmente dissoluzione e dolore, ed è invece piacere la
potenza dell’umido in quanto ridà completezza a ciò che s’era disseccato. [pag. 32] E ancora
quella disgregazione e dissoluzione contro natura che è causata dal calore è dolore, invece è
piacere la restituzione allo stato naturale ed il raffreddamento in tal caso.
PROTARCO. Senza alcun dubbio.
SOCRATE: E dolore è il congelamento innaturale dell’umidità animale causato dal freddo,
mentre è piacere il processo opposto verso il normale stato di natura, processo che avviene
quando si scioglie ciò che era congelato e torna al medesimo stato primitivo. E in una parola vedi
tu se ti par giusto dire che per quella specie dei genere misto cui appartiene ciò che nasce
animato dalla congiunzione secondo natura di infinito e finito, così dicevo anche prima, per essa,
quando si corrompe la corruzione è dolore, mentre il processo che la riporta al suo essere, questo
ritorno, è per tutti piacere.
PROTARCO: Sia così. Mi pare infatti che questo discorso può valere almeno come una
delineazione generale della cosa.
SOCRATE. Dobbiamo porre allora un’unica specie di piacere e un’unica specie di dolore in
relazione all’una ed all’altra delle suddette affezioni?
PROTARCO. Sì, così.
--––ooOoo––--
[Stephanus p. 42]
Il corpo non è mai in uno stato neutro
SOCRATE: Si è in qualche modo più volto detto che i dolori, le sofferenze, le pene, tutto ciò che
si comprende sotto simili denominazioni, avvengono a causa di una corruzione della natura di
Platone Filebo
30
ciascuno, sia per associazione che per dissoluzione, per pienezza e per difetto, per certi
accrescimenti e certe diminuzioni.
PROTARCO: È vero, ciò è stato detto più volte.
SOCRATE. Quando invece d’altra parte ciascuno si ricostituisce entro i limiti segnati dalla sua
natura, questo ricostituirsi abbiamo ammesso da parte nostra elle è il piacere.
PROTARCO. Giusto.
SOCRATE: Che avviene allora quando nel nostro corpo non si verifica nessuna di queste due
condizioni?
PROTARCO. E potrebbe mai accadere ciò, Socrate?
SOCRATE. Protarco, la domanda che tu ora hai fatto non ha nessun senso per il nostro discorso.
PROTARCO. E perché?
SOCRATE. Perché non impedisci che io interroghi te di nuovo con la mia interrogazione.
PROTARCO. Quale?
SOCRATE. Io dirò: ‘Protarco, se dunque non accadesse ciò di cui parlavo, quale mai ne sarebbe
la conseguenza necessaria per noi?’
PROTARCO. Volevi dire che il corpo non si muove in nessuno dei due sensi?
SOCRATE: Appunto.
PROTARCO: Allora è chiaro, Socrate, almeno questo, che né da esso nascerebbe, piacere mai e
neppure un dolore qualsiasi.
[pag. 43] SOCRATE: Hai risposto benissimo. Ala lo credo tu voglia dire che sempre una
qualsiasi di quelle due condizioni necessariamente si verifica in noi, come dicono i sapienti; tutte
le cose infatti sempre scorrono dall’alto in basso e viceversa.
PROTARCO: Dicono così infatti e mi pare almeno che non dicano cosa stolta.
SOCRATE:. E come potrebbero dire cosa stolta se stolti almeno non sono? E infatti voglio
ritirarmi di fronte a questo discorso che ci assale. Ora io penso di fuggire di qui, e fuggi tu pure
con me.
PROTARCO: Dimmi per dove.
SOCRATE. Diciamo allora a questi sapienti: ‘Stiano queste cose come dite voi’. Tu rispondi a
me se tutto le cose sempre, tutto le cose che subisce uno qualsiasi degli esseri animati, tutte le
sente chi le subisce in modo che a noi non sfugge né il nostro crescere né per nulla alcun altro
fatto simile di cui siamo oggetto, o se è vero tutto l’opposto.
PROTARCO: È vero senza dubbio tutto l’opposto. Quasi tutte almeno questo cose infatti
sfuggono a noi.
Platone Filebo
31
SOCRATE: Allora noi non abbiamo detto bene ciò che dicemmo poco fa, che i mutamenti che
avvengono all’insù e all’ingiù producono dolori e piaceri.
PROTARCO. Certo.
SOCRATE. Sarà dunque cosa migliore e più resistente ad ogni attacco dire così.
PROTARCO. Come?
SOCRATE: Che i grandi movimenti di trasformazione producono in noi dolori e piaceri, quelli
d’altra parte moderati e piccoli invece non fanno né l’una né l’altra di questo cose,
assolutamente.
PROTARCO: Questo è più giusto di quell’altro discorso, Socrate.
Il piacere non è cessazione di dolore
SOCRATE. Se le cose stanno così allora, ritornerà davanti a uni la vita di cui prima parlammo.
PROTARCO. Quale?
SOCRATE. Quella elle dicemmo essere senza dolore e scalza diletti.
PROTARCO. Verissimo.
SOCRATE: Da tutto ciò dunque poniamo tre tipi di vita possibili a noi, uno piacevole, uno
doloroso, uno né piai cevole né doloroso. Oppure come diresti tu sa ciò?
PROTARCO: Non diversamente da così, direi io almeno; sono tre i tipi di vita.
SOCRATE: Ma non sarà certo cosa identica al godimento il non aver mai dolore, non è vero?
PROTARCO. E come potrebbe infatti?
SOCRATE: E così quando tu senti dire che cosa sommamente piacevole sopra tutte è condurre
sempre una vita priva di dolori, che cosa pensi tu allora che voglia dire chi dice così?
PROTARCO. Chi parla cosI mi pare almeno che intenda per piacere il non aver dolore.
SOCRATE. E allora supponiamo di avere tre cose, quelle che vuoi, e poni (per usare nomi più
belli) che la prima sia oro, la seconda argento, la terza sia ciò che non è né l’uno né l’altro di
questi due.
PROTARCO. Sta bene.
SOCRATE. Quella dunque che non è né l’uno né l’altro di quei due è possibile che ci risulti
l’uno o l’altro dei due, oro o argento cioè?
PROTARCO. E come?
SOCRATE. Neppure quindi la vita intermedia sarebbe oggetto di un discorso giusto se fosse
detta piacevole o dolorosa né mai opinerebbe bene uno se opinasse così e neppure direbbe
correttamente se così dicesse, almeno secondo quanto vuole il discorso corretto.
PROTARCO. E Come infatti?
Platone Filebo
32
[pag. 44] SOCRATE: Però, amico mio, noi abbiamo esperienza di gente che dice e opina così.
PROTARCO. È proprio vero.
SOCRATE: Ma ritengono essi anche di godere quando non soffrono.
PROTARCO. Lo dicono, almeno.
SOCRATE. E allora pensano di godere in tale circostanza; infatti non lo direbbero, penso.
PROTARCO. Può darsi.
SOCRATE. E certo essi opinano il falso in relazione al godere, se è vero che è reciprocamente
indipendente la natura di ciascuno dei due, dico del non soffrire e del godere.
PROTARCO: Ed è vero che sono indipendenti, così noi abbiamo ormai già affermato.
SOCRATE. Dobbiamo scegliere allora di dire che per noi vi sono tre condizioni di vita possibili,
come prima dicemmo, oppure solo due, il dolore che è un male per gli uomini e la liberazione
dal dolore, che come tale è un bene, e dobbiarno questa chiamarla piacere?
33
Le analogie tra stato e anima in Platone (Repubblica VIII)
Componente dell’essere umano(l’animale triplice: 588Bss.)
Parte dell’anima Classe sociale al potere
Tipo di stato
‘L’uomo interiore’ ragione (logistikovn)
custodi/guardiani1 (fuvlakoi, filovsofoi)
aristocrazia2
Il leone emulazione, bramosia, coraggio (qu~mo", filoneikiva)
soldati3 cretese/spartano4
timocrazia5
oligarchia6
La bestia multiforme appetito (ejpiqu~miva)
artigiani7 democrazia8
tirannia9
1 La classe la cui educazione è oggetto principale dei libri centrali della Repubblica (III-VII). 2 Questa è, secondo Platone, la società giusta in cui le persone più adatte ai compiti di
proteggere il bene di tutti hanno quel ruolo. 3 Nelle forme corrotte, la casta militare diventano come cortegiani (i ‘bravi’ di manzoniana
memoria) e, poi, come dei mafiosi. 4 In cui l’onore e il coraggio marziale sono i valori più alti (545-6). 5 In cui i cittadini concorrono per eccellere nella stima degli altri (546-8). 6 In cui i cittadini concorrono per eccellere nel possesso dei soldi e nella liberalità (550-5). 7 Secondo Platone (370-1), questa classe si suddivide ulteriormente in artigiani, contadini e
mercanti, e poi a secondo i vari tipi di lavoro in cui si specializzano per fornire i vari beni materiali di cui la società ha bisogno; nello schema rappresentano la scelta di chiunque per posizioni di potere a prescindere dalla loro preparazione o prontezza per il ruolo (‘qualunquismo’).
8 In cui i cittadini non sanno cosa fare con una sfrenata libertà (557-8); è la forma più variegata di declinazioni dallo stato ideale (557), in cui prevalgono i desideri irreali e non-necessari (558-9); tra gli esiti della democrazia è l’anarchia, che Platone nega sia uno stato politico (562-3)
9 In cui il popolo è simultaneamente vittima ed artefice (568-9) di uno stato di disordine sempre crescente e fuori controllo di sospetti e incertezza (565-7); la descrizione dell’uomo tirannico continua anche nella prima metà del libro IX.
34
Aristotele (384-322 a.C)
Il movimento degli animali (traduzione Richard Davies)
[Bekker pag.700b]
Capitolo vi
Abbiamo già discusso nella nostra opera sull’anima se l’anima viene mossa e, se lo è, come
viene mossa. Poiché tutte le cose senza vita vengono mosse da altro, e visto che abbiamo
spiegato nella nostra opera sulla prima filosofia come il primo ed eterno motore viene mosso e
come il primo motore impartisce movimento, dobbiamo ora indagare come l’anima muove il
corpo e l’origine del movimento degli animali. Perché, escludendo il movimento dell’universo,
le creature viventi sono responsabili del movimento di tutte le altre cose, tranne quelle che
vengono mosse dall’impatto tra di loro. Perciò tutti i loro movimento hanno un limite, e lo hanno
anche i movimenti delle creature viventi. Dunque tutti gli animali sia impartiscono movimento
sia vengono mossi in vista di qualcosa ed è questo il limite del loro movimento: la cosa in-vista-
di-cui.
Ora vediamo che i motori degli animali sono ragionamento e fantasia e scelta e desiderio e
appetito. E tutti questi si riducono a pensiero e desiderio. Perché sia fantasia che percezione
occupano lo stesso posto del pensiero, in quanto vertono sul distinguere una cosa dall’altra –
anche se sono diversi in modi che abbiamo spiegato altrove. Voglia, spirito e appetito sono tutti
desiderio, e scelta partecipa non solo di desiderio ma anche di pensiero. In questo modo, il primo
motore è l’oggetto del desiderio e anche del pensiero; comunque, non tutti gli oggetti del
pensiero, ma il fine nella sfera delle cose fattibili. Quindi è un bene di questo genere che
impartisce movimento, non tutte le cose nobili. Perché, nella misura in cui una cosa viene fatta
per questo e nella misura in cui è un fine delle cose che sono fatte in vista di altro, in quella
misura questo impartisce movimento. E dobbiamo supporre che un bene apparente conti come
un bene, e così anche il piacevole in quanto bene apparente.
È dunque chiaro che il movimento dell’eternamente mosso ad opera dell’eterno motore è in un
senso simile a quello di qualsiasi animale, ma in un altro senso è diverso, in quanto il primo è
mosso eternamente mentre quello degli animali ha un limite. Ma l’eternamente nobile e ciò che è
veramente e in senso primario bene, e non solo bene in un momento e non in un altro, è troppo
divino e troppo alto per essere relativo ad altro. Il primo motore, allora, impartisce moviemento
senza venire mosso, e desiderio e la facoltà desiderante impartiscono movimento nello stesso
tempo di essere mossi. [pag. 701a] Ma non è necessario per l’ultima delle cose che vengono
Aristotele, Movimento degli animali
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mosse di muovere altro. E da qui è anche ovvio che il movimento locale è l’ultimo dei
movimenti nelle cose soggette al cambiamento. Perché l’animale si muove e progredisce in forza
del desiderio o della scelta, quando avviene qualche alterazione per quanto riguarda la
percezione o la fantasia
Capitolo vii
Ma come può succedere che talvolta il pensiero viene accompagnato dall’azione e talvolta no,
talvolta dal movimento e talvolta no? Sembra che la stessa cosa avvenga quando ragioniamo o
desumiamo intorno agli oggetti eterni; ma in quel caso, il fine è una proposizione speculativa
(perché quando pensiamo alle due premesse, pensiamo e mettiamo insieme la conclusione); però
qui la conclusione che segue dalle premesse è l’azione.
Ad esempio, se qualcuno pensa che tutti gli uomini debbano fare una passeggiata, e che lui
stesso sia un uomo, subito va a fare una passeggiata. O se pensa che nessun uomo debba fare una
passeggiata, e che lui stesso sia un uomo, subito resta fermo. E fa entrambe queste cose se niente
lo costringe e niente lo impedisce. Devo fare una cosa buona, una casa è una cosa buona. Subito
fa una casa. Ho bisogno di una copertura; un mantello è una copertura; ho bisogno di un
mantello. Ciò di cui ho bisogno devo farlo; ho bisogno di un mantello; devo fare un mantello. E
la conclusione ‘devo fare un mantello’ è un’azione. L’uomo agisce a partire da un punto di
partenza. Se ci sarà un mantello, deve necessariamente esserci prima questo, e se questo, quello.
E subito fa quello. Ora è ovvio che la conclusione è un’azione. E, per quanto riguarda le
premesse dell’azione, esse sono di due tipi: rispetto al bene e rispetto al possibile.
Ma, come talvolta avviene quando facciamo domande dialettiche, così anche qui la ragione
non si ferma a considerare la seconda delle due premesse, quella ovvia. Ad esempio, se fare
passeggiate fa bene all’uomo, egli non spreca tempo a considerare il proprio essere un uomo.
Perciò tutto ciò che facciamo senza calcolare, lo facciamo velocemente. Perché se una creatura
sta effettivamente utilizzando la percezione o la fantasia o il pensiero riguardo alla cosa in-vista-
di-cui, fa senz’altro ciò che desidera. Perché l’attività del desiderio sostituisce il porsi domande e
il ragionamento. ‘Devo bere’ dice l’appetito. ‘Ecco da bere’ dice la percezione o fantasia o
pensiero. E subito beve.
È così, allora, che gli animali vengono mossi e fatti agire: la ragione prossima del movimento
è il desiderio e questo avviene o attraverso la percezione o attraverso fantasia e pensiero. Con le
creature che desiderano agire, è talvolta dall’appetito o dallo spirito e talvolta dalla voglia che
fanno o agiscono.
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Aristotele di Stagira (384-322 a.C)
Etica nicomachea
Per motivi di copyright, il presente testo è desunto dalle diverse traduzioni di A. Plebe (Laterza, 1957), di M. Zanatta (Rizzoli, 1986) e di C. Mazzarelli (Bompiani, 2000). I rimandi alla paginazione Bekker (Berlino, 1831), inseriti in neretto nel testo, sono quelli adottati da tutta la critica moderna. La suddivisione in capitoli e i loro titoli, nonché i sommari delle parti non riportate, sono in corsivo tra parentesi e basati su quelli di Ross (Oxford, 1925).
LIBRO PRIMO: IL BENE PER L’UOMO
[Bekker pag. 1094a]
A. L’argomento della nostra indagine
Captolo i. (Tutte le attività umane mirano a qualche bene; alcuni beni sono subordinati ad altri)
Ogni arte e ogni ricerca, e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche
bene; perciò a ragione definirono il bene: ciò a cui ogni cosa tende. Tuttavia sembra esservi una
differenza tra i fini: talora infatti essi sono attività, talora invece, oltre ad esse, opere definite.
Quando vi sono dei fini definiti nelle azioni, allora le opere sono più importanti delle attività.
E poiché vi sono molte azioni e arti e scienze, vi sono anche molti fini: infatti il fine della
medicina è la salute, quello della costruzione navale il navigare, quello della strategia la vittoria,
quello dell’economia la ricchezza.
Quante ve ne son di tal genere, tutte sono subordinate ad una sola capacità: come la
fabbricazione delle briglie all’ippica e cosi pure tutto ciò che concerne l’equipaggiamento del
cavaliere; la stessa azione militare è subordinata alla strategia; e nello stesso modo le altre sono
rispettivamente subordinate ad un’altra capacità.
Ma, in tutte, i fini delle scienze architettoniche sono più importanti dei fini di quelle
subordinate. Infatti solo in funzione di quelli si seguono anche questi. Non ha alcuna importanza
poi che i fini delle azioni siano le stesse attivitá oppure qualcosa d’altro oltre a esse, come nelle
scienze suddette.
Capitolo ii (La scienza del bene per l’uomo è la politica)
Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li
vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola
(così infatti s’andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota e inutile), in tal
Aristotele, Etica nicomachea I
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caso è chiaro che questo dev’essere il bene e il bene supremo. E non è forse vero che per la vita
la conoscenza del bene ha una grande importanza e che possedendola, come gli arcieri che sanno
il loro scopo, meglio possiamo scoprire ciò che si deve?
Se è così, occorre cercare di precisare anche sommariamente che cosa mai esso sia e a quale
delle scienze o delle capacità appartenga. Sembrerebbe che debba appartenere alla più
importante e alla più architettoníca. Questa sembra essere la politica. Essa determina quali
scienze sono necessarie nelle città [pag. 1094b] e quali ciascuno deve apprendere e fino a che
punto. Vediamo infatti che anche le scienze più onorate si trovano sotto di essa, come la
strategia, l’economia e la retorica. Dal momento che essa si serve delle altre scienze pratiche, e
inoltre stabilisce che cosa bisogna fare e che cosa evitare, il suo fine potrebbe comprendere
quello delle altre, cosicché esso sarebbe il bene umano. Se infatti identico è il bene per il singolo
e per la città, sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere quello della città; certo
esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se
riguarda un popolo e le città.
B. La natura della scienza di cui si tratta
Capitolo iii (Due limiti metodologici: la politica non ammette di un alto grado di precisione; e
lo studente deve aver raggiunto una certa esperienza del mondo)
A queste cose mira dunque il nostro trattato, che è un trattato di politica; sarà sufficiente che esso
tratti chiaramente intorno alla materia proposta. Infatti non bisogna cercare in tutti i trattati una
egual precisione come neppure nelle professioni manuali. Infatti il bello e il giusto, a cui si
rivolge la scienza politica, presentano tali divergenze e possibilità d’errore che sembrano esser
solo in virtù della legge, non per natura. Una tale possibilità d’errore posseggono anche i
differenti beni per il fatto che a molte persone derivano danni da essi: infatti alcuni furono
rovinati per la ricchezza, altri per il coraggio.
Ci si deve accontentare quindi che coloro che parlano di queste cose e da esse argomentano
mostrino la verità in maniera sommaria e approssimativa, e che quelli che parlano di cose
generali e da esse argomentano ne traggano conclusioni pure generali. Allo stesso procedimento
occorre che si attenga anche ciascuna delle cose che diciamo; infatti è proprio dell’uomo colto
richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza, quanta ne permette la natura
dell’argomento: e sarebbe lo stesso lodare un matematico perché è persuasivo e richiedere
dall’oratore delle dimostrazioni.
[pag. 1095a] Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di ciò che conosce è quindi buon
giudice. Nelle questioni particolari dunque giudica bene chi è competente in esse, in quelle
Aristotele, Etica nicomachea I
38
generali chi ha una cultura generale. Perciò della scienza politica il giovane non è un discepolo
adatto; giacché egli è inesperto della vita pratica, mentre la nostra ricerca muove da essa e tratta
di essa. Inoltre, essendo incline alle passioni, ascolterà invano e inutilmente, poiché lo scopo
della politica non è la teoria ma l’azione. Non v’è alcuna differenza s’egli è giovane di età
oppure di carattere; poiché questa mancanza non dipende dal tempo, ma dal vivere seguendo le
passioni e dal seguire ciascuna di esse. Per tali persone la conoscenza è inutile, come pure a chi è
intemperante; per coloro invece che regolano i loro desideri e le loro azioni razionalmente, la
conoscenza di questi argomenti sarebbe assai giovevole.
C. Qual’ è il bene per l’uomo?
Capitolo iv (Anche se si concorda che la felicità sia il bene, ci sono divergenze sulla sua natura.
Ciò che ci vuole è un punto di partenza basato sull’educazione)
Per quanto dunque riguarda l’ascoltatore, il come intendiamo dimostrare e che cosa ci
proponiamo, basti ciò che s’è detto; riprendiamo invece la questione, poiché ogni conoscenza e
ogni decisione mira a un qualche bene, quale sia il fine che stabiliamo che la politica debba
seguire e quale il sommo dei beni nell’azione.
Quanto al nome d’esso, la maggior parte è pressoché d’accordo: felicità lo chiamano sia la
moltitudine sia le persone raffinate, le quali suppongono che l’esser felici consista nel viver bene
e nell’aver successo: ma intorno all’essenza della felicità, sono in discordia e qui la moltitudine
giudica non nella stessa maniera che i saggi. Gli uni la ritengono una cosa visibile e che appaia
esteriormente, come il piacere o la ricchezza o l’onore, altri un’altra cosa, e spesso anche la
stessa persona ritiene che sia ora una cosa ora un’altra (ad esempio quand’è malato la salute,
quand’è povero la ricchezza), chi invece è conscio della propria ignoranza ascolta con meraviglia
chi dice tali cose grandi e superiori a lui; alcuni invece pensano che accanto a questi molti beni
ve ne sia uno che esiste per sé, il quale è pure per tutti i beni la causa stessa che li fa esser beni.
Esaminare dunque tutte queste opinioni sarebbe evidentemente piuttosto inutile, sarà invece
sufficiente studiare quelle che più di tutte son diffuse o sembrano aver qualche fondamento
razionale. Non ci sfugga la differenza tra i ragionamenti che muovono dai princìpi e quelli
invece che ai princìpi risalgono. Anche Platone fu in imbarazzo su questa questione, e
giustamente, e cercava di stabilire se la via da seguire fosse il muovere dai princìpi, oppure il
giungere ad essi, come nello stadio se si corra dai seggi dei giudici di gara alla meta oppure
viceversa.
[pag. 1095b] Bisogna certamente cominciare dalle cose conosciute: queste possono esserlo in
due modi: ciò che è noto a noi e ciò che è noto in generale. Cominceremo dunque dalle cose note
Aristotele, Etica nicomachea I
39
a noi. Perciò occorre possedere già una buona formazione morale se si vuol ascoltare con profitto
intorno al bello, al giusto, insomma alla politica. (Giacché si parte dal fatto: e se questo appare
sufficientemente spiegato, non avremo più bisogno del perché.) Chi è già così educato, o
possiede già i principi o li può acquistare facilmente. Chi invece non ha alcuna di queste doti
ascolti le parole di Esiodo:
Di tutti è il migliore chi tutto sappia,
buono è pur quello che ascolta il maestro
ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro
sa accogliere, è un buono a nulla
Capitolo v (Discussione delle opinioni popolari secondo cui il bene sia identico al piacere,
all’onore o alla ricchezza; un quarto tipo di vita, quello della contemplazione, sarà
discusso nel libro X)
Discutiamo dunque la questione donde siamo partiti. Non a torto gli uomini sembrano concepire
il bene e la felicità a seconda del loro genere di vita. La massa e le persone più rozze li trovano
nel piacere: perciò essi prediligono una vita di godimento.
Tre infatti sono i generi di vita più notevoli: quello suddetto, quello che mira alla vita politica,
infine quello contemplativo. I più evidentemente appaiono simili agli schiavi, scegliendosi
un’esistenza degna delle bestie, e trovano una giustificazione nel fatto che molte persone potenti
hanno gli stessi gusti di un Sardanapalo.
Le persone evolute e attive ripongono invece il bene nell’onore. Questo infatti è all’incirca il
fine della vita politica. Ma questo fine sembra esser cosa più superficiale di quel che cerchiamo.
Esso infatti sembra dipendere più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato: noi invece
riteniamo che il bene sia qualcosa di individuale e di inalienabile. Inoltre gli uomini sembrano
ricercare l’onore per convincersi di essere buoni: essi infatti aspirano a essere onorati da chi è
assennato, e da chi li conosce, e riguardo alla loro virtù; è evidente dunque che, almeno di fronte
a queste persone, la virtù è un bene superiore. Senz’altro si potrebbe dunque ritenere che essa sia
il fine della vita politica. Ma anch’essa risulta insufficiente: sembra infatti potersi dare il caso
che uno, pur possedendo la virtù, dorma e resti inattivo nel corso della a sua vita, [pag. 1096a] e
che inoltre sopporti nella più gran misura mali e sfortune; ma una persona che vive in tal
maniera, nessuno la riterrebbe felice, se non per amore di tesi. E intorno a quest’argomento basti
ciò (infatti a sufficienza parlai di queste cose nei libri per il grande pubblico).
Il terzo genere di vita è quello contemplativo, intorno al quale dirigeremo la nostra indagine
nelle pagine seguenti. La vita invece dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è
Aristotele, Etica nicomachea I
40
evidente che la ricchezza non è il bene che ricerchiamo; infatti essa è solo in vista del guadagno
ed è un mezzo per qualcosa d altro. Tanto più dunque si dovrebbero preferire i fini prima
elencati: essi infatti sono desiderati di per se stessi. Ma o è evidente che neppure quelli son
sufficienti: benché molte teorie sian già state esposte su di essi.
Capitolo vi (Discussione dell’opinione platonica dell’Idea del Bene)
Capitolo vii (Il bene deve essere finale e autosufficiente. Definizione della felicità basata sulla
funzione caratteristica dell’uomo)
Capitolo viii (Questa definizione è confermata dalle opinioni popolare)
Capitolo ix (Come si acquisisce la felicità: mediante lo studio o per consuetudine; è un dono
divino o un prodotto del caso?)
Capitolo x (Si può chiamare un uomo felice mentre è ancora in vita?)
Capitolo xi (Può la fortuna dei viventi influire quella dei morti?)
[Bekker pag. 1101b]
Capitolo xii (La virtù è lodata, ma la felicità è al di sopra delle lodi)
Definito questo, volgiamoci ad esaminare, a proposito della felicità, se essa appartenga alle cose
che sono degne di lode o piuttosto a quelle che meritano onore, poiché è evidente che non rientra
certo tra le semplici potenzialità.
Ogni cosa degna di lode, manfestamente, viene lodata per il fatto di avere una certa qualità o
per essere in un determinato rapporto con qualcosa. Infatti noi lodiamo l’uomo giusto, il
coraggioso e, in generale, l’uomo buono e la virtù per le azioni e le opere, mentre lodiamo
l’uomo forte, il corridore, e così via, per il fatto che per natura possiedono una certa qualità e
perché sono in un determinato rapporto con qualcosa che è buono e di valore. Questo risulta
chiaro anche delle lodi rivolte agli dèi: esse infatti si rivelano ridicole perché si determinano in
rapporto a noi uomini, e questo succede per il fatto che le lodi si basano su un rapporto con
qualcos’altro, come abbiamo detto. Se la lode si riferisce a ciò che è relativo, è chiaro che dei
beni assoluti non vi può essere lode, ma qualcosa di più grande e migliore, come anche risulta
con evidenza: infatti ciò che facciamo è di proclamare beati e felici gli dèi ed i più simili agli dèi
tra gli uomini.
Lo stesso vale per i beni: nessuno infatti loda la felicità come la giustizia, ma lo proclama
beata, in quanto è qualcosa di più divino e più nobile. Anche Eudosso, sembra, ha ragionato bene
in difesa del primo premio da assegnarsi al piacere: egli pensava che il fatto che esso non viene
Aristotele, Etica nicomachea I
41
lodato, pur essendo uno dei beni, significa che è superiore a ciò che è degno meramente di lode,
e che tali sono il divino e il bene, giacché è a loro che vengono rapportate tutte le altre cose.
La lode, infatti, spetta alla virtù, giacché è da essa che riceviamo la capacità di compiere le
azioni moralmente belle; gli encomi invece sono appropriati alle opere, sia del corpo sia
dell’anima, ugualmente. Ma distinguere con precisione questi generi è certo più tipico di coloro
che si occupano di encomi; per noi è chiaro da quanto si è detto [pag. 1102a] che la felicità
rientra tra le cose degne di onore e perfette. Sembra che sia così anche per il fatto che essa è un
principio; è in vista di essa, infatti, che tutti noi facciamo tutto il resto, e il principio e la causa
dei beni noi riteniamo che sia una cosa degna di onore e divina.
D. Tipi di virtù
Capitolo xiii (La divisione delle facoltà e conseguente distinzione delle virtù etiche e
intellettuali)
Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo perfetta virtù, dobbiamo prendere in esame la
virtù, giacché così, forse, potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda la felicità. Si ritiene
anche, poi, che l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa moltissime delle sue
fatiche: egli infatti vuole rendere i cittadini buoni e ossequienti alle leggi. Come esempio di
uomini politici autentici abbiamo i legislatori di Creta e di Sparta, e quanti altri ce ne possono
essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine è propria della scienza politica, è chiaro che
la ricerca si potrà svolgere conformemente alla nostra intenzione iniziale.
La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché è il bene umano e la
felicità umana che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì
quella dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stanno così, è
chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò che riguarda l’anima, come
anche chi intende curare gli occhi deve conoscere anche tutto il corpo, e tanto più in quanto la
politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti dei medici si danno molto
da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico dunque deve cercar di conoscere l’anima,
e cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misura sufficiente per quello che stiamo
cercando, giacché indagare con maggior precisione è forse fatica sproporzionata a quanto ci
siamo proposti. Si fanno alcune affermazioni sull’anima anche negli scritti essoterici in misura
sufficiente, e possiamo servirci di quelli: per esempio, vi si dice che una parte di essa è
irrazionale, e l’altra è fornita di ragione. Se esse poi siano distinte come le parti del corpo e come
tutto ciò che è divisibile in parti, o se invece le parti sono due solo ideal.mente, mentre per
Aristotele, Etica nicomachea I
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natura sono inseparabili, come nella circonferenza la parte convessa e la parte concava, non fa
differenza per la presente argomentazione.
Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere comune anche ai vegetali (intendo quella
che è causa della nutrizione e dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima [pag. 1102b]
si può ammettere in tutti gli esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal quale, negli esseri
completamente sviluppati: è infatti più probabile che sia la stessa piuttosto che un’altra. Dunque
la virtù di questa facoltà è, manifestamente, una virtù comune, e non propria dell’uomo: si ritiene
infatti che questa parte, cioè questa facoltà, sia attiva soprattutto durante il sonno, e il buono ed il
cattivo si differenziano molto poco nel sonno (ragion per cui dicono che per metà della vita gli
uomini felici non differiscono in nulla dagli infelici; che questo accada è naturale: il sonno è
inattività dell’anima, per quella parte secondo cui essa può dirsi di valore o miserabile), a meno
che, debolmente, pur le giungano alcuni movimenti, e che sia per questo che i sogni degli uomini
per bene sono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e si può
tralasciare la facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna partecipazione alla virtù
umana. Sembra poi che ci sia anche un’altra facoltà naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia
in qualche modo partecipe di ragione. Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia di quello
incontinente, la ragione, cioè la parte razionale dell’anima, giacché è essa che li esorta alle azioni
più nobili. E manifesto poi in essi anche un altro elemento, che, per natura, è estraneo alla
ragione, e combatte e contrasta la ragione. Proprio come le membra paralizzate: quando uno si
propone di muoverle a destra, si volgono, al contrario, a sinistra; così avviene anche per l’anima:
le inclinazioni degli incontinenti, infatti, si volgono in direzioni contrarie. Ma mentre nei corpi
vediamo l’elemento deviante, nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo pensare
che nell’anima ci sia qualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e resiste. In che
senso sia estraneo alla ragione non ha importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa
manifestamente della ragione, come abbiamo detto: nell’uomo continente ubbidisce di certo alla
ragione, e forse è ancor più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso, giacché in essi
tutto è in armonia con la ragione. Dunque, è manifesto che anche l’elemento irrazionale è
duplice. La parte vegetativa non partecipa per niente della ragione, mentre la facoltà del
desiderio e, in generale, degli appetiti, ne partecipa in qualche modo, in quanto le dà ascolto e le
ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo “accettare la ragione” del padre e degli amici,
e non nel senso in cui diciamo “comprendere la ragione” delle dimostrazioni matematiche. E che
l’elemento irrazionale in qualche modo si lasci determinare dalla ragione, lo mostrano gli
ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi di esortazione. [pag. 1103a] Ma se è necessario dire che
anche questo elemento partecipa della ragione, allora anche la parte che possiede la ragione sarà
Aristotele, Etica nicomachea I
43
duplice: l’una la possederà in senso proprio e in se stessa, l’altra nel senso che le dà ascolto come
ad un padre.
Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa divisione dell’anima. Infatti alcune le
chiamiamo virtù dianoetiche altre virtù etiche: dianoetiche sapienza, giudizio e saggezza, etiche
invece liberalità e temperanza. Infatti, quando parliamo del carattere di un uomo non diciamo
che egli è sapiente o giudizioso, ma che è mite o temperante; però lodiamo anche il sapiente per
la sua disposizione: e le disposizioni che meritano lode le chiamiamo virtù.
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LIBRI SECONDO-QUINTO: LE VIRTÙ MORALI
II.i–III.v Quadro generale
Libro II
[Bekker pag. 1103a]
A. La virtù morale, come si produce,
in che materiali e come si esibisce
Capitolo i (Come le arti, si acquisisce tramite la ripetizione degli atti corrispondenti)
Poiché la virtù è di due specie, la virtù dianoetica e la virtù etica, quella dianoetica ha per la
maggior parte’ dall’insegnamento sia la sua origine che il suo potenziamento; per cui ha bisogno
di esperienza e di tempo. La virtù etica nasce invece dall’abitudine, donde ha tratto anche il
nome, per una piccola modificazione da «abitudine» (éthos).
Dal che è pure evidente che nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura. Nessuna infatti
delle cose che esistono per natura riceve un’abitudine in senso diverso: ad esempio la pietra che
per natura si porta verso il basso non riceverà l’abitudine a portarsi verso l’alto, neppure se si
compissero migliaia di tentativi per abituarla, lanciandola in alto; né il fuoco riceverà l’abitudine
a portarsi verso il basso, né nessun’altra delle cose che per natura sono in certo modo riceverà
un’abitudine in senso diverso6. Non è dunque né per natura né contro natura che sorgono le
virtù, ma esse sorgono in noi che per natura siamo atti a riceverle e siamo portati a compimento
in quest’attitudine naturale mediante l’abitudine.
Inoltre di tutt le cose che sopraggiungono in noi per natura, prima portiamo in noi le potenze
ed in un secondo tempo esercitiamo le attività (il che risulta evidente nel caso delle facoltà
sensibili: infatti non è dall’aver visto molte volte o dall’aver ascoltato molte volte che noi
acquistiamo questi sensi, ma all’opposto li usiamo se già li possediamo, e non è perché li
esercitiamo che li possediamo). Invece acquistiamo le virtù se le abbiamo prima esercitate, come
anche nel caso delle altre arti: infatti le cose che non si possono compiere senza averle prima
imparate, queste è col compierle che impariamo: ad esempio si diventa costruttori di case col
costruire case e citaredi col suonare la cetra. Così pertanto è anche compiendo azioni giuste che
diventiamo giusti, e compiendo azioni moderate che diventiamo moderati, ed azioni coraggiose,
coraggiosi.
[pag. 1103b] Lo testimonia anche ciò che avviene nelle città: infatti i legislatori rendono
buoni i cittadini facendo loro acquisire delle abitudini; ed è questo il desiderio di ogni legislatore,
e quelli che non lo realizzano bene falliscono nel loro compito, ed in questo una buona
costituzione si distingue da una costituzione cattiva .
Aristotele, Etica nicomachea II
45
Inoltre dalle medesime azioni e per mezzo delle medesime azioni ogni virtù e nasce e si
corrompe, e parimenti anche ogni arte: infatti è dal suonare la cetra che si diventa e buoni e
cattivi citaredi. Analogo rilievo vale sia per i costruttori di case che per tutti gli altri artigiani:
infatti è dal costruire bene le case che saranno buoni costruttori e dal costruirle male costruttori
cattivi. Ché, se non fosse così, non si avrebbe nessun bisogno di chi insegna, ma tutti sarebbero
dalla nascita buoni o cattivi artigiani.
Così pertanto stanno le cose anche nel caso delle virtù: giacché è compiendo certe azioni nei
rapporti commerciali con gli uomini che diventiamo gli uni giusti, gli altri ingiusti; compiendo
certe azioni nei pericoli ed abituandoci ad avere paura o ad essere intrepidi che diventiamo gli
uni coraggiosi, gli altri vili. E parimenti stanno le cose e per quel che concerne le brame e per
quel che concerne i moti di collera: gli uni infatti diventano moderati e miti, gli altri intemperanti
e collerici: i primi dal comportarsi nelle medesime circostanze in questo determinato modo, i
secondi dal comportarsi in quest’altro.
Insomma, in una parola, le disposizioni nascono dalle attività che sono loro simili. Per questo
le attività che si esercitano devono essere di una certa qualità’: perché conformemente alle
differenze di queste attività seguono le disposizioni. Quindi non è di poca importanza contrarre
questa o quella abitudine subito fin da giovani, ma è d’importanza capitale, o -meglio - è il punto
decisivo.
Capitolo ii (Non si possono prescrivere esattamente quali siano questi atti, ma bisogna evitare
eccesso e difetto)
Poiché dunque il presente studio non ha per fine una conoscenza pura come gli altri (infatti non
intraprendiamo questa ricerca per conoscere che cos’è la virtù, ma per diventare buoni, giacché
altrimenti nulla sarebbe la sua utilità), è necessario esaminare ciò che concerne le azioni per
sapere come bisogna compierle. Esse infatti costituiscono l’elemento da cui dipende anche il
fatto che le disposizioni siano di una certa qualità, come abbiamo detto.
Ora, il principio «agire secondo la retta regola» è un principio riconosciuto valido, e sia il
punto di partenza della nostra trattazione - si dirà in seguito di esso, e che cos’è la retta regola e
come si rapporta alle altre virtù.
Prima però ci si accordi su questo punto, che tutta la trattazione, la quale verte intorno alle
azioni che bisogna compiere [pag. 1104a], dev’essere condotta per linee generali e senza entrare
nei dettagli, come anche all’inizio abbiamo detto che è in modo conforme alla materia che
devono richiedersi le argomentazioni. E nel campo delle azioni e dell’utile non vi è nulla di
stabile, come non ve n’è neppure in materia di salute.
Aristotele, Etica nicomachea II
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Ma se di questa natura è la trattazione generale, a maggior ragione non possiede la minuzia
dei dettagli la trattazione che ha per oggetto le diverse specie di casi particolari: giacché essi non
cadono sotto nessun’arte né sotto nessuna regola professionale, ma è necessario che siano
sempre quelli stessi che agiscono a scorgere le cose che la circostanza richiede, come avviene
anche nel caso della medicina e dell’arte del pilotare la nave
Ma tuttavia, pur essendo questa la natura della presente trattazione, bisogna sforzarsi di
apportare qualche risultato utile.
Anzitutto bisogna dunque considerare che le cose di questo genere sono per loro natura
rovinate dal difetto e dall’eccesso (infatti intorno agli argomenti che sono oscuri si devono usare
prove che siano manifeste), come vediamo nel caso del vigore fisico e della salute. Infatti gli
esercizi ginnici eccessivi e gli esercizi ginnici scarsi rovinano il vigore fisico, e similmente anche
le bevande ed i cibi che sono sovrabbondanti ed insufficienti rovinano la salute, mentre quelli
dosati in quantità giusta e la producono e l’aumentano e la conservano. Così dunque stanno le
cose anche nel caso della moderazione e del coraggio e delle altre virtù. Infatti come chi fugge
ogni cosa ed ha paura di tutto e non affronta niente a piè fermo diviene vile, chi invece non teme
assolutamente nulla ma va incontro ad ogni cosa diviene temerario; e parimenti anche chi trae
godimento da ogni piacere e non si astiene da nessuno diventa incontinente; chi invece rifugge
da tutti, come le persone rozze, diventa un insensibile. Pertanto la moderazione ed il coraggio
sono rovinate dall’eccesso e dal difetto, mentre sono salvaguardate dalla via di mezzo.
Ma non soltanto l’origine e l’aumento <delle virtù> derivano dalle stesse azioni e sono opera
delle stesse azioni dalle quali deriva ed opera delle quali è pure la loro dissoluzione; ma anche le
loro attività si dispiegheranno nelle medesime azioni. Infatti avviene così anche nel caso delle
altre disposizioni più manifeste delle virtù: ad esempio nel caso del vigore fisico. Esso deriva
infatti dal prendere abbondante nutrimento e dal sopportare molte fatiche, e chi è forte sarà
massimamente in grado di fare queste cose. La situazione è la stessa anche nel caso delle virtù.
Infatti è dall’astenerci dai piaceri che diventiamo moderati e, una volta diventati, siamo
massimamente capaci di astenerci da essi. [pag. 1104b] Similmente è anche nel caso del
coraggio: abituandoci infatti a disprezzare le cose temibili e a far loro fronte diventiamo
coraggiosi e, quando lo siamo diventati, saremo massimamente capaci di far fronte alle cose
temibili.
Capitolo iii (Il piacere di agire in modo virtuoso è segno della disposizione acquisita; ci sono
molti motivi per associare dolore e piacere con la virtù morale)
Come segno delle disposizioni morali dobbiamo assumere il piacere e il dolore per le opere.
Aristotele, Etica nicomachea II
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Infatti chi si astiene dai piaceri fisici e gioisce di questa stessa astensione è moderato, chi invece
se ne cruccia è incontinente; e chi affronta le cose terribili e ne gioisce, o per lo meno non se ne
duole, è coraggioso, chi invece se ne duole è vile.
Infatti sono i piaceri e i dolori l’ambito nel quale gravita la virtù etica: giacché è a causa del
piacere che compiamo le cose cattive ed è a causa del dolore che ci asteniamo dalle cose
moralmente belle. Per questo si deve esser in qualche modo guidati subito da giovani, come dice
Platone, a rallegrarsi e a dolersi delle cose di cui si deve: questa è infatti la retta educazione.
Inoltre, se le virtù hanno per oggetto le azioni e le passioni, e ad ogni passione e ad ogni
azione segue piacere e dolore, anche per questo la virtù avrà a che fare con piaceri e dolori.
Lo provano anche le punizioni che si infliggono mediante questi sentimenti. Esse infatti sono
come delle cure mediche: e le cure mediche, per loro natura, procedono per mezzo dei contrari.
Di più, come anche precedentemente abbiamo detto, ogni disposizione dell’anima esprime la
sua natura in rapporto e nell’ambito di quelle cose ad opera delle quali può diventare peggiore o
migliore. Ma è a causa dei piaceri e dei dolori che gli uomini diventano cattivi, col perseguirli e
col fuggirli: o col perseguire e col fuggire quelli che non si devono o come non si deve o in
quanti altri modi tali circostanze sono determinate dalla regola. Per questo definiscono anche le
virtù come degli stati di impassibilità e di riposo. Non bene, però, perché parlano in termini
assoluti, senza aggiungere come si deve e come non si deve e quando e tutte le altre precisazioni.
Resti dunque acquisito come punto basilare che la virtù è tale da far compiere le cose migliori
nell’ambito dei piaceri e dei dolori, e che il vizio è l’opposto.
Ma anche da queste considerazioni ci può essere chiaro che la virtù e il vizio vertono intorno
ai piaceri e ai dolori. Infatti, essendo tre i fattori che decidono le scelte e tre quelli che decidono
le repulsioni, il bello, l’utile ed il piacevole e i loro contrari, il turpe, il dannoso ed il doloroso,
nell’ambito di tutti questi l’uomo virtuoso è capace di agire rettamente, il malvagio in modo
peccaminoso; e soprattutto nell’ambito del piacere: giacché questo è comune all’uomo e agli
animali e segue tutto ciò che deriva dalla scelta deliberata. [pag. 1105a] Infatti anche il bello e
l’utile appaiono come una cosa piacevole.
Inoltre il piacere fin dall’infanzia cresce con tutti noi: perciò è difficile sbarazzarsi di questo
sentimento che ha le sue radici nel fatto di essere al mondo.
Di più, noi valutiamo anche le azioni, chi più chi meno, col metro del piacere e del dolore: per
questo dunque è necessario che tutta la trattazione verta intorno a queste determinazioni: infatti
non è cosa da poco per le azioni gioire e provar dolore in modo buono o cattivo.
Aggiungiamo infine che è più difficile combattere contro il piacere che contro la collera,
come dice Eraclito, e sia l’arte che la virtù sorgono sempre intorno a ciò che è più difficile;
Aristotele, Etica nicomachea II
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infatti in quest’ambito il bene è di natura ancora superiore. Di conseguenza, anche per questo
motivo tutta la trattazione ha per oggetto i piaceri ed i dolori: sia per la virtù che per la politica.
Infatti chi ne fa buon uso sarà buono e chi ne fa un uso cattivo sarà cattivo.
Che dunque la virtù ha per dominio i piaceri e i dolori; e che dalle azioni da cui nasce, da
queste è sia aumentata che rovinata, a seconda del modo in cui si compiono; e che verte ed
esercita la sua attività intorno agli atti dai quali è sorta, resti detto.
Capitolo iv (Le azioni che producono virtù morale non sono buone nello stesso senso in cui lo
sono quelle che sono prodotte da essa)
B. Definizione della virtù morale
Capitolo v (Il suo genere: una disposizione e non una passione né una facoltà)
Capitolo vi (La sua differenza: una disposizione per scegliere il mezzo)
Capitolo vii (Illustrazione di questa definizione in rapporto alle virtù particolari)
C. Caratteristiche delle disposizioni estreme e medie: conseguenze pratiche
Capitolo viii (Gli estremi sono opposti tra loro e anche al mezzo)
Capitolo ix (È difficile arrivare al mezzo, e questo si fa mediante la percezione e non il
raziocinio)
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Libro III
[Bekker pag. 1109b]
D. Il lato interno delle virtù morali: le condizioni di responsabilità per le azioni
Capitolo i (La valutazione morale verte sulle azioni volontarie, che non si compiono quando
non si è costretti e quando si ha conoscenza delle circostanze)
Capitolo ii (Virtù morale implica che l’azione viene compiuta in base ad una scelta; la scelta è
il risultato di deliberazione)
Capitolo iii (La natura della deliberazione e dei suoi oggetti: la scelta è un desiderio deliberato
delle cose nel nostro potere)
Capitolo iv (L’oggetto di un appetito razionale è il fine: il bene, vero o apparente che sia)
III.vi-V.xi Le virtù e i vizi particolari
A. Il coraggio
Capitolo vi (Il coraggio ha a che fare con sentimenti di paura e fiducia, e nello specifico con la
paura di morire in battaglia)
Capitolo vii (Il motivo del coraggio è il senso dell’onore: le caratteristiche dei vizi opposti:
codardia e sventatezza)
Capitolo viii (Cinque tipi di coraggio che non meritano il nome)
Capitolo ix (Il rapporto tra il coraggio e il sacrificio della vita)
B. La temperanza
Capitolo x (La temperanza si limita a certi piaceri del senso di tatto)
Dopo aver parlato del coraggio parliamo della temperanza, perché si ritiene che queste due siano
le virtù delle parti irrazionali dell’anima. Che, dunque, la temperanza è una medietà relativa ai
piaceri l’abbiamo già detto; essa, infatti, riguarda i dolori in misura minore ed in maniera
diversa; nel medesimo campo si manifesta che l’intemperanza. Quali piaceri, dunque, esse
riguardino, lo determineremo ora.
Distinguiamo, dunque, i piaceri dell’anima da quelli dei corpo. Esempio dei primi, l’amore
degli onori e l’amore del sapere: in ciascuno di questi casi, infatti, si gode di ciò che si ama,
senza che il corpo provi nulla, ma è piuttosto la mente che prova piacere. Ma gli uomini che
ricercano tali piaceri non sono chiamati né temperanti né intemperanti. Similmente non sono
chiamati così neppure quelli che ricercano i piaceri che non sono del corpo: infatti quelli che
Aristotele, Etica nicomachea III
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amano ascoltare o raccontare favole e che passano le loro giornate a parlare di quel che capita,
non li chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni; neppure chiamiamo intemperanti coloro che
soffrono per questioni di denaro o di amicizia.
[pag. 1118a] La temperanza dovrebbe, dunque, riguardare i piaceri del corpo, e neppure tutti
questi: coloro, infatti, che godono di ciò che percepiamo mediante la vista (per esempio, dei
colori e dei disegni, cioè della pittura), non vengono chiamati né temperanti né intemperanti.
Eppure si riconoscerà che anche di queste cose si può godere come si deve, ma anche in eccesso
e in difetto.
Lo stesso avviene anche nel campo dell’udito: quelli che esagerano nel godere della musica o
del teatro nessuno li chiama intemperanti, né si chiamano temperanti quelli che godono come si
deve.
Né si danno questi nomi a chi ama i piaceri dell’odorato, se non per accidente: non
chiamiamo intemperanti coloro che godono degli odori delle mele o delle rose o dei profumi, ma
piuttosto coloro che si dilettano degli odori degli unguenti o dei cibi raffinati. Gli intemperanti,
infatti, godono di questi odori, perché fanno loro ricordare gli oggetti desiderati. Si può osservare
che anche gli altri uomini, quando hanno fame, godono degli odori dei cibi; ma godere proprio
degli odori è tipico dell’intemperante, giacché per lui questi sono per se stessi oggetti di
desiderio.
Ma neppure gli altri animali possono, se non per accidente, ricavare un piacere da queste
sensazioni. Infatti, ai cani non è l’odore delle lepri che piace, bensì il mangiarle, e l’odorato
gliene produce la sensazione. Né al leone piace il muggito del bue, ma gli piace divorano:
sembra che goda, invece, del muggito, perché è attraverso il muggito che ha percepito che il bue
è vicino. Similmente non gode perché vede «un cervo o una capra selvatica», ma perché l’avrà
come pasto.
La temperanza e l’intemperanza riguardano, dunque, i piaceri di natura tale che anche gli altri
animali ne partecipano, ragion per cui si rivelano piaceri servili e bestiali. E questi sono il tatto e
il gusto.
Ma anche del gusto, manifestamente, essi fanno poco o nessun uso, giacché compito del gusto
è quello di discernere i sapori, cosa che fanno gli assaggiatori di vini e quelli che condiscono cibi
raffinati ma non è assaggiare e condire che a loro piace, almeno non agli intemperanti, bensì
ricavarne il godimento che deriva loro dal tatto, sia nei cibi sia nelle bevande, sia nei rapporti
cosiddetti afrodisiaci. Perciò un tale, che era un ghiottone, pregava che la sua gola divenisse più
lunga di quella di una gru, mostrando che il godimento gli derivava dal tatto. [pag. 1118b]
Dunque, è il più comune dei sensi quello con cui e connessa l’intemperanza: ed essa sarà
Aristotele, Etica nicomachea III
51
giustamente ritenuta il più biasimevole dei vizi, perché ci riguarda non in quanto siamo uomini,
ma in quanto animali.
Godere dunque di simili sensazioni ed amarle al di sopra di tutto è bestiale. E infatti ne
restano esclusi, tra i piaceri derivati dal tatto, quelli più degni di uomini liberi, come, per
esempio, quelli che nei ginnasi vengono prodotti dal massaggio e dal conseguente riscaldamento,
perché il piacere tattile dell’intemperante non riguarda l’intero corpo, ma solo alcune parti di
esso.
Capitolo xi (Le caratteristiche della termperanza e i suoi opposti, l’intemperanza e
l’insensibilità)
Si ritiene comunemente che alcuni dei desideri siano comuni a tutti, e che altri, invece, siano
propri dell’individuo e avventizi. Per esempio, il desiderio del nutrimento è naturale: chiunque
ne abbia bisogno, infatti, desidera nutrimento solido o liquido, e talora entrambi, e chi è giovane
e nel pieno delle forze, come dice Omero, desidera i piaceri del letto.
Però, desiderare questo o quel piacere determinato non è più cosa di tutti, né ciascuno
desidera sempre le stesse cose. Perciò è qualcosa di individuale. Tuttavia la preferenza
individuale ha almeno qualcosa anche di naturale: infatti, per alcuni sono piacevoli certe cose,
per altri altre, ed alcune cose sono per tutti più piacevoli di altre cose qualsiasi. Nei desideri
naturali, dunque, sono pochi gli uomini che errano e in una sola direzione, in quella dell’eccesso:
infatti, mangiare o bere tutto quello che capita fino ad essere troppo pieni significa superare in
quantità la soddisfazione richiesta dalla natura, giacché il desiderio naturale è il mezzo per
riempire il vuoto del bisogno. Perciò costoro sono chiamati golosi, perché riempiono il ventre
più del conveniente: e tali diventano quelli che hanno un temperamento troppo da schiavi.
Invece, riguardo ai piaceri particolari all’individuo molti, e spesso, errano. Gli amatori di
questa o quella cosa determinata sono così chiamati per il fatto che godono delle cose di cui non
devono godere, o perché ne provano piacere più di quanto generalmente si faccia, o perché non
lo fanno come si deve. Gli intemperanti, invece, eccedono in tutti questi modi insieme: godono,
infatti, di alcune cose delle quali non si deve (perché sono odiose), e se godono di alcune di
quelle di cui si deve godere, lo fanno più di quanto si deve e di quanto non faccia la maggior
parte della gente. È dunque evidente che l’eccesso nei piaceri è intemperanza e cosa biasimevole.
Quanto ai dolori, d’altra parte, non è come nel caso del coraggio che si è chiamati temperanti
per il fatto di sopportarli o intemperanti per il fatto di non sopportarli, ma l’intemperante è
chiamato così perché si addolora più del dovuto per il fatto di non riuscire ad ottenere i piaceri
desiderati (così il piacere che all’intemperante causa dolore), mentre il temperante viene
Aristotele, Etica nicomachea III
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chiamato così per il fatto che non soffre per l’assenza di ciò che è piacevole e per il doversene
astenere.
[pag. 1119a] L’intemperante, dunque, desidera le cose piacevoli, tutte, o quelle che lo sono in
massimo grado, ed è trascinato dal desiderio a scegliere queste in cambio di tutte le altre: perciò
soffre sia quando non le ottiene, sia quando le desidera (il desiderio, infatti, è accompagnato dal
dolore, benché sembri assurdo provar dolore a causa del piacere).
Di uomini che peccano per difetto in ciò che riguarda i piaceri o che godono meno di quanto
non sia conveniente, non ce ne sono molti: non è umana una simile insensibilità. Anche tutti gli
altri animali, infatti, distinguono i cibi, e di alcuni godono e di altri no. Se per un uomo non ci
fosse nulla di piacevole né alcuna differenza tra una cosa e l’altra, quell’uomo sarebbe molto
lontano dall’essere veramente uomo: un tipo simile non ha neppure ricevuto un nome, per il fatto
che non capita quasi mai.
L’uomo temperante, invece, in queste cose si tiene nel mezzo. Infatti, non gode delle cose di
cui soprattutto gode l’intemperante, ma piuttosto le detesta, né in genere di quelle di cui non si
deve; non gode eccessivamente di alcunché di simile, e quando queste cose non ci sono non
prova dolore o desiderio, oppure lo fa con misura; non gode più di quanto si deve, né quando non
si deve, né, in generale, fa niente di simile. Tutto ciò che è piacevole e favorevole alla salute ed
al benessere fisico, egli lo desidera con misura e come si deve; e così le altre cose piacevoli,
purché non siano d’ostacolo alle prime, o contrarie al bello, o superiori ai suoi mezzi economici.
Chi si comporta così, infatti, ama simili piaceri più di quanto meritino. L’uomo temperante,
invece, non è di questo tipo, ma si comporta come prescrive la retta ragione.
Capitolo xii (L’intemperanza è più volontaria della codardia: l’uomo intemperante paragonato
al bambino viziato)
L’intemperanza è simile ad un atto volontario più che non la viltà. L’una, infatti, è causata dal
piacere, l’altra dal dolore, sentimenti dei quali l’uno è da preferire, l’altro da evitare; e mentre il
dolore sconvolge e corrompe la natura di chi lo prova, il piacere non fa niente di simile. Per
conseguenza, l’intemperanza è più volontaria, e perciò più riprovevole. Infatti è più facile
abituarvisi, giacché molte sona le situazioni di questo genere nella vita, e chi vi si abitua non
corre rischi, ma nel caso delle cose che suscitano paura è tutto il contrario.
Si riterrà che la viltà non sia volontaria allo stesso modo nei singoli casi particolari: essa,
infatti, di per sé non fa soffrire, ma i casi particolari, a causa del dolore, sconvolgono, tanto da
far gettare le armi e da far compiere tutte le altre azioni vergognose: perciò si ritiene che siano
atti forzati. Per l’intemperante invece, gli atti particolari sono volontari (poiché egli li desidera e
Aristotele, Etica nicomachea III
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li brama), ma il suo vizio in generale è meno volontario, perché nessuno desidera essere
intemperante.
Il nome di “intemperanza” l’attribuiamo, per metafora, anche agli errori infantili, poiché
hanno una certa somiglianza con quelli degli adulti. [pag. 1119b] Quale delle due cose prenda il
nome dall’altra non ha alcuna importanza per il problema presente, ma è chiaro che la seconda
l’ha preso dalla prima. E non sembra una cattiva metafora. Infatti, deve essere disciplinato
l’essere che desidera cose brutte e che ha grandi capacità di sviluppo; e di tal natura sono
soprattutto il desiderio e il fanciullo: infatti, anche i fanciulli vivono assecondando il desiderio, e
soprattutto in essi vi è il desiderio di ciò che è piacevole. Se, dunque, il fanciullo non sarà docile
e sottomesso all’autorità, il suo desiderio avanzerà di molto, giacché nell’essere irragionevole il
desiderio del piacere è insaziabile e riceve stimoli da tutte le parti, e l’esercizio del desiderio ne
accresce la forza naturale, e se i desideri sono grandi ed intensi giungono a cacciar via la capacità
di ragionare. Perciò essi devono essere misurati e pochi, e non devono essere affatto in
contraddizione con la ragione, ed è questo che chiamiamo essere “docile” e “disciplinato”. Come
bisogna che il fanciullo viva conformandosi ai precetti del suo pedagogo, così anche la facoltà
del desiderio deve conformarsi alla ragione.
Perciò bisogna che la facoltà del desiderio dell’uomo temperante sia in armonia con la
ragione: infatti, lo scopo di entrambe è il bello, e l’uomo temperante desidera ciò che si deve e
come e quando si deve. Così ordina anche la ragione. Questa, dunque, è la nostra dottrina della
temperanza.
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Libro IV
[Bekker pag. 1119b]
C. Le virtù connesse ai soldi
Capitolo i (La liberalità, la prodigalità e l’avarizia)
Capitolo ii (La magnificenza, l’ostentazione volgare e la meschinità)
D. Le virtù connesse all’onore
Capitolo iii (L’autostima, la vanità e l’umiltà)
Capitolo iv (L’eccessiva ambizione, la mancanza di aspirazione e il mezzo tra loro: il giusto
amore per gli onori)
E. Le virtù connesse ai rapporti sociali
Capitolo v (La bonarietà, l’irascibilità e l’insensibilità alla giusta ira)
Capitolo vi (L’affabilità, la compiacenza e la scorbuticità)
Capitolo vii (La sincerità, la vanagloria e la falsa modestia)
Capitolo viii (Il garbo, la buffoneria e la rozzezza)
Capitolo ix ( Una pseudo-virtù: il pudore, la vergogna e la sfrontatezza)
Libro V
[Bekker pag. 1129a]
F. La giustizia
I. La sua sfera di applicabilità e la sua natura esterna: in che senso la giustizia è un
mezzo
Capitolo i (Il giusto come il legale[giustizia universale] e il giusto come l’equo [giustizia
particolare]: considerazioni sul primo)
Capitolo ii (Considerazione del giusto come equo: divisione in giustizia distributiva e giustizia
correttiva)
Capitolo iii (La giustizia distributiva si determina con la proporzione geometrica)
Capitolo iv (La giustizia correttiva si determina con la progressione aritmetica)
Capitolo v (La giustizia nello scambio si determina con la reciprocità della proporzioni)
Capitolo vi (La giustizia politica e i generi analoghi di giustizia)
Capitolo vii (La giustizia naturale e legale)
II. La sua natura interiore in connessione alla scelta
Capitolo viii (La scala di gravità della responsabilità: errore, disgrazia e ingiustizia)
Aristotele, Etica nicomachea IV-VI
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Capitolo ix (Può un uomo venir trattato ingiustamente volontariamente? Chi è la parte
colpevole nella ingiustizia distributiva? Giustizia richiede una disposizione interiore)
Capitolo x (L’equità come correttiva della giustizia legale)
Capitolo xi (Può un uomo trattare se stesso in modo ingiusto?)
Libro VI
Le virtù intelletuali [Bekker pag. 1138b]
A: Introduzione
Capitolo i (Ragioni per studiare la virtù intellettuale: l’intelletto si divide in contemplativo e
calcolativo)
Capitolo ii (L’oggetto dell’intelletto contemplativo è la verità; quello dell’intelletto calcolativo è
la verità congiunta a desiderio retto)
B: Le virtù intellettuali primarie
Capitolo iii (La scienza: la conoscenza dimostrativa di ciò che è necessario ed eterno)
Capitolo iv (La tecnica: la capacità di costruire le cose)
Capitolo v (La saggezza pratica: il sapere assicurare i fini della vita umana)
Capitolo vi (La ragione intuitiva: la conoscenza dei princìpi da cui discendono le scienze)
Capitolo vii (La saggezza filosofica: l’unione di ragione intuitiva e scienza)
Capitolo viii (I rapporti tra saggezza pratica e scienza politica)
C: Le virtù intellettuali minori connesse al comportamento
Capitolo ix (Come la deliberazione retta si rapporta alla saggezza pratica)
Capitolo x (La perspicacia come la qualità determinante nel rispondere all’istanza della
saggezza pratica)
Capitolo xi (Il giudizio nel determinare l’equo: il posto della perspicacia nell’etica)
D: I rapporti tra saggezza filosofica e saggezza pratica
Capitolo xii (Riduzione dell’intendimento, del buon senso e dell’intelligenza pratica alla
saggezza)
Capitolo xiii (I rapporti tra saggezza pratica e virtù naturale, virtù morale e retta ragione)
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Libro VII CONTINENZA E PIACERE
A: Continenza e incontinenza
[Bekker pag. 1145a]
Capitolo i (Sei varietà di carattere; osservazioni metodologiche: le opinioni più accreditate )
Dopo di ciò, prendendo le mosse da un altro principio, occorre dire che tre sono le specie di ciò
che è da evitarsi riguardo ai costumi: il vizio, l’incontinenza, la bestialità. Dei loro contrari, due
sono evidenti (infatti li chiamiamo l’uno virtù, l’altro continenza): in opposizione alla bestialità
s’adatterebbe opporre la virtù sovrumana, quella certa virtù eroica e divina, secondo cui Omero
fa dire a Priamo di Ettore ch’egli era eccezionalmente valoroso:
Né sembrava d’un mortale figlio, bensì d’un dio.
Cosicché se, come dicono, si diventa dèi per eccesso di virtù, è chiaro che di tal natura
dev’essere la disposizione che si contrappone alla bestialità; infatti come di una bestia non v’è né
vizio, né virtù, cosi è d’un dio, bensì la disposizione di questo sarà qualcosa di più prezioso della
virtù, quella della bestia sarà di genere diverso del vizio. E giacché è cosa rara l’essere un uomo
divino, come sogliono affermare gli Spartani, quando ammirano grandemente qualcuno (‘omo
divino’ dicono nel loro dialetto), così anche l’uomo bestiale è raro tra gli uomini. Soprattutto lo
s’incontra tra i barbari; alcuni esseri poi lo diventano a causa di malattie e di lesioni; inoltre
sogliamo infamare con questo nome quegli uomini che eccedono per vizio. Ma di questa
maniera d’essere si farà menzione in seguito, mentre del vizio s’è già detto prima.
Ora dobbiamo invece trattare dell’incontinenza, della mollezza ed effemminatezza, e
altrettanto della continenza e della fermezza. [pag. 1145b] Infatti né si può considerare ciascuna
di esse come se fossero le disposizioni stesse della virtù e del vizio, né come se fossero d’altra
specie. Occorre poi, come anche in altri casi, che, proponendoci i fenomeni quali appaiono e
anzitutto esponendo i dubbi, mostriamo il più possibile ogni opinione che si ha intorno a queste
passioni, o almeno le principali e le più fondamentali; se infatti si risolvono le difficoltà e si
possono ammettere le opinioni comuni, si è con ciò dimostrato sufficientemente.
Sembra che la continenza e la fermezza appartengano alle cose virtuose e lodevoli, mentre
l’incontinenza e la mollezza appartengano a quelle cattive e biasimevoli. E sembra che l’uomo
continente s’identifichi con chi è perseverante nel suo ragionamento, mentre l’uomo incontinente
con chi è portato a ribellarsi al ragionamento. E l’incontinente, pur sapendo di compiere azioni
cattive, le compie per la passione, mentre il continente, sapendo che i suoi desideri sono cattivi
non li segue, per effetto della ragione. E sembra che l’uomo moderato sia continente e fermo,
Aristotele, Etica nicomachea VII
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mentre poi chi sia continente e fermo alcuni dicono che debba esser sempre moderato, altri no; e
sembra che l’incontinente sia intemperante e alcuni non distinguono l’incontinente
dall’intemperante, altri invece dicono che sono diversi. E talora si af ferma che l’uomo saggio
non può essere incontinente, talora in: vece che vi sono alcune persone sagge e accorte, che sono
pure incontinenti. Inoltre si dice che si è incontinenti riguardo all’animosità, all’onore e al
guadagno.
Capitolo ii (I paradossi che sorgono dalle cose dette)
Così sono dunque le opinioni comuni. Ma qualcuno potrebbe sollevare la questione come mai
qualcuno che intende rettamente, si comporti poi da incontinente. Alcuni dunque dicono che un
uomo dotato di conoscenza non possa far ciò. È strano infatti, come pensava Socrate, che, dove
v’è scienza, regni qualcosa di diverso e soggioghi l’uomo come uno schiavo. Socrate1 infatti
combatteva del tutto quest’idea, come se, secondo lui, non esistesse l’incontinenza; egli pensava
infatti che nessuno possa agire consciamente contro ciò che è meglio, bensì possa farlo soltanto
per ignoranza.
Questo ragionamento dunque contraddice i fatti come appaiono chiaramente, mentre si deve
ricercare intorno questa passione, se essa sorga per ignoranza e di qual sorta di ignoranza si tratti
(è evidente infatti che l’uomo incontinente pensa di non doverlo essere prima di essere nella
passione). Vi sono alcuni, poi, che in parte concordano con questa teoria, in parte no. Essi da un
lato riconoscono che nulla sia più potente della scienza, dall’altro però non sono d’accordo con
l’affermazione che nessuno agisca contrariamente a ciò che gli sembra migliore per opinione;
quindi essi dicono che l’incontinente è dominato dai piaceri, perché non ha scienza, ma solo
opinione. D’altra parte, se ciò che lo guida è l’opinione e non la scienza, e se ciò che contrasta
alla passione è un intendere non sicuro, ma debole, [pag. 1146a] come in coloro che sono incerti,
è logico perdonare a chi non rimane saldo in ciò di fronte a forti desideri; mentre non vi può
essere perdono per la perversità, né per nessun altro atto biasimevole. Potrebbe essere allora la
saggezza ciò che si oppone alle passioni; essa infatti è la più forte. Ma è assurdo: vi sarebbe
infatti uno stesso uomo saggio e incontinente, e. nessuno direbbe che sia proprio del saggio il
fare volentieri le cose più cattive. Inoltre è stato prima mostrato che l’uomo saggio è capace
nell’agire (la saggezza riguarda infatti i termini <della deliberazione>); e possiede le altre virtù.
Inoltre se chi è continente deve, per esser tale, provare desideri forti e cattivi, l’uomo
moderato non sarà continente, né il continente moderato. Infatti l’eccesso, come il possedere
1 Vedi il testo nella dispensa tratto dal Protagora. (nota di Davies)
Aristotele, Etica nicomachea VII
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cattivi desideri, non è proprio dell’uomo moderato. E, secondo questa ipotesi, dovrebbe essere
così. Se infatti i desideri sono buoni, cattiva è la disposizione che c’impedisce di seguirli,
cosicché non ogni continenza sarà virtuosa; se poi sono deboli e non cattivi, il continente non
avrà alcuna gloria, mentre se sono cattivi e deboli, non avrà alcuna grandezza. E inoltre, se la
continenza rende perseveranti in ogni opinione, è cattiva, se fa così anche con una opinione falsa;
e se l’incontinenza rende propensi al ribellarsi a ogni propria opinione, vi sarà un’incontinenza
virtuosa, come quella del Neottolemo di Sofocle nel Filottete. Costui infatti è lodevole per non
aver perseverato nell’opinione inculcatagli da Odisseo, giacché gli dispiaceva la menzogna.
Inoltre il ragionamento sofistico, quello menzognero crea un’altra difficoltà: infatti per voler
mostrare dei paradossi, per sembrare accorti quando vi riescano, il sillogismo che ne risulta crea
un imbarazzo, la razionalità dell’ascoltatore rimane infatti come legata: in quanto non vuol
rimanere alla conclusione, perché non le piace, ma non può andarne oltre, per non poter
confutare il ragionamento. In seguito a un ragionamento del genere può risultare che la
mancanza di riflessione, congiunta all’incontinenza, sia una virtù; infatti, a causa
dell’incontinenza, compie cose bensì contrarie a ciò che giudica, ma giudica che i beni siano
mali e che non si debbano compiere, cosicché compie il bene e non il male. Inoltre chi compie e
persegue le cose piacevoli per esserne convinto e per proponimento, può sembrare migliore di
chi fa ciò non per ragionamento, ma per incontinenza. Infatti costui è più facilmente guaribile col
fargli cambiare opinione; all’incontinente invece può adattarsi il proverbio per cui diciamo:
‘quando l’acqua soffoca, che bisogno c’è di berne ancora?’. Se infatti agisse per convinzione,
cesserebbe col cambiare opinione; [pag. 1146b] in questo caso invece, anche se persuaso d’una
cosa, non di meno agisce in modo diverso. Infine, se l’incontinenza e la continenza riguardano
tutte le cose, qual è l’uomo assolutamente incontinente ? Nessuno infatti possiede tutte le
incontinenze, mentre però diciamo che vi sono alcuni assolutamente incontinenti.
Queste sono dunque press’a poco le difficoltà che ci si presentano; di esse alcune occorre
risolverle, altre eliminarle; infatti la soluzione di una difficoltà è già scoperta di verità.
Capitolo iii (La soluzione del problema: in che senso l’uomo incontinente agisce contro la
propria conoscenza)
Dobbiamo anzitutto indagare se gli incontinenti sono consapevoli oppure no, e in che modo sono
consapevoli; quindi intrno a quali cose si debbano stabilire l’incontinenza e la continenza, cioè se
intorno a ogni piacere e a ogni dolore, oppure se riguardo ad alcuni di essi determinati: e se
l’aver continenza e l’aver fermezza sono la stessa cosa o cose diverse; e similmente indagheremo
intorno a tutto ciò che ha relazione con questa ricerca.
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Cominciamo la nostra indagine considerando se il continente e l’incontinente si differenzino
per ciò che compiono o per il modo in cui lo compiono, cioè se l’incontinente è tale solo per
questa o quella cosa, oppure non per essa, bensì per il modo d’agire, oppure non per questo, ma
per entrambi; inoltre se l’incontinenza e la continenza si applicano a tutte le cose oppure no.
Infatti neppure chi è assolutamente incontinente lo è riguardo a tutte le cose, bensì solo su quelle
in cui si manifesta l’intemperanza; né è incontinente per essere semplicemente disposto verso di
esse (in tal caso infatti l’incontinenza sarebbe la stessa cosa che l’intemperanza), ma per esserlo
in un modo particolare. L’intemperante infatti si muove con proposito, pensando che si debba
sempre perseguire il piacere presente; l’incontinente invece non pensa che si debba farlo, ma lo
persegue.
Per il nostro ragionamento non importa nulla se sia una opinione giusta anziché la scienza ciò
a dispetto di cui si è incontinenti (giacché alcuni di coloro che opinano non sono affatto incerti,
bensì pensano di sapere esattamente; se quindi solo per essere convinti debolmente quelli che
opinano agiranno contro il loro giudizio più che non quelli dotati di scienza, non vi sarà alcuna
differenza tra la scienza e l’opinione; alcuni infatti credono in ciò di cui hanno opinione non
meno di quanto altri credano in ciò di cui hanno scienza: ce lo mostra Eraclito). Ma invece,
poiché noi parliamo di avere scienza in due maniere differenti (si dice infatti che ha scienza sia
colui che la possiede ma non se ne serve, sia chi invece se ne serve), vi sarà differenza tra chi,
avendo scienza, non bada a ciò che deve fare, e chi invece, avendo scienza, bada anche a ciò. In
quest’ultimo caso l’essere incontinenti sembra cosa sorprendente, non lo è invece se uno non
bada a ciò che deve fare.
Inoltre, poiché vi sono due sorta di premesse [pag. 1147a], nulla impedisce che, per quanto in
possesso di entrambe, tuttavia si agisca contrariamente alla scienza, servendosi della premessa
universale e non di quella particolare: infatti ciò che è nell’ambito dell’azione è particolare. Ma
anche l’universale presenta delle differenze . Talora infatti esso è tale solo per sé, talora invece in
relazione alla cosa. Può essere ad esempio siffatto:
a ogni uomo giova l’asciutto e questo è un uomo...,
oppure invece:
ciò che è secco ha tal natura,
ma non sa o non mette in atto il fatto che questa cosa sia tale. Enorme è la differenza tra questi
due casi, tanto che l’incontinenza se uno sa nell’una maniera non è cosa per nulla assurda,
nell’altra è cosa degna di meraviglia.
Inoltre gli uomini possono avere la scienza in un altro modo da quelli suddetti: vediamo
infatti che è una disposizione differente l’aver la scienza e non servirsene, si da averla in certo
Aristotele, Etica nicomachea VII
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modo senza averla, come chi dorme o è impazzito o è ubriaco. E in questo stato appunto sono
quelli che si trovano nelle passioni; infatti le impetuosità, i desideri erotici e alcune di siffatte
cose evidentemente mutano anche il corpo e talune producono anche follie. È chiaro dunque che
si deve dire che gli incontinenti sono nella stessa situazione di costoro. Infatti che essi facciano
discorsi provenienti dalla scienza non significa nulla: infatti anche quelli che si trovano nelle
passioni pronunziano i ragionamenti e i versi di Empedocle; e alcuni che sono agli inizi degli
studi intrecciano bensì ragionamenti, ma non ne sono consapevoli: occorre infatti che siano a
loro connaturati, e per questo ci vuol tempo; cosicché si può ritenere che gli incontinenti recitano
come degli attori di teatro.
La causa di questo fatto si potrebbe considerare anche naturalmente nel seguente modo. <Di
ciò che determina l’agire> v’è un’opinione universale, e un’altra intorno ai particolari, che
cadono sotto il dominio del senso; quando esse si sintetizzano in una sola, è necessario che
l’animo ne tragga la conclusione, e se si tratta di fare, agisca subito; ad esempio se si deve
gustare ogni cosa dolce, e se questa, in quanto cosa particolare, è cosa dolce, è necessario che chi
può e non ne sia impedito, faccia subito ciò. Quando dunque vi sia un’opinione universale che
vieta di gustare, un’altra invece che afferma che ogni cosa dolce è piacevole, il fatto che questa
cosa sia dolce muove l’azione; e se si trova ad esserci desiderio, mentre quell’opinione prescrive
di fuggire ciò, il desiderio invece trascina (esso infatti può muovere ogni parte dell’anima);
cosicché accade di essere incontinenti in certo modo per un ragionamento e un’opinione, che si
oppone alla retta ragione non di per sé, [pag. 1147b] ma per una circostanza accidentale (è infatti
il desiderio che le si oppone, non l’opinione).
Cosicché anche per questo le bestie non sono incontinenti, perché non hanno la concezione
dell’universale, bensì soltanto la rappresentazione e la memoria delle cose particolari. Come poi
si dissipi l’ignoranza e l’incontinente ridiventi consapevole, lo si spiega nello stesso modo che a
proposito dell’ubriaco e di chi dorme e non è cosa propria di questa passione, ma piuttosto
bisogna ascoltarne la spiegazione dai fisiologi. E poiché l’ultima premessa è una opinione
dell’ambito del sensibile e determinatrice delle azioni, chi è in stato di passione o non la
possiede, o la possiede in modo tale che l’averla non è un sapere, ma un semplice recitare, come
s’è detto, come l’ubriaco recita i versi di Empedocle. E ciò accade perché il termine ultimo [della
deliberazione] sembra non esser universale, né scientífico al modo dell’universale e sembra
verificarsi ciò che Socrate affermava nella sua indagine. Infatti la passione non sorge se è
presente quella che sembra essere la scienza propriamente detta, né questa è trascinata dalla
passione, bensì quando è presente solo l’opinione sensibile.
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Capitolo iv (La soluzione del problema: la sfera dell’incontinenza e la distinzione tra il senso
proprio e il senso esteso)
Ciò sia detto intorno alla questione sull’esser incontinenti consapevolmente oppure no, e in che
modo sia possibile esserlo consapevolmente.
Bisogna ora proseguire dicendo se esiste qualcuno incontinente in senso assoluto, oppure se
tutti lo sono solo in cose particolari e, nel primo caso, riguardo a quali cose si è incontinenti. Che
dunque sia quelli dotati di continenza e di fermezza, sia gli uomini incontinenti e molli, siano tali
riguardo ai piaceri e ai dolori, è evidente. Poiché dunque delle cose che producono piacere
alcune sono necessarie, altre sono tali da esser scelte per se stesse, ma ammettono un eccesso,
necessarie sono quelle che riguardano il corpo (e ritengo tali quelle che riguardano il cibo e l’uso
dei piaceri venerei e in genere quelle cose riguardanti il corpo, intorno alle quali facemmo
consistere la intemperanza e la moderazione), altre invece non sono necessarie, ma tali da esser
scelte per se stesse (intendo dire, ad esempio, la vittoria, l’onore, la ricchezza e le cose buone e
piacevoli di tal genere); coloro dunque che in tali cose eccedono oltre la retta ragione relativa a
esse non li chiamiamo incontinenti in senso assoluto, ma precìsiamo che sono incontinenti
riguardo alle ricchezze, ai guadagni, all’onore, all’impetuosità; ma non li chiamiamo incontinenti
in senso assoluto, in quanto non sono tali, ma sono detti così solo per analogia, così come si suol
chiama e ‘Uomo’ colui che ha vinto ai giochi olimpici: [pag. 1148a] in questo caso la
denominazione comune differisce di poco da quella che dev’essere la denominazione propria, ma
tuttavia è diversa (ne è prova il fatto che la vera incontinenza, sia totale sia parziale, viene
bìasimata non solo come errore, ma anche come un vizio, mentre nessuno dei sopraddetti ha
questo biasimo).
Di coloro invece che peccano riguardo ai godimenti corporei, rispetto ai quali definiamo il
moderato e l’intemperante, colui che non per proponimento persegue l’eccesso dei piaceri e
fugge esageratamente i dolori, cioè fame, sete, caldo e freddo e insomma quanto concerne il tatto
e il gusto, ma contro il suo proponimento e la sua razionalità, costui è detto incontinente, ma non
con l’aggiunta di esserlo riguardo a una data cosa, ad esempio riguardo all’ira, bensi soltanto
incontinente in senso assoluto. Prova ne è che le persone che peccano in tali cose sono dette
molli, mentre nessuna di quelle che peccano intorno a quelle altre cose è detta tale. E per questo
noi mettiamo sullo stesso piano l’incontinente e l’intemperante, il continente e il moderato, ma
non facciamo così per nessuno di quelli detti prima; ciò perché l’incontinente e l’intemperante
sono tali in certo modo rispetto agli stessi piaceri e agli stessi dolori; senonché, pur essendo tali,
non lo sono nella stessa maniera, bensi gl’intemperanti se lo propongono, gl’incontinenti no.
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Perciò possiamo definire intemperante piuttosto colui che, non spinto dal desiderio, o con
debole desiderio, persegue gli eccessi <dei piaceri> e fugge i dolori misurati, che non chi fa ciò a
causa di un forte desiderio. Che cosa mai farebbe infatti quel primo se gli venisse per giunta un
desiderio giovanile e un forte dolore per la mancanza del necessario? Ammettiamo quindi che
dei desideri e dei dolori alcuni appartengono a quelli che sono, per il loro genere, belli e onesti
(infatti delle cose piacevoli alcune sono per natura tali da potersi scegliere, altre sono l’opposto
di queste; altre poi sono qualcosa di mezzo, come abbiamo distinto prima sia la ricchezza, sia il
guadagno, sia la vittoria, sia gli onori; e riguardo a tutte quelle di questa specie e a quelle della
specie di mezzo si rivolge biasimo non al provarle e al desiderarle, bensi al modo con cui si
desiderano e all’eccesso).
Dunque, se alcuni, non rispettando i dettami della ragione, ottengono o perseguono qualcuna
delle cose che per natura sono in certo modo belle, come coloro che s’affannano più di quanto si
deve per l’onore, o per i figli, o per i genitori (queste infatti appartengono alle cose buone e sono
lodati coloro che si affannano per esse, tuttavia vi è un eccesso anche in esse, ad esempio se
qualcuno, come Niobe, volesse gareggiare anche con gli dèi, oppure fare come Satiro, che fu
detto ‘filopatore’ per l’amore verso il padre; troppo infatti sembrava esser pazzo per lui) in, tal
caso dunque, secondo quanto s’è detto, non v’è alcuna malvagità, poiché ciascuna di queste cose
di per se stessa appartiene a quelle per natura tali da potersi scegliere, mentre gli eccessi di esse
sono cattivi e da evitarsi. E in questo caso non vi è neppure incontinenza (l’incontinenza infatti
non solo è da evitarsi, ma appartiene anche alle cose da biasimarsi), bensì solo per analogia con
tale passione noi definiamo costoro attribuendo a ciascuno di essi il titolo di incontinente, e così
come parliamo di un cattivo medico e di un cattivo attore, i quali in senso proprio non potrebbero
esser detti cattivi. Come dunque in tali casi non definiamo così perché quella di ciascuno sia
cattiveria, bensì perché è simile e analoga ad essa, così è chiaro che anche nel nostro problema si
deve intendere per incontinenza e per continenza solo quelle che riguardano gli stessi oggetti
della moderazione e della temperanza, mentre solo per analogia parliamo di esse a proposito
dell’impetuosità. Perciò in tali casi ne parliamo aggiungendo però la specificazione: incontinente
nell’ira, oppure nell’onore, o nel guadagno.
Capitolo v (L’incontinenza in senso esteso include forme bestiali e morbose)
Ora, poiché alcune cose sono piacevoli per natura, e di queste alcune lo sono in senso assoluto,
altre a seconda dei tipi sia degli animali sia degli uomini, mentre altre cose non lo sono, ma lo
diventano o per difetti di crescita o per abitudini acquisite, altre ancora per depravazione della
natura, è possibile vedere anche di ciascun tipo di queste le disposizioni corrispondenti. Intendo
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per disposizioni bestiali, per esempio, quella della donna che, dicono, sventrava le donne incinte
e ne divorava i feti, o quelle di cui provano piacere, dicono, certi selvaggi delle coste del Ponto,
alcuni dei quali mangiano carni crude, altri carni umane, altri ancora si scambiano
reciprocamente i figli per farne lauto pasto, o quello che si racconta di Falaride.
Questi sono comportamenti bestiali; ma certi sono provocati da malattia (anche da follia per
alcuni, come quel tale che offrì sua madre in sacrificio e la divorò, o quello schiavo che si
mangiò il fegato del suo compagno), altri sono stati morbosi derivati da un’abitudine, come, per
esempio, lo strapparsi i capelli e il mangiare le unghie, e anche carbone e terra; ed inoltre, fare
all’amore tra maschi; ad alcuni questo succede per natura, ad altri in forza di un’abitudine, come
a quelli che sono stati violentati da bambini.
Nessuno dunque può dire incontinenti tutti coloro la cui depravazione è causata dalla natura,
come non si possono chiamare incontinenti le donne, dal momento che nella copulazione non
sono attive ma passive. Altrettanto si dee dire di coloro che hanno disposizioni morbose a causa
di un’abitudine. Quindi il possesso di ciascuno di questi tipi di disposizione [pag. 1149a] è al di
fuori dei confini del vizio, come lo è la bestialità; per l’uomo che le possiede, dominarle o
esserne dominato non costituisce continenza o incontinenza pure e semplici, ma solo per
analogia, come chi è in questa situazione per i suoi scoppi di impulsisvità non si deve chiamare
semplicemente incontinente, ma incontinente in questa passione. Infatti, ogni volta che arrivano
all’eccesso, la stoltezza la viltà, l’intemperanza, il cattivo carattere sono o bestiali o morbosi.
L’uomo infatti che per natura è di indole tale da avere paura di tutto, anche dello strepito di un
topo, è vile di una viltà bestiale, mentre chi ha paura di una donnola è determinato da una
malattia. E degli stolti, alcuni sono privi di ragione per natura e, poiché vivono soltanto col
senso, sono bestiali, come certe razze di barbari lontani; altri, invece, che sono privi di ragione a
causa di una malattia come l’epilessia o la follia, sono morbosi.
Ora di queste disposizioni uno può possederne qualcuna soltanto qualche volta, senza esserne
dominato: intendo, per esempio, il caso in cui Falaride si fosse contentato quando desiderava
divorare un fanciullo o quando desiderava procurarsi piacere sessuale contro natura. Ma è
possibile anche essere completamente dominati da quest passioni, e non soltanto possederle.
Orbene, come anche nel caso della perversità, quella a livello umano è chiamata perversità
semplicemente, mentre quella con una determinazione aggiuntiva si chiama perversità bestiale o
morbosa e non semplicemente perversità, nello stesso modo è chiaro che anche l’incontinenza è
ora bestiale ora morbosa, mentre è puramente e semplicemente incontinenza solo quella
corrispondente all’intemperanza umana.
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È dunque chiaro che incontinenza e continenza hanno per oeggtto solo quelli
dell’intemperanza e della temperanza, e che riguardo agli altri oggetti c’è una specie di
incontinenza, chiamata così per metafora e non in senso assoluto.
Capitolo vi (L’incontinenza riguardo alla rabbia meno vergognosa dell’incontinenza in senso
stretto)
Ora vedremo che l’incontinenza dell’impulsività è meno vergognosa di quella dei desideri.
Sembra infatti, che l’impulsività dia ascolto in qualcosa alla ragione, ma la fraintenda, come i
servi frettolosi che escono di corsa prima di aver sentito tutto quello che viene loro detto, e poi
sbagliano l’esecuzione dell’ordine, e come i cani che, prima di aver visto se si tratta di un amico,
si mettono ad abbaiare appena si batte ad una porta. Così l’impulsività, per il calore e la vivacità
della sua natura, sente, sì, ma non ascolta l’ordine e si precipita alla vendetta. Infatti, la
riflessione o l’immaginazione si limitano a mostrare che c’è stata insolenza o disprezzo,
l’impulsività, invece, come se giungesse con un ragionamento alla conclusione che bisogna
combattere contro un simile trattamento, si eccita, per conseguenza, subito: il desiderio, poi, se
solo la riflessione o la sensazione dicono che questa cosa è dolce, si precipita a trarne godimento.
[pag. 1149b] Cosicché l’impulsività segue in qualche modo la ragione, mentre il desiderio no.
Dunque, l’incontinenza dei desideri è più vergognosa: l’incontinente nell’impulsività, infatti,
soggiace in qualche modo alla ragione, mentre l’altro soggiace al desiderio e non alla ragione.
Inoltre, si perdona di più il fatto di seguire i desideri naturali, poiché anche quando si tratta di
desideri si perdona di più a quelli comuni a tutti gli uomini, e nella misura in cui sono comuni.
Ora, l’impulsività e il cattivo carattere sono più naturali che non i desideri di ciò che è eccessivo
e non necessario. Come quel tale che, accusato di picchiare il proprio padre, si difese dicendo:
‘Ma anche lui picchiava il suo’, e, additando il figlioletto, disse: ‘Anche lui picchierà me, quando
sarà un uomo: è un’abitudine di famiglia, per noi!’. E quell’altro che, mentre era trascinato fuori
dal figlio, gli ordinò di fermarsi alla porta, perché lui stesso aveva trascinato suo padre solo fin
là.
Inoltre, sono più ingiusti quelli che sono più subdoli. Orbene, l’impulsivo non è subdolo, e
neppure l’impulsività, ma è limpido; il desiderio, invece, è quello che si dice di Afrodite
‘tessitrice d’inganni, nata a Cipro’, e, come dice Omero a proposito del suo cinto trapunto:
‘la seduzione che ruba il senno anche ai saggi ‘.
Per conseguenza, se è vero che quella incontinenza è più ingiusta di questa relativa
all’impulsività, e anche più vergognosa, anzi essa è incontinenza in senso assoluto e vizio, in
qualche modo.
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Inoltre, nessuno commette oltraggio soffrendo; ora, chiunque agisce in preda all’ira agisce
soffrendo, mentre colui che oltraggia lo fa con piacere. Se, dunque, le cose più ingiuste sono
quelle contro cui si ha perfettamente diritto di adirarsi, anche l’incontinenza causata dal desiderio
sarà più ingiusta di quella causata dall’impulsività, giacché nell’impulsività non c’è intenzione
oltraggiosa. Che, dunque, l’incontinenza relativa al desiderio è più vergognosa di quella relativa
all’impulsività, e che la continenza e l’incontinenza si riferiscono ai desideri ed ai piaceri del
corpo, è chiaro.
Ma tra questi stessi piaceri si devono cogliere delle differenze. Come infatti si è detto
all’inizio, alcuni sono umani e naturali, sia per genere sia per intensità, altri bestiali, altri, infine
sono dovuti a difetti di crescita e stati morbosi. Ora, solo con i primi di questi hanno relazione la
temperanza e l’intemperanza: perciò non diciamo temperanti né intemperanti anche le bestie, se
non per metafora, cioè nel caso in cui qualche specie di animali, comparata nel suo insieme alle
altre, si distingue per lascivia, istinto distruttivo e voracità: le bestie, infatti, non hanno né
possibilità di scelta né capacità di ragionamento, ma sono fuori dai confini della loro natura,
come, [pag. 1150a] tra gli uomini, i dementi. La bestialità è un male minore del vizio, ma più
temibile; infatti, nel caso delle bestie non è che ci sia stata corruzione della parte migliore, come
nell’uomo, ma è che esse non ce l’hanno. Dunque, è lo stesso che mettere a confronto un essere
privo di anima con uno che ne è fornito, e chiedersi quale è più cattivo: infatti, la malvagità di
un essere che non ha in sé il principio dell’azione è, sempre, più inoffensiva, e, d’altra parte,
principio è l’intelletto. Quindi, è proprio come confrontare l’ingiustizia con un uomo ingiusto.
Ciascuno dei due, infatti, è peggiore dell’altro, a suo modo, giacché un uomo cattivo farà
infinitamente più male che una bestia.
Capitolo vii (Mollezza e perseveranza: due forme di incontinenza: la debolezza e l’impetuosità)
Per quanto, poi, riguarda i piaceri e i dolori, i desideri e le repulsioni derivati dal tatto e dal
gusto, che abbiamo precedentemente definiti come oggetti dell’intemperanza e della temperanza,
è possibile, da una parte, trovarsi nella situazione di essere sconfitti anche da quelli che i più
dominano, e, dall’altra, riuscire a dominare anche quelli a cui i più soggiacciono: di questi due
tipi di uomini, se si tratta di piaceri, il primo è incontinente e il secondo continente; se si tratta di
dolori, il primo è molle e il secondo è forte.
Nel mezzo sta la disposizione della maggior parte degli uomini, anche se essi inclinano di più
verso quelle peggiori. Poiché alcuni dei piaceri sono necessari e altri no, e poiché i primi sono
necessari fino ad un certo punto, mentre non lo sono i loro eccessi, né i loro difetti (e lo stesso
vale anche dei desideri e dei dolori), chi persegue gli eccessi nelle cose piacevoli o le cose
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necessarie in misura eccessiva, e lo fa per sua scelta, e le persegue per se stesse e per nient’altro
che possa derivarne, è intemperante: necessariamente, infatti, questo tipo di uomo non è capace
di pentimento, cosicché è incorreggibile, poiché chi è incapace di pentimento è incorreggibile.
Chi è in difetto nella ricerca del piacere è il contrario del precedente, mentre chi sta nel mezzo
è temperante. Lo stesso si dica anche di chi fugge i dolori corporei non perché ne è sconfitto, ma
per una scelta. Di coloro, invece, che non agiscono in base ad una scelta, alcuni si lasciano
trascinare dal piacere, altri dall’inclinazione ad evitare la sofferenza chederiva dal desiderio:
perciò sono diversi gli uni dagli altri. Ognuno, però, riterrà che, se uno compie un’azione
vergognosa senza alcun desiderio oppure con un desiderio debole, è peggiore di chi compia la
stessa azione spinto da un desiderio violento, e che, se uno colpisce senza essere in preda all’ira,
è peggiore di chi colpisca in preda all’ira: che cosa farebbe, infatti, se fosse in balia della
passione? È per questo che l’uomo intemperante è peggiore dell’incontinente.
Delle disposizioni descritte, dunque, una è piuttosto una specie di mollezza; l’altro tipo di
uomo, invece, è l’intemperante. Ora, all’incontinente si contrappone l’uomo continente, all’uomo
molle il forte: l’esser forte, infatti, sta nel saper resistere, mentre la continenza consiste nel
dominare, e ‘resistere’ e ‘dominare’ sono cose diverse, come anche ‘non lasciarsi sconfiggere’ e
‘vincere’: per questo la continenza è preferibile [pag. 1150b] alla semplice forza d’animo. Chi
manca di resistenza in quelle situazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini resiste e
ha la forza di resistere, è un uomo molle e sensuale (in effetti, la sensualità è una specie di
mollezza): come chi trascina il mantello per non far la fatica e darsi la pena di sollevarlo, e come
chi, quando fa l’ammalato, non capisce di essere davvero un disgraziato, se si fa simile ad un
disgraziato. Lo stesso vale anche nel caso della continenza e dell’incontinenza. Infatti, se uno
rimane sconfitto da piaceri o dolori violenti ed eccessivi, non c’è da meravigliarsi, ma ciò è
perdonabile se uno cerca di resistere, come il Filottete di Teodette morso dalla vipera, o il
Cercione nell’Alope di Carcino, e come quelli che, mentre si sforzano di trattenere il riso,
scoppiano a ridere d’un tratto, come capitò a Senofanto; ma è da meravigliarsi se uno, in
situazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini è capace di resistere, si lascia vincere
e non riesce ad opporre resistenza, e ciò non per cause di natura ereditaria o per malattia: per
esempio, tra i re degli Sciti la mollezza è ereditaria, e come la femmina è per natura differente
dal maschio.
Comunemente si ritiene che anche il tipo giocherellone sia un intemperante: in realtà è un
uomo molle. Infatti, il gioco è un rilassamento, se è vero che è uno stato di riposo`̀’. Il
giocherellone appartiene alla classe di coloro che eccedono nel concedersi riposo.
Aristotele, Etica nicomachea VII
67
Dell’incontinenza, poi, ci sono due forme: la precipitazione e la debolezza. Gli uni, dopo aver
preso una deliberazione non perseverano in ciò che hanno deliberato, a causa della passione; gli
altri si lasciano trascinare dalla passione per il fatto di non aver preso una deliberazione. Alcuni,
infatti (come quelli che, avendo sofferto il solletico in precedenza, non lo soffrono più, se hanno
presentito e previsto e se hanno risvegliato se stessi e la propria capacità di ragionare), non si
lasciano vincere dalla passione, né nel caso che sia piacevole né nel caso che sia dolorosa.
Soprattutto gli uomini vivaci ed eccitabili sono incontinenti per precipitazione: e gli uni per la
fretta, gli altri per la violenza della passione non stanno ad aspettare la conclusione del
ragionamento, per il fatto che sono inclini a seguire l’immaginazione.
Capitolo viii (L’intemperanza è peggio dell’incontinenza)
L’intemperante, come s’è detto, non è capace di pentimento, giacché persiste nella sua scelta;
ogni tipo di incontinente, invece, è capace di pentimento. Perciò le cose non stanno come le
abbiamo formulate nel problema, ma l’intemperante è incorreggibile, mentre l’incontinente è
correggibile. Infatti, la perversità è simile a malattie come l’idropisia e la tisi, mentre
l’incontinenza assomiglia ad attacchi di epilessia, giacché la prima è un male continuo, la
seconda è intermittente. E incontinenza e vizio appartengono a generi completamente differenti:
infatti, il vizio rimane nascosto al soggetto, l’incontinenza, invece, no.
[pag. 1151a] Degli incontinenti stessi, poi, quelli che sono come fuori di sé sono migliori di
quelli che la ragione ce l’hanno, ma non rimangono nei limiti di essa: questi ultimi, infatti, si
lasciano sconfiggere da una passione più debole, e non senza aver prima preso una deliberazione,
come, invece, fanno gli altri. Infatti, l’incontinente è simile a quelli che si ubriacano rapidamente
e con poco vino, anzi con una quantità minore che la maggior parte degli uomini.
Orbene, che l’incontinenza non è un vizio è manifesto (ma forse per qualche aspetto lo è):
l’incontinenza, infatti, è al di là della scelta, mentre il vizio deriva dalla scelta; ma, tuttavia, una
somiglianza c’è dal punto di vista delle azioni, come diceva Demodoco ai Milesi: ‘Milesi non
sono stupidi, ma si comportano come stupidi’; anche gli incontinenti non sono ingiusti, ma
commettono ingiustizie. Ora, l’incontinente persegue i piaceri corporali eccessivi e contrari alla
retta ragione, perché lui è fatto così e non perché sia convinto che sia bene, mentre
l’intemperante ha la convinzione che sia bene proprio perché lui è fatto in modo tale da
perseguire quei piaceri: perciò, il primo può facilmente essere persuaso a cambiare, il secondo
no. Infatti, la virtù salva il principio, il vizio, invece, lo distrugge, e nelle azioni il principio è il
fine, come le ipotesi in matematica. Orbene, né lì né qui è il ragionamento che ci insegna i
principi, ma qui è la virtù, sia naturale sia acquisita con l’abitudine, che ci insegna ad avere
Aristotele, Etica nicomachea VII
68
opinioni corrette sul principio. Dunque, chi è fatto così è temperante, e l’intemperante è il suo
contrario.
Ma c’è chi, a causa della passione, esce fuori di sé, in contrasto con la retta ragione, uomo che
la passione domina in modo da non permettergli di agire secondo la retta ragione, ma non fino al
punto da renderlo capace di lasciarsi persuadere di dover perseguire tali piaceri senza ritegno.
Questo è l’incontinente, migliore dell’intemperante, e non puramente e semplicemente malvagio:
qui, infatti, si salva la cosa migliore, il principio. Ma contrario a questo c’è un altro tipo di uomo,
quello che resta in sé e non esce fuori di sé, per lo meno non a causa della passione.
Da queste considerazioni, dunque, risulta manifesto che l’ultima è una disposizione virtuosa,
l’altra è cattiva.
Capitolo ix (Rapporti tra la continenza e l’ostinazione, l’incontinenza, l’insensibilità e la
temperanza)
È continente, dunque, colui che persiste in una ragione qualsiasi ed in una qualsiasi scelta
oppure colui che persiste nella retta scelta? E, viceversa, è incontinente colui che non persiste in
una scelta qualsiasi e in una ragione qualsiasi, oppure colui che non persiste nella ragione non
falsa e nella retta scelta? Questo è il problema come l’abbiamo posto prima. Non dobbiamo forse
dire che l’uno persiste, l’altro non persiste in una scelta qualsiasi per accidente, di per sé, invece,
nella ragione vera e nella scelta retta? Se, infatti, uno [pag. 1151b] sceglie o persegue questa
cosa in vista di quest’altra, per sé persegue e sceglie quest’ultima, per accidente, invece, la
prima. Ma con ‘per sé’ intendiamo dire ‘in senso assoluto’. Per conseguenza, è un’opinione
qualsiasi quella in cui l’uno persiste e da cui l’altro si distacca, ma in senso assoluto è l’opinione
vera.
Ci sono, poi, di quelli che sono perseveranti nella loro opinione, e li chiamiamo ostinati, i
quali sono difficili da persuadere, cioè non è facile persuaderli a cambiare. Essi hanno qualcosa
di simile all’uomo incontinente, come il prodigo al liberale e il temerario al coraggioso, ma sono
diversi per molti aspetti. L’uno, infatti, il continente, non cambia opinione solo per una passione
o per un desiderio, ché anzi, all’occasione, l’uomo continente si lascerà facilmente persuadere;
gli altri, invece, gli ostinati, non si lasciano guidare dalla ragione, perché, se non altro, accolgono
in sé desideri, e molti di loro si lasciano trascinare dai piaceri. Ed ostinati sono i testardi, gli
ignoranti e i rustici; i testardi lo sono a causa del piacere e del dolore: essi, infatti, sono contenti
della loro vittoria quando non si sono lasciati indurre a mutare opinione, e soffrono quando le
loro decisioni restano come decreti senza autorità. Per conseguenza, assomigliano di più
all’incontinente che al continente. Ci sono alcuni, poi, che non persistono nelle loro opinioni, ma
Aristotele, Etica nicomachea VII
69
non per incontinenza, come, per esempio, Neottolemo nel Filottete di Sofocle. Certo, fu a causa
di un piacere che egli non persistette, ma di un piacere bello; infatti, dire la verità per lui era una
cosa bella, ma fu persuaso a mentire da Ulisse. Infatti, non è che chiunque faccia qualcosa per
piacere sia intemperante o perverso o incontinente, ma chi lo fa per un piacere vergognoso.
C’è, poi, anche chi è tale da godere dei piaceri corporali meno di quanto si deve, e che perciò
non persiste nella ragione: è tra questo e l’incontinente che sta in mezzo l’uomo continente;
infatti, l’incontinente non persiste nella ragione per eccesso, quest’ultimo, invece, per difetto;
l’uomo continente, al contrario, persiste e non cambia per nessuno dei due motivi. Se è vero che
la continenza è virtuosa, bisogna che entrambe le disposizioni contrarie siano cattive, come pure
risulta manifesto: ma poiché una di esse si manifesta in pochi uomini e poche volte, come si
ritiene comunemente che la temperanza è contraria soltanto all’intemperanza, così si deve
ritenere anche che la continenza è contraria soltanto all’incontinenza.
Poiché molte espressioni si usano per analogia, ne è derivato, per conseguenza, che si parla
per analogia anche della continenza dell’uomo temperante: infatti, il continente è uomo che non
fa nulla contro la ragione a causa dei piaceri del corpo, [pag. 1152a] come pure il temperante,
ma uno possiede cattivi desideri, l’altro, invece, no, e l’uno è tale da non godere in contrasto con
la ragione, mentre l’altro è tale da godere, ma non da lasciarsi trascinare. E, pur essendo diversi,
l’incontinente e l’intemperante sono d’altra parte simili: entrambi perseguono i piaceri del
corpo, ma l’uno pensa di doverlo fare, l’altro, invece, non lo pensa.
Capitolo x (L’incontinenza è incompatibile con la saggezza pratica ma compatibile con la
destrezza)
La stessa persona non può essere insieme saggia e incontinente, giacché si è dimostrato che il
saggio è insieme uomo di valore anche nel comportamento. Inoltre, uno è saggio non solo per il
fatto di possedere un sapere teorico, ma anche per l’essere capace di metterlo in pratica: ma
l’incontinente non è capace di metterlo in pratica. Nulla, invece, impedisce che l’uomo abile sia
incontinente, ed è per questo che talora alcuni sono ritenuti saggi ma incontinenti, perché
l’abilità differisce dalla saggezza nel modo esposto nei nostri primi ragionamenti, nel senso che
sono vicini secondo la definizione, ma differiscono per via della scelta.
L’incontinente, quindi, non è come quello che conosce e contempla, ma come colui che
dorme o è ubriaco. E agisce volontariamente (infatti, sa in qualche modo che cosa sta facendo ed
in vista di che cosa lo fa), ma non è cattivo: la scelta, infatti, è buona; per conseguenza, è cattivo
a metà. E non è ingiusto, giacché non è subdolo. Infatti, dei due tipi di incontinenti, l’uno non
persiste in ciò che ha deliberato, mentre l’altro, il tipo eccitabile, non delibera affatto. E così
Aristotele, Etica nicomachea VII
70
l’uomo incontinente assomiglia ad una città che decreta tutto ciò che si deve ed ha buone leggi,
ma non le applica per niente, come diceva, scherzando, Anassandride:
‘Lo voleva la città, cui non importa nulla delle leggi’.
L’uomo cattivo, invece, assomiglia ad una città che applica le leggi, ma ne applica di cattive.
L’incontinenza e la continenza riguardano ciò che costituisce un eccesso rispetto alla
disposizione di carattere della massa: il continente, infatti, persevera di più, l’incontinente di
meno di quanto sia nella possibilità della maggioranza degli uomini.
Dei due tipi di incontinenza, quello da cui sono affetti gli uomini eccitabili è più facilmente
correggibile che non quello di coloro che, sì, deliberano, ma non perseverano, e gli incontinenti
per abitudine sono più facilmente correggibili di quelli che lo sono per natura. Infatti, è più facile
cambiare un’abitudine che non la natura: è proprio per questo che anche l’abitudine è difficile da
cambiare, perché assomiglia alla natura, come dice anche Eveno:
‘Affermo che l’abitudine è un lungo esercizio, o amico, e che, dunque, questo finisce con
l’essere per gli uomini come una natura’.
S’è detto, dunque, che cosa siano continenza e incontinenza, forza di carattere e mollezza, ed
in che rapporto stiano fra di loro queste disposizioni.
B: Il piacere(cfr. anche X i-v e lo schema comparativo)
Capitolo xi (Tre ragionamenti contrari al piacere come un bene)
[pag. 1152b] Studiare piacere e dolore è di competenza del filosofo politico: è lui, infatti,
l’architetto che determina il fine, guardando al quale noi chiamiamo ciascuna cosa buona o
cattiva in senso assoluto’’’. Inoltre, l’indagine su questi oggetti è necessaria, giacché abbiamo
posto che la virtù ed il vizio morale hanno per oggetto dolore e piacere, e la stragrande
maggioranza degli uomini afferma che la felicità implica il piacere: per questo hanno dato
all’uomo ‘beato’ una denominazione che deriva da ‘bearsi’. (1) Alcuni, dunque, ritengono che
nessun piacere sia un bene, né per sé né per accidente, giacché, dicono, bene e piacere non sono
la stessa cosa. (2) Altri ritengono, sì, che alcuni piaceri sono buoni, ma che per la maggior parte
sono cattivi. (3) Infine, una terza categoria di persone ritiene che, anche ammesso che tutti i
piaceri siano un bene, non è possibile che il sommo bene sia un piacere.
(1) Dunque, il piacere, nel complesso, non è un bene, a) perché ogni piacere è un divenire,
percepito dal soggetto, che conduce ad uno stato naturale, e, d’altra parte, nessun divenire
appartiene allo stesso genere del suo fine: per esempio, il processo di costruzione di una casa non
appartiene allo stesso genere della casa. b) Inoltre, l’uomo temperante fugge i piaceri. c) Inoltre,
Aristotele, Etica nicomachea VII
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il saggio persegue ciò che non provoca dolore, non ciò che è piacevole. d) Inoltre, i piaceri sono
un ostacolo alla riflessione morale, e tanto più quanto più intenso è il godimento come nel
piacere sessuale: nessuno infatti potrebbe pensare alcunché mentre lo prova. e) Inoltre, non c’è
alcuna arte del piacere: eppure ogni bene è opera di un’arte. f) Inoltre, bambini e bestie
perseguono i piaceri. (2) Dall’affermazione che non tutti i piaceri sono buoni il motivo addotto è
a) che ce ne sono di vergognosi e biasimevoli, e b) che ce ne sono di dannosi, giacché alcune
delle cose piacevoli producono malattie. (3) Infine, il motivo per cui il piacere non è il sommo
bene è che non è un fine ma un divenire. Questo è, pressappoco, quello che si dice.
Capitolo xii (Discussione della tesi secondo cui il piacere non è un bene)
Che poi da queste considerazioni non risulti che il piacere non è un bene né il sommo bene, è
chiaro da quanto segue.
(A) Innanzi tutto, poiché il termine ‘bene’ ha due sensi (l’uno assoluto, l’altro relativo), anche
le nature e le disposizioni avranno per conseguenza due sensi, e così anche i movimenti e le
generazioni: e di quelli che sono ritenuti cattivi alcuni lo sono, sì, in generale, ma per qualche
individuo no, anzi per costui sono desiderabili; alcuni, poi, non sono desiderabili neppure per una
persona determinata, se non qualche volta e per poco tempo, ma non sempre; altri, poi, non sono
neppure piaceri, ma ne hanno solo l’apparenza: sono quelli accompagnati da dolore e che hanno
come scopo, per esempio nel caso degli ammalati, la guarigione.
(B) Inoltre, poiché una specie del bene è attività, mentre l’altra è disposizione, i processi che
ci riportano nella disposizione naturale sono piacevoli solo per accidente; ma l’attività che si
realizza nei desideri è quella della disposizione naturale residua, poiché ci sono piaceri anche
senza dolore e desiderio (come, per esempio, [pag. 1153a] quelli della contemplazione), quando
la natura non manca di nulla. Ne è prova il fatto che gli uomini non godono del medesimo
oggetto quando la loro natura si va ricostituendo e quando è ricostituita, ma, quando la natura è
ricostituita, essi godono degli oggetti piacevoli in senso assoluto; quando, invece, si sta
ricostituendo, godono anche dei loro contrari; infatti, in questo caso, godono anche di sostanze
aspre ed amare, nessuna delle quali è piacevole per natura o in senso assoluto. Per conseguenza,
non lo sono neppure i piaceri, giacché la stessa differenza che c’è tra gli oggetti piacevoli, c’è
pure tra i piaceri che ne derivano.
(C) Inoltre, non è necessario che ci sia qualcosa di diverso, migliore del piacere, come alcuni
dicono che il fine sia rispetto al processo generativo: i piaceri, infatti, non sono dei processi né
sono tutti accompagnati da un processo, ma sono attività, cioè un fine: noi li proviamo non
perché diventiamo qualcosa ma perché esercitiamo qualche facoltà; e non di tutte le attività il
Aristotele, Etica nicomachea VII
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fine è qualcosa di diverse da loro stesse, ma solo di quelle che conducono alla perfezione della
natura. Perciò non va neanche bene dire che il piacere è un divenire percepito dal soggetto, ma
bisogna piuttosto dire che esso è attività della disposizione secondo natura, e al posto di
‘percepito’ bisogna dire ‘non impedito’. Alcuni ritengono che il piacere sia un divenire, perché
per loro è un bene in senso proprio; infatti, pensano che l’attività sia un divenire, mentre essa è
un’altra cosa.
Dire che ci sono piaceri cattivi perché alcune cose piacevoli sono causa di malattia, è lo stesso
che dire che alcune cose che sono utili alla salute sono cattive dal punto di vista economico.
Dunque, entrambe le cose sono cattive in questo senso, ma non lo sono per questo solo, poiché
anche il contemplare qualche volta danneggia la salute.
Il piacere che deriva da ciascuna facoltà non ostacola né l’esercizio della saggezza né alcuna
disposizione, ma sono i piaceri estranei che sono d’ostacolo, perché quelli che derivano dalla
contemplazione e dall’apprendimento faranno sì che noi contempliamo e apprendiamo sempre di
più.
Che nessun piacere sia opera di un’arte è una cosa che accade logicamente: l’arte, infatti, non
ha per oggetto alcun’altra attività, ma solo la potenza: eppure l’arte del profumiere e quella del
cuoco si ritiene che abbiano per oggetto il piacere.
Il fatto che l’uomo temperante fugga i piaceri ed il saggio persegua la vita priva di dolore, e
che i bambini e le bestie perseguano il piacere, tutte queste difficoltà sono risolte dal medesimo
ragionamento. Poiché, infatti, si è detto in che senso i piaceri sono buoni in senso assoluto ed in
che senso non sono tutti buoni: le bestie ed i bambini perseguono quelli che non sono buoni in
senso assoluto, e il saggio persegue la mancanza di dolore derivante dall’assenza di questi, dei
piaceri accompagnati da desiderio e da dolore, cioè quelli del corpo (ché questi sono di quel tipo)
ed i loro eccessi, secondo cui l’intemperante è intemperante. E per questo che l’uomo temperante
fugge questi piaceri, giacché ci sono dei piaceri anche dell’uomo temperante.
Capitolo xiii (Discussione della tesi secondo cui il piacere non è il bene principale)
[pag. 1153b] Ma anche che il dolore è un male e che deve essere fuggito è ammesso
concordemente: infatti, da una parte c’è il dolore che è un male in senso assoluto, e dall’altra il
dolore che è male per il fatto che in qualche modo è per noi un ostacolo. Ma il contrario di una
cosa che si deve fuggire proprio in quanto è qualcosa da fuggire, cioè un male, è un bene.
Dunque è necessario che il piacere sia un bene.
Speusippo, infatti, cercava di risolvere il problema dicendo che il più è contrario sia al meno
sia all’uguale, ma la sua soluzione non regge: non si potrà dire che il piacere è per essenza un
Aristotele, Etica nicomachea VII
73
male. Niente impedisce che il sommo bene sia un piacere determinato, anche ammettendo che
alcuni piaceri siano cattivi, come pure una scienza determinata, anche nell’ipotesi che alcune
scienze siano cattive.
(A) Certo, poi, se è vero che di ciascuna disposizione ci sono attività il cui esercizio non ha
ostacoli, è anche necessario che la felicità sia l’attività di tutte quante le disposizioni o di una
sola di esse, purché sia senza ostacoli, e che questa attività sia la più degna di essere scelta: ma
questo è un piacere. Per conseguenza, il sommo bene potrebbe essere un determinato piacere,
anche ammettendo che la maggior parte dei piaceri sia cattiva, magari in senso assoluto. E per
questo tutti pensano che la vita felice sia una vita piacevole, e contessono il piacere con la
felicità, a buon diritto. Infatti, nessuna attività è perfetta quando è ostacolata, e, d’altra parte, la
felicità appartiene al genere delle cose perfette. E per questo che l’uomo felice ha bisogno anche
dei beni del corpo, dei beni esteriori e di quelli della fortuna, per non essere ostacolato dalla loro
mancanza. Coloro, poi, che affermano che anche l’uomo messo al supplizio della ruota o
precipitato in grandi disgrazie è felice, purché sia buono, dicono, volontariamente o non, una
cosa priva di senso. Per il fatto, poi, che si ha bisogno anche della fortuna, alcuni ritengono che
la buona fortuna sia la stessa cosa che la felicità, mentre non lo è, perché anch’essa, quando è
eccessiva, è d’ostacolo, e forse allora non è più giusto chiamarla buona fortuna: infatti, la sua
definizione è relativa alla felicità.
(B) Il fatto, poi, che tutti, bestie e uomini, perseguano il piacere è segno che esso è in qualche
modo il sommo bene:
‘La fama non si spegne mai del tutto,
quando molta gente <la diffonde intorno>...’.
Ma poiché non è la stessa natura né la stessa disposizione che è o si ritiene che sia la migliore,
non è neppure lo stesso il piacere che tutti perseguono; eppure tutti perseguono un piacere. Forse
anche non perseguono il piacere che credono o quello che direbbero di perseguire, ma pur
sempre un piacere. Tutti gli esseri, infatti, hanno in sé qualcosa di divino. Ma i piaceri corporali
si sono appropriati di tutta l’eredità del nome, per il fatto che il più delle volte è ad essi che ci
accostiamo e che tutti ne partecipano: poiché, dunque, sono i soli ad essere noti, si pensa che
siano i soli ad esistere.
[pag. 1154a] (C) È poi chiaro anche che, se il piacere non è un bene né un’attività, l’uomo
felice non potrà vivere piacevolmente: infatti, a che scopo avrebbe bisogno del piacere, se esso
non è un bene, ma è anzi possibile vivere anche soffrendo? Allora, il dolore non è né un male né
un bene, se neppure il piacere lo è: ma, allora, perché fuggire il dolore? In conclusione, neppure
la vita dell’uomo virtuoso sarà più piacevole, se non lo sono anche le sue attività.
Aristotele, Etica nicomachea VII
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Capitolo xiv (Discussione della tesi secondo cui la maggior parte dei piaceri è cattiva, e della
tendenza ad identificare i piaceri corporei con il piacere in generale)
Per quanto riguarda, poi, in conclusione, i piaceri del corpo, coloro che dicono che almeno alcuni
piaceri sono molto desiderabili, per esempio quelli moralmente belli, ma non i piaceri del corpo,
cioè quelli che sono oggetto dell’intemperante, devono cercar di vedere perché, allora, i dolori
contrari sono cattivi: infatti, il contrario di un male è un bene. Non bisognerà forse dire che sono
buoni i piaceri necessari, nel senso che anche il non male è bene? O forse va detto che sono
buoni fino ad un certo punto?
Infatti, delle disposizioni e dei conseguenti movimenti di cui non è possibile un eccesso che
superi il meglio, non è possibile neppure un eccesso del piacere; di quelli, invece, di cui è
possibile un eccesso, è possibile anche l’eccesso del piacere. Ma dei beni corporali è possibile un
eccesso, e l’uomo vizioso è tale perché persegue l’eccesso, non perché persegue i piaceri
necessari: tutti, infatti, godono in qualche modo dei cibi, dei vini, degli atti sessuali, ma non tutti
come si deve. Il contrario succede nel caso del dolore: infatti, il vizioso non ne fugge solo
l’eccesso, ma fugge il dolore in generale, giacché non c’è un dolore contrario all’eccesso di
piacere se non per colui che questo eccesso persegue.
Ora, poiché bisogna dire non solo la verità ma anche la causa dell’errore (giacché questo
contribuisce a rafforzare la convinzione: quando, infatti, viene reso evidente e plausibile il
motivo per cui qualcosa appare come vero, pur non essendo vero, ciò fa aumentare la
convinzione della verità), bisogna, per conseguenza, dire perché i piaceri del corpo appaiono più
desiderabili.
Innanzi tutto, dunque, perché il piacere del corpo caccia il dolore: e a causa degli eccessi del
dolore, pensando che ne sia rimedio, gli uomini perseguono il piacere eccessivo, cioè, in
generale, il piacere del corpo. Questi rimedi, d’altra parte, sono molto efficaci, ed è per questo
che sono ricercati, perché si manifestano in contrasto con il loro contrario. Per conseguenza, il
piacere non è ritenuto buono per queste due ragioni, come s’è detto: da una parte, alcuni piaceri
sono azioni di una cattiva natura (sia per nascita, come quelle di una bestia, sia per abitudine,
come quelle degli uomini viziosi), altri sono, invece, dei rimedi di una natura difettosa, ed è
meglio essere sani che essere sulla via di diventarlo: [pag. 1154b] ma questi ultimi sono
caratteristici di coloro il cui stato perfetto è in corso di ricostituzione; dunque, sono buoni solo
accidentalmente.
Inoltre, i piaceri del corpo sono perseguiti, per il fatto di essere intensi, da parte di coloro che
non sono capaci di godere di altri piaceri: ci sono addirittura di quelli che si provocano da sé la
Aristotele, Etica nicomachea VII
75
sete. Quando questi piaceri non sono nocivi, non c’è da biasimarli; ma quando sono dannosi, è
male. Questi uomini, infatti, non hanno altre cose di cui godere, e lo stato neutro per molti è
doloroso, a causa della loro natura. Infatti, la natura animale è sempre sotto sforzo, come
testimoniano anche i naturalisti, quando dicono che vedere e udire implicano pena: ma ormai
siamo abituati, come dicono loro.
Parimenti, poi, durante la giovinezza, per il fatto che si sta crescendo, ci si comporta come
uomini pieni di vino, e la giovinezza è piacevole; d’altra parte, gli uomini di natura eccitabile
hanno sempre bisogno di cura. Il loro corpo, infatti, a causa della loro composizione biologica,
vive continuamente come in una morsa dolorosa, ed essi si trovano perennemente in uno stato di
violento desiderio: ora, il piacere caccia il dolore, sia il piacere specificamente contrario, sia un
piacere qualsiasi, purché sia molto intenso: e per queste ragioni essi diventano intemperanti e
perversi.
Ma i piaceri non accompagnati da dolore non comportano eccesso: e questi piaceri derivano
dalle cose piacevoli per natura e non per accidente. Intendo, poi, con ‘piacevoli per accidente’ le
cose che piacciono in quanto curano: perché, infatti, accade di essere curati grazie al fatto che ciò
che in noi rimane sano compie una determinata attività, ed è per questo che il rimedio è ritenuto
piacevole.
Chiamo invece ‘piacevoli per natura’ le cose che producono l’azione di una natura sana.
Nessuna cosa, poi, rimane per noi sempre piacevole, per il fatto che la nostra natura non è
semplice, ma c’è in noi anche un altro elemento (per il quale siamo corruttibili), cosicché se uno
dei due elementi fa qualcosa, questo è, per l’altra natura, contro natura, ma quando i due
elementi si uguagliano, ciò che essi fanno non è né doloroso né piacevole: poiché, se la natura di
un essere fosse semplice, sarebbe sempre la stessa azione ad essere la più piacevole per lui. È per
questo che Dio gode sempre di un piacere unico e semplice Infatti, non c’è solo un’attività del
movimento, ma c’è anche un’attività dell’immobilità, e il piacere sta più nella quiete che nel
movimento. Ma ‘il cambiamento, in tutte le cose, è dolce’, come dice il poeta, a causa di una
cattiva indole: infatti, come l’uomo cattivo è un uomo che cambia facilmente, così è cattiva
anche la natura che ha bisogno di cambiamento: non è, infatti, né semplice né buona.
Dunque, abbiamo detto della continenza e della incontinenza del piacere e del dolore, e qual è
la natura di ciascuno di essi e in che senso si tratta in un caso di cose buone e nell’altro di cattive.
Ci resta da parlare anche dell’amicizia.
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LIBRI OTTAVO E NONO: L’AMICIZIA
Libro VIII
[Bekker pag. 1155a]
A: I generi dell’amicizia
Capitolo i (L’amicizia è necessaria e nobile: le questioni principali a riguardo)
Capitolo ii (I tre oggetti dell’amore: le conseguenze dell’amicizia)
Capitolo iii (I tre generi corrispettivi di amicizia: la superiorità dell’amicizia indirizzata al
bene)
Capitolo iv (Il contrasto tra il genere migliore e quello peggiore)
Capitolo v (La disposizione di amicizia distinta dalla sua attività; L’intimità)
Capitolo vi (I rapporti tra i vari generi di amicizia)
B: La reciprocità dell’amicizia
Capitolo vii (In amicizie asimmetriche, bisogna mantenere la proporzione)
Capitolo viii (Amare è più essenziale nell’amicizia che l’essere amati)
C: Il rapporto della reciprocità nell’amicizia paragonato
a quello coinvolto in altre forme di vita comune
Capitolo ix (Analogia tra amicizia e giustizia: lo stato le comunità minori)
Capitolo x (Tassonomia delle costituzioni: analogie con i rapporti famigliari)
Capitolo xi (Forme parallele di amicizia e di giustizia)
Capitolo xii (I rapporti di amicizia tra parenti)
D: La casistica dell’amicizia
Capitolo xiii (I princìpi di scambio (a) in amicizia tra uguali)
Capitolo xiv (I princìpi di scambio (b) in amicizia tra disuguali)
Libro IX
[Bekker pag. 1163b]
Capitolo i (I princìpi di scambio (c) in amicizia in cui i motivi delle parti sono diversi)
Capitolo ii (Conflitto tra gli obblighi)
Capitolo iii (I motivi per rompere un’amicizia)
E. La natura interna dell’amicizia
Capitolo iv (Amicizia basata sull’amore proprio)
Capitolo v (Il rapporto tra l’amicizia e la benevolenza)
Capitolo vi (Il rapporto tra l’amicizia e la concordia)
Capitolo vii (Il piacere della beneficienza)
Aristotele, Etica nicomachea VIII-IX
77
Capitolo viii (La natura del giusto amore per se stessi)
F: La necessità dell’amicizia
Capitolo ix (Perché l’uomo felice ha bisogno di amici)
Capitolo x (Il limite al numero degli amici)
Capitolo xi (Abbiamo più bisogno di amici nella buona sorte o nella mala sorte?)
Capitolo xii (L’essenza dell’amicizia consiste nella comunione di vita)
78
LIBRO DECIMO: PIACERE E FELICITÀ
[Bekker pag. 1172a]
A: Il piacere(cfr. anche lib VII xi-xiv e lo schema comparativo)
Capitolo i (Due posizioni opposte riguardo al piacere)
Ciò basti intorno all’amicizia [; seguirebbe ora di trattare intorno al piacere]. Segue dunque,
dopo di ciò, che trattiamo del piacere. Esso infatti sembra più di ogni altra cosa strettamente
connaturato al nostro genere, per cui quelli che educano i giovani li dirigono col piacere e col
dolore; e sembra che sia importantissimo per la virtù etica il godere di ciò che si deve e il
dispiacersi di ciò che si deve. Infatti il piacere e il dolore si estendono per tutta la durata della
vita, avendo forza e potenza rispetto alla virtù e alla vita felice. Infatti gli uomini si propongono
le cose piacevoli e fuggono quelle dolorose. Tali questioni quindi minimamente sembrerebbe di
poterle passare sotto silenzio, soprattutto in quanto presentano molte discussioni.
Alcuni infatti identificano il piacere coi bene, altri al contrario sostengono ch’esso è
assolutamente cattivo, e di questi alcuni forse convinti che sia davvero cosi, altri invece
ritenendo che sia meglio per la nostra vita il mostrare il piacere come cosa cattiva, anche se non
lo è; giacché i più sono inclini ad esso e schiavi dei piaceri, perciò occorre portarli al lato
opposto, affinché così giungano nel giusto mezzo.
Ma è probabile che questo ragionamento non sia giusto. Infatti, per quanto riguarda le
passioni e le azioni, i discorsi sono meno persuasivi delle opere; perciò, quando essi discordino
da ciò di cui si ha sensazione, sono disprezzati e traggono in discredito anche la verità; infatti se
viene visto una volta ricercare il piacere colui che lo biasima, sembrerà ch’egli sia inclinato a
questo piacere come a qualunque altro; infatti il distinguere non è proprio della maggioranza.
Sembra dunque che la verità dei ragionamenti non solo sia utilissima al conoscere, ma anche alla
vita; [pagina 1172b] infatti, se essi concordano con le opere sono creduti, e perciò incitano
coloro che li comprendono a vivere seguendoli. Ma di ciò basta: veniamo invece alle opinioni
che furono espresse intomo al piacere.
Capitolo ii (Discussione della tesi secondo cui il piacere è il bene)
Eudosso, dunque, identificava il piacere col bene, giacché vedeva che tutti gli esseri aspirano ad
esso, sia quelli dotati di ragione sia quelli privi di essa. E diceva che tutti scelgono ciò che è
conveniente e ciò che è soprattutto migliore; e che il fatto che tutti siano portati alla stessa cosa
significa che essa è il sommo bene per tutti (ciascuno infatti ricerca ciò che è bene per lui, come
Aristotele, Etica nicomachea X
79
accade anche per il nutrimento), e che quindi ciò che è buono per tutti e a cui tutti aspirano, è il
bene. Questi suoi ragionamenti erano creduti più per la virtù del suo costume che per il loro
valore. Infatti egli sembrava essere straordinariamente moderato; e quindi sembrava ch’egli non
dicesse queste cose perché era amico del piacere, bensi che così fosse in verità.
Ed egli riteneva che ciò risultasse non meno evidente dal ragionamento contrario: infatti il
dolore di per sé è cosa da fuggirsi per chiunque, e quindi similmente dev’essere desiderabile il
contrario. E diceva che è da scegliersi soprattutto ciò che scegliamo non a causa -di altro o in
vista di altro; e che una tal cosa, per consenso di tutti, è il piacere; e che a nessuno si chiede per
quale fine egli gode, in quanto il piacere è desiderabile di per sé. Inoltre se esso si aggiunge a
qualcuno dei beni, lo rende ancora più desiderabile, come ad esempio se s’aggiunge all’agire con
giustizia e all’esser moderato; e il bene può accrescersi solo col bene.
Sembra invero che quest’argomento mostri che il piacere è uno dei beni, non però ch’esso sia
maggiormente bene di un altro bene; infatti ogni bene è più desiderabile se congiunto a un altro
bene che non se è isolato. Anzi da quest’argomento Platone ricava che il piacere non è un bene;
infatti egli dice che la vita piacevole è più desiderabile unita alla saggezza che separata da essa; e
se questo composto è migliore, allora il piacere non s’identifica col bene; infatti il bene non può
diventare più desiderabile perché gli si aggiunge qualche cosa. Ed è evidente che nessun altro di
quelli che sono beni per sé sarebbe il bene, se congiunto con un altro divenisse più desiderabile.
Che cos’è dunque questo bene, di cui noi siamo partecipi? Giacché è un tale bene che noi
andiamo cercando.
È probabile che quelli che si rifiutano di ammettere che sia un bene ciò a cui tutti gli esseri
aspirano, non dicano una cosa sensata. [pag. 1173a] Noi infatti ammettiamo che le cose siano
come tutti credono; e chi elimini una tal fiducia non dirà affatto alcunché di più credibile. Se
infatti soltanto ali esseri privi di ragione desiderassero il piacere, avrebbe senso questo
ragionamento, ma dal momento che lo desiderano anche gli esseri dotati di ragione, che valore
esso può avere? Anzi forse anche negli esseri inferiori v’è un impulso naturale al bene più forte
della loro stessa natura, che aspira al bene che è a loro proprio.
Ma non sembra che costoro ragionino bene neppure a proposito dell’argomento contrario.
Essi infatti dicono che, se pur il dolore è un male, non ne consegue che il piacere sia un bene;
dicono infatti che un male può anche opporsi a un altro male ed entrambi a qualcosa che non sia
né un bene, né un male; e non hanno torto dicendo così, tuttavia non sono nel vero nel problema
proposto. Infatti se entrambi, sia il piacere che il dolore, fossero mali, allora dovrebbero essere
entrambi da fuggirsi; e se non lo fossero entrambi non si dovrebbe fuggire né l’uno né l’altro, o
Aristotele, Etica nicomachea X
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comunque si dovrebbe farlo in misura eguale; ora invece è evidente che noi fuggiamo l’uno
come un male e scegliamo l’altro come un bene; in questo modo dunque essi sono opposti.
Capitolo iii (Discussione della tesi secondo cui il piacere è interamente male)
E neppure per il fatto che non è una delle qualità il piacere non è un bene: infatti non sono
qualità né le attività della virtù, né la felicità. Dicono ancora che il bene è determinato, mentre il
piacere è indeterminato, in quanto ammette un più e un meno. Ma se giudicano così dalle
differenze del godere, la stessa cosa sarà anche per la giustizia e per le altre virtù, a proposito
delle quali si dice esplicitamente che gli uomini sono più o meno di qualità virtuosa e che
<agiscono> più o meno secondo le virtù (è infatti possibile esser più giusti e più coraggiosi di
altri, ed è possibile agire con maggiore o minore giustizia e con maggiore o minore
moderazione); e se osservano ciò nei piaceri, tuttavia non ne indicano la causa, giacché alcuni
dei piaceri sono puri, altri sono misti. E che cosa impedisce che, come la salute, pur essendo
determinata, ammette un più e un meno, così sia anche del piacere? Infatti non vi è in tutti lo
stesso equilibrio, anzi non ve n’è neppure uno identico nella stessa persona; bensi esso si
mantiene pur allentandosi sino a un dato grado e differendo per il più e per il meno. È dunque
possibile che una tal cosa accada anche per il piacere.
Inoltre costoro, ponendo il bene come una cosa perfetta e i movimenti e le generazioni come
cose imperfette, cercano di dimostrare che il piacere è movimento e cosa che si genera. Ma non
sembra che dicano giustamente, né che il piacere sia movimento. Sembra infatti che siano
proprie di ogni movimento la velocità e la lentezza: e ciò, se non per se stesso, com’è il caso del
mondo, almeno rispetto ad altro; nel piacere invece non si trova né l’una né l’altra cosa. [pag.
1173b] Infatti è pur possibile giungere a rallegrarsi, come ad adirarsi, rapidamente; ma non è
possibile il provar piacere rapidamente, neppure rispetto ad altro, come accade per il camminare,
il crescere e tutte le cose simili. l~ possibile dunque rivolgersi al piacere rapidamente o
lentamente, ma l’attività in sé dei piacere, cioè il godere non può essere veloce.
D’altra parte come potrebbe il piacere essere un processo di generazione? Sembra infatti che
non da qualsiasi cosa si generi qualsiasi cosa, bensi che ciò da cui essa si genera sia ciò in cui
essa poi si dissolve; ma ciò da cui si genererebbe il piacere avrebbe come sua dissoluzione il
dolore. Dicono anche che il dolore sia la mancanza di qualcosa richiesto dalla natura e che il
piacere sia la sua soddisfazione. Ma queste sono affezioni del corpo. Se dunque il piacere è la
soddisfazione di qualcosa richiesto dalla natura, ciò in cui avviene il soddisfacimento, questo
dovrebbe i provar piacere: cioè il corpo. Ma non sembra che sia così. Dunque il piacere non è
Aristotele, Etica nicomachea X
81
neppure soddisfazione, bensi si prova piacere dell’avvenuta soddisfazione, ‘cosi come invece si
prova dolore quando ci si taglia.
L’opinione suddetta sembra essere sorta in base ai dolori e ai piaceri riguardanti il nutrimento:
infatti quando i si è stati privi di nutrimento e se ne è provato dolore, si gode di venire
soddisfatti. Ma ciò non accade per tutti i piaceri; infatti i piaceri che derivano dall’apprendere e,
tra quelli derivati dalla sensazione, quelli che sorgono per l’odorato, e il vedere e spesso l’udire, i
ricordi e le speranze sono piaceri privi di dolore. Quale sarebbe dunque l’origine della loro
generazione? Qui infatti non sorge mancanza di nulla di cui possa sorgere l’appagamento.
A coloro che pongono innanzi i piaceri più turpi si può rispondere che essi non sono neppure
piacevoli; infatti, se pure sono piacevoli a coloro che hanno cattive disposizioni, non bisogna per
questo ritenere che essi siano piacevoli ad altri che non siano costoro, come neppure debbono
considerarsi sane o dolci o amare le cose che sembrano tali a chi è ammalato, né considerarsi
bianche quelle che sembrano tali ai malati di occhi. Oppure si può rispondere che i piaceri sono
bensi desiderabili, ma non quelli che sono desiderati da costoro; ad esempio desiderabile è
l’arricchirsi, ma non l’arricchirsi di un traditore, e desiderabile è l’aver cura della salute, ma non
mangiando qualsiasi cosa. Oppure si può rispondere che i piaceri differiscono a seconda della
specie.
Infatti i piaceri che provengono dalle cose decorose sono diversi da quelli che provengono
dalle cose turpi e non è possibile che chi non è giusto goda del piacere della giustizia, né che chi
non è musico goda del piacere della musica, e altrettando dicasi degli altri casi. Anche il fatto
che l’amico sia differente dall’adulatore sembra mostrare che il piacere non sia un bene, o che vi
sono piaceri di diversa specie; infatti l’amico sembra frequentarci mirando al bene, l’adulatore
invece mirando al piacere e, mentre costui è biasimato, quello è lodato in quanto ci frequenta per
scopi diversi.
[pag. 1174a] Inoltre nessuno sceglierebbe di vivere mantenendo per tutta la vita la mentalità
di un fanciullo, godendo di ciò che godono soprattutto i fanciulli; né di godere compiendo
qualche azione turpissima, anche se non debba derivargliene dolore. Anzi noi possiamo porre
ogni cura in molte cose, anche se non ci apportano alcun piacere: ad esempio il vedere, il
ricordare, il conoscere, l’avere le virtù. E non c’importa per nulla che a tali cose conseguano
necessariamente dei piaceri; noi infatti le scegliererebbero anche se non ci derivasse piacere da
esse.
Che dunque il piacere non sia il bene e che non tutti i piaceri siano desiderabili, sembra che
sia chiaro; e così che ve ne sono alcuni desiderabili di per se stessi, i quali differiscono dagli altri
per specie e per provenienza.
Aristotele, Etica nicomachea X
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Capitolo iv (Definizione del piacere)
Basti dunque quanto s’è detto sulle opinioni intorno al piacere e al dolore; quali siano
invece la natura e il carattere del piacere, può divenir più evidente se riprendiamo da capo la
questione.
L’atto del vedere, come sembra, è perfetto in ogni momento (infatti esso non manca di
nulla che gli si aggiunga in più per rendere perfetta la sua forma): tale sembra essere anche il
piacere. Esso infatti è una totalità intera e in nessun periodo di tempo si potrebbe trovare
un piacere, la cui forma diventi più perfetta se se ne prolunga il tempo. Perciò il piacere non è
neppure movimento. Infatti ogni movimento, come ad esempio la costruzione di una casa, si
svolge nel tempo e in vista di un dato fine cd è perfetto quando abbia compiuto ciò a cui
mira o nell’intero suo periodo dr-tempo o nel momento finale; i movimenti parziali invece
nei loro singoli momenti sono tutti imperfetti e sono diversi dal movimento completo e diversi
tra di loro. Ad esempio la sistemazione delle pietre è cosa diversa dalla scanalatura delle
colonne, ed entrambe le cose sono diverse dall’intera costruzione del tempio; e la
costruzione del tempio è cosa perfetta (infatti in essa non manca nulla per lo scopo
proposto), invece quella del piedistallo e quella del triglifo è imperfetta (entrambe infatti sono
costruzioni di parti). Esse dunque differiscono per la specie e non è possibile in un qualsiasi
momento del movimento cogliere il movimento perfetto, bensì, se mai, nell’intero
movimento. Altrettanto è anche del camminare e degli altri movimenti. Se infatti la
traslazione è un movimento da un luogo a un altro, anche di essa vi sono però differenze a
seconda delle sue specie, quali il volare, il camminare, il saltare e simili; e non solo vi
sono queste differenze, ma ve ne sono anche nello stesso camminare. [pag. 1174b] Infatti il
movimento da un luogo a un altro non è lo stesso per lo stadio e per una parte di esso, e non è
lo stesso in una parte e nell’altra, né è lo stesso l’attraversare questa linea oppure quella. Infatti
non si tratta solo di attraversare una linea, bensì anche una linea che si trova in un dato luogo,
il quale è diverso da quello di un’altra. Ma del movimento si è trattato con esattezza altrove; ed
è evidente che esso non è perfetto in ogni momento, bensì numerosi movimenti sono
imperfetti e differiscono per specie, se pur l’andare da un luogo a un altro ha una sua
specie particolare. Invece la forma del piacere è perfetta in qualsiasi momento. È, evidente
dunque che movimento e piacere devono essere cose diverse tra loro e che il piacere appartiene
alle cose complete e perfette.
Ciò può risultare anche dal fatto che non è possibile muoversi se non in un certo periodo di
tempo, mentre così non è del piacere: infatti esso si sente tutto intero già in un solo istante. Da
Aristotele, Etica nicomachea X
83
ciò è evidente anche che non giustamente dicono che il piacere è movimento o cosa che si
genera. Infatti il movimento e la generazione non si possono attribuire a tutte le cose, bensì
solo a quelle divisibili in parti e non intere; infatti neppure dell’atto del vedere, né del
punto, né della monade v’è generazione, né alcuna di queste cose è movimento o
generazione; quindi altrettanto è del piacere, in quanto è qualcosa di completo.
Siccome ogni sensazione esercita la sua attività rispetto a un oggetto sensibile, essa si attuerà
perfettamente quando è in buona disposizione rispetto al più eccellente degli oggetti che
cadono sotto la sensazione; tale sembra essere soprattutto l’attività perfetta (e non si faccia
alcuna differenza tra il dire che la sensazione è in attività o che lo è ciò in cui essa si trova); in
ogni cosa dunque l’attività migliore sarà quella che si esplica quando si ha la miglior
disposizione verso ciò che è l’oggetto migliore che cade sotto di essa: questa sarà dunque la
migliore e la più piacevole. Infatti vi è piacere in rapporto a ogni sensazione e altrettanto in
rapporto a ogni razionalità e contemplazione; e l’attività più piacevole è la più perfetta, e la
più perfetta è quella di chi è ben disposto rispetto all’oggetto più eccellente che cade sotto
quell’attività.
Il piacere inoltre rende perfetto l’atto; e lo rende perfetto non nello stesso modo suddetto in
cui lo rendono perfetto l’oggetto sensibile e la sensazione, quando sono eccellenti; così
come neppure la salute e il medico sono nello stesso modo causa dell’esser sani. È quindi chiaro
che in corrispondenza di ogni sensazione sorge il piacere; infatti diciamo che il vedere e
l’ascoltare sono cose piacevoli. Ma è chiaro anche che sono sommamente piacevoli
allorché la sensazione è la migliore e si attua sull’oggetto migliore; quando il senziente e il
sentito sono tali, vi sarà sempre piacere, essendo presenti sia chi lo deve produrre sia chi lo deve
provare.
Il piacere poi perfeziona l’attività non come una disposizione conseguita, bensì come un
perfezionamento che vi si aggiunge, come ad esempio la bellezza per quelli che sono nel
fiore della giovinezza; vi sarà dunque piacere nell’attività finché sia l’oggetto pensabile o
sensibile sia ciò che discerne o contempla siano come devono essere; [pag. 1175a] infatti sorgerà
lo stesso risultato finché rimarranno uguali e si comporteranno nello stesso modo sia l’essere che
prova il piacere che quello che lo provoca.
Perché dunque nessuno prova piacere di continuo? forse perché si stanca ? Infatti tutto ciò che è
umano non può esercitare un’attività di continuo. E neppure ciò può essere del piacere: esso infatti
segue all’attività. Alcune cose ci fanno piacere perché sono nuove, ma, proprio per questo, in
seguito non ci fanno più altrettanto piacere; infatti da principio la razionalità è eccitata da esse ed
esercita in- tensamente la sua attività intorno ad esse, come, per quanto riguarda la vista, coloro
Aristotele, Etica nicomachea X
84
che guardano con attenzione; poi invece l’attività non resta la stessa, bensì si attenua, e per questo
anche il piacere si dilegua.
Si potrebbe credere che tutti desiderano il piacere perché tutti mirano a vivere e la vita e, in
certo modo, un’attività e ciascuno è attivo riguardo a quelle cose e con quelle facoltà, ch’egli
soprattutto preferisce; ad esempio il musico è attivo con l’udito riguardo alle melodie, l’amante
del sapere è attivo con la razionalità intorno alle cose speculative, e così anche ciascun altro nelle
altre cose. E il piacere perfeziona le attività e quindi quel modo di vita a cui ciascuno aspira.
Logicamente dunque si aspira al piacere: esso infatti perfeziona a ciascuno la vita, il che è cosa
desiderabile.
Tralasciamo poi per ora la questione se noi scegliamo di vivere per il piacere o scegliamo il
pia- cere per il vivere. Infatti il piacere e la vita appaiono collegati e non è possibile separarli;
infatti senza attività non sorge il pia- cere e il piacere perfeziona ogni attività.
Capitolo v (I piaceri differiscono a seconda le attività che accompagnano: criterio del valore
dei piaceri)
Sembra perciò anche che i piaceri differiscano per la specie. Infatti noi riteniamo che cose
diverse per la specie siano perfezionate da cose diverse.
Ciò appare infatti sia nelle cose naturali sia nei prodotti dell’arte: ad esempio sia negli esseri
viventi e negli alberi, sia nelle pitture, nelle statue, nelle case e nelle suppellettili. E similmente
sembra che anche le attività differenti per specie siano perfezionate da cose differenti
per specie. E le attività della razionalità differiscono da quelle proprie della sensazione e
differiscono tra loro per la specie: quindi differiscono anche i piaceri che le
perfezionano.
Ciò può risultare anche dal fatto che ciascun piacere è connaturato all’attività che
esso perfeziona. Infatti l’attività è accresciuta dal piacere che le è proprio, giacché chi
agisce con piacere giudica meglio e compie con più precisione ciascuna cosa; ad
esempio quelli che trovano piacere nella geometria divengono geometri e meglio
comprendono ciascuna parte di essa; similmente anche degli amanti della musica e
dell’architettura e delle altre arti ciascuno progredisce nella sua propria opera quando
prova piacere in essa. Infatti il piacere s’accresce con l’attività e le cose che
s’accrescono insieme sono connaturate. [pag. 1175b] E alle cose diverse poi debbono
essere connaturate cose diverse per specie.
Ciò può apparire ancor più chiaro dal fatto che le attività sono ostacolate dai
piaceri che derivano da attività diverse: infatti gli amanti del flauto sono
Aristotele, Etica nicomachea X
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impossibilitati di prestare attenzione ai ragionamenti, se odono qualcuno che suona il
flauto, giacché godono di più del suono del flauto che dell’attività di:tui si occupavano;
perciò il piacere relativo al suono del flauto danneggia l’attività relativa al
ragionamento. Similmente ciò accade anche negli altri casi, quando si sia
contemporaneamente in attività rispetto a due cose diverse; infatti l’attività delle cose
più piacevoli distrae dall’altra e ciò tanto più quanto più le dne attività differiscano
nel piacere, cosicché si giunge a non agire più nell’altra attività. Perciò, se godiamo
intensamente di una cosa, non facciamo più altro, quando invece un’occupazione ci
piace scarsamente ci mettiamo a fare altro; come ad esempio quelli che in teatro
mangiano dolciumi fanno ciò soprattutto quando gli attori recitano male. E, poiché
ciascuna attività è resa più precisa, più duratura e migliore dal piacere che le è proprio,
mentre i piaceri ad essa estranei la danneggiano, è evidente che tra i piaceri v’è molta
differenza. I piaceri estranei a una attività, infatti, producono quasi lo stesso risultato che i dolori
che le sono propri, giacché i dolori propri danneggiano le attività, come ad esempio se a
qualcuno è spiacevole o fastidioso lo scrivere o il far conti: uno infatti non scrive, un altro non fa
conti se quest’attività gli è fastidiosa. Risultano quindi effetti opposti per le attività dai piaceri e
dai dolori che sono loro propri; e sono propri quelli che sorgono nell’attività per essa stessa.
Invece s’è detto che i piaceri estranei producono press’a poco l’effetto del dolore; essi infatti
danneggiano, per quanto non nella stessa maniera.
Poiché poi le attività differiscono per la loro convenienza o sconvenienza morale e poiché
alcune di esse sono da scegliersi, altre sono da fuggirsi, altre né da scegliersi né da fuggirsi,
similmente accade anche dei piaceri; infatti a ogni attività buona corrisponde un piacere per bene,
a ogni attività cattiva un piacere perverso; infatti i desideri delle cose belle sono degni di lode,
quelli delle cose turpi degni di biasimo.
I piaceri propri delle singole attività sono però ad esse più connaturati che gli appetiti; infatti
gli appetiti sono separati sia per il tempo sia per la loro natura, i piaceri invece sono intimamente
uniti alle attività e non separabili da esse, cosicché vi è persino dubbio se l’attività sia la stessa
cosa che il piacere. Invero il piacere non è né razionalità né sensazione (ciò infatti sarebbe
assurdo), ma poiché i piaceri non possono essere separati da ciò, ad alcuni sembrano la stessa
cosa. Come dunque le attività sono differenti, così lo sono anche i piaceri. [pag. 1176a] La vista
differisce per purezza dal tatto; e così l’udito e l’odorato differiscono dal gusto; similmente
differiscono anche i piaceri corrispondenti: e da questi piaceri si differenziano i piaceri della
razionalità, e in ciascuna categoria, i piaceri si differenziano tra loro.
Aristotele, Etica nicomachea X
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E sembra anche che per ciascun essere vivente ci sia un piacere a lui proprio, come v’è pure
una funzione a lui propria: essa infatti è in rapporto alla sua attività. E ciò può apparire evidente
a chi esamina ciascun essere: infatti diverso è il piacere del cavallo da quello del cane e da quello
dell’uomo; così come giustamente Eraclito dice che un asino preferirebbe della paglia
piuttosto che dell’oro; infatti per gli asini il cibo è più piacevole dell’oro.
Dunque i piaceri degli esseri di specie differente differiscono per specie e sembrerebbe
logico che quelli della stessa specie siano identici. Invece per ciò che riguarda gli
uomini, i piaceri differiscono non poco. Infatti le stesse cose dilettano gli uni e
addolorano gli altri e ad alcuni sono dolorose e odiose le cose che ad altri sono piacevoli
e amabili. Ciò accade anche per le cose dolci: infatti esse non sembrano le stesse a chi
ha la febbre e a chi è sano, né il caldo appare lo stesso a chi è debole e a chi è sano. E
similmente ciò accade anche per gli altri casi. In tutti questi casi sembra che la cosa
sia come appare all’uomo virtuoso. Se è giusto dir così, come sembra, allora la
misura di ciascuna cosa saranno la virtù e l’uomo buono in quanto tale, e veri
piaceri saranno quelli che a lui sembrano tali e piacevoli le cose di cui egli gode. E
uno non deve per nulla meravigliarsi se a qualcuno sembrano piacevoli le cose che a
lui sono disgustose; infatti negli uomini sorgono molte corruzioni e impurità; e queste
cose non sono veramente piacevoli, bensì lo sono solo a costoro e a quelli che hanno tale
disposizione.
I piaceri dunque che concordemente sono ritenuti turpi è chiaro che non bisogna
neppure definirli piaceri, se non per chi è corrotto. Ma tra i piaceri che sembrano
essere moralmente convenienti quale e di qual natura diremo che è quello dell’uomo?
Non è forse evidentemente quello che deriva dalle sue attività? Ad esse infatti
conseguono i piaceri.
Sia dunque che vi sia una sola attività dell’uomo perfetto e beato, sia che ve ne
siano parecchie, si potranno dire propriamente piaceri dell’uomo quelli che
perfezionano queste attività; gli altri invece saranno piaceri solo in via secondaria e
del tutto accessoriamente, come pure le attività ad essi corrispondenti.
B: La felicità
Capitolo vi (La felicità è attività buona, non divertimento)
Aristotele, Etica nicomachea X
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Avendo dunque trattato delle virtù, delle amicizie e dei piaceri, resta che parliamo in
abbozzo generale della felicità, giacché la consideriamo come il fine delle azioni umane. E se
ci riferiamo a ciò che s’è detto prima, il nostro ragionamento potrà essere più breve.
Abbiamo detto che essa non è una disposizione: in tal caso infatti essa si troverebbe
anche in chi dormisse tutta la vita, vivendo così una vita puramente vegetativa e in chi
subisse le più grandi disgrazie. [pag. 1176b] Se dunque questo non può ammettersi, bensì
piuttosto dobbiamo porre la felicità in un’attività, come s’è detto precedentemente, e se
delle attività alcune sono necessarie ed eleggibili in vista d’altro, altre invece sono scelte per
se stesse, è evidente che bisogna porre la felicità tra le attività scelte per esse stesse e non tra
quelle scelte in vista di altro; infatti la felicità non è manchevole di null’altro, bensì è
autosufficiente.
Sono eleggibili per se stesse quelle attività dalle quali non ci si attende altro all’infuori
dell’attività stessa. Tali sembrano essere le azioni conformi a virtù; infatti il compiere cose
belle e virtuose è proprio delle azioni eleggibili di per se stesse. Tali sono anche i divertimenti
piacevoli: essi infatti non sono scelti in vista di altro; infatti da essi si riceve danno piuttosto che
utilità, in quanto si trascurano per essi il nostro corpo e le nostre sostanze. E la maggior parte
degli uomini ritenuti felici ricorre a tali trattenimenti; per questo hanno favore presso i
tiranni le persone che sono facete in tali trattenimenti; queste infatti si mostrano piacevoli
ad essi nelle cose a cui essi aspirano, giacché è di ciò che i ti- ranni hanno bisogno. E
queste cose si credono quindi capaci di far felici, giacché i potenti passano il tempo appunto in
esse.
Ma tuttavia tali persone non costituiscono una prova; infatti né la virtù né l’intelletto
consistono nell’esser potenti: ed è da ciò che derivano le attività virtuose; e se questi,
essendo privi del gusto del piacere puro e degno d’un uomo libero, ricorrono ai piaceri
del corpo, non per questo bisogna ritenere che questi siano più desiderabili; infatti anche i
fanciulli credono che siano le migliori le cose che essi apprezzano. Anzi è logico che, come
diverse sono le cose che sembrano preziose ai fanciulli e agli uomini, altrettanto
diverse lo siano per gli uomini cattivi e per quelli per bene.
Come dunque spesso s’è detto, sono preziose e piacevoli le cose che sembrano tali
all’uomo virtuoso; e per ciascuno l’attività più desiderabile è quella che è
conforme alla sua disposizione, quindi per l’uomo virtuoso la più desiderabile è
l’attività conforme a virtù. Dunque la felicità non consiste nel divertimento. E infatti
sarebbe assurdo che il fine fosse il divertimento e che ci si affaticasse e ci si affannasse per
tutta la vita solo allo scopo di divertirsi. Tutte le cose infatti, per così dire, le scegliamo in vista
Aristotele, Etica nicomachea X
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di altro, eccetto la felicità; essa infatti è il fine. Invece l’agir seriamente e l’affaticarsi a
scopo di divertimento sembra cosa sciocca e troppo puerile; mentre invece lo scherzare al
fine di agire seriamente, secondo il detto di Anacarsi, sembra essere giusto. Infatti il
divertimento sembra un riposo, giacché gli uomini, non potendo agire continuamente, hanno
bisogno di riposo. [pag. 1177a] Ma il fine non è il riposo: esso infatti sorge solo in vista
dell’attività.
Felice invece sembra essere la vita secondo virtù: essa infatti si svolge con serietà e non
consiste nel divertimento. E noi diciamo che le cose serie sono migliori di quelle comiche
e divertenti e chiamiamo più seria l’attività della parte migliore dell’uomo; e l’attività
della parte migliore è appunto la più preziosa e la più capace di darci felicità. E dei piaceri
del corpo potrà godere un qualsiasi uomo e uno schiavo non meno dell’uomo migliore; ma
nessuno potrebbe render partecipe uno schiavo della felicità, a meno che lo renda partecipe
anche della vita di un uomo libero. Infatti la felicità non risiede in questi trattenimenti,
bensì nelle attività conformi a virtù, come s’è detto anche prima.
Capitolo vii (La felicità nel senso più alto è la vita contemplativa)
Se dunque la felicità è un’attività conforme a virtù, logicamente essa sarà conforme alla
virtù superiore; e questa sarà la virtù della parte migliore dell’anima. Sia dunque essa
l’intelletto oppure qualcosa d’altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e
avere nozione delle cose belle e divine o perché esso stesso divino o perché è la parte più
divina di ciò che è in noi, comunque la felicità perfetta sarà l’attività di questa parte, conforme
alla virtù che le è propria.
Che essa sia l’attività contemplativa è stato detto. E ciò apparirà concordare sia con ciò
che s’è detto prima sia con la verità. Quest’attività è infatti la più alta; infatti l’intelletto è tra
le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle a cui
si riferisce il pensiero.
Ed è anche l’attività più continua; noi infatti possiamo contemplare più di
continuo di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Pensiamo poi che alla felicità debba
essere congiunto il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è
quella relativa alla sapienza; sembra invero che la filosofia apporti piaceri meravigliosi
per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi
conosce che non per chi ancora ricerca il vero.
E l’autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’attività
contemplativa. Infatti è pur vero che dei mezzi necessari al vivere hanno bisogno sia il
Aristotele, Etica nicomachea X
89
sapiente, sia il giusto, sia gli altri uomini; tuttavia, una volta che siano stati provvisti
sufficientemente di essi, il giusto ha ancora bisogno di persone ch’egli possa trattare
giustamente e con le quali esser giusto, similmente anche l’uomo moderato e il coraggioso e
ciascuno degli altri uomini virtuosi; l’uomo sapiente, invece, anche da se stesso potrà
contemplare, e ciò tanto più, quanto più è sapiente; forse è meglio se ha dei collaboratori,
ma tuttavia egli è del tutto autosufficiente.
[pag. 1177b] Inoltre sembra che l’attività contemplativa sia la sola ad essere amata per
se stessa; infatti da essa non deriva alcun altro risultato all’infuori del contemplare, mentre
dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più o meno importante, oltre all’azione
stessa. Sembra poi che la felicità risieda nell’agiatezza; infatti noi affrontiamo i disagi
per esser poi in agiatezza, e facciamo guerra per essere poi in pace. Ordunque, le attività
delle virtù pratiche si esplicano nelle cose politiche e di guerra; ma le azioni relative a tali cose,
specialmente quelle di guerra, sono evidentemente prive di agio; e infatti nessuno sceglie
di far guerra, né prepara la guerra al solo scopo di guerra, giacché sembrerebbe un vero
sanguinario che si rendesse nemici gli amici per far sorgere battaglie e uccisioni. Ma
anche l’attività dell’uomo politico è disagiata e, oltre all’occuparsi di politica, deve
preoccuparsi di procurarsi potere e onori e procurare a sé e ai cittadini quella felicità che è
diversa dalla politica e che noi ricerchiamo evidentemente come diversa da essa.
Se dunque tra le azioni conformi alle virtù quelle politiche e quelle di guerra eccellono per
bellezza e per grandezza, ma sono disagiate e mirano a un altro fine e non sono scelte per
se stesse, se invece l’attività dell’intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per
dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa e ad avere un proprio piacere
perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente, agevole, ininterrotta per quanto è
possibile all’uomo e sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità che si attribuiscono
all’uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata intera della
vita. Infatti in ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto.
Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli
vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino; e di quanto esso eccelle
sulla struttura composta dell’uomo, di tanto eccelle anche la sua attività su quella conforme alle
altre virtù. Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino,
anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana.
Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose
umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi
immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur
Aristotele, Etica nicomachea X
90
infatti essa è piccola per estensione, [pag. 1178a] tuttavia eccelle di molto su tutte le altre
per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi
consista proprio in essa; sarebbe quindi assurdo se l’uomo scegliesse non la vita a lui
propria, bensì quella propria di altri. E ciò che prima s’è detto s’accorda con ciò che ora
diciamo: cioè quello che a ciascuno è proprio per natura è la cosa per lui migliore e più
piacevole. E per l’uomo ciò è la vita conforme all’intelletto, se pur in ciò consiste soprattutto
l’uomo. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice.
Capitolo viii (Ulteriori considerazioni sulla vita contemplativa)
Al secondo posto sta la vita conforme alla virtù etica; infatti le attività a essa conformi sono
quelle umane; infatti tra di noi esercitiamo le azioni giuste, quelle coraggiose e quelle conformi 1
alle altre virtù sia nei contratti, sia nei rapporti sociali, sia nelle azioni di ogni genere e nelle
passioni, avendo cura di rispettare ciò che compete a ciascuno: e tutte queste appaiono
essere cose umane. Sembra anche che in alcune cose la virtù etica proceda dal corpo e che
in molti casi essa sia intimamente congiunta con le passioni. Anche la saggezza è unita alla
virtù morale e questa è unita alla saggezza, in quanto i principi della saggezza sono
conformi alle virtù etiche e la rettitudine delle virtù etiche è conforme alla saggezza. E le
virtù, che sono così connesse anche alle passioni, saranno proprie della struttura composta
dell’uomo; e le virtù di questa struttura composta sono umane. E altrettanto lo sono la
vita e la felicità a esse conformi. Invece la vita del pensiero è separata. Ma su di essa
basti ciò che s’è detto; infatti il determinarla più esattamente andrebbe oltre il nostro
compito.
Sembrerebbe anche che la vita contemplativa abbia poco bisogno dei beni esteriori, o ne
abbia meno bisogno della virtù etica. E se pur a entrambe s’ammette che vi sia un pari
bisogno delle cose necessarie (per quanto l’uomo politico si affanni di più intorno alle cose del
corpo e a quelle del genere; ciò infatti può avere poca importanza), tuttavia vi sarà molta
differenza quanto alle attività. Infatti l’uomo generoso avrà bisogno di ricchezze per poter
compiere le azioni genérose, l’uomo giusto ne avrà bisogno per contraccambiare i benefici
(infatti la volontà non è visibile e anche quelli che non sono giusti fingono di voler compiere
azioni giuste), l’uomo coraggioso avrà bisogno di potenza, se vorrà compiere qualcuna delle
azioni conformi alla [propria] virtù, l’uomo moderato avrà bisogno di libertà. Altrimenti
come sarebbe manifesto se il carattere dell’uomo virtuoso è questo o un altro?
Sorge poi la questione se per la virtù sia più importante il proponimento o invece lo siano le
azioni, giacché essa può trovarsi in entrambe le cose [pag. 1178b]; ma evidentemente la
Aristotele, Etica nicomachea X
91
perfezione risiederà in entrambe; comunque per le azioni v’è bisogno di molte cose e di
cose tanto più numerose, quanto più le azioni sono importanti e belle. Invece chi contempla
non ha bisogno di nessuna di queste cose per la sua attività, ma anzi, per così dire, esse sono
d’impedimento alla speculazione; in quanto però egli è uomo e convive con molti uomini, egli
deve scegliere di compiere le cose conformi a virtù; e quindi per vivere da uomo avrà bisogno di
tali cose. Che poi la felicità perfetta risieda in un’attività contemplativa può risultare anche dal
fatto seguente.
Noi cioè immaginiamo che gli dèi siano sommamente beati e felici: quali azioni dunque
si devono attribuire ad essi? Forse quelle giuste? Ma non sembreranno forse ridicoli,
qualora facciano contratti, si restituiscano depositi e facciano simili cose? Oppure le azioni
coraggiose, immaginando che compiano cose paurose e che corrano pericolo perché è
decoroso ? Oppure le azioni generose? Ma a chi doneranno? Ma sarà assurdo che essi abbiano
monete o cose simili. E le loro azioni moderate quali 1 sarebbero? Non sarebbe forse cosa
grossolana il lodarli perché non hanno cattivi desideri?
Se si considera tutto ciò che riguarda le azioni, ci apparirà sempre piccolo e indegno degli
dèi. Eppure tutti ritengono che essi vivano e che quindi siano in attività, non che dormano come
Endimione. Se dunque a chi vive si toglie l’agire, e ancor più il creare, che cosa resta se
non la contemplazione? Cosicché l’attività del dio, che eccelle per beatitudine, sarà
contemplativa. Quindi anche tra le attività umane quella che è più congenere a questa,
sarà quella più capace di render felici. Prova di ciò è anche il fatto che gli altri esseri viventi
non partecipano della felicità, poiché sono completamente privi di questa attività. Invece
per gli dèi tutta la vita è beata, e per gli uomini lo è in quanto vi è in essi un’attività simile
a quella; ma nessuno degli altri esseri viventi è felice, perché non partecipa per nulla alla
speculazione.
Per quanto dunque s’estende la speculazione, di tanto s’estende anche la felicità, e in quelli
in cui si trova maggiore speculazione v’è anche maggiore felicità: e ciò accade non per
caso, ma per via della speculazione: essa infatti ha valore di per se stessa. Così la felicità è
una specie di speculazione.
Essendo uomini, però, si avrà bisogno anche della prosperità esteriore; infatti la natura non è
sufficiente per l’attività contemplativa, bensì occorre che anche il corpo sia sano e si abbiano
il cibo e le altre risorse. [pag. 1179a] Tuttavia non si deve pensare che per essere felice
occorrano molte e grandi cose, se pur non è possibile esser beato senza i beni esteriori; infatti
l’autosufficienza e l’azione non consistono nell’eccesso dei beni; ed è possibile compiere le
azioni decorose anche se non si comanda in terra e in mare; infatti anche sulla base di beni
Aristotele, Etica nicomachea X
92
moderati si potrà agire secondo la virtù. È possibile vedere ciò chiaramente, giacché i privati
sembrano compiere le azioni convenienti non meno dei potenti, ma anzi anche di più. È
sufficiente avere quanto si è detto; infatti felice sarà la vita di chi svolge la sua attività
secondo la virtù.
Solone definì probabilmente bene gli uomini felici, dicendo che sono coloro che sono
stati forniti mediocremente dei beni esteriori, ma che hanno compiuto le azioni più belle,
com’egli pensava, e che hanno vissuto secondo moderazione; è infatti possibile che coloro che
posseggono beni misurati compiano ciò che si deve. E sembra che anche Anassagora abbia
sostenuto che l’uomo felice non s’identifichi col ricco né col potente, dicendo ch’egli non si
sarebbe meravigliato se un uomo felice fosse sembrato uno spostato ai più; essi infatti
giudicano dai beni esteriori, accorgendosi soltanto di questi. Anche le opinioni dei sapienti
sembrano dunque concordare coi nostri ragionamenti, e anche tali opinioni hanno un valore
di credibilità; però nelle cose riguardanti azioni la verità si giudica dalle opere e dalla vita: in
esse infatti sta l’essenziale.Perciò bisogna esaminare le cose dette precedentemente riferendole
alle opere e alla vita, e se concordano con le opere accoglierle, se invece discordano, ritenerle
soltanto parole.
L’uomo che esplica la sua attività secondo l’intelletto e ha cura di esso sembra sia essere
disposto ottimamente, sia essere carissimo agli dèi; se infatti da parte degli dèi vi è, come
sembra, qualche cura delle cose umane, sarà logico che essi godano di ciò che è migliore ed è più
affine a loro (e questo sarà l’intelletto), e sarà logico che essi ricompensino chi ama e onora
soprattutto ciò, in quanto costoro si danno cura delle cose a loro care e agiscono bene. E
che tutte queste cose si trovino soprattutto nel sapiente, è chiaro. Quindi egli è carissimo agli dèi.
Ed è naturale che costui sia anche il più felice; cosicché anche per questo il sapiente è
sommamente felice.
Capitolo ix (La legislazione è necessaria per arrivare al fine: transizione alla Politica)
Aristotele, Etica nicomachea X
93
I due trattamenti del piacere nell’Etica nicomachea
Libro VII 1152b1 - 1154b34
Libro X 1172a16 - 1176a29
2b1-7
(1) Introduzione Dobbiamo discutere il piacere per il suo rapporto con il fine; la virtù morale si sviluppa attraverso il piacere e il dolore; la maggior parte della gente associa il piacere al vivere bene
2a16-27
(1) Introduzione L’importanza del piacere deriva dal suo ruolo nell’educazione morale; la virtù morale consiste nell’odiare e amare le cose appropriate; il piacere ci attira durante tutta la nostra vita
2b2-8
(2) Varie tesi (i) Nessun piacere è bene (ii) Alcuni piaceri sono buoni, ma per lo più sono cattivi (iii) Anche se tutti i piaceri sono buoni, il bene non è (un) piacere
2a28-b8
(2) Varie tesi (i) Il piacere s’identifica con il bene (tesi di Eudosso) (ii) Il piacere è vergognoso
2b12-24
(3) Ragionamenti a sostegno di (2) (i)-(iii) (i) (a) piacere sembra un cambiamento (genesis), ma nessun cambiamento è un fine (b) i temperati fuggono dal piacere
(c) i saggi cercano l’assenza di dolore (d) il piacere ostacola il pensiero (e) non c’è arte del piacere (f) bambini e animali cerrcano il piacere
(ii) Alcuni piaceri sono vergognosi, dannosi o malati
(iii) Il piacere è un cambiamento e non un fine
2b9-25
(3) Ragionamenti a sostegno di (2) (i) (a) tutti gli esseri scelgono il piacere; ciò che è
scelto per se stesso è il bene (b) Eudosso lo dice nonostante la sua
temperanza (c) il dolore, che è l’opposto del piacere, è un
male e sempre da fuggire (d) il piacere migliora altri beni
2b25- 3a35
(4) I ragionamenti di Aristotele Contro (i) e (ii): molti piaceri sono buoni al
momento giusto; piaceri turpi non sono veramente piaceri
Contro (i) (a) e (iii): non tutti i piaceri sono cambiamenti; alcuni sono perfetti/completi; il piacere è un’attualizzazione
Contro (ii): alcuni dei piaceri cattivi lo sono solo in senso relativo
Contro (i) (d), (e), (b-c), (f): è l’eccesso che rende i piaceri cattivi
2b26-4a12
(4) Ragionamenti contro (2) (i) (a) l’intelligenza aggiunta al piacere lo
migliora (Platone) (b) non è vero che ciò che tutti desiderano è il
bene (c) il dolore ha due opposti: il piacere e il
bene, quindi questi non sono identici (Speusippo)
(d) il piacere non è una qualità (e) il piacere è indeterminato, mentre il bene è
determinato (Platone e i pitagorici) (f) il piacere è un movimento (genesis) (g) alcuni piaceri sono vergognosi (h) gli amici non sono lusighieri perché
vogliono il nostro bene e non solo il nostro piacere
(i) ci sono cose che dobbiamo volere anche senza piacere
3b1- 4a7
(5) La posizione di Aristotele Il piacere è l’opposto del dolore e del male; il ragionamento di Speusippo sugli opposti non regge; quindi il bene potrebb’essere (un) piacere, visto che il piacere è un’attualizzazione senza ostacoli. Che tutti gli esseri cercano il piacere è pacifico La gente s’inganna nel pensare che tutti i piaceri sono piaceri del corpo
4a13-5a3
(5) La posizione di Aristotele Il piacere è come la percezione: è completo in ogni momento. È una perfezione aggiunta all’attualizzazione: ‘come la bellezza per quelli che sono nel fiore della giovinezza’
Aristotele, Etica nicomachea X
94
4a8-b34
(6) Il bene dei piaceri del corpo Seguire i piaceri eccessivi fa male; ma il piacere rimpiazza il dolore; i piaceri che non presuppongono un dolore antecedente non possono incorrere nell’eccesso; la natura composta dell’uomo spiega perché non può godere senza interruzione: solo Dio può aver un semplice piacere perpetuamente
5a3-6a29
(6) Risoluzione di alcuni problemi Perché nessuno gode senza interruzione Perché ha senso dire che tutti cercano il
piacere e la connessione tra piacere e attualizzazione
Perché i piaceri sono di tipi diversi Perché il piacere migliora le prestazioni Perché un piacere in un’attualizzazione può
essere cattivo: perché lo è l’attualizzazione Ogni tipo di creatura ha i propri piaceri, e il
buon esempio della specie determina il criterio del piacere verace per la specie
95
Aristotele (384-322 a.C) Politica,
(traduzione R. Laurenti) Libro I Capitolo ix.
[Bekker pag. 1256b] [Aristotele ha appena discusso l’arte di acquisizione naturale per amministratori della casa e
dello stato] C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare,
crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà [pag. 1257a]: molti ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità, mentre non è identica a quella citata e neppure molto diversa. Il vero è che delle due una è per natura, l’altra non è per natura e deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica.
Per trattarne prendiamo l’inizio di qui. Ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due
appartengono all’oggetto per se, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio, l’altro non è
proprio dell’oggetto: ad es. la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio.
Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in
cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché
la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso vale per gli altri oggetti di proprietà. In realtà di
tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini
hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (per cui è anche chiaro che il piccolo
commercio non fa parte per natura della crematistica, ché allora avrebbero dovuto fare lo
scambìo ìn rapporto a quanto ad essi bastava).
Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna
funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa. I membri della famiglia avevano in
comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse – e
di queste dovettero fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli
barbari, ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non
vanno al di là di questo, dando per es. o prendendo vino contro grano, e così via per ogni altro
genere di tali prodotti. Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di
crematistica (giacché tendeva a completare l’autosufficienza voluta da natura): da questa, però, è
sorta logicamente quella.
Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò
di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di
necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle
Aristotele, Politica
96
necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro
qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro,
l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso
mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu
impresso come segno della quantità.
[pag. 1257b] Dunque, una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio,
sorse l’altra forma di crematistica, il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in
forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato,
cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio. Per
questo, quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua
funzione sia di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce
ricchezza e quattrini.
Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprìo perché a
questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. Al contrario taluni ritengono la moneta
un non senso, una semplice convenzione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché,
cambiato l’accordo tra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per
alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo
necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza,
lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida, il quale, per il voto
suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in oro tutto quanto gli si presentava.
Per ciò cercano una ricchezza e una crematistica che sia qualcosa di diverso, ed è ricerca
giusta: in realtà la crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra
nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque,
bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha da fare col denaro perché il
denaro è principio e fine dello scambio. Ora, questa ricchezza, derivante da tale forma di
crematistica, non ha limiti e, invero, come la medicina è senza limiti nel guarire, e le singole arti
sono senza limiti nel produrre il loro fine, (perché è proprio questo che vogliono raggiungere
soprattutto) mentre non sono senza limiti riguardo ai mezzi per raggiungerlo (perché il fine
costituisce per tutte il limite), allo stesso modo questa forma di crematistica non ha limiti rispetto
al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni.
Ma della crematistica che rientra nell’amministrazione della casa, si dà un limite giacché non
è compito dell’amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicché da questo punto di
vista appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà
avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il
Aristotele, Politica
97
denaro. Il motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l’uso che
esse fanno della stessa cosa le confonde l’una con l’altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni,
ma non allo stesso modo, ché l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento.
Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione
domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza
in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di
vivere bene [pag. 1258a], e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito
bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai
godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la
loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma
di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che
produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci
provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale. Così non s’addice al
coraggio produrre ricchezze ma ispirare fiducia, e neppure s’addice all’arte dello stratego o del
medico, ché proprio della prima è procurare la vittoria, dell’altra la salute. Eppure essi fanno di
tutte queste facoltà mezzi per procurarsi ricchezze, nella convinzione che sia questo il fine e che
a questo fine deve convergere ogni cosa.
Si è detto a proposito della crematistica non necessaria qual è e per quale motivo ne abbiamo
bisogno, e a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte
dell’amministrazione della casa, è secondo natura, essa che bada ai mezzi di sostentamento, e
non è, come l’altra, senza limiti, ma ha dei confini precisi.
98
Aristotele (384-322 a.C)
Metafisica
traduzione Antonio Russo
[Bekker pag. 1072a]
Libro XII (Lambda)
Capitolo vii (Dio, atto puro, pensiero di pensiero)
Poiché è possibile che le cose stiano nel modo da noi prospettato – del resto, se si respinge
questa nostra spiegazione, tutte le cose deriverebbero dalla notte o dal ‘tutto-insieme’ o dal non-
essere –, si possono ritenere risolte le precedenti aporie; esiste, quindi, qualcosa che è sempre
mossa secondo un moto incessante, e questo moto è la conversione circolare (e ciò risulta con
evidenza non solo in virtù di un ragionamento, ma in base ai fatti), e di conseguenza si deve
ammettere l’eternità del primo cielo. Ed esiste, pertanto, anche qualcosa che provoca il moto del
primo cielo. Ma poiché ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c’è, tuttavia, un
qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme,
sostanza e atto.
Un movimento di tal genere è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è
oggetto di pensiero. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata,
sono tra loro identici. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello nel suo manifestarsi, mentre è
oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità; ed è più esatto ritenere che
noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per
il solo fatto che noi la desideriamo: principio è, infatti, il pensiero. Ma il pensiero è mosso
dall’intellegibile, e una delle due serie di contrari è intellegibile per propria essenza, e il primo
posto di questa serie è riservato alla sostanza, e, nell’ambito di questa, occupa i primoposto
quella sostanza che è semplice ed è in-atto (e l’uno e il semplice non sono la medesima cosa,
giacché, il terrine ‘uno’ sta ad indicare che un dato oggetto è misura di qualche altro, mentre il
termine ‘semplice’ sta ad indicare che l’oggetto stesso è in un determinato stato). Ma tanto il
bello quanto ciò che per la sua essenza è desiderabile rientrano nella medesima categoria di
contrari; e ciò che occupa il primo posto della serie è sempre ottimo o analogo all’ottimo.
La presenza di una causa finale negli esseri immobili è provata dall’esame diairetico del
termine [pag. 1072b]: infatti, la causa finale non è solo in vista di qualcosa, ma è anche proprietà
di qualcosa, e, mentre nella prima accezione non può avere esistenza tra gli esseri immobili,
nella seconda accezione può esistere tra essi. Ed essa produce il movimento come fa un oggetto
Aristotele, Metafisica
99
amato, mentre le altre cose producono il movimento perché sono esse stesse mosse. Pertanto, una
cosa che è mossa può essere anche altrimenti da come essa è, e di conseguenza il primo mobile,
quantunque sia in atto, può — limitatamente al luogo, anche se non alla sostanza — trovarsi in
uno stato diverso, in virtù del solo fatto che è mosso; ma, poiché c’è qualcosa che produce il
movimento senza essere, esso stesso, mosso ed essendo in-atto, non è possibile che questo
qualcosa sia mai altrimenti da come è. Infatti, il primo dei cangiamenti è il moto locale, e,
nell’ambito di questo, ha il primato la conversione circolare, e il moto di quest’ultima è prodotto
dal primo motore.
Il primo motore, dunque, è un essere necessariamente esistente e in quanto la sua esistenza è
necessaria, si identifica col bene e, sotto questo profilo, è principio. Il termine ‘necessario’,
infatti, si usa nelle tre accezioni seguenti: come ciò che è per violenz perché si oppone
all’impulso naturale, come ciò senza di cui noi può esistere il bene e, infine, come ciò che non
può essere altrimenti da come è, ma solo in un unico e semplice modo.
È questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura. Ed esso è una vita simile a
quella che, per breve tempo, è per noi la migliore. Esso è, invero, eternamente in questo stato
(cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere (e per questo motivo il ridestarsi, il
provare una sensazione, il pensare sono atti molto piacevoli, e in grazia di questi atti anche
speranze e ricordi arrecano piacere). E il pensiero nella sua essenza ha per oggetto ciò che, nella
propria essenza, è ottimo, e quanto più esso è autenticamente se stesso, tanto più ha come suo
oggetto ciò che è ottimo nel modo più autentico.
L’intelletto pensa se stesso per partecipazione dell’intellegibile, giacché esso stesso diventa
intellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che intelletto e
intellegibile vengono ad identificarsi. È, infatti, l’intelletto il ricettacolo dell’intellegibile, ossia
dell’essenza, e l’intelletto, nel momento in cui ha il possesso del suo oggetto, è in-atto, e di
conseguenza l’atto, piuttosto che la potenza, è ciò che di divino l’intelletto sembra possedere, e
l’atto della contemplazione è cosa piacevole e buona al massimo grado.
Se, pertanto, Dio è sempre in quello stato di beatitudine in cui noi veniamo a trovarci solo
talvolta, un tale stato è meravii glioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore, essa è
oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio è, appunto, in tale stato! Ed è sua proprietà la
vita, perché l’atto dell’intelletto è vita, ed egli è appunto quest’atto, e l’atto divino, nella sua
essenza, è vita ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicché a
Dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è Dio!
Ci sono, però, alcuni che, come i Pitagorici e Speusippo, ritengono che il bello e il bene, nel
loro sommo grado, non risiedano nel principio, perché, a loro avviso, i principi delle piante e
Aristotele, Metafisica
100
degli animali sono cause, mentre la bellezza e la perfezione risiedono soltanto in ciò che dai
principi viene prodotto. Ma siffatte credenze sono errate. In realtà, il seme proviene da altri
esseri anteriori che sono già perfetti, e la prima cosa non è affatto seme,i a ma ciò che è già
perfetto [pag. 1073a]; così, ad esempio, si può dire che anteriore al seme è l’uomo, non, però,
quello che proviene dal seme, bensì un altro da cui il seme stesso proviene.
Da quanto abbiamo detto risulta, quindi, con evidenza che esiste una sostanza eterna e
immobile e separata dagli esseri sen sibili, e noi abbiamo anche dimostrato che questa sostanza
non può avere grandezza alcuna, ma è priva di parti e indivisibile (essa, infatti, produce il
movimento per tutta l’infinità del tempo, mentre nessuna cosa che sia finita possiede un potere
infinito, e perciò, dato che ogni grandezza non potrebbe essere se non o infinita o finita, questa
sostanza non potrebbe possedere una grandezza finita; ma, d’altra parte, non potrebbe avere
neppure una grandezza infinita, perché non esiste assolutamente alcuna grandezza che
siainfinita); ma noi abbiamo anche dimostrato che una tale sostanza non è soggetta a passione e
ad alterazione, giacché tutti gli altri movimenti sono posteriori a quello locale.
Ecco le ragioni che ci spiegano con chiarezza perché siano queste le proprietà della sostanza
divina.
Capitolo viii (Le sfere celesti)
Non deve sfuggire alla nostra attenzione la questione se dobbiamo ritenere che esista una sola
sostanza di tal genere oppure ne esistano di più e, in questo secondo caso, quante esse siano, ma
dobbiamo anche richiamare alla memoria quanto hanno dichiarato gli altri filosofi e far presente
che, per quanto concerne il numero delle sostanze, essi non hanno detto nulla che si possa
ritenere formulato con chiarezza.
La dottrina delle idee non presenta, da parte sua, alcuna indagine che riguardi peculiarmente
questo problema (difatti gli idealisti sostengono che le idee sono numeri, e talora parlano dei
numeri come se questi fossero infiniti, talora, invece, come se fossero limitati alla dècade, ma
quale sia il motivo per cui debbano essere proprio tanti essi non lo dicono affatto con una
dimostrazione rigorosa). A noi, invece, spetta il compito di parlarne in base alle assunzioni e alle
distinzioni che abbiamo fatte precedentemente.
Il primo principio, il primo fra tutti gli esseri, è immobile, sia i per essenza sia per accidente,
ed infonde il primo movimento che è eterno ed uniforme; ma, poiché necessariamente ciò che è
mosso è mosso da qualcosa, e il primo motore è immobile per essenza, e il movimento eterno è
provocato da qualcosa di eterno, e quello unico da qualcosa di unico, e poiché, d’altra parte, noi
vediamo che, oltre la semplice traslazione dell’universo — traslazione che noi affermiamo essere
Aristotele, Metafisica
101
provocata dalla sostanza prima ed immobile —, si verificano anche altre traslazioni, ossia quelle
degli astri, che sono anch’esse eterne (infatti, quel corpo che compie un moto circolare è eterno e
non si può mai fermare; e di ciò abbiamo dato dimostrazione nella Fisica), allora è
indispensabile che anche ciascuna di queste traslazioni venga provocata da una sostanza che sia
essenzialmente immobile ed eterna. Infatti, la natura degli astri è eterna, essendo una specie
determinata di sostanza, e il loro motore è eterno ed anteriore a ciò che è mosso, e ciò che è
anteriore ad una sostanza deve essere necessariamente una sostanza. Risulta evidente, pertanto,
che vi deve essere un ugual numero di sostanze che siano eterne per loro natura ed immobili per
essenza, oltre che prive di grandezza per il motivo precedentemente rilevato.
[pag. 1073b] Resta chiarito, allora, che i motori sono sostanze e che occupano un primo e un
secondo posto secondo lo stesso ordine della traslazione degli astri; ma, a questo punto, lo studio
del numero delle traslazioni deve essere rinviato a quella che, fra le scienze matematiche, si
approssima di più alla filosofia, ossia all’astronomia: questa, infatti, ha come oggetto delle sue
indagini una sostanza che è sensibile ma eterna, mentre le altre scienze matematiche — quali, ad
esempio, l’aritmetica e la geometria — non hanno a che fare con alcuna sostanza. Ma che il
numero dei movimenti di traslazione superi quello dei corpi che si spostano localmente, è una
cosa evidente anche a chi abbia una modesta competenza in questo campo di studi (infatti,
ciascuno degli ast non fissi compie più di uno spostamento); comunque, per quani concerne il
numero di queste traslazioni, noi ora, tanto per darne un’idea, intendiamo riportare le teorie di
alcuni matematici, affinché si offra al pensiero la possibilità di concepirne un numero più o meno
determinato; quanto al resto, in parte dobbiamo ind: gare noi stessi, in parte dobbiamo affidarci
alle indagini degli specialisti, e qualora i competenti in questo campo giungano a qualche
conclusione che differisca da quelle ora esposte da noi, dobbiamo nutrire affettuoso rispetto per
gli opposti punti di vista, ma dobbiamo seguire quelli che sono più esatti.
Eudosso sostiene che il movimento di traslazione tanto do sole quanto della luna si compie
nell’ambito di tre sfere, la pi esterna delle quali, secondo lui, è quella delle stelle fisse; la
seconda è quella che si muove nel cerchio che biseziona longitudinalmente lo zodiaco; la terza è
quella che si muove in un cerchio che è inclinato attraverso la latitudine dello zodiaco (ma il
cerchio secondo cui si sposta la luna è inclinato secondo un angolo che è maggiore rispetto a
quello del cerchio secondo cui sposta il sole); il moto di traslazione di ciascun pianeta si attua
mediante quattro sfere, e le prime due di queste sono identiche alle prime due del sole e della
luna (infatti, la sfera delle stelle fisse è quella che imprime il movimento a tutte quante le altre
sfere, quella che è disposta in ordine dopo di essa e che compie la propria traslazione nel cerchio
che biseziona lo zodiaco, è comune a tutti i pianeti); invece la terza sfera di tutti i pianeti ha i
Aristotele, Metafisica
102
suoi poli nel cerchio che biseziona lo zodiaco, e, infine, la quarta sfera compie la traslazione
lungo un cerchio che è inclinato in rapporto al l’equatore della terza; a proposito, poi, della terza
sfera, menta ciascuno degli altri pianeti ha poli propri, Afrodite ed Erme: hanno entrambi i
medesimi poli.
Callippo era d’accordo con Eudosso circa la posizione delle sfere [ossia circa l’ordine delle
loro distanze]; ma, per quanto concerne il numero delle sfere, mentre assegnava a Zeus e a
Cronos lo stesso numero già assegnato da Eudosso, era, invece, del parere che, perché si potesse
dare un conto preciso dei fenomeni, si dovessero aggiungere ancora due sfere sia al sole sia alla
luna e una sola sfera a ciascuno degli altri pianeti.
Ma, perché si possa dare veramente il conto preciso dei fenomeni mediante la combinazione di
tutte le sfere [pag. 1074a], ci devono essere, per ciascuno dei pianeti, ancora altre sfere che,
rispetto a quelle sopra accennate, siano di ugual numero meno uno, e devono girare in senso
inverso rispetto a quelle e riportare alla medesima posizione la prima sfera dell’astro che, in ogni
caso, è disposto in ordine al di sotto di un altro; in questo modo soltanto, la combinazione di tutte
le sfere può effettuare la traslazione dei pianeti. Poiché, pertanto, le sfere in cui si compiono
queste traslazioni sono otto per Zeus e Cronos e venticinque per gli altri pianeti, e poiché tra
queste sfere le uniche a non dover girare in senso inverso sono quelle in cui si compie la
traslazione dell’astro disposto al di sotto, allora ci saranno sei sfere che faranno girare in senso
inverso i due primi pianeti, e sedici che faranno girare gli altri quattro; e il numero di tutte le
sfere che provocano sia la traslazione diretta sia quella inversa è cinquantacinque. Qualora, però,
alla luna e al sole non si aggiungano quei movimenti di cui abbiamo parlato, le sfere saranno in
tutto quarantasette.
Ammettiamo, intanto, che tale sia il numero delle sfere; di conseguenza, è conforme a ragione
supporre che siano di uguale numero anche le sostanze e i principi immobili [e quelli sensibili]
(lasciamo a quelli che sono più competenti di noi il compito di spiegare perché ciò sia
necessario); comunque, se non è possibile che esista alcun moto locale il quale non si riconduca
alla traslazione di un astro, e se, inoltre, ogni entità naturale ed ogni sostanza la quale non sia
soggetta a passione e abbia di per sé conseguito il bene nel grado più alto, si deve concepire
come fine, allora non potrà esistere al di fuori di queste nessun’altra entità naturale, ma
necessariamente il numero delle sostanze è quello che abbiamo detto. Se, infatti, ci fossero altre
sostanze, queste dovrebbero produrre un movimento, dal momento che esse sarebbero il fine del
moto di traslazione; ma è impossibile che esistano altri moti di traslazione oltre quelli da noi
rilevati. Ed è conforme a ragione fare una tale supposizione in base ai corpi che si muovono
localmente.
Aristotele, Metafisica
103
Se, infatti, tutto ciò che provoca uno spostamento esiste naturalmente in vista dell’oggetto
che viene spostato, e se ogni spostamento è proprietà di un qualcosa che viene spostato, non può
riscontrarsi alcuno spostamento che abbia come fine se stesso o un altro spostamento, ma tutti gli
altri spostamenti che esistono hanno gli astri come loro causa finale. Se, infatti, ci fosse una
traslazione, allora sarebbe indispensabile che anche quest’altra avesse come fine un’altra cosa; e,
quindi, poiché non è possibile procedere all’infinito, verrà ad essere fine di ogni traslazione
qualcuno dei corpi divini che si spostano attraverso il cielo.
Che, poi, esista un solo universo è cosa evidente. Se, infatti,esistesse una pluralità di universi,
così come esiste una pluralità di uomini, il principio di ciascuno di essi sarebbe uno solo per
specie, ma per numero ve ne sarebbero molti. Ma tutte le cose che sono molte per numero non
sono prive di materia (una sola medesima definizione, infatti, — come, ad esempio, quella di
uomo — va applicata ad una pluralità di cose; Socrate, invero, è uno solo); invece, l’essenza,
quella originaria, non ha materia, perché è entelechia. Ecco perché uno solo per concetto e per
numero è il primo motore che è immobile; e di conseguenza è anche uno solo quello che è mosso
eternamente e in modo continuo: epperò c’è un unico e solo universo!
[pag. 1074b] Da parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età, è stato tramandato ai
posteri sotto forme mitiche che questi corpi celesti sono dèi e che la divinità contiene in sé
l’intera natura. E le altre cose sono state aggiunte in tempi posteriori sempre informa mitica per
suscitar persuasione nelle masse e per indurleal rispetto delle leggi e delle comuni utilità; e così
si dice che gli dèi hanno forma umana e che sono simili a certi altri animali, e a queste
caratteristiche se ne sono andate aggiungendo altre che sono il sèguito di quelle precedenti e
sono simili ad esse. Ma se si assumesse, separandola da tutto il resto, soltanto la concezione
originaria, ossia la credenza secondo cui le prime sostanze sono divinità, si potrebbe reputare che
gli antichi parlarono in modo divino e che, mentre verosimilmente ogni arte ed ogni filosofia si è
più volte perfezionata fino ai limiti del possibile e poi di nuovo è andata perduta, quelle loro
opinioni, invece, sono state conservate fino ai nostri giorni come reliquie! Entro questi limiti
soltanto ci riesce chiaramente comprensibile la mentalità dei nostri padri e dei pensatori più
antichi.
Capitolo ix (Natura del divino Intelletto)
Alcune difficoltà, però, si presentano per quanto concerne la natura dell’Intelletto; sembra,
infatti, che esso sia il più divinodei fenomeni; ma, quando si voglia spiegare questo suo modo di
essere, si incontrano alcuni ostacoli. Infatti, se esso non pensa nulla, in nulla verrebbe a risiedere
la sua dignità, ma esso si troverebbe nello stato di un uomo addormentato; se, invece, esso pensa
Aristotele, Metafisica
104
ma pensa qualcosa che sia diversa da se stesso, allora il suo pensiero viene a dipendere da
qualche altra cosa, e in tal caso — poiché ciò che costituisce la sostanza dell’Intelletto non è
pensiero in atto, ma potenza di pensiero — esso non potrà essere la migliore di tutte le sostanze,
giacché la sua assoluta superiorità è sua proprietà solo in virtù del pensare. Inoltre, tanto nel caso
che la sua sostanza si identifichi con l’Intelletto quanto nel caso che si identifichi col pensiero,
qual è l’oggetto del pensiero?
Questo o pensa se stesso o pensa qualche altra cosa; e, se pensa qualche altra tosa, o pensa
sempre la stessa cosa o pensa cose che sono diverse di volta in volta. E, allora, c’è o non c’è
qualche differenza se esso pensi ciò che è bello oppure ciò che si presenta fortuitamente? O non
è piuttosto assurdo credere che certe cose siano l’oggetto del suo pensiero? È chiaro, quindi, che
esso pensa la cosa più divina e veneranda, e che non muta mai il suo oggetto, perché, se questo
mutasse, si avrebbe il cangiamento verso il peggio, oltre al fatto che una cosa di tal genere
implicherebbe già un movimento.
In primo luogo, pertanto, se l’Intelletto non è pensiero ma è potenza, allora è giusto reputare
che la continuità del pensiero gli procura fatica; in secondo luogo, poi, è ovvio che ci sarà un’al
tra cosa la quale è più veneranda dell’Intelletto, e questa cosa sarà l’oggetto stesso del suo
pensiero. E, invero, il pensare e l’atto del pensiero possono essere proprietà anche di chi pensa il
peggio, e di conseguenza, se quest’ultima alternativa va evitata (ché ci son cose che è meglio non
vedere anziché vedere!), il pensiero non potrà essere il bene supremo.
Epperò l’Intelletto pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è
pensiero-di-pensiero.
Sembra che la scienza e la sensazione e l’opinione e il pensiero discorsivo abbiano come loro
oggetto una cosa che è ognora diversa da loro, ed abbiano solo incidentalmente come oggetto se
stessi. Inoltre, se il pensare e l’essere-pensato fossero cose tra loro differenti, in virtù di quale di
queste due cose il bene è proprietà del pensiero? Infatti, non c’è identità di essenza tra pensiero e
oggetto pensato. Ma è piuttosto vero che, in alcuni casi, la scienza si identifica col suo oggetto
[pag. 1075a]; e così, nel campo delle scienze produttive, qualora noi prescindiamo dalla materia,
sono oggetto della scienza la sostanza e l’essenza, mentre, d’altra parte, nel campo delle scienze
contemplative l’oggetto si identifica col concetto e col pensiero. Poiché, pertanto, quando si tratti
di cose immateriali, non sono cose diverse tra loro l’oggetto del pensiero e il pensiero, questi
ultimi verranno ad identificarsi tra loro, e così il pensiero sarà uno con l’oggetto pensato.
Resta, però, ancora da discutere la questione se l’oggetto pensato sia composto: se così
fosse, infatti, il pensiero cangerebbe nel passare da una parte all’altra dell’intero. Ma la risposta è
che tutto ciò che è immateriale è indivisibile — come l’intelletto umano, o, per meglio dire,
Aristotele, Metafisica
105
quello degli esseri composti, viene a trovarsi in un certo tempo (infatti esso non possiede il bene
in un dato momento oppure in un altro, ma nell’intera totalità di un attimo indivisibile attinge il
bene supremo, che è pur diverso da esso) —e che, d’altra parte, il pensiero-che-pensa-se-stesso è
appunto in questo stato per tutta quanta l’eternità.
106
Epicuro da Samo (c. 341-270 a.C.)
Lettera a Meneceo
(riportato in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 122-35)
traduzione di Marcello Gigante
Epicuro saluta Meneceo.
[122] Nessuno che sia giovine indugi a filosofare, né divenuto vecchio si stanchi di filosofare:
perché l’età di ognuno non è mai immatura né troppo matura per la salute dell’anima. E chi
affermi che l’ora di filosofare non è ancora giunta oppure che è già passata è come se dicesse che
l’ora della felicità non è giunta o è già passata, sì che bisogna filosofare in gioventù e in
vecchiaia, perché mentre invecchiamo continuiamo la giovinezza nei beni per il grato ricordo del
passato e perché ancor giovini siamo ad un tempo già antichi per l’impavida sicurezza di fronte
al futuro. Dobbiamo dunque meditare su tutto ciò che ci possa procurare la felicità, perché, se
l’abbiamo, noi tutto abbiamo, se non l’abbiamo, noi tutto facciamo per averla.
[123] I precetti che ininterrottamente ti diedi poni in atto e medita, con la chiara
consapevolezza che essi sono gli elementi fondamentali di una vita bella. In primo luogo
considera la divinità un essere vivente immortale e beato – così come viene indicato dalla
comune nozione della divinità quasi impressa in noi dalla natura – e non attribuirle nulla che sia
allotrio alla sua immortalità o incompatibile con la sua beatitudine. Ma tieni ben fermo che ad
essa s’addice tutto ciò che può confermare e non eliminare la sua beatitudine e la sua
immortalità. Gli dèi infatti esistono. Evidente è la loro conoscenza. Ma non esistono quali il
volgo crede, perché ritenendo che siano tali quali crede, non li salva, ma li elimina. Empio non è
chi elimina gli dèi del volgo, ma chi applica agli dèi le opinioni’ dei volgo. [124] Perché le
affermazioni del volgo sugli dèi non sono prolessi o vere prenozioni o anticipazioni, bensì
ipolessi o false supposizioni. A causa di tali false supposizioni si fanno derivare da parte degli
dèi grandissimi danni e benefìci. Ma coloro che hanno una perenne familiarità con le proprie
virtù accolgono un’immagine coerente degli dèi e respingono come ad essi allotrio tutto ciò che
non si conforma alla loro natura.
Abbi sempre a te consueto il pensiero che nulla è per noi la morte. Ogni bene infatti ed ogni
male è nella sensazione, e la morte è privazione della sensazione. Onde la retta conoscenza che
nulla è per noi la morte rende godibile la mortalità della vita, non perché vi aggiunga un tempo
interminato, ma perché elimina il desiderio dell’immortalità.
Epicuro, A Meneceo
107
[125] Ché nulla di terribile vi è nel vivere per chi abbia la schietta consapevolezza che nulla
di terribile vi è nel non vivere. Sì che vaneggia chi dice di temere la morte non perché presente
possa arrecarci dolore, ma perché imminente ci addolora. Ciò infatti che presente non ci turba,
quando è atteso arreca un dolore inconsistente. Dunque il più rabbrividente dei mali, la morte,
nulla! è per noi, perché, quando noi siamo, la morte non è presente, e quando è presente la
morte, allora noi non siamo. Nulla è dunque la morte per i vivi, nulla è per i morti perché negli
uni essa non è, gli altri non sono più. Ma il volgo ora fugge la morte come il più grande dei mali
ora <la cerca> come cessazione <dei mali> della vita.
[126] <Ma il sapiente né rinunzia al vivere> né ha paura del non vivere; ché il vivere non gli
arreca tedio né egli crede che sia un male il non vivere. E come non sceglie alla rinfusa il più
gran numero di cibi, ma solo i più soavi così anche non del tempo più lungo, ma dei più soave
coglie il frutto. Chi poi ammonisce il giovine a ben vivere, il vecchio a ben morire, è stolto, non
solo per quel che di attraente ha la vita, ma anche perché la meditazione su una vita bella
coincide con la meditazione su una morte bella. Ma ancor peggio è chi dice «bello non esser
nati, ma, nati, al più presto varcare le porte dell’Ade».
[127] Ché se è convinto di quel che dice, perché mai non si allontana dalla vita ? Gli sarebbe
stato molto facile, se il suo convincimento fosse stato saldo. Ma se lo dice per celia, vaneggia in
argomenti che ripugnano al vaneggiamento.
Dobbiamo ricordare che il futuro non è nostro né è del tutto non nostro, sì che né in ogni
modo ci attendiamo che si realizzerà né disperiarno che non si realizzerà in nessun modo.
Dobbiamo anche riflettere che dei desideri alcuni sono naturali, altri inconsistenti. E dei
naturali alcuni sono necessari, altri solo naturali; dei necessari alcuni sono necessari alla felici
altri all’imperturbata tranquillità del corpo, altri al vivere stesso. [128] Ché una corretta
intelligenza di questa teoria sa dirigere ogni scelta e avversione alla salute del corpo e alla
perfetta tranquillità dell’anima, perché questo è il compimento supremo della vita beata. E a
questo fine indirizziamo ogni nostra azione, perché il corpo non soffra né l’anima si sgomenti, e,
una volta che ciò abbiamo ottenuto, si dissolve tutta la tempesta dell’anima, poiché l’essere
vivente non ha da procedere ad altro come a cosa di cui abbia bisogno né da cercare altro con cui
si possa realizzare il bene dell’anima e dei corpo. Ché allora noi abbiamo bisogno dei piacere
quando soffriamo nella carne per l’assenza dei piacere; ma quando non soffriamo nella carne,
non abbiamo più bisogno dei piacere. E per questo noi affermiamo che il piacere è principio e
fine della vita beata. [129] Perché, come abbiamo riconosciuto, esso è il nostro primo e
congenito bene e da esso moviamo per ogni scelta e avversione e ad esso torniamo usando come
criterio discriminante di ogni bene il sentimento dei piacere e del dolore. E poiché il piacere è il
Epicuro, A Meneceo
108
nostro primo e congenito bene, anche per questo non scegliamo ogni piacere, ma talvolta
passiamo sopra a molti piaceri, quando ne consegua a noi maggior molestia; e molti dolori
consideriamo superiori ai piaceri, quando a noi consegua maggior piacere dall’averli per molto
tempo sopportati. Ogni piacere dunque, per avere una natura a noi conforme, è un bene, ma non
per questo i ogni piacere è da scegliersi, così come anche ogni dolore è un male, ma non ogni
dolore è sempre, per sua natura, da fuggirsi. [130] Conviene dunque discriminare tutte queste
cose col calcolo di ciò che è utile e la considerazione di ciò che è dannoso perché certe volte il
bene è per noi un male, altre volte il male è per noi un bene.
Anche l’autarchia o il bastare a se stessi noi consideriamo un grande bene, non perché in ogni
modo dobbiamo contentarci del poco, ma perché se non abbiamo il molto ci contentiamo del
poco, schiettamente persuasi che tanto più soavemente si gode l’abbondanza quanto meno se ne
ha bisogno, e che ogni desiderio conforme alla natura si può agevolmente soddisfare, ogni
desiderio vano è di difficile attuazione. Infatti un vile sapore apporta un piacere pari a quello di
una mensa sontuosa, una volta eliminata la sofferenza provocata dal bisogno. [131] E pane
ed acqua danno il supremo piacere quando li riceve chi ne ha un effettivo bisogno. Avere la
consuetudine di cibarsi semplicemente e non sontuosamente non solo ci garantisce la buona
salute e fa sì che l’uomo affronti senza indugio le inevitabili occupazioni della vita, ma anche ci
dispone meglio a gustare le mense sontuose che di quando in quando ci sopraggiungono e ci
rende impavidi dinanzi alla sorte.
Quando dunque noi diciamo che il piacere è il compimento supremo della felicità, non
intendiamo riferirci alle voluttà dei dissoluti ed ai godimenti sensuali, come pur vogliono alcuni
per ignoranza o dissenso o fraintendimento, intendiamo bensì l’assenza di sofferenza fisica e
l’imperturbata tranquillità dell’anima.
[132] Perché né un’ininterrotta serie di simposi e di festini né il godimento di fanciulli e di
donne né il gustare pesci e quante altre leccornie offra una tavola sontuosa producono la soave
vita, ma un sobrio calcolo che ricerchi le cause di ogni scelta e di ogni avversione e bandisca le
vane opinioni per opera delle quali un intenso tumulto s’impadronisce delle anime. Principio di
tutte queste cose e il più grande bene è la prudenza: perciò possesso più piezioso della filosofia è
la prudenza, da cui si originano naturalmente tutte le rimanenti virtù. Essa insegna che non può
esservi vita soave senza vivere con prudenza, moderazione e giustizia né può esservi vita
prudente moderata e giusta senza vivere soavemente. Perché le virtù sono connaturate alla vita
soave, e la vita soave ne è inseparabile.
[133] Credi pure che nessuno è superiore a un tale uomo. Egli ha una santa opinione intorno
agli dèi ed è perennemente impavido dinanzi alla morte. Riflette intensamente sul fine della
Epicuro, A Meneceo
109
natura ed ha chiara coscienza che il limite dei beni si può agevolmente realizzare ed
agevolmente ottenere e che il limite dei mali ha tempi e pene brevi. Egli infine proclama che <il
fato> introdotto da alcuni come signore di tutte le cose <è vana credenza ... ed afferma che
alcune cose accadono per necessità> altre per sorte, e che altre ancora sono in nostro potere,
perché è per lui evidente che la necessità è irresponsabile, la sorte è incostante e quel che è in
nostro potere è libero da ogni signoria e ad esso naturalmente s’accompagnano il biasimo e la
lode.
[134]Ché meglio sarebbe aderire ai miti sugli dèi che asservirsi al fato dei filosofi
naturalistici, perché i miti hanno quasi impressa in sé la speranza che gli dèi possano cedere alla
preghiera e agli onori che ad essi vengono tributati, il fato dei filosofi naturalistici ha invece una
necessità inflessibile. Né un tale uomo suppone che la sorte sia una divinità, come il volgo crede
– nessuna opera è compiuta da un dio disordinatamente –, e neppure un’instabile causa <di tutti i
beni e i mali degli uomini> – pensa infatti che essa non largisca agli uomini alcun bene o male
per la vita beata, benché fornisca l’avvio a grandi beni o mali –. [135] Egli crede che è meglio
cadere nell’avversa sorte ed essersi comportati assennatamente che godere i favori della sorte ed
essersi comportati sconsideratamente. Perché è preferibile che un’azione condotta con retto
criterio <allisca, anzi che un’azione condotta senza criterio> sia raddrizzata dalla sorte.
Questi precetti, dunque, ed altri a questi affini, giorno e notte, medita per te stesso e per essere
uguale a te stesso, né mai, né in veglia né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli
uomini, ché in nulla è simile a creatura mortale l’uomo che vive tra immortali beni.
110
Epicuro di Samo (c. 341-270 a.C.)
Massime Capitali (riportate in Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, X, 139-54)
traduzione di Diego Fusaro 1. L'essere beato e immortale non ha affanni, ne ad altri ne arreca; è quindi immune da ira e da
benevolenza, perché simili cose sono proprie di un essere debole.
2. La morte non è niente per noi. Ciò che si dissolve non ha più sensibilità, e ciò che non ha
sensibilità non è niente per noi.
3. Il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore. Dove sia il
piacere, e per tutto il tempo che vi sia, non vi è posto per dolore fisico, o dell'anima, o per l'uno e
l'altro insieme.
4. Non dura ininterrottamente il dolore della carne; il suo culmine dura anzi un tempo
brevissimo; e ciò che di esso appena oltrepassa il piacere non si protrae molti giorni nella nostra
carne. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore.
5. Non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, né
saggiamente e bene e giustamente senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui
deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente, manca anche la possibilità di una
vita felice.
6. Al fine di procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini, anche i beni del comando e del
regno sono beni secondo natura in quanto con tali mezzi si sia capaci di procurarsela.
7. Alcuni vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi sicurezza nei riguardi
degli altri uomini. Ammesso che in tal modo la loro vita sia diventata veramente sicura, essi
hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro vita non lo è divenuta, non hanno
raggiunto quel bene secondo natura sotto il cui impulso hanno agito fin dall'inizio.
8. Nessun piacere è di per se stesso un male: però i mezzi per procurarsi certi piaceri arrecano
molti più tormenti che piaceri.
9. Se ogni piacere si intensificasse nel suo luogo e nella sua durata, e pervadesse tutto il nostro
composto o le parti più importanti del nostro essere, allora i piaceri non differirebbero gli uni
dagli altri.
10. Se le cose che danno luogo ai piaceri propri dei dissoluti fossero anche tali da liberarci dai
timori dell' animo circa i fenomeni celesti, la morte, il dolore, e ci insegnassero quale sia il limite
dei desideri, non avremmo niente da rimproverare a quelli: essi sarebbero infatti ricolmi di ogni
piacere e non avrebbero mai da soffrire fisicamente o da affliggersi, nel che consiste appunto il
male.
Epicuro, Massime capitali
111
11. Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte, ch'essa possa essere
qualcosa che ci tocchi da vicino, e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non
avremmo bisogno della scienza della natura.
12. Non sarebbe possibile dissolvere ogni timore intorno alle cose di maggior importanza se non
si sapesse quale sia la natura dell'universo, ma si vivesse in sospettoso timore delle cose che ci
raccontano i miti; non sarebbe possibile cogliere i piaceri nella loro purezza senza la scienza
della natura.
13. Non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finche si
continuasse a nutrire timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale
nell'infinito.
14. Se la sicurezza nei riguardi degli altri uomini deriva fino a un certo punto da una ben fondata
situazione di potenza e ricchezza, la sicurezza più pura proviene dalla vita serena e dall'appartarsi
dalla folla.
15. La ricchezza secondo natura ha confini ben precisi ed è facile a procacciarsi, quella secondo
le vane opinioni cade in un processo all'infinito.
16. Poca importanza ha la sorte per il saggio, perché le cose più grandi e importanti sono
governate dalla ragione, e cosi continuano e continueranno ad essere per tutto il corso del tempo.
17. Il giusto è privo in assoluto di turbamento, mentre l'ingiusto è ricolmo del turbamento più
grande.
18. Non cresce il piacere della carne, ma solo subisce variazione, una volta che sia rimossa tutta
la sofferenza che viene dal bisogno. Il limite dei piaceri che la ragione ci prescrive è prodotto dal
calcolo razionale di questi stessi e di tutte le affezioni dello stesso tipo, che procurano all'anima i
più grandi timori.
19. Un tempo illimitato contiene la stessa quantità di piacere che uno limitato, quando i confini
dei piaceri si valutino con retto calcolo.
20. La carne non ammette limiti nel piacere, e il tempo che serve a procurarle tale piacere è
anch'esso senza limiti. Ma il pensiero che ha appreso a ragionare intorno al fine e al limite di ciò
ch'è pertinente alla carne, e che ha soppresso il timore dell'eternità, ci rende possibile una vita
perfetta, per cui non sentiamo più l'esigenza di un tempo infinito: esso non rifugge dal piacere
ne, quando le circostanze ci portano al momento di uscire dalla vita, può dire di andarsene
avendo tralasciato qualcosa di ciò che rende questa ottima.
21. Chi conosce i limiti della vita, sa che è facile rimuovere il dolore che proviene dal bisogno e
ottenere ciò che rende la vita perfetta; sì che non ha affatto bisogno di tendere a cose che
comportino lotta.
Epicuro, Massime capitali
112
22. Bisogna ben valutare il fine che ci è dato, e far sì di riportare tutte le nostre opinioni a una
certezza evidente; o tutto quanto sarà pieno di insicurezza di giudizio e di turbamento.
23. Se ti opporrai a tutte le sensazioni, non avrai più nemmeno criteri cui riferirti e perciò
neanche modo di giudicare quelle che tu dici essere errate.
24. Se rifiuterai una sensazione senza ben distinguere fra ciò ch'è dovuto a opinione, ciò che
attende conferma, ciò ch'è presente con evidenza in base a sensazione o ad affezione o a un
qualunque atto di intuizione rappresentativa della mente, finirai col confondere anche le altre
sensazioni con opinione vana, e non riuscirai più ad usare alcun criterio di giudizio. E se nelle
nozioni fondate sull'opinione tu farai valere ugualmente sia ciò che attende conferma sia ciò che
non riceve conferma, non potrai sfuggire all'errore, perché non ti sarai liberato assolutamente
dall'ambiguità nel giudizio circa la verità o falsità di una conoscenza.
25. Se in ogni circostanza non rapporterai la tua azione al fine secondo natura, ma, nella scelta o
nel rifiuto, ti indirizzerai ad altro fine, le tue azioni non saranno in coerenza con le tue parole.
26. Tutti quei desideri che, se non esauditi, non arrecano vera sofferenza non sono necessari: il
loro stimolo è tale da potersi annientare facilmente quando appaiano indirizzati a cose difficili a
ottenersi, o siano tali da recare danno.
27. Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è
l'acquisto dell'amicizia.
28. La medesima persuasione che ci incoraggiò a credere che nessun male è eterno o lungamente
duraturo ci fa anche ritenere che la sicurezza più grande che si attui nelle cose finite è quella
dell'amicizia.
29. Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri ne naturali ne
necessari, ma nati solo da vana opinione.
30. Fra i desideri naturali che, se non vengono soddisfatti, non danno luogo a vera sofferenza, ve
ne sono di quelli in cui sussiste una forte tensione; e questi hanno origine da vana opinione: e ci è
difficile dissiparli non per la loro propria natura, ma per le stolte credenze degli uomini.
31. Il giusto fondato sulla natura è l'espressione dell'utilità che consiste nel non recare ne ricevere
reciprocamente danno.
32. Per tutti quegli esseri viventi che non ebbero la capacità di stringere patti reciproci circa il
non recare ne ricevere danno, non esiste ne il giusto ne l'ingiusto; e altrettanto si deve dire per
quei popoli che non poterono o non vollero stringere patti per non recare e non ricevere danno.
33. La giustizia non esiste di per se, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si
sia stretto un patto circa il non recare ne ricevere danno.
Epicuro, Massime capitali
113
34. L'ingiustizia non è di per se un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di non
poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo.
35. Colui che fa qualcosa di nascosto contro i patti stipulati reciprocamente circa il non recare ne
ricevere danno non può confidare di non essere scoperto, anche se per il presente ciò gli riesce
infinite volte: non può mai sapere se riuscirà a non farsi scoprire fino alla sua morte.
36. In senso generale il giusto è uguale per tutti, in quanto è un accordo di utilità reciproca nella
vita sociale; ma a seconda della particolarità dei luoghi e delle condizioni risulta che non per tutti
il giusto è lo stesso.
37. Fra le cose che la legge prescrive come giuste, quella che è comprovata come utile dalle
necessità dei rapporti sociali reciproci deve esser considerata come avente il requisito del giusto,
sia essa la stessa per tutti o no; ma se si ponga una legge che non risulti coerente all'utilità nei
rapporti reciproci, essa non possiede la natura del giusto. Se poi ciò che era utile secondo
giustizia viene a decadere, pur avendo per un certo tempo corrisposto alla prenozione del giusto,
ciò non vuol dire che non lo fosse durante quel tempo, se non ci si vuole turbare per vane
chiacchiere ma guardare sostanzialmente ai fatti.
38. Quando, senza che siano sopravvenute nuove circostanze, le cose sancite dalla legge come
giuste si rivelano nella pratica non corrispondenti alla prenozione del giusto, vuol dire che in
realtà non erano giuste. M a quando, essendo sopravvenute nuove circostanze, quelle cose che
erano prescritte come giuste non sono più utili, allora bisogna dire che esse sono state giuste fino
a che sono state utili per la vita in comune dei cittadini, e che in seguito, quando non sono state
più; utili, non sono state più nemmeno giuste.
39. Si è disposto nella maniera migliore contro il turbamento che proviene dall'esterno colui che
si è reso affini le cose possibili e non del tutto estranee le impossibili. Quanto a quelle cose
riguardo a cui non ha avuto nemmeno tale potere, se ne è astenuto del tutto, fondandosi su tutto
ciò che è utile a tale scopo.
40. Tutti coloro che hanno avuto la possibilità di godere della massima sicurezza nei riguardi di
coloro che li circondavano, vivono in comunità gli uni con gli altri nel modo più piacevole e
nella più sicura fiducia; e, pur nutrendo fra loro i più stretti legami, non piangono la dipartita di
quelli di loro che muoiono prematuramente, come se questi fossero da compiangere.
114
Crisippo da Soli (c.280-207 a.C)
Frammenti etici
(Stoicorum Veterum Fragmenta vol III, a cura di H. von Arnim, 1903-5)
traduzione Roberto Radice
Sul giusto modo di valutare ciascun indifferente
154 (Cicerone Sul fine, III, 17) Gli Stoici per lo più non ritengono che il piacere sia da porsi fra i
principi naturali.
155 (Sesto Empirico, Contro i matematici, XI, 73) Ad esempio, se Epicuro sostiene che il
piacere è un bene, lui afferma che è un male; dice infatti: «meglio impazzire che godere». Gli
Stoici poi considerano il piacere come un indifferente non preferito; Cleante nega addirittura che
sia conforme a natura – sarebbe conforme a natura né più né meno di un ninnolo – e che abbia
valore nella vita. Per Archedemo sarebbe secondo natura come i peli delle ascelle, dunque non
avrebbe alcun valore. Infine, Panezio ritiene che alcuni tipi di piacere sono conformi a natura e
altri invece sono contrari.
156 (Diogene Laerzio, Vite, VII, 103) Che il piacere non sia un bene lo afferma sia Ecatone nel
IX libro de I beni, sia Crisippo nei suoi trattati sul piacere. Ci sono infatti piaceri immorali, e
nessun bene può essere immorale.
157 (Plutarco, Sulle contraddizioni degli stoici, xv) Nei libri dedicati a Platone (ad esempio La
giustizia) polemizza con lui perché ha ritenuto di includere fra i beni la salute. In tal caso,
osserva:
«se noi lasciassimo fra i beni il piacere o la salute o qualche altra cosa che non sia il bene,
non solo andrà persa la giustizia, ma anche la magnanimità, la saggezza e ogni altra virtù».
158 (Cicerone Sul fine, I, 11, 39) Sentivo raccontare da mio padre, il quale, scherzando, si
prendeva argutamente gioco degli Stoici, che anche ad Atene nel Ceramico si trova una statua di
Crisippo seduto con la mano tesa. E la posizione di questa mano starebbe ad indicare che egli si
compiaceva di porre questa semplice domanda: «Forse che la tua mano, atteggiata com’è ora,
desidera qualcosa? Un bel niente. Ma se il piacere fosse un bene non dovrebbe forse desiderarlo?
Direi di sì. Dunque il piacere non è un bene»... Prima, caro Crisippo, ti abbiamo concesso che la
mano, nella posizione in cui era, non avesse alcun desiderio, e questo era giusto; non era giusto
invece l’altra tesi che abbiamo ammesso, e cioè che se il piacere fosse un bene sarebbe oggetto
di desiderio.
Crisippo, frammenti
115
Sul primo impulso e le cose che si sentono proprie
178 (Diogene Laerzio, Vite, VII, 85) Sostengono che il primo impulso dell’animale è quello di
aver cura di se stesso, in quanto la natura fin dall’inizio lo porta ad appropriarsi di sé stesso; così
dice Crisippo nel primo libro de I fini, quando sostiene che le cose che ogni essere vivente sente
più proprie sono la sua costituzione e la coscienza che ne ha. Né avrebbe alcun senso che un
animale andasse contro se stesso, oppure né avversi né senta come proprio quello che l’ha creato.
Resta solo la tesi che la natura che l’ha creato lo porti ad appropriarsi di se stesso: in tal modo
infatti riesce ad evitare le cose che nuocciono e a perseguire quelle che giovano. Gli Stoici
smentiscono quelli che sostengono che il primo impulso degli animali è verso il piacere. A loro
avviso, il piacere, se mai esiste, nasce dopo che la natura ha ottenuto i mezzi adatti per la sua
sussistenza di cui era in cerca: è questo appunto che fa godere gli animali e fiorire le piante.
Effettivamente, dicono gli Stoici, non c’è differenza fra la natura vegetale e quella animale e la
natura riesce a governare le piante anche senza l’apporto dell’impulso e della sensazione, e
d’altra parte, addirittura in noi uomini alcune parti mantengono i caratteri delle piante. Gli
animali poi hanno in più l’impulso, del quale si servono per procurarsi quel che è utile: dunque,
per questi esseri vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall’impulso. Agli esseri
razionali la ragione è stata data come coronamento in una posizione eminente: ecco, dunque, che
per questi esseri il vivere conforme a ragione corrisponde esattamente al vivere conforme a
natura, dato poi che la ragione sovrintende all’impulso.
179 (Plutarco, Sulle contraddizioni degli stoici, xii) Per qual motivo Crisippo non smette di
angustiarci scrivendo in ogni libro di fisica e, per Zeus, anche di etica che «fin dalla nascita ci
appropriamo di noi stessi, delle parti del nostro corpo e dei nostri figli»?
180 (Alessandro di Afrodisia, Sull’anima) La natura che ci ha dotato di anima, ci ha fornito
anche un corpo e ci ha predisposto alla perfezione di ambedue e alla loro perfetta forma. In tal
modo, chi mancasse della naturale perfezione dell’uno o dell’altro non potrebbe vivere secondo
natura, intendendo con questa espressione, vivere secondo la volontà della natura: e se questa
vita è impossibile, anche la felicità è impossibile.
181 (Aulo Gellio, Notti attiche, 5,7) La natura universale, che è nostra madre, fin dalla nascita ci
ha inculcato e ha fatto crescere con noi l’amore e l’affetto per noi stessi, di modo che a ciascuno
di noi assolutamente nulla fosse più caro di se stesso; inoltre <tale medesima natura> ha stabilito
che proprio in questo si trovasse il principio di conservazione della specie umana: cioè nel fatto
che ognuno, non appena vede la luce abbia cognizione e provi attrazione per quelle realtà che gli
antichi pensatori chiamavano ‘prime per natura’ le quali consistono nel godere di tutto ciò che
Crisippo, frammenti
116
giova al corpo e di rifuggire da tutto ciò che nuoce. In seguito, col passare del tempo dai suoi
semi si è sviluppata la ragione, il discernimento nell’uso dell’intelletto, e la cognizione di ciò che
è morale e veramente utile, nonché una più acuta e motivata capacità di scelta fra ciò che giova e
ciò che non giova. Al seguito di tale esame emerse in tutto il suo splendore la dignità del bene
morale, al punto da ritenere che, se pure un qualche impedimento esterno fosse sorto ad
ostacolarne la conquista o la conservazione, di questo neppure si dovesse tener conto. Si pensò
quindi che null’altro fosse bene se non la dirittura morale, e null’altro male se non ciò che è
moralmente spregevole. Stabilirono, di conseguenza, che quelle realtà intermedie fra queste due
non fossero né beni né mali. Inoltre, quegli effetti e quelle relazioni che loro stessi chiamano
preferiti e respinti sono stati distinti e separati in ragione del loro valore, sicché, il piacere e il
dolore, per quanto concerne la loro incidenza sul fine in quanto tale –ossia sulla vita buona e
beata –, furono relegati fra le realtà intermedie e giudicati né beni né mali.
182 (Cicerone Sul fine, III, 5, 16) Sono convinti... che appena un essere vivente nasce (sta qui il
punto di partenza) tenda a conciliarsi con se stesso, e si impegni a salvare sé e il proprio essere,
perseguendo quelle cose che contribuiscono a tutelare il proprio essere, e ad allontanare la
propria fine e tutto ciò che sembra avvicinarla. Prova di ciò è il fatto che i piccoli, prima ancora
d’aver fatto esperienza del dolore e del piacere, cercano quel che giova alla loro salute e
rifuggono dalle cose opposte E ciò non potrebbe darsi se essi non amassero il proprio essere, e
non temessero la morte. Né d’altra parte potrebbero essere mossi da alcun desiderio se non
fossero dotati di una coscienza di sé e animati dall’amore di sé. Se ne deduce che il principio
primo viene dalla predilezione che ciascuno ha per sé.
117
Flavio Filostrato (c. 165-c.245 d.C)
Vite dei Sofisti
traduzione di Maurizio Civiletti; note di Richard Davies
Libro I cap i Eudosso di Cnido, pur essendosi dedicato con discreto successo agli studi filosofici1
nell’Accademia2, fu tuttavia incluso tra i sofisti3 per l’eleganza di eloquio e per la buona capacità
d’improvvisare; fu ritenuto degno del nome di sofista nell’Ellesponto, nella Propontide4, a Menfi
e nella parte d’Egitto al di là di Menfi, confinante con l’Etiopia e con la terra dei saggi chiamati
Gimnosofisti5.
1 O ‘alle scienze’, ‘le cose della ragione’ (‘logous’). 2 La scuola fondata da Platone ad Atene. 3 Per molti commentatori, la designazione ‘sofista’ è spregiativa; per Filostrato non è così. 4 L’Elllesponto e il Propontide si trovano oggi in Turchia 5 La terrra è l’India, e i Gimnosofisti erano asceti nudisti e vegetariani.
118
Diogene Laerzio (III sec. d.C.)
Vite dei filosofi
tr. it. a cura di Marcello Gigante Libro VIII, cap viii [86] Eudosso, figlio di Eschine, nacque a Cnido, astronomo, geometra, medico, legislatore. Egli
apprese la geometria da Archita, la medicina da Filistione il siciliano, come attesta Callimaco nei
suoi Quadri. Sozione nelle Successioni dei filosofi dice che fu uditore anche di Platone. Aveva
circa ventitre anni e versava in angustie economiche quando, attrratto dalla fame dei socratitic,
fece vela verso Atene con il medico Teomedonte, da cui fu mantenuto (secondo altri, fu il suo
amante).Sbarcato al Pireo ogni giorno saliva ad Atene e, dopo aver ascoltato i sofisti, di nuovo
faceva ritorno.
[87] Dopo una permanenza di due mesi, ritornò in patria e, soccorso da contribuzioni degli
amici, salpò in Egitto col medico Crisippo, portand una lettera di raccomandazione da parte di
Agesilao a Nettanabi, il quale lo raccomandò ai sacerdoti. Si trattenne lì un anno e quattro mesi,
si rase barba e sopracciglia e, secondo alcuni, compose la Ottaeteride. Di lì fu a Cizico e nella
Propontide a tenere scuola, ma dopo giunse alla corte di Mausolo. Da lì fece ritorno ad Atene,
portando con se moltissimi discepoli, come dicono alcuni per fare dispetto a Platone, il quale
all’inizio l’aveva rifiutato come discepolo.
[88] Alcuni riferiscono che, in occasione di un convito di Platone, poiché il numero degli ospiti
era grande, introdusse l’ordine dei posti in forma semicircolare. Nicomaco, figlio di Aristotele,
dice che per Eudosso il piacere è il bene. Fu accolto in patria con grande onore, come testimonia
il decreto appositamente fatto per lui. Ma divenne anche famosissimo presso i greci, perché
scrisse per i suoi cittadinai le leggi, come dice Ermippo nel quarto libro Dei sette sapienti, e
perché compose opere di astronomia e geometria ed altre degne di nota. Ebbe anche tre figlie,
Actide, Filtide, Delfide.
[89] Eratostene, nei libri diretti a Batone, dice che Eudosse compose anche Dialoghi di cani; altri
dicono che gli egizi li scrissero nella loro lingua e che egli li tradusse e pubblicò in Grecia.
Crisippo, figlio di Erineo, di Cnido, fu suo discepolo per la teologia, la cosmologia e la
meteorologia, mentre per la medicina fu discepolo di Filistione il siciliano. Lasciò anche dei
bellissimi trattati. Di lui fu figlio Aristagora e, di questo, Crisippo, discepolo di Aetlio, a cui si
attribuisce un’opera sulla cura degli occhi, poiché sottopose al vaglio della ragione le sue
speculazioni naturalistiche.
Diogene Laerzio, Vita di Eudosso
119
[90] […] Lo stesso Apollodoro dice che Eudosso di Cnido ebbe la sua acme nella 103 Olimpiade
e scoprì la teoria delle linee curve. Morì a cinquantre anni. Quando era in Egitto insieme con
Conufide di Eliopoli, Api lambì il suo mantello. Per questo i sacerdoti dissero che egli sarebbe
stato famoso ma di vita breve, come riferisce Favorino nelle Memorie.
[91] Vi è anche un nostro carme dedicato a lui:
In Menfi è fama che un giorno abbia appreso il proprio destino Eudosso da un toro dalle
belle corna. Nulla esso disse: come, infatti, potrebbe un bue parlare? Natura non diede
bocca loquace al bue Api! Ma stando di fianco a lui gli lambì la veste con evidente
monito: ‘tra breve finirai la vita’. Perciò a lui venne presto fato di morte: cinquantatre
anni avva contemplato le Pleiadi.
Per lo splendore della fama lo chiamavano ‘Endosso’ anziché ‘Eudosso’. Passati in rassegna i
Pitagorici illustri, resta ormati da dire intorno ai filosofi cosiddetti ‘sporadici’. In primo luogo
Eraclito.
120
Thomas Hobbes (1588-1679)
Leviatano (1651)
traduzione Gianni Micheli
Libro I
Capitolo VI: DEGLI INIZI INTERNI DEI MOVIMENTI VOLONTARI CHIAMATI
COMUNEMENTE PASSIONI, E DELLE PAROLE CON CUI SONO ESPRESSE
Vi sono negli animali due specie di movimenti ad essi peculiari. L’uno chiamato vitale che
comincia nella generazione e continua senza interruzione per tutta la vita, come il corso del
sangue, il polso, il respiro, la concozione, la nutrizione, l’escrezione ecc.; per questi movimenti
non occorre l’aiuto dell’immaginazione. L’altro è il movimento animale, chiamato altrimenti
movimento volontario, come l’andare, il parlare, il muovere qualche membro, nella maniera
determinata prima nella nostra mente dalla fantasia. Che il senso sia un movimento negli organi
e nelle parti interne del corpo umano, causato dall’azione delle cose che vediamo, udiamo ecc.; e
che la fantasia non sia che il residuo dello stesso movimento che rimane dopo il senso, è già stato
detto nel primo e nel secondo capitolo. E poiché andare, parlare, e simili movimenti volontari,
dipendono sempre da un precedente pensiero del dove, del per quale via, del che cosa, è evidente
che l’immaginazione è il primo inizio interno di ogni movimento volontario. E benché gli uomini
incolti non concepiscano affatto che ci sia un qualunque movimento, dove la cosa mossa è
invisibile, o lo spazio in cui si muove (per la sua strettezza) è insensibile, pure ciò non impedisce
che ci siano tali movimenti. Infatti, per quanto uno spazio sia piccolo, quel che si muove su di
uno spazio più grande, di cui quello piccolo è una parte, deve prima muoversi su quello. Questi
piccoli inizi di movimento entro il corpo umano, prima che appaiano nel camminare, nel parlare,
nel percuotere, e in altre azioni visibili, dono comunemente chiamati SFORZO.
Questo sforzo, quando è volto verso qualcosa che lo causa si chiama APPETITO o
DESIDERIO; quest’ultimo è il nome generale e l’altro è spesso ristretto a significare il desiderio
del cibo, cioè la fame e la sete. Quando lo sforzo è per tenersi lontano da qualcosa, si chiama
generalmente AVVERSIONE. Questi vocaboli, appetito e avversione, che noi abbiamo dai latini,
significano entrambi dei movimenti, l’uno quello di avvicinarsi, l’altro quello di ritirarsi. Cosi
pure in greco, per lo stesso significato, si hanno i vocaboli horme e aforme. La natura stessa
infatti spinge spesso gli uomini verso quelle verità, in cui in seguito essi inciampano, quando
cercano qualcosa al di fuori della natura. Le scuole infatti non trovano affatto nel mero appetito
Hobbes, Leviatano, I, vi
121
di andare, o di muoversi alcun movimento attuale; ma, poiché debbono riconoscere qualche
movimento, lo chiamano movimento metaforico, e ciò non è che un parlare assurdo, perché se i
vocaboli si possono chiamare metaforici, non così si può dire dei corpi e dei movimenti.
Ciò che gli uomini desiderano si dice anche che l’AMINO o che ODINO quelle cose per le
quali hanno avversione. Cosicché desiderio e amore sono la stessa cosa, se si eccettua il fatto che
con desiderio noi significhiamo sempre l’assenza dell’oggetto, con amore, più comunemente la
presenza di esso. Così pure con avversione, noi significhiamo l’assenza e con odio la presenza
dell’oggetto.
Alcuni degli appetiti e delle avversioni nascono con noi, come l’appetito del cibo, quello
dell’escrezione e dello scaricare il corpo (che si possono anche, e più propriamente, chiamare
avversioni da qualcosa che si sente nel corpo) ed alcuni altri appetiti, non molti. Gli altri, che
sono appetiti di cose particolari, procedono dall’esperienza e dal saggio dei loro effetti su di sé o
sugli altri. Infatti delle cose che non conosciamo per nulla o che crediamo non ci siano, non
possiamo avere alcun desiderio oltre a quello di gustarle e saggiarle. Abbiamo invece avversione
non solo per le cose che sappiamo ci hanno nuociuto, ma anche per quelle che non sappiamo se
ci nuoceranno o no.
Quelle cose che non desideriamo, né odiamo si dice che le dispregiamo, dato che il
DISPREGIO è nient’altro che una immobilità, o contumacia del cuore nel resistere all’azione di
certe cose, e procede dal fatto che il cuore è già mosso altrimenti da altri più potenti oggetti, o
dalla mancanza di esperienza di essi.
E per il fatto che la costituzione del corpo umano è in continuo mutamento, è impossibile che
tutte le stesse cose causino sempre nell’uomo gli stessi appetiti e avversioni; molto meno tutti gli
uomini possono consentire nel desiderio di un solo e medesimo oggetto, quale che sia, o quasi.
Ma, qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o del desiderio di un uomo è ciò che egli, per
parte sua, chiama buono; l’oggetto del suo odio e della sua avversione cattivo e del suo
dispregio, vile e trascurabile. Infatti queste parole, buono, cattivo, e spregevole, sono sempre
usate n relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e
assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla
natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c’è lo stato) o (in uno
stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che le persone in
disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola.
La lingua latina ha due vocaboli, i cui significati si avvicinano a quelli di buono e cattivo, ma
non sono precisamente la stessa cosa; essi sono pulchrum e turpe. Il primo significa quel che, per
alcuni segni apparenti, promette qualcosa di buono, e l’altro quel che promette qualcosa di
Hobbes, Leviatano, I, vi
122
cattivo. Nella nostra lingua non abbiamo però nomi così generali con i quali esprimerli, ma per
pulchrum diciamo in alcuni casi fayre, in altri beautiful, o handsome, o gallant, o honourable, o
comely, o amiable; e per turpe, foule, deformed, ugly, base, nauseous e simili come richiederà il
soggetto; tutti questi vocaboli, al loro posto proprio, non significano altro che l’aria o l’aspetto
che promette qualcosa di buono o di cattivo. Cosicché vi sono tre generi di buono; il buono nella
promessa, cioè pulchrum; il buono nell’effetto, come fine desiderato, che viene chiamato
jucundum, dilettevole, e il buono come mezzo che viene chiamato utile, giovevole; e altrettanti
generi di cattivo, poiché il cattivo nella promessa è quello che si chiama turpe, cattivo
nell’effetto e nel fine molestum, spiacevole, fastidioso; il cattivo nei mezzi, inutile, non
giovevole, nocivo.
Così, nel senso, quel che è realmente entro di noi, come ho detto prima, è solo movimento
causato dall’azione degli oggetti esterni, ma in apparenza per la vista è luce e colore, per
l’orecchio suono, per le narici odore ecc.; così quando l’azione dello stesso oggetto si continua
dagli occhi, dalle orecchie, dagli altri organi al cuore, l’effetto reale lì non è altro che movimento
o sforzo, consistente in un appetito verso l’oggetto moventein una avversione da esso. Ma
l’apparenza o senso di quell movimento è ciò che chiamiamo DILETTO oppure DISTURBO
DELLA MENTE.
Questo movimento, che viene chiamato appetito e, per la sua apparenza, diletto e piacere,
sembra sia una corroborazione e un aiuto del movimento vitale. Perciò le cose che causano
diletto furono chiamate non impropriamente jucunda (a juvando) dal fatto che aiutano o
fortificano; e le contrarie molesta, offensive dal fatto che ostacolano e disturbano il movimento
vitale.
Perciò il piacere (o diletto) è l’apparenza o il senso di ciò che è buono; e la molestia o
dispiacere, l’apparenza o il senso di ciò che è cattivo. Di conseguenza ogni appetito, desiderio e
amore, è accompagnato da qualche diletto, maggiore o minore, e ogni odio e avversione da
maggiore o minore dispiacere e offesa.
Alcuni dei piaceri o diletti sorgono dal senso di un oggetto presente; essi si possono chiamare
piaceri del senso (dato che non c’è posto finché non ci sono le leggi, per il vocabolo sensuale, in
quanto è usato solamente da quelli che li condannano). Di questo genere sono tutti gli atti con cui
il corpo si carica e si scarica, come pure tutto quel che è piacevole alla vista, all’udito,
all’odorato, al gusto, o al tatto. Altri sorgono dall’ aspettativa che procede dalla previsione del
fine o della conseguenza di certe cose, sia che queste cose siano piacevoli o spiacevoli al senso.
Sono questi i piaceri della mente per colui che trae quelle conseguenze e vengono generalmente
Hobbes, Leviatano, I, vi
123
chiamati GIOIA. Similmente alcuni dispiaceri sono nel senso e vengono chiamati PENA altri,
nell’aspettativa delle conseguenze, e vengono chiamati AFFLIZIONE.
Queste semplici passioni chiamate appetito, desiderio, amore, avversione, odio, gioia e
afflizione, hanno i loro nomi diversificati per diverse considerazioni. In primo luogo, quando si
succedono l’un l’altra, vengono chiamate diversamente sulla base dell’opinione che gli uomini
hanno della probabilità di raggiungere ciò che desiderano: in secondo luogo, sulla base
dell’oggetto amato o odiato; in terzo luogo, sulla base della considerazione di parecchie insieme;
in quarto luogo, sulla base dell’alterazione o successione stessa.
[Hobbes dedica poi diverse pagine alla definizioni di varie passioni in base agli elementi
stabiliti (intromissione di Davies)]
Quando nella mente di un uomo gli appetiti, le avversioni, le speranze, i timori, riferentisi ad
una stessa cosa, sorgono alternativamente, e diverse conseguenze, buone e cattive, derivanti dal
fare o dall’omettere di fare la cosa che ci si era proposta, vengono successivamente al nostro
pensiero, per modo che abbiamo per essa talvolta un appetito, tal altra un’avversione, talvolta
abbiamo speranza di essere in grado di farla, tal altra disperiamo o temiamo di tentare di farla;
l’intera somma dei desideri, delle avversioni, delle speranze e dei timori, che si protraggono fino
a quando la cosa non viene fatta, oppure si pensa che é impossibile, è quel che chiamiamo
DELIBERAZIONE.
Perciò sulle cose passate non c’è deliberazione, perché è manifestamente impossibile che
siano cambiate, né sulle cose che sappiamo essere impossibili o che pensiamo siano tali, perché
si sa o si pensa che una tale deliberazione sia vana. Ma sulle cose impossibili che pensiamo siano
possibili possiamo deliberare, dato che non sappiamo che è cosa vana. Ed è chiamata
deliberazione, perché è un porre fine alla libertà che avevamo di fare o di omettere di fare,
secondo il nostro appetito o la nostra avversione.
Questa alterna successione di appetiti, avversioni, speranze e timori, si ha nelle altre creature
viventi non meno che nell’uomo e perciò anche le bestie deliberano.
Si dice che ogni deliberazione termina, quando quello su cui si delibera è fatto o si pensa che
sia impossibile, perché fino allora noi conserviamo la libertà di fare o di omettere di fare,
secondo il nostro appetito o la nostra avversione.
Nella delibrazione, l’ultimo appetito, o l’ultima avversione, immediatamente aderente
all’azione o alla sua omissione è quel che chiamiamo VOLONTÀ, l’atto, (non la facoltà) del
volere. E le bestie che hanno deliberazione, devono avere necessariamente anche la volontà. La
Hobbes, Leviatano, I, vi
124
definizione della volontà come un appetito razionale, che si dà comunemente nelle scuole, non è
buona, perché, se cosi fosse, non ci potrebbe essere atto volontario contro ragione; un atto
volontario, infatti, è quello che procede dalla volontà e niente altro. Ma, se invece di appetito
razionale, noi diremo appetito risultante da una precedente deliberazione, allora la definizione è
la stessa di quella che io ho dato qui. La volontà è perciò l’ultimo appetito nel deliberare. Benché
diaicamo nel discorrere commune che un uomo ha avuto una volta la volontà di fare una cosa,
che tuttavia si è astenuto dal fare, tuttavia quella, propriamente, è solo un’inclinazione che non
rende volontaria alcuna azione, perché l’azione non dipende da essa ma dall’ultima inclinazione
o appetito. Infatti se gli appetiti che si presentano rendessero volontaria una qualunque azione,
allora, per la stessa ragione tutte le avversioni che si presentano, renderebbero involontaria la
medesima azione; così la stessa azione sarebbe ad un tempo volontaria e involontaria.
Da ciò è manifesto che non solo le azioni che hanno il loro inizio nella bramosia,
nell’ambizione, nella concupiscenza o negli altri appetiti per la cosa che ci si era proposta, ma
anche quelle che hanno il loro inizio nell’avversione o nel timore di quelle conseguenze che
seguono l’omissione, sono azioni volontarie.
Le forme di parlare con cui vengono espresse le passioni, sono in parte le stesse e in parte
differenti da quelle con cui noi esprimiamo i nostri pensieri. In primo luogo tutte le passioni si
possono generalmente esprimere in modo indicativo, come amo, temo, gioisco, delibero, voglio,
comando; ma alcune di esse hanno espressioni a loro particolari, le quali nondimento non sono
affermazioni, se non quando servono per fare altre inferenze; oltre a quelle della passione da cui
procedono. La deliberazione è espressa in modo soggiuntivo, che è un parlare particolarmente
atto a significare le supposizioni con le loro conseguenze, come: ‘se è fatto questo, allora seguirà
quest’altro’, e non differisce dal linguaggio del ragionamento, tranne per il fatto che nel
ragionamento si hanno vocaboli generali; la deliberazione, invece, per lo più, verte su casi
particolari. Il linguaggio del desiderio e dell’avversione, è imperativo, come: ‘fa questo’,
‘astienti da quello’; esso, quando la persona è obbligata a fare o ad astenersi, è un comando,
altrimenti è una preghiera, o ancora un consiglio. Il linguaggio della vana gloria, della
indignazione, della pietà, dello spirito di vendetta, è ottativo: ma del desiderio di conoscere v’è
una particolare espressione, chiamata interrogativa, come; ‘che cos’è?’, ‘quando sarà?’, ‘come è
fatto?’ e ‘perché così?’ Non trovo alcun altro linguaggio per le passioni, perché imprecare,
giurare, insultare e simili, non hanno significato come parole, ma come azioni di una lingua
abituata ad essi.
Queste forme di parlare, dico che sono espressioni, o significazioni volontarie delle nostre
passioni, ma non ne sono segni certi, perché possono essere usate arbitrariamente, sia che chi le
Hobbes, Leviatano, I, vi
125
usa abbia tali passioni o no. I segni migliori della presenza delle passioni, si hanno o nell’aspetto,
nei movimenti del corpo, nelle azioni, nei fini, oppure negli intenti, che sappiamo per altra via
essere presenti nell’uomo.
E per il fatto che nella deliberazione, gli appetiti e le avversioni sono fatti sorgere dalla
previsione delle conseguenze e sequele buone o cattive dell’azione su cui deliberiamo, il buono o
cattivo effetto della stessa dipende dalla previsione di una lunga catena di conseguenze, della
quale molto raramente si è in grado di vedere la fine. Ma se il bene, per quanto lontano si veda,
in quelle conseguenze è più grande del male, l’intera catena è ciò che gli scrittori chiamano
apparenza o sembianza di bene, e al contrario, quando il male eccede il bene apparenza o
sembianza di male. Cosicché colui che ha per esperienza o per ragionamento il maggiore e più
sicuro prospetto delle conseguenze, delibera meglio per sé ed è in grado, quando vuole, di dare i
migliori consigli agli altri.
Un continuo successo nell’ottenere quelle cose che volta a volta si desiderano, vale a dire, una
continua prosperità, è ciò che gli uomini chiamano FELICITÀ, voglio dire la felicità di questa
vita. Infatti, finché viviamo qui, non c’è una cosa come la perpetua tranquillità della mente,
poiché la vita in sé non è che movimento, e non può essere mai senza desiderio, né senza timore,
non più di quanto possa essere senza il senso. Quale genere di felicità Dio abbia ordinato per chi
lo onora devotamente non lo si conoscerà prima di gioirne, dato che quelle gioie ora sono tanto
incomprensibili quanto è inintelligibile l’espressione scolastica visione beatifica.
La forma di parlare con cui gli uomini significano la loro opinione sulla bontà di qualcosa e’l
LODE, quella con cui significano la potenza e la grandezza di qualcosa è la
MAGNIFICAZIONE, e quella con cui significano l’opinione che hanno della felicità umana è
dai Greci chiamata makarismos per la quale non abbiamo un nome corrispondente nella nostra
lingua. Quello che si è detto delle PASSIONI è sufficiente per il presente scopo.
126
John Locke (1632-1704)
Saggio sull’intendimento umano (1690)
traduzione Camillo Pellizzi
Libro II, capitolo xx
DEI MODI DEL PIACERE E DEL DOLORE
1. Fra le idee semplici che noi riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione, il dolore e il
piacere sono molto importanti. Poiché, come il corpo può avere una sensazione pura e semplice,
o accompagnata da dolore o piacere, così il pensiero, ossia la percezione della mente, può essere
semplicemente tale, oppure anche essa accompagnata da piacere o dolore, diletto o tormento, o
come altrimenti vorrete dire. Queste, come altre idee semplici, non possono venir descritte, né si
possono definire i loro nomi; possono venir conosciute soltanto con l’esperienza, come accade
per le idee semplici dei sensi. Poiché, se le definissimo dalla presenza del bene o del male,
questo non servirebbe altrimenti a farcele conoscere, se non facendoci riflettere su ciò che
proviamo in noi stessi in seguito alle molte e varie operazioni del bene e del male sulla nostra
mente, in quanto esse diversamente agiscono sopra di noi o sono da noi considerate.
2. Dunque, le cose sono buone o cattive solo in rapporto al piacere o al dolore. Chiamiamo
bene ciò che è atto a produrre o accrescere qualunque dolore, o a diminuire la pena, oppure a
procurarci o conservare per noi il possesso di un qualunque altro bene o l’assenza di qualunque
male. E, al contrario, chiamiamo male ciò che è atto a produrre o accrescere qualunque dolore, o
a diminuire in noi il piacere, oppure a procurarci un male o a privarci di un bene. Bisogna
intendere che parlo di piacere e dolore in rapporto al corpo e alla mente, secondo che essi
vengono comunemente distinti; benché, in verità, si tratti soltanto di differenti stati della mente,
talvolta causati da un disordine del corpo, e talvolta dai pensieri della mente.
3. Il piacere e il dolore e ciò che li determina, cioè il bene cd il male, sono i cardini sui quali
girano le nostre passioni. E se riflettiamo intorno a noi stessi, e osserviamo in qual modo tali
cose agiscano, per diversi rispetti, sopra di noi, quali modificazioni o disposizioni della mente
producano in noi, e quali sensazioni interne (se così posso chiamarle), da tutto ciò potremo
formarci le idee delle nostre passioni.
4. Così, chiunque rifletta su ciò che egli pensa del diletto che può produrre in lui qualunque
cosa presente o assente, avrà l’idea di ciò che chiamiamo amore. Poiché, quando uno dichiara in
autunno, quando la sta mangiando, o in primavera, quando non ve n’è, che gli piace l’uva, questo
vuol dire nient’altro se non che il sapore dell’uva gli dà diletto; ma se un’alterazione della salute
Locke, Saggio, II, xx
127
o della sua costituzione venga a distruggere il diletto che prova nell’assaporarla, allora si potrà
dire che l’uva non gli piace più.
5. Al contrario, il pensiero del dolore che può produrre in noi una qualunque cosa presente o
assente, è ciò che chiamiamo odio. Se fosse affar mio qui portare la mia ricerca un poco oltre le
pure idee delle nostre passioni, in quanto dipendono da modificazioni diverse del piacere e della
pena osserverei che il nostro amore e odio per gli esseri insensibili e inanimati si fonda
comunemente sul piacere o sul dolore che riceviamo dal loro uso e dall’applicazione di essi, in
qualunque modo, ai nostri sensi, anche se ciò comporti la loro distruzione; ma l’amore o l’odio
che portiamo ad esseri capaci di felicità o infelicità consiste spesso nel turbamento o nel diletto
che troviamo in noi stessi, e clic sorge dalla considerazione del fatto stesso del loro esistere o del
loro esser felici. Così, l’esistenza e il benessere dei bambini o degli amici di una persona
producendo in lei un costante diletto, si può dire che ella li ama costantemente. Ma basti
osservare che le nostre idee dell’amore e dell’odio non sono che le disposizioni della mente
relative al piacere e al dolore in generale, comunque siano prodotti in noi.
6. Il disagio che un uomo avverte in sé per l’assenza di una cosa qualunque la cui presenza
attuale porta con sé l’idea del piacere, è ciò che chiamiamo desiderio: che è più o meno grande
secondo che quel disagio è più o meno veemente. E qui non sarà forse inutile osservare di
passata che lo sprone principale, se non unico, dell’industria e dell’attività umana è quel disagio.
Poiché, quale che sia il bene proposto, se la sua assenza non porta con sé dispiacere o pena, se
l’uomo sia contento e a suo agio senza di esso, non vi sarà il desiderio di quella cosa, né lo
sforzo per ottenerla; non vi sarà nient’altro che una pura velleità, termine usato a significare il
grado più basso del desiderio, quella clic è più vicina al non esistere affatto: quando è così
piccolo il disagio per l’assenza di una qualche cosa, che non induce l’uomo ad altro se non ad
augurarsela fiaccamente, senza fare alcun uso più efficace o vigoroso dei mezzi con cui
ottenerla. Il desiderio è anche spento o attenuato dalla convinzione dell’impossibilità o
irraggiungibilità del bene voluto, per quel tanto che il nostro disagio è guarito, o attenuato, da
tale considerazione. Questo potrebbe condurre più oltre i nostri pensieri, se ne fosse qui il luogo.
7. La gioia è un diletto della mente, e sorge dal possesso presente di un bene, o dalla sicurezza
di stare per averlo; e siamo in possesso di qualunque bene quando esso è talmente in nostro
potere che possiamo usarlo quando ci piaccia. Così, un uomo quasi morto di fame sente gioia per
l’arrivo dei soccorsi, anche prima di provare il piacere di utilizzarli; e un padre, cui lo stesso
benessere dei figli è causa di diletto, è sempre in possesso di questo bene, fintanto che i suoi
figliuoli si trovino in tale stato, poiché gli basta riflettervi per avere quel piacere.
Locke, Saggio, II, xx
128
8. La pena è disagio o turbamento della mente al pensiero di un bene perduto, di cui si sarebbe
potuto godere più a lungo; oppure il senso di un male presente.
9. La speranza è quel piacere che prova nella mente chiunque pensi al futuro probabile
godimento di una cosa atta a dargli piacere.
10. Il timore è un malessere della mente al pensiero di un male futuro che ci può capitare.
11. La disperazione è il pensiero della irraggiungibilità di un qualunque bene, ed opera
differentemente nella mente degli uomini, talvolta producendo turbamento o pena, talvolta
immobilità e indolenza.
12. La collera è quel disturbo o disordine della mente che proviamo dopo aver ricevuto un
qualche danno, e s’accompagna al desiderio presente di vendicarsi.
13. L’invidia è un disturbo della mente causato dal fatto clic un bene che noi desideriamo è
stato ottenuto da qualcuno che pensiamo non avrebbe dovuto averlo invece di noi.
14. Queste due ultime passioni, dell’invidia e della collera, non essendo causate
semplicemente dal dolore e dal piacere di per se stessi, ma contenendo una certa mescolanza di
considerazioni relative a noi stessi e ad altri, non si troveranno perciò in tutti, poiché in taluni
mancheranno quelle altre condizioni di esse che consistono in una certa valutazione dei propri
meriti o nel proposito della vendetta. Ma tutte le altre, che hanno semplicemente per termini il
dolore e il piacere, ritengo si trovino in tutti. Poiché, in definitiva, amiamo, desideriamo, ci
rallegriamo e speriamo solo in rapporto al piacere; odiamo, temiamo e ci rattristiamo solo in
rapporto al dolore. Insomma, tutte queste passioni sono prodotte dalle cose solo in quanto queste
appaiono come le cause del piacere e della pena, o il piacere o la pena vadano loro connessi in un
modo o in un altro. Così, estendiamo di solito il nostro odio sull’oggetto (per lo meno, se è un
agente sensibile o volontario) che ha prodotto in noi un dolore, poiché il timore che esso lascia in
noi è una pena costante; ma non con altrettanta costanza amiamo quello che ci ha fatto del bene,
perché il piacere non opera così fortemente sopra di noi come il dolore, e perché non siamo così
portati a sperare che anche in avvenire ci darà quel piacere. Ma questo sia detto di passata.
15. Come ho già indicato sopra, sarà sempre da ricordare che con piacere e dolore, diletto e
disagio, intendo sempre significare, non soltanto il piacere e il dolore corporei, ma qualunque
diletto o disagio sia da noi sentito, sia che nasca da una sensazione o da una riflessione grata
oppure sgradevole.
16. Bisogna ancora considerare che, nei riguardi delle passioni, l’eliminazione o diminuzione
di un dolore è considerata come un piacere, ed opera come tale; e la perdita o diminuzione di un
piacere, come una pena.
Locke, Saggio, II, xx
129
17. Le passioni hanno anche, per lo più, e nel maggior numero delle persone, degli effetti sul
corpo, e vi producono vari cambiamenti; ma poiché questi non sono sempre sensibili, non
costituiscono parte necessaria dell’idea di ciascuna passione. Poiché la vergogna, che è un
malessere della mente al pensiero di aver commesso qualcosa di indecente, o che possa
diminuire la stima che gli altri hanno di noi, non è sempre accompagnata dal rossore.
18. Non vorrei che qui mi si fraintendesse, come se avessi voluto dare a questo punto un
trattato delle passioni: ve ne sono molte più di quelle che ho qui nominate, e ciascuna di quelle di
cui ho parlato richiederebbe un discorso molto più ampio e accurato. Ho fatto parola qui di
queste passioni come di altrettanti esempi di modi del piacere e della pena che derivano nella
nostra mente da varie considerazioni del bene e del male. Forse avrei potuto trovare esempi in
altri modi del piacere e del dolore, più semplici di questi, come il dolore dovuto alla fame e alla
sete, e il piacere di mangiare e bere per liberarsi da quello; il fastidio di quando si sentono segare
i denti; il piacere della musica; il fastidio che procura chi disputa con noi in modo capzioso e
senza insegnarci nulla, e il piacere di una conversazione razionale con un amico, o di uno studio
ben diretto per la ricerca e la scoperta della verità. Ma poiché le passioni ci interessano molto di
più, ho preferito scegliere i miei esempi fra di esse, per far vedere come le idee che ne abbiamo
derivino dalla sensazione o dalla riflessione.
130
David Hume (1711-76)
Ricerca sui princìpi della morale (1751)
traduzione Mario Dal Pra
APPENDICE PRIMA
SUL SENTIMENTO MORALE
Se si accettasse l’ipotesi precedente, ora ci sarebbe facile risolvere la questione posta prima
intorno ai princìpi generali della morale; e sebbene noi si sia rinviata la risoluzione della
questione per timore che essa ci involgesse in speculazioni intricate che non sono adatte per
discorsi morali, possiamo adesso riassumere la questione e vedere fino a qual punto ragione e
sentimento entrino in tutte le determinazioni che hanno riguardo alla lode ed al biasimo.
Poiché abbiamo supposto che un fondamento principale della lode morale consista nell’utilità
d’una qualità o azione qualsiasi, è evidente che la ragione deve entrare per una parte
considerevole in tutte le decisioni di questo genere; infatti soltanto la facoltà della ragione ci può
istruire intorno alla tendenza di qualità e di azioni e può indicare le loro conseguenze benefiche
nei riguardi della società e di coloro stessi che le possiedono. In molti casi, si tratta di una
questione soggetta a grande controversia; possono sorgere dubbi; possono incontrarsi interessi
opposti; e si deve accordare la preferenza ad una delle parti in contrasto in base a prospettive
molto sottili ed in base ad una minima preponderanza di utilità. Ciò si può particolarmente
rilevare in questioni che riguardano la giustizia, com’è naturale supporre, in verità, in base alla
specie di utilità che accompagna questa virtù. Se ogni singolo caso di giustizia fosse, come
avviene per la benevolenza, utile alla società, la questione sarebbe molto più semplice e
raramente darebbe luogo a grande controversia. Ma poiché singoli casi di giustizia sono spesso
dannosi nelle loro prime ed immediate conseguenze, e poiché il vantaggio deriva alla società
soltanto dall’osservanza della regola generale e dall’incontro combinato di più persone nella
stessa condotta di equità, la questione diventa qui più intricata e involuta. Le varie circostanze
attinenti alla società, le varie conseguenze d’una azione; i vari interessi che si possono proporre,
tutto ciò, in molte occasioni, fa nascere dubbi e dà luogo a grande discussione ed a ricerca.
L’oggetto delle leggi municipali è di regolare tutte le questioni che riguardano la giustizia: i
dibattiti dei civilisti, le considerazioni dei politici, i precedenti storici e la tradizione pubblica
sono tutti diretti allo stesso scopo. Ed una ragione o giudizio molto accurati sono spesso
necessari per giungere alla vera risoluzione, in mezzo a dubbi tanto intricati che scaturiscono da
utilità non ben determinate od opposte.
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
131
Ma per quanto la ragione, se pienamente sviluppata, sia sufficiente per istruirci delle tendenze
dannose od utili di qualità ed azioni; essa non basta da sola a produrre qualche biasimo o qualche
approvazione morali. L’utilità è soltanto una tendenza ad un certo fine; e se il fine ci fosse del
tutto indifferente, noi proveremmo la stessa indifferenza nei riguardi dei mezzi per conseguirlo.
Qui occorre che si affermi un sentimento, affinché si dia una preferenza alle tendenze utili
rispetto a quelle dannose. Questo sentimento non può essere che una sensibilità per la felicità
degli uomini ed un risentimento nei confronti della loro infelicità, giacché questi sono i diversi
fini che la virtù ed il vizio tendono a promuovere. Qui dunque la ragione ci insegna a che cosa
tendono le azioni e il senso di umanità opera una distinzione in favore di quelle che sono utili e
benefiche.
Questa divisione fra le facoltà dell’intelletto e del sentimento, in tutte le deliberazioni morali,
appare chiara in base all’ipotesi precedente. Ma supponiamo che quest’ipotesi sia falsa; sarà
allora necessario guardare verso qualche altra teoria che possa essere soddisfacente; ed io oso
affermare che non se ne troverà mai alcuna finché si supporrà che la ragione sia l’unica fonte
della morale. Per provare ciò, sarà bene considerare i cinque punti seguenti.
I. È facile che un’ipotesi falsa conservi qualche apparenza di verità, finché si tiene soltanto
sulle generali, fa uso di termini non definiti ed adopera paragoni, anziché indicare casi. La cosa
si può particolarmente notare in quella filosofia che attribuisce alla ragione soltanto, senza alcun
concorso del sentimento, il discernimento di tutte le distinzioni morali. È impossibile che, in
qualche caso particolare, questa ipotesi riesca a rendersi intelligibile, per quanto speciosa figura
essa possa fare in declamazioni e in discorsi generici. Esaminate, per esempio, il delitto di
ingratitudine; esso ha luogo ovunque noi osserviamo da una parte benevolenza espressa e ben
nota, unitamente alla prestazione di buoni servigi, e dall’altra la restituzione di malvolere o
indifferenza, con prestazione di cattivi servigi o con trascuratezza; analizzate tutte queste
circostanze ed esaminate, soltanto colla vostra ragione, in che consista il demerito o biasimo.
Non giungerete mai a qualche risultato o conclusione.
La ragione giudica o intorno a dato di fatto o intorno a relazioni. Cercate dunque, prima,
dov’è la materia di fatto che qui chiamiamo delitto; indicatelo; determinate il tempo della sua
esistenza; descrivetene l’essenza o natura; indicate il senso o la facoltà cui esso si manifesta.
Esso risiede nella mente della persona che è ingrata. La persona deve, perciò, sentirlo ed esserne
consapevole. Ma in essa non c’è nulla, all’infuori della passione del malvolere o della assoluta
indifferenza. Voi non potete dire che queste passioni, per se stesse, sempre ed in tutte le
circostanze, siano delitti. No, esse sono delitto solo quando sono rivolte contro persone che per
l’innanzi hanno espresso ed esplicato la loro benevolenza nei nostri riguardi. Per conseguenza
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
132
possiamo inferire che il delitto di ingratitudine non è qualche fatto particolare dell’individuo, ma
nasce da una complicazione di circostanze le quali, quando si presentano ad uno che le consideri,
eccitano il sentimento di biasimo, in base alla particolare struttura della sua niente.
Questa rappresentazione, voi dite, è falsa. Il delitto, in verità, non consiste in un fatto
particolare, della cui realtà noi ci si possa accertare a mezzo della ragione; ma esso consiste in
certe relazioni morali, che noi scopriamo per mezzo della ragione, al modo stesso in cui
scopriamo a mezzo della ragione le verità della geometria o dell’algebra. Ma quali sono,
domando, le relazioni di cui parlate? Nel caso indicato sopra, vedo dapprima benevolenza e
buoni uffici in una persona, poi malevolenza e cattivi servigi nell’altra. Fra queste, v’è una
relazione di contrarietà. Consiste forse il delitto in questa relazione? Ma supponete che una
persona mostri malevolenza nei miei riguardi e mi presti cattivi servigi; e che io, di rimando, mi
mantenga indifferente nei suoi riguardi o le rechi addirittura buoni servigi. Qui c’è la stessa
relazione di contrarietà; e tuttavia la mia condotta viene spesso altamente lodata. Voltate e
rivoltate questa questione quanto volete, non potrete mai fondare la moralità sulla relazione; ma
dovrete far ricorso alle decisioni del sentimento.
Quando si afferma che due più tre fa la metà di dieci, io comprendo perfettamente questa
relazione di eguaglianza. Comprendo che se dieci fosse diviso in due parti, di cui l’una avesse
tante unità quante l’altra, e se una di queste parti fosse messa a confronto con due più tre,
conterrebbe tante unità quante ne contiene quel numero composto. Ma quando voi traete di qui
un paragone colle relazioni morali, confesso che sono del tutto incapace di comprendervi. Una
azione morale, un delitto, come l’ingratitudine, sono oggetti complicati. Consisterebbe forse la
moralità nella relazione delle varie parti di questi oggetti l’una rispetto all’altra? Come? In qual
modo? Specificate la relazione; siate più determinati ed espliciti nelle vostre affermazioni e ne
vedrete facilmente la falsità.
No, voi dite, la moralità consiste nella relazione che le azioni hanno colla regola del giusto; ed
esse si chiamano buone o cattive a seconda che si accordano o no con essa. Quale è allora questa
regola del giusto? In che cosa consiste? Come viene determinata? Per mezzo della ragione, voi
dite, la quale esamina le relazioni morali delle azioni. Cosicché le relazioni morali sono
determinate dal paragone di un’azione con una regola; e questa regola è determinata dalla
considerazione delle relazioni morali degli oggetti. Non è questo forse un ragionare sottile?
Tutto questo è metafisica, voi esclamate. E basta questo e non c’è bisogno d’altro per darci
una forte presunzione di falsità. Sì, rispondo, qui c’è certamente della metafisica; ma essa sta
tutta dalla vostra parte, di voi che mettete avanti un’ipotesi astrusa che non può mai diventare
intelligibile né concordare con qualche esempio o caso particolare. La ipotesi che noi
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
133
abbracciamo è semplice e sostiene che la moralità è determinata dal sentimento; essa definisce
virtù qualunque azione o qualità mentale la quale dia a chi la considera il sentimento piacevole
dell’approvazione; il vizio è il contrario. Noi allora siamo in grado di esaminare una semplice
questione di fatto, cioè quali azioni producono tale risultato. Consideriamo tutte le circostanze,
nelle quali queste azioni concordano e di qui ci sforziamo di estrarre qualche osservazione
generale con riguardo a questi sentimenti. Se voi chiamate questa metafisica, e vi trovate
qualcosa di astruso, non avete che da concludere che la vostra mente non è affatto adatta alle
scienze morali.
II. Quando una persona, in un momento qualsiasi, decide intorno alla propria condotta (per
esempio, se farebbe meglio, in una determinata circostanza, ad assistere un fratello o un
benefattore) deve considerare queste distinte relazioni con tutte le circostanze e le condizioni
delle persone, per determinare quale sia il dovere e l’obbligo che ha maggiore importanza; e per
determinare la proporzione dei lati di un triangolo, è necessario esaminare la natura di questa
figura e la relazione che le sue diverse parti hanno l’una rispetto all’altra. Ma, nonostante
quest’apparente somiglianza nei due casi, v’è, in fondo, una profonda differenza fra di essi. Uno
che ragioni speculativamente intorno a triangoli o a ciroli, considera le varie relazioni note e date
fra le varie parti di queste figure e di qui inferisce qualche relazione che prima non era nota e che
dipende da quelle note. Ma nelle decisioni morali dobbiamo avere conoscenza in anticipo di tutti
gli oggetti e di tutte le relazioni che essi hanno l’uno rispetto all’altro, ed in base ad un paragone
del tutto, fissiamo la nostra scelta o approvazione. Non c’è alcun fatto nuovo da accertare,
nessuna relazione nuova da scoprire. Tutte le circostanze del caso si suppone che siano poste
davanti a noi prima che noi si possa prendere qualche decisione di biasimo o di approvazione. Se
qualche circostanza importante fosse tuttavia sconosciuta o dubbiosa, dovremmo prima fare una
ricerca o impiegare le nostre capacità intellettive per assicurarci di essa; e dovremmo sospendere
per il momento qualsiasi decisione o sentimento morale. Finché non sappiamo se uno ha
aggredito o no, come possiamo stabilire se la persona che l’ha ucciso ha commesso un delitto o è
innocente? Ma una volta che siano messe in chiaro tutte le circostanze e tutte le relazioni, non
v’è più posto per l’intelletto né v’è oggetto alcuno al quale esso si possa applicare.
L’approvazione o il biasimo che allora seguono, non possono esser opera del giudizio, ma del
cuore; e non si tratta più d’una proposizione o affermazione speculativa, bensì d’una sensazione
attiva o sentimento. Nelle discussioni in cui entra l’intelletto, in base a circostanze e a relazioni
note, arriviamo ad altre nuove e prima non note. Nelle decisioni morali, tutte le circostanze e
tutte le relazioni devono essere note prima e la mente, in base alla considerazione dell’insieme,
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
134
prova qualche nuova impressione di affetto o di disgusto, di stima o di disprezzo, d’approvazione
o di biasimo.
Di qui la grande differenza fra un errore di fatto ed uno di diritto; e di qui la ragione per cui
l’uno è di solito delittuoso e l’altro no. Quando Edipo uccise Laio, ignorava la relazione che
aveva con lui ed in base a date circostanze, essendo innocente e senza volerlo, si formò delle
opinioni erronee intorno all’azione che stava per commettere. Ma quando Nerone uccise
Agrippina, tutte le sue relazioni con lei e tutte le circostanze del fatto gli erano già note; ma il
movente della vendetta, o della paura o dell’interesse ebbe, nel suo cuore selvaggio, il
sopravvento sui sentimenti del dovere e dell’umanità. E quando noi esprimiamo quella
detestazione nei suoi riguardi alla quale egli divenne, in breve tempo, insensibile non è che noi
vediamo delle relazioni che egli non conosceva; ma per la rettitudine delle nostre disposizioni,
noi proviamo dei sentimenti rispetto ai quali egli risultava indurito dall’adulazione e da una
lunga perseveranza nei crimini più atroci. ]n questi sentimenti allora, non nella scoperta di
relazioni di qualsiasi sorta, consistono tutte le decisioni morali. Prima d’aver la pretesa di
prendere una decisione qualsiasi di carattere morale, dobbiamo prendere conoscenza ed
accertarci di tutto quanto riguarda l’oggetto o l’azione. Non resta altro che provare, da parte
nostra, qualche sentimento di biasimo o di approvazione; su questa base affermiamo che l’azione
è delittuosa o virtuosa.
III. Questa dottrina diventerà ancor più evidente, se paragoniamo la bellezza morale con
quella naturale, colla quale in molti particolari si trova ad avere così stretta somiglianza. È dalla
proporzione, relazione e posizione delle parti che dipende per intero la bellezza di natura; ma
sarebbe assurdo inferire da ciò che la percezione della bellezza, come quella della verità nei
problemi di geometria, consiste interamente nella percezione di relazioni, nonché inferire che
tale percezione sia opera interamente dell’intelletto o delle facoltà intellettive. In tutte le scienze,
la nostra niente muovendo dalle relazioni note cerca quelle non ancora note. Ma in tutte le
decisioni di gusto o in quelle che riguardano la bellezza esterna, tutte le relazioni stanno davanti
ai nostri occhi in anticipo; e partendo di qui noi proviamo un sentimento di compiacenza o di
disgusto, in relazione colla natura dell’oggetto e colla disposizione dei nostri organi di senso.
Euclide ha spiegato esaurientemente tutte le qualità del circolo; ma non ha detto una sola
parola, in qualcuna delle sue proposizioni, intorno alla bellezza del circolo. La ragione di ciò è
evidente. La bellezza non è una qualità del circolo. Essa non si trova in qualche parte della linea i
cui punti sono egualmente distanti da un centro comune. Essa è soltanto l’effetto che questa
figura produce sulla mente, che una particolare struttura rende capace di avvertire tali sentimenti.
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
135
Invano andreste in cerca di essa nel circolo o la cerchereste, sia per mezzo dei sensi che per
mezzo di ragionamenti matematici, in tutte le proprietà di questa figura.
Prestate attenzione a Palladio ed a Perrault quando spiegano tutte le parti e tutte le proporzioni
d’una colonna. Essi parlano della cornice, del fregio, della base, del cornicione, del fusto e
dell’architrave; e fanno la descrizione ed indicano la posizione di ciascuna di queste parti. Ma se
chiedeste la descrizione e la posizione della loro bellezza, prontamente vi risponderebbero che la
bellezza non sta in qualcuna delle parti d’una colonna, ma risulta dall’insieme quando quella
figura viene presentata in tutta la sua complessità ad una mente intelligente, capace d’avvertire
queste sottili sensazioni. Finché non si abbia uno spettatore di tal fatta, non si ha che una figura
di quelle determinate proporzioni e dimensioni; soltanto dai sentimenti di quella persona trae
origine l’eleganza e la bellezza della colonna.
Ancora: ascoltate Cicerone quando dipinge i delitti di un Verre o di un Catilina. Dovete
riconoscere che la turpitudine morale risulta, allo stesso modo, dalla considerazione dell’insieme,
quando questi si presenti ad un essere i cui organi abbiano una struttura ed una formazione
determinate. L’oratore può dipingere da una parte la rabbia, l’insolenza e la barbarie, dall’altra la
rassegnazione, la sofferenza, l’affanno, l’innocenza. Ma se non sentite sorgere in voi
indignazione o compassione da questa complessità di circostanze, gli chiedereste invano in che
cosa consista il delitto o malvagità, contro la quale si scaglia con tanta veemenza. In quale tempo
e in quale soggetto, delitto o malvagità hanno dapprima incominciato ad esistere? E che cosa è
accaduto di essi pochi mesi dopo, quando ogni disposizione e pensiero di tutte le persone
implicate si son trovati ad essere completamente modificati o del tutto annullati? Nessuna
risposta soddisfacente si può trovare per una qualsiasi di queste questioni, sulla base dell’astratta
ipotesi della morale; e dobbiamo alla fine riconoscere che il delitto o immoralità non è un fatto o
una relazione particolare che possa essere oggetto dell’intelletto, ma ha origine interamente dal
sentimento di disapprovazione che, in forza della struttura della natura umana, noi
inevitabilmente proviamo quando veniamo a conoscenza di episodi di barbarie e di tradimento.
IV. Gli oggetti inanimati possono avere l’uno rispetto all’altro tutte le stesse relazioni che noi
osserviamo negli agenti morali; sebbene i primi non possano mai essere oggetto d’amore o di
odio, e non siano per conseguenza suscettibili di merito o di colpa. Una giovane pianta che
soverchi e distrugga la pianta dal cui seme è germogliata si trova nei suoi riguardi del tutto nelle
stesse relazioni in cui si trovava Nerone quando uccise Agrippina; e se la moralità consistesse
soltanto in relazioni, la pianta sarebbe indubbiamente tanto colpevole quanto Nerone.
V. E evidente che dei fini ultimi delle azioni umane non si può mai, in alcun caso, render
conto per mezzo della ragione; essi si raccomandano interamente ai sentimenti ed agli affetti
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
136
dell’umanità, senza dipendenza alcuna dalle facoltà intellettive. Domandate ad una persona
perché è solita fare degli esercizi fisici; essa vi risponderà di farlo, perché desidera mantenersi
in salute. Se voi allora domandate perché desidera la salute, vi risponderà prontamente: perché
la malattia è dolorosa. Se voi spingete più in là le vostre ricerche e desiderate conoscere la
ragione per cui la persona in questione odia il dolore, è impossibile che essa vi dia mai qualche
risposta. Questo è un fine ultimo che non si riferisce mai ad alcun altro oggetto.
Forse alla vostra seconda domanda: perché desidera la salute, la persona in questione può
anche rispondere che essa è necessaria per l’esercizio della professione. Se le domandate perché
si preoccupa di questo punto, vi risponderà che lo fa perché desidera guadagnare. Se domandate
ancora perché, essa vi risponderà che il danaro è lo strumento del piacere. Al di là di questo, è
assurdo chiedere una ragione. È impossibile che vi possa essere un progresso in infinitum; e che
vi debba sempre essere una cosa come ragione del perché un’altra viene desiderata. Qualche cosa
si deve desiderare per se stessa ed in ragione del suo immediato accordo col sentimento e con
l’affetto degli uomini.
Ora poiché la virtù è un fine, ed è desiderabile per se stessa, senza ricompensa e
rimunerazione, soltanto per la soddisfazione immediata che reca, è necessario che ci sia qualche
sentimento che la raggiunga, qualche gusto o sensazione interna, o come altro vi piaccia
chiamarlo, che distingua il bene ed il male morali e che abbracci l’uno e respinga l’altro. Così
risultano facilmente accertati i confini precisi ed i compiti della ragione e del gusto. La prima ci
dà la conoscenza del vero e del falso; il secondo ci dà il sentimento del bello e del brutto, del
vizio e della virtù. La prima scopre gli oggetti come realmente sono in natura, senza aggiungere
o togliere nulla; l’altro ha una capacità produttiva e rendendo belli o brutti tutti gli oggetti della
natura coi colori presi a prestito dal sentimento interno, mette capo, in certo modo, ad una nuova
creazione. La ragione, essendo fredda ed indifferente, non è movente per l’azione e dirige
soltanto l’impulso che riceve dall’appetito o inclinazione mostrandoci i mezzi per conseguire la
felicità o per evitare l’infelicità. Il gusto, poiché dà piacere o dolore, e fonda così la felicità o
l’infelicità, diviene un movente per l’azione ed è la fonte prima o il primo impulso a desiderare
ed, a ivolete. Muovendo da circostanze e da relazioni, note o supposte, la ragione ci conduce alla
scoperta di altre circostanze e relazioni nascoste e sconosciute; una volta che tutte le circostanze
e tutte le relazioni sono chiare davanti a noi, il gusto ci fa provare, muovendo da quest’insieme,
un nuovo sentimentodi biasimo o di approvazione. Il criterio della ragione, essendo fondato sulla
natura delle cose, è eterno ed inflessibile, perfino da parte della volontà dell’Essere supremo; il
criterio del gusto che nasce dall’eterna struttura e costituzione degli animali, deriva in ultimo da
Hume, Appendice alla seconda Ricerca
137
quella suprema Volontà che fornì ad ogni essere la sua particolare natura e ordinò le varie classi
e i vari piani di esistenza.
138
Pietro Verri (1728-97) Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773)
II. - Dei piaceri e dei dolori fisici e morali
Tutte le nostre sensazioni si dividono i due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e sensazioni
morali. Chiamo sensazione fisica quella, l’origine di cui si vede cagionata da una immediata
azione sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra, in cui questa immediata
azione non si conosca.
Il dolore che nasce da una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro si chiama un
dolor fisico; una forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando
per lo contrario si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; cosí, dopo un disastroso viaggio
d’inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria ed affannosa caccia una mensa delicata, sono
piaceri fisici: dolori e piaceri cagionati da un’immediata azione sulla nostra macchina.
L’annunzio della morte d’una persona che ci è cara, l’annunzio della rovina della fortuna
nostra e de’ beni nostri ci tormentano dolorissimamente. Qual è la cagione di questo dolore? Noi
non ne vediamo l’azione immediata sugli organi nostri, perciò si ripongono nella classe de’
dolori morali. Medesimamente la notizia d’una inaspettata eredità, d’una carica luminosa, d’una
amicizia acquistata e desiderata da noi, ci risveglia un piacere vivissimo, senza che compaia
alcun oggetto applicato agli organi della nostra sensibilità; quindi vengono chiamati piaceri
morali.
Ai piaceri e dolori fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri e dolori
morali tanto piú l’uomo è sensibile, quanto è piú dirozzato dall’educazione, cioé quanto è
maggiore la folla delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle
intere nazioni della diversità su tal proposito; i popoli piú inciviliti sono piú sensibili alla gloria e
al disprezzo; i popoli ancora piú rozzi lo sono alle percosse e alla mercede. I piaceri e i dolori
morali sono tanto maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni e delle relazioni che un
uomo sente d’avere cogli altri.
Per conoscere questa verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento in cui mi si
annunzia la morte di un mio dolcissimo amico, io potessi essere certo che dopo brevi istanti la di
lui memoria non esisterà piú nel mio animo, né piú mi risovverrò di averlo conosciuto; se avessi,
dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe semplicemente la compassione del male altrui;
sentimento il quale preso isolato fors’anco non consiste che nel fremito di alcune parti unisone
della nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione e lo squallore ov’io piombo, si è che in
quel momento prevedo quante volte avrò davanti agli occhi l’immagine della perdita fatta; sento
Verri, Discorso sul piacere, ii
139
in quel momento la trista solitudine che mi si apre davanti, e il paragone che ne farò col bene
avuto: nelle mie afflizioni non avrò piú un fedele compagno, a cui senza timore manifestarmi, e
riceverne consiglio e assistenza; negli avvenimenti felici non vedrò piú quella gioia dell’amicizia
che moltiplica la felicità, comunicandola. Dove trovare chi s’interessi meco ne’ deliri della mia
immaginazione, e che per uniformità di genio avendo meco comune la curiosità di scoprire il
vero mi accompagni? Dove troverò piú un essere tanto grato, tanto sensibile, che mi consolava
ad ogni atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà, attivo,
discreto, nobile? Cosí mi vado col pensiero spignendo sulla serie delle dolorose sensazioni che
mi aspettano, e su quel primo momento contemporaneamente pesando tutti i momenti del dolor
preveduto, resto immerso nella piú crudele amarezza. Questo dolor morale nasce dalla riunione
de’ fantasmi che occupano la mia mente, onde la parte piú nobile di me stesso appoggiando sul
passato, e sull’avvenire piú che sul momento attuale, e paragonando i due modi di esistere, tutta
inviluppata nel timore dei mali preveduti s’immerge in un dolore morale.
Mi ripongo in una opposta situazione. Mi figuro che mi venga l’annunzio d’una luminosa
carica ottenuta. Se io potessi dimenticarmi del passato, se io non mi slanciassi nell’avvenire, la
novella recatami riuscirebbe insipida, e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole.
Ma si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l’orgoglio, la fredda indifferenza, che hanno
mostrato per me alcuni uomini insolenti per la loro carica sin tanto che restai disarmato e senza
potere, mi spingo nell’avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava nell’impossibilità di
acquistarmi l’opinione pubblica, eccomi il campo aperto per guadagnarmela; ho in faccia degli
amici che potrò coi benefici rendere agiati, e sempre piú ben affetti; gli emuli, o riconciliati o
ridotti all’impotenza di nuocere; tutto questo ridente spettacolo mi si spalanca allo sguardo; tutte
le sensazioni, alle quali vado incontro, già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la
consolazione invadono tutta la mia sensibilità; sono immerso in un voluttuosissimo piacer
morale, perché, poco o nulla pesando sul momento presente, tutto mi appoggio sul passato e
sull’avvenire.
Questi due esempi generalmente convengono a tutti i dolori morali, a tutti i piaceri morali.
Essi non si risentono se non inquel momento, in cui l’animo dimentico quasi del presente si
risovviene e prevede; e a misura che o teme, o spera, sente o dolore, o piacere. Se questo è vero,
ne scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli o dolorose,
dipendono da tre soli principî azione immediata sugli organi, speranza e timore. Il primo
principio cagiona tutte le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazioni morali.
Scelgasi un piacere morale ancora piú nobile e puro; figuriamoci un geometra nel momento in
cui per un fortunato accozzamento di idee ha carpito lo scioglimento d’un problema arduissimo e
Verri, Discorso sul piacere, ii
140
importantissimo. Qual sarebbe la gioia di quel geometra, se egli vivesse in un’isola disabitata,
sicuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare che poca, o nessuna
consolazione ne proverebbe; o se qualche ombra ne risentisse, ciò verrebbe perché da quella
verità ne sperasse di cavarne o un uso pratico per viverne piú agiatamente, ovvero maggiore
attuazione a svilupparne in seguito una catena di altre curiose verità, e guadagnare cosí una
occupazione che lo sottragga alla inazione insipida della sua vita solitaria. Il piacere adunque del
matematico, quello che lo fa nudo balzare dal bagno, e scorrere pieno di entusiasmo per la città,
si è la speranza de’ piaceri che in avvenire aspetta e dalla stima degli uomini, e dai benefici che
dovrà riceverne. Perciò dico che tutti i piaceri morali, come tutti i dolori morali, altro non sono
che un impulso del nostro animo nell’avvenire: cioé timore e speranza.
Un dolore morale dei piú sublimi nella sfera degli umani, sarà quello che sente un cuor nobile
e generoso, qualora per disgrazia o acciecato da una violenta passione, ovvero per inavvertenza
abbia mancato di gratitudine a un virtuoso suo benefattore. Analizziamo i sentimenti dolorosi
che lo affliggono. Egli teme il disprezzo, o almeno la diminuzione di stima degli uomini, e
confusamente nell’avvenire scorrendo, se ne anticipa i mali; egli diffida di sé medesimo, e sente
la probabilità accresciuta di poter di nuovo in avvenire coprirsi di simili macchie, e sempre piú
veder diminuita l’opinione dei buoni; ei prevede che per quanto sia generoso il suo benefattore,
non potrà in avvenire stare in sua presenza cosí tranquillo e sereno come vi stava in prima. Tutta
questa nebbia gli offusca la serie delle sensazioni che si vede avanti, e quand’anche sul momento
non le analizzi a sé medesimo, ma confusamente col solo vocabolo di rimorso annunzi il dolor
che soffre, quest’è pure un semplice timore delle sensazioni avvenire.
Tutte le applicazioni che ho fatte di questo principio, le quali se avessi a riferirle darebbero
troppa uniformità e tedio, ricadono costantemente al medesimo risultato, che tutti i piaceri e
dolori morali nascono dalla speranza e dal timore.
Tutti i piaceri morali che nascono dalla stessa umana virtú, altro non sono che uno
spignimento dell’animo nostro nell’avvenire, antivedendo le sensazioni piacevoli che aspettiamo.
Abbiamo un illustre cittadino in Italia, il quale essendo sovrano tranquillo della sua patria,
preferí la raffinata ambizione di vivere immortale nella gratitudine e memoria de’ suoi, alla
volgare di comandare agli uomini nel corso della sua vita; rinunziò alla sovranità, ristabilí la
repubblica, si fece suddito delle leggi, subordinato ai giudici. Quale azione piú grande, piú
virtuosa, piú disinteressata! Silla l’aveva già fatta in prima, ma Silla grondante di sangue
romano, usurpatore violento d’un potere arbitrario, Silla, di cui la tirannia fra gli sgherri e le
stragi aveva immolate tante vittime, non poteva sperare che venisse mai guardato come un atto di
virtú il momento, in cui per lassitudine terminava la orribile serie de’ suoi delitti. L’immortale
Verri, Discorso sul piacere, ii
141
autore che lo fa parlare con Eucrate, innalza quel feroce al livello della sua grand’anima; ma la
storia di quegli orrori non lascia luogo a immaginarselo somigliante al ritratto. Andrea Doria per
grandezza d’animo, per vera elevazione di genio, virtuoso, pieno di gloria, nel punto in cui
abdicando la sovranità diventò cittadino, e molto piú ne’ momenti in cui prevedendo quest’atto
vi si andava disponendo, ha provato certamente i piaceri morali piú sereni ed energici. Si
slanciava egli nell’avvenire, e diceva a sé stesso: sulla faccia de’ miei concittadini leggerò scritta
la riverenza e la gratitudine unita alla meraviglia; attraverso del timido rispetto, che i sudditi
presentano al sovrano, rare volte traspirano i veri sentimenti del cuore; toglierò quest’ostacolo, e
goderò dei sentimenti spontanei. Non sarà certamente minore la mia influenza negli affari
pubblici dopo una sí generosa abdicazione, ed ogni adesione sarà per me cosí dolce, come se
ogni volta mi proclamassero sovrano. Regnando anche felicemente, potrebbe essere eclissata la
mia gloria da altri piú felici successori; ma osando render forti al par di me i cittadini, e
stabilendo una repubblica, rimarrà isolata la mia gloria, e s’innalzerà alla veduta ne’ secoli piú
remoti. L’affetto, la spontanea sommessione, l’ammirazione, la fama, tutti i beni che queste seco
portano li sperava, e li vedeva di fronte quando si apparecchiava all’atto generoso, e cosí la
speranza era la sorgente di tutti quei piaceri morali.
L’uomo fedele alle sue promesse, grato ai benefici, attivo nel consolare e aiutare gli uomini,
disinteressato, nobile, guardingo a non nuocere sia coi fatti sia colle parole piú trascorrevoli, e
talvolta piú fatali, ogni volta che un nuovo atto rinfianca i suoi principî, prevede di rendere sé
stesso sempre piú forte coll’abitudine al bene, e di confermare e cementare sempre piú la
opinione pubblica, e singolarmente la stima degli uomini buoni. Quindi in ogni atto virtuoso che
fa, sente diminuito un grado alla possibilità di perdere questi beni, e accresciuto un grado alla
speranza delle sensazioni piacevoli che se gli affacciano. Il piacere morale di lui sarà sempre piú
forte, quanto piú diffiderà della perseveranza, e quanto sarà piú incerto e timoroso sulla opinione
altrui.
O io m’inganno, oppure questa teoria è costante, siccome ho detto, che tutti i piaceri
egualmente come tutti i dolori morali nascono dal timore e dalla speranza, in guisa tale che, se
potesse darsi un uomo incapace di temere o di sperare, questi non potrebbe avere che soli piaceri
e dolori fisici; come vediamo appunto accader ne’ bambini, i quali sprovveduti d’idee, e altro
non avendo che gli organi disposti a ricevere le impressioni, tanto meno corredati di memoria,
quanto piú è vicino il momento in cui cominciarono ad essere, incapaci di grandi paragoni o
numerose combinazioni, non sentendo né speranza né timore, unicamente in preda ai dolori e ai
piaceri fisici, non cominciano a gustare i morali se non a misura che gli anni e l’esperienza
insegnano loro l’arte di sentire per antivedenza. Il senso morale che si acquista se non
Verri, Discorso sul piacere, ii
142
allorquando, col séguito d’una lunga serie di sensazioni, accumulatasi una folla di idee, giugne
l’uomo a conoscere la successione di diversi modi di esistere, onde si sviluppano nell’animo i
due risultati speranza e timore. Sinché ciò non si è fatto coll’opera del tempo, l’uomo altre
sensazioni non potrà avere, come dissi, se non le fisiche, le quali sono modi di esistere isolati,
prodotti dalla momentanea passività degli organi, bastante ad eccitare il movimento dell’animo.
Infatti, se attentamente esamineremo lo sviluppamento che per gradi fa l’animo di un
fanciullo, vedremo che la vergogna, la compassione, il pentimento, come l’ambizione, l’invidia,
l’avidità, l’entusiasmo, i germi insomma delle virtú e dei vizi, col lungo tratto di tempo soltanto,
e dopo aver fatto un grande ammasso d’idee, si vedono schiudere e sviluppare. Di che il
profondo Giovanni Locke trovò già una felice dimostrazione.
143
Edmund Burke (1729-97)
Inchiesta sul Bello e il Sublime (1751 ecc.)
traduzione Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta
Parte prima
I - La novità
La prima e la piú semplice emozione che scopriamo nell’anima nostra è la curiosità. Per curiosità
intendo qualunque desiderio abbiamo per ciò che è nuovo, o qualunque piacere troviamo in esso.
Vediamo che i bambini corrono continuamente da un posto all’altro per scoprire qualcosa di
nuovo; afferrano con grande slancio e senza esitare nella scelta tutto ciò che cade dinnanzi ai
loro occhi; la loro attenzione è attratta da qualunque cosa, poiché ogni cosa ha, in questo periodo
della vita, il fascino della novità. Ma poiché quelle cose che ci attirano soltanto per la loro novità
non possono dominarci per molto tempo, la curiosità è la piú superficiale di tutte le affezioni, e
muta continuamente oggetto; la sua avidità è molto viva, ma assai facilmente soddisfatta, e
presenta sempre un aspetto di vertigine, di irrequiettezza e di ansietà. La curiosità è per sua
natura una fonte attivissima: scorre con rapidità su gran parte dei suoi oggetti e subito esaurisce
la varietà che generalmente si riscontra nella natura; le stesse cose frequentemente ritornano, e
ritornano con un effetto sempre meno gradevole. In breve, i casi della vita, dal tempo in cui ha
inizio la nostra conoscenza, non sarebbero in grado di colpire la nostra mente con altre
sensazioni che quelle di disgusto e di noia, se molte cose non fossero atte a colpire l’animo
mediante altri poteri che non il potere della novità, e risvegliando altre passioni oltre quella della
curiosità. Questi poteri e queste passioni saranno considerati al momento opportuno. Ma di
qualunque natura siano questi elementi o in base a qualunque principio colpiscano la mente, è
assolutamente necessario che essi non vengano applicati a quelle cose che l’uso quotidiano ha
invilito e reso familiari e banali. Un certo grado di novità è uno degli elementi indispensabili di
ciò che agisce, e la curiosità si unisce piú o meno a tutte le nostre passioni.
II - Dolore e piacere
Sembra quindi necessario che, per eccitare le passioni delle persone già adulte, gli oggetti
destinati a tale scopo, oltre ad essere in certo grado nuovi, debbano essere capaci di suscitare
dolore o piacere per altre cause. Il dolore e il piacere sono idee semplici, non suscettibili di
definizione. La gente non è soggetta a sbagliarsi nei suoi sentimenti, ma sbaglia molto spesso nei
nomi che dà loro e nel ragionare intorno ad essi. Molti sono dell’opinione che il dolore nasca di
Burke, Inchiesta sul bello e il sublime
144
necessità dall’allontanamento di un piacere, poiché ritengono che il piacere sorga dalla
cessazione o diminuzione di un dolore. Da parte mia, sono piuttosto propenso a ritenere che il
dolore e il piacere, nel loro piú semplice e naturale modo di impressionare, abbiano ciascuno una
natura positiva, e non debbano affatto dipendere l’uno dall’altro. La mente umana è spesso, e
credo che lo sia per la maggior parte del tempo, in uno stato non di dolore e non di piacere, che
chiamo stato di indifferenza. Quando passo da questo stato di indifferenza a uno stato di piacere
effettivo, non sembra necessario che debba passare attraverso uno stato intermedio di dolore. Se
in tale stato di indifferenza, di quiete, di tranquillità, chiamatela come volete, voi doveste essere
improvvisamente rallegrati da un concerto di musica, o supponiamo che un oggetto di belle
forme o di colori vivamente brillanti dovesse apparire dinnanzi a voi, o immaginate che il vostro
odorato fosse deliziato dalla fragranza di una rosa, o che, senza aver sete, voi doveste assaggiare
un buon vino, o gustare dei dolci senza essere affamati, in tutti i diversi sensi dell’udito,
dell’odorato e del gusto senza dubbio trovereste un piacere. Pure se indagassi in che stato fosse
la vostra mente prima di questi piaceri, ben difficilmente mi direste che si trovava in uno stato di
dolore; o, dopo aver soddisfatto questi diversi sensi con diversi piaceri, direste che sia poi
subentrato un dolore, sebbene il piacere sia del tutto finito? Supponete d’altro lato che qualcuno,
che si trovi in questo stato di indifferenza, riceva un colpo violento o beva una bevanda amara o
che il suo orecchio venga colpito da un suono aspro e stridente; in tutti questi casi non v’è una
scomparsa di piacere, eppure si avverte, in ogni senso colpito, un dolore molto ben riconoscibile.
Si potrebbe forse dire che il dolore in tal caso traeva la sua origine dalla scomparsa del piacere,
di cui prima si godeva, sebbene questo piacere fosse cosí poco vivo da essere percepito solo nel
momento in cui è scomparso. Ma tale sottigliezza non mi sembra riscontrabile in natura. Poiché
se prima del dolore io non sento alcun piacere effettivo, non ho ragione di ritenere che tale
piacere esista, dal momento che il piacere è tale solo quando è percepito. Analogamente, e con
ragione, si può dire avvenga del dolore. Non posso convincermi che piacere e dolore siano
semplici relazioni che possono esistere solo come contrari, ma ritengo di poter chiaramente
distinguere l’esistenza di dolori e piaceri positivi, del tutto indipendenti l’uno dall’altro. Nessuna
percezione è per me piú certa di questa. Non vi è nulla che appaia al mio pensiero piú chiaro dei
tre stati di indifferenza, di piacere e di dolore. Posso percepirne ciascuno senza avere alcuna idea
della sua relazione con gli altri due. Se uno, dolorante per una colica, per cui prova un dolore
reale, viene steso sulla ruota di tortura, sentirà un dolore molto maggiore; ma questo dolore
determinato dalla ruota deriva forse dalla scomparsa di un piacere? L’attacco di colica può essere
un piacere o un dolore, a seconda di come ci piace considerarlo?
Burke, Inchiesta sul bello e il sublime
145
III - Differenza fra la scomparsa del dolore e piacere positivo
Porteremo il problema ancora un passo piú in là e cercheremo di stabilire che il dolore e il
piacere non soltanto non sono dipendenti necessariamente dalla loro reciproca diminuzione o
scomparsa, ma che in realtà la diminuzione o la cessazione del piacere non agisce come un
dolore positivo, e che Ia scomparsa o la diminuzione del dolore, nei suoi effetti, ha pochissima
rassomiglianza col piacere positivo.
La prima di queste affermazioni sarà, credo, molto piú facilmente accettata, perché è ben
evidente che il piacere, quando ha compiuto il suo corso, ci lascia nello stato in cui ci ha trovato.
Il piacere d’ogni genere soddisfa prontamente, e quando è finito, ricadiamo nell’indifferenza, o
piuttosto in una dolce tranquillità, che ha in sé il gradevole colore della sensazione precedente.
Ammetto che a prima vista non sia cosi evidente che la cessazione di un grande dolore non
assomigli a un piacere positivo; ma ricordiamoci della condizione in cui si trovava la nostra
mente nello sfuggire a un pericolo imminente o nel momento in cui ci liberavamo dalla crudezza
di un atroce dolore. In tali occasioni abbiamo trovato, se non mi sbaglio, l’animo nostro ben
lontano dal piacere effettivo; ossia in uno stato di grande sobrietà, improntata a un senso di
terrore, in una specie di tranquillità adombrata dall’orrore. In tali occasioni il contegno e
l’atteggiamento della persona sono cosí corrispondenti a questo stato d’animo, che chiunque,
ignaro del motivo che influisce sul nostro aspetto, ci giudicherebbe piuttosto in preda a
costernazione che intenti al godimento di un piacere positivo.
Come quando un grave fallo ha travolto colui che, Omicida in patria, giunge presso un popolo straniero, Alla casa di un ricco: lo stupore assale chiunque lo veda1
Questa sorprendente manifestazione dell’uomo che Omero suppone sia appena sfuggito a un
pericolo sovrastante, quella specie di passione mista di terrore e di sorpresa, che egli attribuisce
agli spettatori, dipinge a tinte molto forti il modo in cui ci troviamo colpiti in occasioni
comunque simili. Poiché, quando abbiamo sofferto una violenta emozione, la mente
naturalmente permane nella stessa condizione, dopo che la causa, che prima l’ha prodotta, ha
cessato di agire. L’agitazione del mare rimane anche dopo la tempesta, e quando questo residuo
di orrore è del tutto cessato, le passioni che il caso aveva destato scompaiono con esso, e la
mente ritorna nel suo abituale stato di indifferenza. In breve il piacere (intendo dire qualunque
cosa che, o nella sensazione interna o nella manifestazione esterna, sia simile al piacere derivante
da una causa reale) non ha mai, ritengo, la sua origine nella scomparsa del dolore o del pericolo.
1 Burke cita Omero (Iliade XXIV, 480-2) in originale e nella traduzione-parafrasi di Pope (nota di Davies)
Burke, Inchiesta sul bello e il sublime
146
IV - Diletto e piacere come opposti l’uno all’altro
Ma diremo allora che la scomparsa del dolore o la sua diminuzione sia sempre semplicemente
dolorosa? O affermeremo che la cessazione o la diminuzione del piacere sia sempre
accompagnata da un piacere? Niente affatto. Ciò che intendo stabilire non è altro che questo: in
primo luogo, che vi sono piaceri e dolori di una natura positiva e indipendente; in secondo
luogo, che il sentimento che proviene dalla cessazione o diminuzione del dolore non rassomiglia
a un piacere_positivo abbastanza da essere considerato della medesima natura o indicato col
medesimo nome; in terzo luogo, che in base allo stesso principio la scomparsa o l’interruzione di
un piacere non ha somiglianza alcuna con un dolore positivo. È certo che la prima sensazione (la
scomparsa o la diminuzione del dolore) ha in sé qualcosa che è lontano dall’essere penoso o
sgradevole per sua natura. Questa sensazione, sovente cosí diversa da un piacere positivo, non ha
nome, ch’io sappia; ma ciò non vieta che sia veramente reale e molto diversa da tutte le altre. È
certo che ogni specie di soddisfazione o di piacere, per quanto diversi siano nel loro modo di
impressionare, è di natura positiva nell’animo di chi la prova. L’affezione è senza dubbio
positiva; ma la causa può essere, come in questo caso è senz’altro, una specie di Privazione. Ed è
logico che distinguiamo con termini diversi due cose cosí distinte in natura, come un piacere sia
semplicemente tale, senza relazione alcuna, e quel piacere che non può esistere senza una
relazione, e, tanto piú, senza la relazione col dolore. Sarebbe molto strano che queste
impressioni, cosí diverse nelle loro cause e nei loro effetti, dovessero essere confuse l’una con
l’altra, perché l’uso comune le ha riunite sotto la stessa denominazione generica. Ogni volta che
ho occasione di parlare di questa specie di piacere relativo, lo chiamo Diletto (Delight); e
cercherò con la massima attenzione di non—usare questa parola in altri significati. Riconosco
che tale parola non è comunemente usata in questo senso; ma ho ritenuto preferibile adottare una
parola ben nota e limitare il suo significato piuttosto che introdurne una nuova, che forse non
potrebbe entrare con altrettanta facilità nella lingua. Non avrei mai osato fare la benché minima
alterazione nelle nostre parole, se la natura della lingua, creata per l’uso degli affari piuttosto che
per l’uso della filosofia, e la natura del mio soggetto, che mi trae fuori dalla comune direttiva del
discorso, non mi vi obbligasse, in un certo senso. Farò uso di questa libertà con la massima
prudenza possibile. Come uso la parola Diletto per esprimere la sensazione che accompagna la
scomparsa del dolore o del pericolo, cosí quando parlerò di un piacere positivo lo chiamerò per
lo piú semplicemente Piacere.
Burke, Inchiesta sul bello e il sublime
147
V - Gioia e afflizione
Si deve osservare che la cessazione del piacere colpisce la mente in tre modi. Se finisce
semplicemente, dopo esser continuato per un certo tempo, l’effetto è l’indifferenza; se si
interrompe bruscamente, ne deriva un senso di disagio, che viene chiamato disappunto; se
l’oggetto è cosí totalmente perduto, che non rimane possibilità alcuna di goderlo ancora, nasce
nell’anima una passione che si chiama afflizione. Ora nessuno di questi sentimenti, neppure
l’afflizione che è il piú violento, io ritengo abbia somiglianza alcuna con un dolore positivo. Una
persona afflitta lascia che la sua passione aumenti; vi indulge e l’ama; ma questo non capita mai
nel caso di un reale dolore, che nessun uomo mai sopportò volentieri per un tempo prolungato.
Che l’afflizione possa esser volentieri sopportata, sebbene sia lontana da una semplice
sensazione piacevole, non è tanto difficile a comprendersi. È proprio dell’afflizione il tenere il
suo oggetto sempre dinnanzi agli occhi, presentarlo nei suoi aspetti piú piacevoli, ricordare tutte
le circostanze che lo riguardano, fino ai minimi particolari, riassaporare ogni singolo godimento,
soffermarsi su ognuno e scoprire in tutti infinite nuove perfezioni, che prima non erano state
abbastanza notate; nell’afflizione il piacere è ancora predominante e la pena che sopportiamo
non ha somiglianza col vero dolore, che e sempre odioso e che cerchiamo di allontanare il piú
presto possibile. L’Odissea di Omero, che abbonda di tante immagini naturali e commoventi,
non ne ha nessuna piú efficace di quelle che Menelao evoca riguardo al triste destino dei suoi
compagni e al suo modo di sentirlo. Egli invero ammette di concedersi spesso una sosta nel corso
di tali riflessioni malinconiche, ma osserva anche che, per quanto malinconiche, esse gli fanno
piacere.
Ma rimpiangendoli tutti e lamnentandoli sovente Assiso nelle mie stanze, mi ristoro ora col pianto, ora interrompo, Poiché stanchezza segue ben presto al gelido pianto2
D’altro lato, quando riacquistiamo la salute o quando ci sottraiamo a un pericolo sovrastante, è
dalla gioia che siamo colpiti? In tal caso l’impressione è ben lungi dalla morbida e voluttuosa
soddisfazione che concede la prospettiva certa di un piacere. Il diletto che nasce dalla
modificazione di un dolore rivela la propria origine per la sua natura solida, forte e severa.
2 Omero Odissea, IV, 100-3; nella versione di Pope riportata da Burke troviamo gli ossimori ‘pleasing woe’ (‘lutto
piacevole’) e ‘’grateful tear’ (‘gradita lacrima’) (nota di Davies)
Burke, Inchiesta sul bello e il sublime
148
VI - Le passioni che appartengono all’autopreservazione
La maggior parte delle idee capaci di produrre una forte impressione sulla mente, siano
semplicemente idee di Dolore o di Piacere, o idee delle modificazioni di questi; può essere
ridotta con una certa approssimazione a questi due punti principali, l’autopreservazione e la
società; ai fini dell’una o dell’altra delle quali si calcola rispondano tutte le nostre passioni. Le
passioni che riguardano l’autopreservazione si riferiscono per lo piú al dolore o al pericolo. Le
idee di dolore, malattia e morte riempiono li mente di forti emozioni di orrore; ma le idee di vita
e di salute, sebbene ci mettano in grado di provare piacere, non producono col semplice
godimento altrettanta impressione_Le passioni quindi che riguardano la preservazione si
riferiscono principalmente al dolore o al pericolo e sono le più forti di tutte le passioni.
VII - Il sublime
Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso
terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del
sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace disentire. Dico
l’emozione più forte, perché sono convinto che le idee di dolore sono molto piú forti di quelle
che riguardano il piacere. Senza dubbio i tormenti che siamo capaci di sopportare sono molto piú
forti, nei loro effetti sul corpo e sulla mente, che non qualsiasi piacere che il piú raffinato
epicureo possa suggerire, o che la piú viva immaginazione e il corpo piú sano e piú
squisitamente sensibile possa godere. Anzi, io dubito assai che si possa trovare un uomo disposto
ad accettare una vita piena di ogni soddisfazione al prezzo di terminarla poi nei tormenti che la
giustizia inflisse in poche ore all’ultimo sfortunato regicida in Francia. Ma come il dolore, nella
sua azione, è piú forte del piacere, cosí la morte è in generale un’idea molto piú impressionante
del dolore; poiché vi sono pochissimi dolori, per quanto intensi, che non siano preferibili alla
morte; anzi ciò che rende lo stesso dolore piú doloroso, se cosí posso esprimermi, è il fatto che
esso venga considerato come un emissario di questa regina dei terrori. Quando il pericolo o il
dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto
terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono
dilettevoli, come ogni giorno riscontriamo. In seguito mi proverò a ricercare la causa di tale
fatto.
149
Jeremy Bentham (1748-832)
I princìpi della morale e della legislazione (1789)
traduzione Richard Davies
CAPITOLO IV
COME MISURARE IL VALORE DI UNA CERTA QUANTITA DI PIACERE O DI DOLORE
1. Quindi i piaceri, e l’evitare i dolori, sono i fini che il legislatore ha in vista. Compete a lui,
perciò, comprendere il loro valore. I piaceri e i dolori sono gli strumenti con cui deve lavorare,
perciò è per lui doveroso comprendere la loro forza, cioè, di nuovo, da una altro punto di vista, il
loro valore.
2. Per una persona considerata per se stessa, il valore di un piacere o di un dolore considerato
per se stesso, sarà maggiore o minore, secondo le quattro seguenti circostanze:
1. La sua intensità.
2. La sua durata.
3. La sua certezza o incertezza.
4. La sua vicinanza o lontananza.
Queste circostanze sono state denominate fino a questo punto elementi o dimensioni di valore in
un piacere o dolore.
3. Queste sono le circostanze da considerare quando si calcola un piacere o un dolore
considerati, ciascuno di essi, per se stesso. Ci sono altre due caratteristiche di cui tenere conto.
Esse sono:
5. La sua fecondità, vale a dire la probabilità che ha seguito da sensazioni dello stesso
tipo: piaceri, se si tratta di uni piacere; dolori, se si tratta di un dolore.
6. La sua purezza, vale a dire la probabilità che ha di noni essere seguito da sensazioni
del tipo opposto: dolori, se si tratta di un piacere; piaceri, se si tratta di un dolore.
Queste ultime due circostanze, tuttavia, possono a malapena essere considerate in senso stretto
proprietà del piacere o del dolore in se stesso, perciò in senso stretto non vanno messe nel conto
del valore di quel piacere o di quel dolore. In senso stretto vanno considerate esclusivamente
come proprietà dell’atto, o altro evento, da cui tale piacere o dolore è stato prodotto. Di
conseguenza, vanno messe solo nel conto della tendenza di tale atto o tale evento.
4. Per una molteplicità di persone, in riferimento a ciascuna delle quali viene considerato il
valore di un piacere o di un dolore, esso sarà più o meno grande secondo sette circostanze, cioè
le sei precedenti, vale a dire:
1 . La sua intensità.
Bentham, Princìpi, I, iv
150
2. La sua durata.
3. La sua certezza o incertezza.
4. La sua vicinanza o lontananza.
5. La sua fecondità.
6. La sua purezza. in più un’altra, cioè:
7. La sua estensione, vale a dire il numero delle persone a cui i e esteso, o, in altre
parole, il numero delle persone che ne sono colpite.
Non molto dopo la pubblicazione della prima edizione, furono composti i seguenti versi
mnemonici, allo scopo di far entrare meglio nella memoria questi punti, sui quali, come ci si può
rendere conto, poggia l’intero edificio della morale e della legislazione:
Intenso, lungo, certo, rapido, fecondo, puro, tali segni durano nei piaceri e nei dolori.
Cerca tali piaceri se il tuo fine è privato; se è pubblico, fa’ che si estendano
ampiamente. Evita tali dolori, qualunque sia la tua mira, e se i dolori devono venire, che
si estendano a pochi.
5. Per fare un conto esatto della generale tendenza di un atto, che colpisce gli interessi di una
comunità, si proceda come in- s dicato di seguito. Cominciate da una qualsiasi persona tra quelle
maggiormente colpite nei propri interessi da quell’atto, e tenete conto:
1. Del valore di ciascun distinguibile piacere che sembra da esso prodotto in prima
istanza.
2. Del valore di ciascun dolore che sembra da esso prodotto in prima istanza.
3. Del valore di ciascun piacere che sembra da esso prodotto dopo il primo. In questo
consiste la fecondità del primo piacere e l’impurità del primo dolore.
4. Del valore di ciascun dolore che sembra da esso prodotto in un secondo momento. In
questo consiste la fecondità del primo dolore, e l’impurità del primo piacere.
5. Fate la somma dei valori di tutti i piaceri da un lato, e di tutti i dolori’ dall’altro. Se la
bilancia pende dalla parte dei piaceri, la tendenza dell’atto risulterà complessivamente
buona, rispetto agli interessi di quella persona individuale; se dalla parte dei dolori, la
tendenza dell’atto risulterà complessivamente cattiva.
6. Contate il numero delle persone i cui interessi sembrano l’li gioco, e ripetete i
passaggi precedenti riguardo ad esse. Sommate i numeri che esprimono i gradi di
tendenza buona dell’atto rispetto a ciascun individuo, per il quale la tendenza dell’atto è
complessivamente buona. Fate questa somma per ciascun individuo per il quale la
tendenza dell’atto è complessivamente buona, e poi ancora per ciascun individuo per il
quale la tendenza dell’atto è complessivamente cattiva. Se la bilancia pende dalla parte
Bentham, Princìpi, I, iv
151
dei piaceri, la tendenza generale dell’atto risulterà buona, rispetto al numero totale, o
comunità, degli individui interessati; se dalla parte dei dolori, la tendenza generale
dell’atto risulterà cattiva rispetto alla medesima comunità.
6. Non ci si deve aspettare che questo procedimento sia scrupolosamente seguito prima di
ogni giudizio morale, o di ogni provvedimento legislativo o giudiziario. Tuttavia, si può sempre
tenerlo presente, e più il procedimento realmente seguito in tali occasioni gli si avvicinerà, più
quel procedimento reale si avvicinerà all’esattezza.
7. Lo stesso procedimento è allo stesso modo applicabile a qualsiasi forma in cui il piacere e il
dolore si presentano, e quale al che sia il termine con cui vengono distinti: per il piacere, sia che
venga chiamato bene che è propriamente la causa o lo strumento del piacere), profitto (che è un
piacere remoto, o la causa o strumento di un piacere remoto), oppure convenienza vantaggio,
beneficio, remunerazione, felicità, e così via. Per il dolore, sia che venga chiamato male (che è
relativo a bene), o danno, inconventente, svantaggio, perdita, o infelicità, e così via.
8. Questa teoria non è insolita e íngiustificata, come non è inutile. In essa non c’è altro che ciò
a cui è perfettamente conformabile la prassi degli uomini, in tutti i casi in cui essi hanno una
visione chiara dei loro interessi. In base a cosa viene valutata una proprietà, per esempio una
tenuta? In base ai piaceri di ogni tipo che consente di produrre, e, che è lo stesso, in base ai
dolori di ogni tipo che consente di allontanare. Ma è riconosciuto universalmente che il valore di
tale proprietà cresce o i scende a seconda della sua durata, della certezza o incertezza
dell’entrarne in possesso, e del tempo in cui se ne entra in possesso. Per quel che riguarda
l’intensità dei piaceri che ne derivano per un uomo, non ci si pensa mai, perché dipende dall’uso
che ogni persona particolare può farne, cosa che non può essere stimata finché non vengono in
luce i particolari piaceri che egli ne può trarre, e i particolari dolori che per suo mezzo può
allontanare. Per la stessa ragione, non si pensa nemmeno alla fecondità o alla purezza di quel
piaceri.
Questo per quel che riguarda il piacere e il dolore, la felicità e l’infelicità, in generale.
Andiamo ora a prendere in considerazione i vari particolari tipi di dolore e piacere.
152
John Stuart Mill (1806-73)
Utilitarismo (1861)
traduzione M. Baccanini (cap 2) e E. Musacchio (cap 4)
Capitolo 2
CHE COS’È L’UTILITARISMO
Una considerazione incidentale merita il grossolano errore di coloro i quali ritengono che i
seguaci dell’utilitarismo, inteso quale criterio del lecito e dell’illecito, usino il termine nel senso
ristretto e colloquiale in cui l’utilità è contrapposta al piacere. Con questo, non intendo
minimamente confondere i teorici dell’antiutilitarismo con i sostenitori di una tale
interpretazione la quale è tanto più assurda in quanto una delle accuse più frequenti rivolte
all’utilitarismo è proprio quella di ricondurre ogni cosa al piacere nella forma più volgare. Come
è stato acutamente osservato da un sottile scrittore, una stessa categoria di persone, e spesso le
stesse persone, denunciano la teoria «come arida e inattuabile quando la parola utilità precede la
parola piacere, e troppo voluttuosamente attuabile quando la parola piacere precede la parola
utilità». Chi conosca minimamente il problema sa che i sostenitori dell’utilitarismo, da Epicuro a
Bentham, intendono per utilità non qualche cosa di distinto dal piacere, ma il piacere stesso unito
all’assenza di dolore; e, invece di opporre l’utile al piacevole o al dilettevole, hanno sempre
sostenuto che l’utile è qualche cosa di piacevole. Non di meno, la gente comune, non esclusi
quelli che scrivono su giornali e periodici, come pure gli autori di libri di un certo valore, cade
continuamente in questo grossolano errore. Quando impiegano la parola utilitarismo, di cui
spesso non comprendono che il suono, esprimono di solito con essa il rifiuto o la negazione del
piacere, sia sotto la forma della bellezza, sia sotto quella della gioia o del diletto. Il termine non è
sempre applicato a titolo di spregio: contrapposto alla frivolezza e ai meri piaceri momentanei
trova, a volte, un significato positivo. E questo senso distorto è il solo in cui la parola viene
accolta e diffusa dalla nuova generazione. Sarebbe opportuno che coloro i quali hanno introdotto
il termine e che, per molti anni,, lo hanno adoperato in una imprecisa accezione lo riassumessero
nel suo vero significato, con la speranza di sottrarlo a questo uso alquanto degradante.
La dottrina che accetta come fondamento della morale l’utilità, o il principio della massima
felicità, sostiene che le azioni sono lecite in quanto tendono a promuovere la felicità, e illecite se
tendono a generare il suo opposto. Per felicità si intende piacere e assenza di dolore: per
infelicità dolore e privazione del piacere. Per fornire una nozione esatta del criterio morale
stabilito da tale teoria sono necessarie ulteriori precisazioni: che cosa si intenda, in particolare,
Mill, Utilitarismo
153
per dolore e per piacere e in quale misura questa sia rimasta una questione aperta. Ma tali
ulteriori spiegazioni non influenzano la concezione della vita su cui si fonda questa dottrina per
la quale il piacere e la liberazione dal dolore sono le sole cose desiderabili come scopi; e tutte le
cose desiderabili (che nella concezione utiliaristica sono tanto numerose quanto in ogni altro
sistema) lo sono per il loro piacere intrinseco o quali mezzi per promuovere il piacere e prevenire
il dolore.
Una simile concezione della vita suscita in molti spiriti, e soprattutto fra chi nutre i più elevati
sentimenti, un’inveterata avversione. Non avendo l’esistenza uno scopo più alto del piacere, né
fine migliore e più nobile della sua ricerca, la dottrina utilitaristica è considerata spregevole e
abietta, degna solo dei maiali ai quali i discepoli di Epicuro furono, nell’antichità, paragonati con
disprezzo; e i moderni sostenitori della teoria utilitaristica sono oggetto di paragoni altrettanto
sprezzanti da parte dei suoi critici tedeschi, francesi, inglesi.
Di fronte a questi attacchi, gli epicurei hanno sempre risposto che non essi, ma i loro
accusatori, rappresentano la natura umana in una luce degradante: poiché l’accusa presume che
gli esseri umani siano capaci soltanto di piaceri simili a quelli dei maiali. Se questa supposizione
fosse vera, l’accusa non potrebbe essere confutata, ma non sarebbe più una imputazione giacché,
se le fonti del piacere fossero le stesse, sia per l’uomo che per i maiali, le norme di vita adatte al
primo lo sarebbero anche per i secondi. Paragonare la concezione epicurea dell’esistenza alla
vita degli animali è una degradazione, poiché i piaceri degli animali, in realtà, non soddisfano le
concezioni della felicità di un essere umano. Le facoltà dell’uomo sono più elevate degli appetiti
animali, e, quand’egli ne sia conscio, si riterrà felice solo se potrà appagarle. Non ritengo che gli
epicurei siano stati del tutto esenti da difetti nel trarre le loro conseguenze dal principio
utilitaristico. Per arrivare a farlo in misura sufficiente c’è voluto l’apporto di molti elementi
dottrinali stoici non meno che cristiani. Ma non c’è alcuna concezione epicurea della vita che
non assegni ai piaceri dell’intelletto, dei sentimenti, dell’immaginazione e della rettitudine
un’importanza molto più elevata di quelli dei sensi. Si deve ammettere, tuttavia, che gli
utilitaristi hanno in genere collocato i piaceri dello spirito su un piano superiore a quelli del
corpo, soprattutto in considerazione della maggiore stabilità, sicurezza e gratuità dei primi,
sottolineandone più i vantaggi che la loro intrinseca natura. Tutto ciò depone a favore degli
utilitaristi i quali avrebbero anche potuto usufruire, in modo affatto coerente, di più efficaci
strumenti di difesa. t dei tutto compatibile con il principio dell’utilità che alcuni tipi di piaceri
siano più desiderabili e apprezzabili di altri. Sarebbe assurdo che, mentre nello stimare tutte le
altre cose la qualità viene presa in considerazione allo stesso modo che la quantità, la stima dei
piaceri dovesse dipendere unicamente dalla quantità.
Mill, Utilitarismo
154
Alla domanda che cosa io intenda per differenza di qualità nei piaceri, o che cosa renda un
piacere, in quanto tale, più valido di un altro, a parte la sua maggiore quantità, non c’è, che una
risposta possibile: di due piaceri, quello verso cui tendono, indipendentemente da ogni
sentimento di obbligazione morale, tutti o quasi tutti coloro che hanno esperienza di entrambi è il
piacere più desiderabile. Se l’uno dei due è considerato, da coloro che hanno sufficiente
esperienza di entrambi, decisamente superiore all’altro, anche se il procurarselo costa, pena e
non si è disposti a rinunciarvi in cambio di alcuna quantità dell’altro, allora è lecito attribuire al
piacere preferito una qualità superiore, che oltrepassa in misura tale la quantità da rendere
questa, a paragone, di poco conto.
È incontestabile che coloro i quali hanno sufficiente coscienza di essi e sono in grado di
apprezzarli realmente e di godere di entrambi propendono per un sistema di vita che soddisfi le
loro facoltà più elevate. Pochi acconsentirebbero a essere mutati in animali in cambio dei pieno
godimento dei loro piaceri bestiali. Nessun essere umano intelligente desidererebbe essere un
folle, nessuna persona istruita vorrebbe essere un ignorante, nessun individuo di retto e onesto
intendimento gradirebbe essere egoista o abietto, anche se fossero persuasi che il folle,
l’ignorante o il furfante siano più felici di loro per questo destino. Nessuno vorrebbe rinunciare a
quanto possiede più di loro, anche in cambio della più completa soddisfazione di tutti i desideri
che ha con essi in comune. Acconsentirebbe a questa rinuncia solo nei casi di estrema infelicità,
per cui si è pronti a barattare la propria sorte con un’altra per quanto indesiderabile ai propri
occhi. Un uomo di elevate facoltà richiede di più per esgere felice, e ha, probabilmente, una
maggiore sensibilità e capacità di sopportazione delle sofferenze, rispetto a un individuo
inferiore; ma, nonostante queste predisposizioni, non si lascerà mai sommergere da un sistema di
vita degradante. Di questa avversione, possiamo dare la spiegazione che più ci piace: possiamo
attribuirla all’orgoglio, un nome, questo, che è dato indiscriminatamente ai più nobili come ai
meno rispettabili sentimenti di cui l’uomo è capace; possiamo ricondurla all’amore per la libertà
e per l’indipendenza personale, l’appello alle quali era per gli stoici uno dei mezzi più efficaci
per inculcarla, all’amore per il potere o al desiderio di ebbrezza, che in pari grado contribuiscono
ad alimentarla. Ma il suo nome più appropriato è quel senso di dignità che tutti gli uomini
possiedono in una forma o in un’altra, e non sempre in misura esattamente proporzionale alle
loro facoltà più elevate; e che è così essenziale alla felicità di coloro nei quali è radicata, che
nulla di quanto vi si oppone potrebbe stimolarli ad accondiscendervi se non momentaneamente.
Chiunque supponga che questa preferenza costituisce un sacrificio di felicità, e che l’essere
superiore, in uguali circostanze, non è più felice dell’inferiore, confonde due idee molto diverse
di felicità e di soddisfazione. E indiscutibile che l’individuo, le cui capacità di godimento sono
Mill, Utilitarismo
155
limitate, ha le maggiori probabilità di poterle completamente soddisfare; laddove invece un
individuo altamente dotato sentirà che qualsiasi felicità cui possa inirare sarà sempre imperfetta
nel mondo così come è. Ma potrà imparare a sopportame le imperfezioni se sono tollerabili; e se
proverà un sentimento di invidia verso chi non è in grado di accorgersi di esse è perché colui che
a queste soggiace non soffre della carenza di bene dovuta a quelle imperfezioni. t meglio essere
un uomo insoddisfatto che un maiale soddisfatto: è meglio essere un Socrate insoddisfatto che
uno stolto felice. E se lo stolto o il maiale non la pensano così, è perché essi non vedono che il
loro lato della questione. Gli altri ne conoscono tutti gli aspetti.
Si può obiettare che molti di coloro i quali sono capaci dei più elevati piaceri, talvolta, sotto
l’influenza della tentazione, pospongono quelli ai più bassi. Ma ciò è perfettamente compatibile
con il pieno apprezzamento dell’intrinseca superiorità del piacere più nobile. Gli uomini, spesso,
per debolezza di carattere, propendono per il piacere di più facile soddisfazione, anche se sanno
che è il meno apprezzabile: così nella scelta tra due piaceri materiali, come tra un piacere
materiale e un piacere intellettuale. Perseguono i piaceri sensuali a danno della salute, pur se
perfettamente consci che la salute è un bene maggiore. Si può, inoltre, obiettare che molti, i quali
si lasciano prendere con entusiasmo giovanile da ogni nobile ideale, avanzando negli anni
cadono nell’indolenza e nell’egoismo. Ma io non credo che chi sperimenta questo comune
mutamento scelga volontariamente i piaceri grossolani in luogo di quelli più elevati. Credo che,
prima di dedicarsi esclusivamente ai primi, siano già diventati incapaci di soddisfare i secondi. In
molte nature la capacità di sentimenti più nobili è paragonabile ad una pianta molto delicata,
facilmente deperibile non solo per opera di influenze ostili, ma anche per insufficienza di
sostentamento: nella maggior parte dei giovani questi sentimenti si spengono rapidamente, se le
occupazioni cui si sono dedicati nella vita e la società nella quale vivono non sono favorevoli a
mantenere in esercizio queste capacità superiori. Gli uomini smarriscono le loro alte aspirazioni
così come perdono i loro gusti intellettuali, poiché non hanno tempo da dedicarvi; e si adagiano
nei piaceri inferiori non perché deliberatamente li preferiscano, ma perché sono gli unici ai quali
abbiano accesso, o i soli che siano ancora in grado di godere. E discutibile che un individuo,
rimasto ugualmente sensibile ai due generi di piaceri, coscientemente e ponderatamente
preferisca quello più vile; sebbene molti, in tutti i tempi, si siano affaticati in un vano tentativo di
contemperarli.
[…]
Mill, Utilitarismo
156
Capitolo 4
SU QUALE SIA IL GENERE DI PROVA COMPATIBILE CON IL PRINCIPIO DI UTILITÀ
È stato fatto osservare che le questioni riguardanti i fini ultimi non comportano prove nel senso
ordinario della parola. Il fatto di non poter essere dimostrati mediante ragionamenti è cosa
comune a tutti i primi principi, tanto alle premesse più elementari della conoscenza, quanto a
quelle della nostra condotta. Ma per le prime, in quanto sono dati di fatto, ci si può appellare
direttamente alle facoltà che giudicano i fatti, cioè a dire ai sensi e alla coscienza interna. Ci si
può appellare alla stessa facoltà per questioni di fini pratici? Oppure mediante quale altra facoltà
se ne può prendere atto?
I problemi che riguardano i fini sono, per dirla in altre parole, problemi su che cosa sia
desiderabile. La dottrina utilitarista afferma che la felicità è desiderabile, anzi che è la sola cosa
desiderabile come fine, mentre tutte le altre cose possono essere desiderabili soltanto come
mezzo per raggiungere quel fine. Che cosa si deve pretendere da questa dottrina — quali sono le
condizioni che è necessario che la dottrina soddisfi — se si vuole che questa ipotesi sia accettata
come valida?
L’unica prova che si può dare del fatto che un oggetto è visibile, è che in effetti lo si vede.
L’unica prova del fatto che un suono è udibile è che lo si ode; e così via per le altre fonti
dell’esperienza. E similmente, secondo le mie conclusioni, la sola prova è che sia possibile
offrire per il fatto che qualcosa è desiderabile, è che in effetti lo si desidera. Se il fine che la
dottrina utilitarista si ripromette non fosse riconosciuto come tale, sia in teoria che in pratica, non
c’è cosa al mondo che potrebbe convincere chicchessia di ciò. Non si può dare alcuna ragione
del perché la felicità generale sia desiderabile, se non questa: che ognuno, nella misura in cui
ritiene che essa sia raggiungibile, desidera la propria felicità. E tuttavia, dato che questo è un
fatto, non soltanto abbiamo la sola prova che sia possibile avere in questo caso, bensì tutte le
prove che è possibile richiedere del fatto che la felicità è un bene, e cioè che la felicità di ogni
persona è un bene per quella persona e che la felicità generale dunque è un bene per l’insieme di
tutte le persone. La felicità ha fatto valere il suo diritto ad essere considerata uno dei fini della
condotta e di conseguenza uno dei criteri della morale. Ma non ha provato, con ciò stesso, di
essere l’unico criterio. Perché ciò avvenga sembra necessario, in virtù della stessa regola,
dimostrare non soltanto che si desidera la felicità, ma che non si desidera mai nient’altro che la
felicità. Si può invece toccar con mano che si desiderano cose che nel linguaggio normale
vengono decisamente distinte dalla felicità. Per esempio, si desidera la virtù e l’assenza di vizi
non meno realmente di quanto non si desideri la felicità e l’assenza della sofferenza. Il desiderio
della virtù non è altrettanto universale, ma è un dato di fatto altrettanto autentico quanto il
Mill, Utilitarismo
157
desiderio della felicità, e pertanto coloro che si oppongono alla norma utilitaristica ritengono di
avere il diritto di concludere che oltre alla felicità ci sono altri fini per l’azione umana e che la
felicità non è dunque il criterio per l’approvazione e per la disapprovazione.
Ma la dottrina utilitarista nega forse che la virtù venga desiderata, o sostiene che non debba
essere desiderata? Tutto al contrario. Non soltanto sostiene che si deve desiderare la virtù, ma
anzi che la si deve desiderare disinteressatamente e di per se stessa. Qualunque sia l’opinione dei
moralisti utilitaristi sulle condizioni originarie mercé le quali la virtù diviene virtù; comunque
avvenga che essi credano (come in effetti credono) che le azioni e le inclinazioni siano virtuose
solo perché promuovono un fine che non è la virtù stessa; anche quando tutto questo è concesso,
e dopoché è stato deciso in base a considerazioni di questa natura che cosa è virtuoso, essi non
solo mettono la virtù in cima alla lista delle cose che sono buone in quanto mezzi per il fine
ultimo, ma riconoscono altresì come un dato di fatto psicologico la possibilità che essa
costituisca per l’individuo un bene in se stesso, anche a prescindere da ogni altro fine, e
sostengono che la mente non è nelle sue condizioni giuste, non è in uno stato in cui sia conforme
all’utilità, non nello stato più atto a produrre la felicità generale, se non ama la virtù in tale modo
— come cosa desiderabile di per se stessa, anche se nel caso particolare non produrrà quelle altre
conseguenze desiderabili che tende a produrre e in ragione delle quali è considerata una virtù.
Questa opinione non rappresenta in alcun modo una deviazione dal principio della felicità. Gli
ingredienti della felicità sono svariati ed ognuno è desiderabile in se stesso e non semplicemente
in quanto contribuisce ad aumentare un tutto. Il Principio dell’Utilità non vuol dire che un
qualsiasi piacere dato, come la musica, per esempio, o che una qualsiasi eliminazione della
sofferenza, come per esempio la salute, debbano essere considerati come mezzi per un qualche
cosa di collettivo chiamato felicità, e debbano essere desiderati in ragione di ciò. Essi sono
desiderati e sono desiderabili in se stessi e per se stessi; oltre ad essere mezzi essi costituiscono
anche una parte del fine. Secondo la dottrina utilitarista, la virtù non è parte del fine per natura e
all’origine, ma è in grado tuttavia di diventarlo; e lo è diventata in coloro che la amano
disinteressatamente, e da costoro è desiderata ed apprezzata non come mezzo per la felicità ma
come parte della loro felicità.
Per chiarire ulteriormente ciò, possiamo rammentare che il caso della virtù non è unico in
questo, cioè nel fatto di essere originariamente un mezzo, e che se non fosse un mezzo per
qualche cosa di altro rimarrebbe cosa senza importanza, ma associandosi con ciò per cui è un
mezzo viene ad essere desiderata di per se stessa ed anzi con la più grande intensità. Che diremo,
per esempio, dell’amore del denaro? All’origine il denaro non è in alcun modo più desiderabile
di quanto lo sia un mucchietto di ciottoli scintillanti. Il suo valore consiste unicamente nelle cose
Mill, Utilitarismo
158
che può comprare, nei desideri indirizzati verso altri oggetti che esso può servire a soddisfare. E
tuttavia l’amore del denaro non è soltanto una delle più forti fra le forze motrici della vita umana,
ma addirittura il denaro in molti casi è desiderato in se stesso e per se stesso: il desiderio di
possederlo è sovente più forte del desiderio di impiegarlo, e cresce anche quando vengono meno
i desideri al cui appagamento era indirizzato e che esso voleva raggiungere. In questo caso si può
ben dire che il denaro non è desiderato in vista di un fine, ma come parte di quello stesso fine.
Da semplice mezzo per la felicità, che era, è diventato esso stesso uno degli ingredienti principali
dell’idea di felicità per l’individuo. E si può dire la stessa cosa per la maggior parte degli scopi
più importanti della vita umana — il potete, per esempio, o la gloria, eccettoché a questi ultimi
scopi è unita una certa dose di piacere immediato, piacere che, per lo meno all’apparenza, è
inerente per natura ad essi; cosa che invece non si può dire del denaro. E tuttavia l’attrattiva
naturale più forte che sentiamo sia nel potere che nella fama è costituita dall’enorme contributo
che queste due cose danno all’appagamento dei nostri desideri; ed è la saldezza dell’associazione
che in tal modo viene a formarsi tra di essi, da una parte, e tutti gli oggetti dei nostri desideri,
dall’altra, che dà al desiderio diretto che si prova per queste cose quell’intensità che sovente esso
assume, tale, nel carattere di certune persone, da sorpassare, quanto a forza, tutti gli altri desideri.
In questi casi i mezzi sono diventati parte dei fini e una parte ancora più rilevante di quanto non
lo sia una qualsiasi delle cose in vista delle quali sono un mezzo. Quello che era prima desiderato
come strumento per il raggiungimento della felicità, ha finito per essere desiderato di per se
stesso. Nell’essere desiderato per se stesso, tuttavia, è desiderato come parte della felicità. Si è
felici, o si crede di essere felici, se lo si possiede e si è infelici se non si riesce a possederlo. Il
desiderio di ciò non è cosa differente dal desiderio della felicità così come non ne sono differenti
l’amore della musica o il desiderio della salute. Sono inclusi nella felicità. Sono alcuni degli
elementi che costituiscono insieme il desiderio della felicità. La felicità non è un’idea astratta,
ma un insieme concreto, e queste sono alcune delle sue parti. E il criterio utilitarista sanzione e
approva che sia così. La vita sarebbe una misera cosa estremamente sprovvista di fonti di felicità,
se la natura non avesse provveduto a far sì che cose le quali all’inizio erano indifferenti, ma tali
da condurre alla soddisfazione dei nostri desideri più elementari, o altrimenti associate ad essi,
diventassero in se stesse fonti di un piacere di valore ancora più grande che quegli stessi piaceri
elementari, per la loro durata e per lo spazio di esistenza umana che sono in grado di interessare,
e persino per l’intensità. La virtù, secondo la concezione utilitarista, è un bene di tal sorta.
All’origine la virtù non era desiderata e non fungeva da movente se non in quanto conduceva al
piacere e specialmente proteggeva dalla sofferenza. Ma mediante l’associazione che si è venuta
formando in tal modo, può venir sentita come un bene in se stessa e desiderata in quanto tale con
Mill, Utilitarismo
159
un’intensità tanto grande quanto quella con cui è desiderato un qualsiasi altro bene; con questa
differenza, tra il desiderio della virtù e l’amore del denaro o del potere o della gloria, che questi
ultimi possono rendere, e sovente rendono, l’individuo nocivo agli altri membri della società a
cui egli appartiene, laddove il coltivare in se stessi l’amore disinteressato della virtù riesce
meglio di qualsiasi altra cosa a fare di un individuo una benedizione per gli altri. E di
conseguenza la norma utilitarista, mentre tollera ed approva quegli altri desideri acquisiti, fino al
punto oltre al quale, invece di promuovere la felicità generale, le nuocerebbero, prescrive e
richiede invece che si coltivi l’amore della virtù fino al punto massimo di intensità, in quanto è
determinante per la felicità generale più di qualsiasi altra cosa.
Dalle considerazioni precedenti deriva che non vi è in realtà nulla che sia desiderato eccetto la
felicità. Tutto ciò che è desiderato non come mezzo indirizzato ad un fine ulteriore ed in ultima
analisi alla felicità, è desiderato in quanto esso stesso parte dalla felicità, e non è desiderato di
per se stesso fino al momento in cui lo diventa. Coloro che desiderano la virtù per se stessa, la
desiderano sia perché la consapevolezza di possederla è un piacere, sia perché la consapevolezza
di esserne privi è una sofferenza, oppure per queste due ragioni insieme; poiché in verità piacere
e dolore raramente esistono disgiunti e sono invece quasi sempre congiunti, in quanto la stessa
persona prova piacere per il grado di virtù raggiunto e dolore per non essere ancora andato oltre.
Se una di queste ragioni non gli desse piacere e l’altra non gli desse dolore, non amerebbe o non
desidererebbe la virtù, o la desidererebbe soltanto per i vantaggi che essa può apportare a lui
stesso o a coloro che gli stanno a cuore.
Abbiamo dunque ora una risposta alla domanda su quale sia il genere di prova che è
compatibile con il principio utilitarista. Se l’opinione che ho ora esposto è psicologicamente
vera, e cioè se la natura umana è costituita in modo tale da non desiderare nulla che non sia né
parte della felicità né un mezzo per la felicità, non ci è possibile avere altra prova e non
necessitiamo di altra prova del fatto che questa è l’unica cosa desiderabile. E se le cose stanno
così, la felicità è l’unico fine dell’azione umana, e il fatto di promuovere la felicità è l’unico
metodo mediante il quale si può giudicare ogni aspetto della condotta umana. Donde ne
consegue necessariamente che deve trattarsi del criterio della moralità, dato che la parte è inclusa
nel tutto.
Dobbiamo ora decidere se le cose stanno veramente così, se l’umanità non desidera nient’altro
di per se stesso eccetto ciò che procura piacere e la cui assenza procura dolore. Ci troviamo
evidentemente davanti ad una questione di fatto e d’esperienza che dipende, come tutte le
questioni analoghe, da quello che risulta dai fatti. Può essere determinata soltanto dalla pratica
della autocoscienza e della autosservazione, aiutate dall’osservazione degli altri. Ritengo che da
Mill, Utilitarismo
160
queste fonti di informazione, consultate in uno spirito di imparzialità, risulterà che desiderare una
cosa e trovarla piacevole, sentire avversione per una cosa e trovarla dolorosa sono fenomeni
assolutamente inseparabili, o meglio ancora sono due aspetti dello stesso fenomeno; per dirla con
parole più precise, sono due modi diversi di designare lo stesso fatto psicologico: che pensare ad
un oggetto come desiderabile (eccettoché in vista delle sue conseguenze) e pensare ad esso come
piacevole sono l’identica cosa. E che desiderare qualche cosa, eccettoché nella misura in cui
l’idea di essa è piacevole, è cosa impossibile sia fisicamente che metafisicamente.
Tutto ciò mi sembra così ovvio che non ritengo darà luogo a discussioni. L’obiezione che
verrà fatta non è che il desiderio in ultima analisi possa avere la più remota possibilità di
indirizzarsi ad altro che al piacere e all’eliminazione della sofferenza, ma piuttosto che il volere
non è la stessa cosa che il piacere; che una persona di provata virtù, anzi una persona qualsiasi
che proponga a se stessa progetti ben determinati, porta a termine questi suoi progetti senza
pensare al piacere ottenuto al momento di concepirli o che si attende quando saranno messi in
atto. E persiste ad agire in conformità con essi anche qualora questo piacere sia grandemente
diminuito, sia a causa di modificazioni nel suo carattere, sia per l’indebolirsi della sua sensibilità
ricettiva, o anche qualora quel piacere sia più che controbilanciato dalle sofferenze che la
prosecuzione dei progetti potrebbero arrecargli. Tutto questo io lo ammetto pienamente, e l’ho
dichiarato altrove tanto apertamente e tanto categoricamente quanto chiunque altro. La volontà,
in quanto fenomeno attivo, è cosa diversa dal desiderio, che è uno stato di sensibilità passiva, e
sebbene in origine germogli da esso, può in seguito prender radice e staccarsi dal tronco madre; a
tal punto che nel caso di uno scopo abituale, invece di volere una cosa perché la desideriamo,
sovente la desideriamo solamente perché la vogliamo. Questo tuttavia non è che un esempio di
quel comune fenomeno che è la forza dell’abitudine, e non è in alcun modo limitato al caso delle
azioni virtuose. Sono molte le cose di non grande importanza che mentre venivano fatte in
origine per un certo motivo, si continuano poi ad eseguire per abitudine. A volte le si esegue
inconsapevolmente, e la consapevolezza sopravviene solo dopo l’azione; altre volte le si esegue
per un atto di volizione cosciente, ma una volizione che è divenuta abituale e che è messa in
moto dalla forza dell’abitudine, forse in contrasto con una preferenza deliberata, come succede
spesso a coloro che hanno contratto abitudini di indulgenza viziosa e nociva. Il terzo ed ultimo
caso è quello in cui l’atto abituale della volontà, nel caso individuale, non è in contraddizione
con l’intenzione generale che prevale in altri momenti, anzi ne rappresenta il compimento; come
nel caso di una persona di provata virtù o nel caso di tutti coloro che perseguono in modo
deliberato e coerente un fine determinato. La distinzione tra volontà e desiderio, intesa in tal
modo, è un fatto psicologico autentico e di grande importanza; ma il fatto consiste solo in questo,
Mill, Utilitarismo
161
che la volontà, così come tutte le altre parti costitutive della nostra natura, può essere soggetta
all’abitudine, e che possiamo volere dunque per abitudine quello che non desideriamo più di per
se stesso o che desideriamo unicamente perché lo vogliamo. Ma non è per questo meno vero che
la volontà è in origine prodotta interamente dal desiderio; includendo nel termine sia l’influenza
della repulsione esercitata dal dolore, sia quella dell’attrazione esercitata dal piacere. Prendiamo
ora in considerazione non più la persona che ha una salda volontà di agire rettamente, ma colui la
cui volontà virtuosa è ancora debole, tale da poter soccombere alla tentazione e sulla quale non si
può fare completamente affidamento. Con quali mezzi la si potrà irrobustire? Come si potrà
inculcare o risvegliare la volontà di essere virtuosi là dove essa esiste con una forza non
sufficiente? Soltanto se si fa sì che la persona desideri la virtù — facendole apparire la virtù in
una luce piacevole o l’assenza della virtù in una luce spiacevole. È associando il comportarsi
rettamente con il piacere e il comportarsi male con il dolore, oppure facendo sorgere e
stampando nella mente e introducendo nell’esperienza individuale il piacere che naturalmente
accompagna un tipo di comportamento e il dolore che accompagna l’altro, che è possibile far
avanzare quella volontà di essere virtuoso che agisce, una volta confermatasi, senza più pensiero
del piacere e del dolore. La volontà è figlia del desiderio, e non si sottrae alla soggezione di tale
padre che per soggiacere a quella dell’abitudine. Non è da presumere che ciò che è il risultato
dell’abitudine sia per ciò stesso intrinsecamente buono, e non ci sarebbe ragione di desiderare
che il fine della virtù finisse per rendersi indipendente dal piacere e dal dolore, se non fosse per il
fatto che, quanto a costante infallibilità nell’azione, è impossibile fare assegnamento sulle
influenze esercitate dalle associazioni piacevoli e spiacevoli che inducono alla virtù, fino a tanto
che quell’influenza non abbia acquistato il sostegno dell’abitudine. Sia per i sentimenti che per la
condotta, l’abitudine è la sola cosa che offra certezza, ed è proprio perché è talmente importante,
così per gli altri come per noi stessi, il poter fare assoluto assegnamento sui nostri sentimenti e
sul nostro comportamento, che la volontà di agire rettamente dovrebbe essere coltivata come
abitudine indipendente. In altre parole, questa condizione della volontà è un mezzo verso un
bene e non intrinsecamente un bene; e non contraddice la dottrina secondo la quale nulla è un
bene per gli esseri umani eccettoché nella misura in cui o esso stesso è piacevole, o è un mezzo
per raggiungere il piacere e per evitare il dolore.
Se questa dottrina è vera, il principio dell’utilità è provato. E dobbiamo lasciare ora alla
ponderata riflessione del lettore la conclusione se lo sia o non lo sia.
162
Gilbert Ryle (1900-76)
‘Il piacere’
(da Dilemmi, 1954)
traduzione Enrico Mistretta
I due esempi di conflitti logici che abbiamo finora considerato nei particolari, vale a dire
l’argomento fatalista e l’argomento di Zenone, sono stati, in un certo senso, dilemmi accademici.
Essi sono stati per noi oggetto di quasi deliberata preoccupazione proprio perché li abbiamo
trovati interessanti dal punto di vista intellettuale. Sotto un certo rispetto, essi assomigliano a
quegli indovinelli ai quali vorremmo dare risposta unicamente perché trovare una risposta è un
buon esercizio. Ora invece io vorrei discutere talune argomentazioni che sono più che meri
indovinelli; argomentazioni, vale a dire, che ci interessano perché sono preoccuppanti davvero;
non puri e semplici esercizi intellettuali, bensì vivi problemi intellettuali. Vi è poi un ulteriore
carattere di quelle due argomentazioni che mancherà a queste che stiamo per affrontare; quelle
finiscono per arrivare entrambe ad una punta acuminata ed estremamente tagliente. Alcune cose
accadono per colpa nostra, o nulla accade per colpa nostra? Possono alcune cose essere sventate,
o nulla può essere sventato? Raggiungerà Achille la tartaruga al termine del secondo miglio,
oppure dovrà inseguirla asintoticamente per tutta l’eternità? D’ora in avanti, invece, noi ci
troveremo di rado, o mai, nella semplice, anche se incomoda posizione di chi sia tirato
contemporaneamente da parti opposte; ci troveremo nella posizione ben più complicata e
incomoda di citi venga tirato da più direzioni contemporaneamente.
In questo capitolo intendo discutere una piccola ed arbitraria selezione di problemi intorno
alla nozione o concetto di piacere. Ma spero che il lettore comprenderà fin dall’inizio che questi
problemi implicheranno necessariamente un cerchio più vasto di altri concetti. Proprio come il
portiere di cricket non può adempiere il suo ruolo senza che gli altri giocatori svolgano anch’essi
la loro funzione, così i compiti di termini quali ‘godimento’, ‘gradimento’, ‘piacere’ si
frammischiano ex officio con quelli multiformi di altri innumerevoli termini.
Sebbene il particolare tema che sto per porre in discussione esemplifichi alcuni autentici
dilemmi, Io scopo della mia discussione non è solo quello di richiamare l’attenzione su ulteriori
esemplari di dilemmi. A titolo introduttivo di alcune questioni di cui ci occuperemo in seguito,
vorrei mostrare un tipo di sorgente da cui i dilemmi appunto possono scaturire. Vorrei cioè
mostrare come, non appena raggiunto un livello di pensiero nel quale dobbiamo pensare non
soltanto mediante, ma anche intorno a una quantità di concetti generali o famiglie di concetti, sia
Ryle, ‘Il piacere’
163
naturale e addirittura inevitabile che noi cominciamo col tentare di assoggettarli ad un codice o
ad una regola, con cui sappiamo come operare altrove. I dilemmi insorgono quando la condotta
di un nuovo coscritto diverga dalla disciplina imposta. Il più sperimentato dei sistemi di controllo
non riesce a controllarlo. Un bambino che senta dire che un ispettore del Ministero
dell’Agricoltura e Foreste è un ufficiale governativo, potrebbe aspettarsi che questi fosse una
sorta di poliziotto. Il bambino conosce abbastanza bene alcune delle funzioni più ovvie di un
poliziotto; soltanto dopo aver scoperto che egli non fa ciò che viceversa il poliziotto fa, e che fa
ciò che il poliziotto non fa, e così via, si convincerà che gli ispettori del Ministero
dell’Agricoltura e Foreste non sono poliziotti, né ufficiali postali, né guardiacoste, né
centralinisti dei telefoni. In modo più o meno analogo noi, ad un più alto livello di astrazione,
possiamo arrivare a situare correttamente un concetto o una famiglia di concetti soltanto dopo
aver tentato, senza riuscirvi, di sistemarli in una qualche già nota intelaiatura di idee, di stiparli,
per così dire, in un cassettone che solitamente usiamo, o di ficcarli in una qualche credenza dove
generalmente conserviamo tazze e bicchieri.
Le nozioni di godimento e di disgusto non sono nozioni tecniche. Noi tutti le usiamo, e non
c’è cricca di esperti che, a forza di allenamento ed esercizio professionale, divengano la suprema
autorità quanto all’uso da farne. Noi ben sappiamo, in genere, pur senza servirci di alcuno
specifico metodo di ricerca, se qualcosa potrebbe farci piacere o no questa mattina, e persino, in
via più generale, se preferiamo il cricket al calcio. Né insorge alcuna difficoltà logica quando
utilizziamo quotidianamente, a livello elementare, queste nostre nozioni così familiari, e cioè, in
parole povere, quando parliamo non già del piacere, bensì di partite, di vittorie o di scherzi che ci
siano o non ci siano piaciuti. Secondo un certo uso della preposizione ‘di’, chi dicesse che un
tempo si divertiva più a leggere Dickens che non Jane Austen, ma che adesso preferisce questa a
quello, potrebbe a buon diritto negare di star parlando ‘del’ piacere; egli stava parlando dei due
narratori, infatti. Potrebbe sostenere che lui non sta parlando del piacere finché non comincia a
discutere questioni di carattere generale, come quella se la gente debba sempre porre il dovere
prima del piacere, o se il fatto che i più gustino maggiormente i racconti di Marie Corelli di
quanto non gustano quelli di Jane Austeri dimostri che i primi sono migliori dei secondi. Qui
certamente egli parlerebbe del piacere, e precisamente: nel primo caso, di una questione di
carattere morale relativa alla relazione fra piacere e dovere; nel secondo, di una questione di
critica letteraria concernente la relazione fra godimento e gusto letterario.
Vi sono parecchie zone sovrapponentisi del discorso, nelle quali, molto prima che si cominci
a filosofare, saltano fuori questioni di ordine generale intorno al piacere da agitare e dibattere.
L’educatore morale che inculca regole di comportamento, lo psicologo che tenta di classificare le
Ryle, ‘Il piacere’
164
fonti dell’agire umano, l’economista che collega le differenze di prezzo con i diversi indici di
preferenza dei consumatori, il critico d’arte che confronta la capacità di attrazione di diverse
opere artistiche, tutti costoro debbono esprimersi in termini generali a proposito, fra molte altre
cose, del piacere che gli esseri umani provano o dovrebbero provare per cose diverse. È soltanto
dall’interferenza di queste e altre generalizzazioni siffatte, sulla cui verità, ove le si consideri
separatamente, non abbiamo dubbi, che insorgono i nostri caratteristici problemi.
Prenderò le mosse dall’equipaggiamento teoretico di cui alcuni pionieri della teoria
psicologica, con naturale eccesso di fiducia, tentarono di dotare la nozione di piacere. Convinti
che la loro missione scientifica consistesse nel riprodurre, nel mondo della mente, quel che i
fisici avevano fatto per il mondo della materia, si misero a cercare dei corrispondenti mentali
delle forze in base alle quali la dinamica aveva fornito spiegazione del moto dei corpi. Quali
fenomeni individuabili per introspezione giocavano nell’intenzionalità della condotta umana il
ruolo che la pressione, l’urto, l’attrito, l’attrazione avevano nella accelerazione e decelerazione
degli oggetti fisici? Desiderio e piacere, avversione e pena sembravano mirabilmente qualificati
ad interpretare appunto le parti richieste; tanto più, poi, perché tutti sanno che di norma la gente
desidera ciò del cui possesso godrebbe, se lo raggiungesse; è di solito lieta di avere ciò che aveva
desiderato avere; e quando sceglie fra una cosa ed un’altra preferisce quella che sceglie a quella
che respinge. Questi stati della mente sono convenevolmente variabili sia quanto al grado, sia
quanto alla durata. Ci si poteva aspettare di poter applicare ai nostri gusti e disgusti concorrenti e
cooperanti, ai nostri desideri e alle nostre avversioni, qualcosa di analogo al parallelogramma
delle forze.
Sembrò così ragionevole fissare, come assiomi della dinamica umana, proposizioni
abbastanza plausibili, e tuttavia anche implausibili, del tipo: tutti i desideri sono desideri del
piacere; tutte le azioni intenzionali sono motivate dal desiderio di un netto incremento
quantitativo del piacere provato dall’individuo agente, ovvero di una netta diminuzione
quantitativa del dolore; e: l’efficacia dinamica di un piacere differisce da quella di un altro
soltanto se il primo è più grande del secondo, cioè più intenso o più prolungato, o entrambe le
cose insieme. Partendo da questi assiomi, sembrò pertanto ovvio, per quanto sgradevole, dedurre
che l’altruista differisce dall’egoista soltanto nel fatto che l’autosoddisfacimento dell’altruista è
tale da incrementare il piacere altrui; che soltanto perché è per lui fonte di piacere produrre
piacere negli altri che noi diciamo, in modo non corretto, che le sue azioni sono dettate da spirito
di sacrificio; solo la prospettiva del proprio piacere può muoverlo ad agire come agisce.
Una siffatta rappresentazione dei piaceri come effetti di atti, ove il desiderio di quei piaceri si
pone come la causa di quegli atti, sembrò accordarsi a perfezione con il già prevalente criterio di
Ryle, ‘Il piacere’
165
aggruppamento di piacere e dolore. Come le punture di vespa ci fanno male, e come la paura di
queste punture è ciò che di solito ci spinge a schivare le vespe, così allo stesso modo, ma in
senso opposto, i piaceri erano interpretati come sensazioni prodotte da azioni e da altri eventi; e
il desiderio di provare di queste sensazioni era interpretato come quel che ci spinge a compiere o
a garantirci quelle cose che le producono; e come i dolori hanno diversa durata e intensità e sono
tanto peggiori quanto più sono prolungati ed intensi, così allo stesso modo, stando a questa teoria
dinamica, i piaceri dovevano essere sentimenti o sensazioni analoghe, capaci di analoghe
variazioni quantitative. Invero, si assumeva comunemente che i piaceri stessero ai dolori come il
caldo al freddo, o il veloce al lento, e cioè che gli uni e gli altri occupassero gli estremi opposti
della medesima scala; onde la misurazione e il calcolo delle quantità di piacere doveva essere
esattamente l’inverso della misurazione e del calcolo delle quantità di dolore: quantità maggiori
dell’uno equivalevano a quantità minori dell’altro.
Ora, per quanto in effetti teorie di questo genere ci dicano che il ruolo del concetto di piacere
è l’esatto corrispettivo di quello del concetto di dolore, allo stesso modo in cui nord è il
corrispettivo di sud, tuttavia vi sono obbiezioni insuperabili a questa loro rappresentazione come
opposti diretti. Noi siamo pronti a riconoscere che alcune cose ci fan male, mentre altre ci
allietano o ci deliziano; e siamo pronti a riconoscere che alcune cose ci procurano dolore e altre
piacere. Ma rifuggiamo, per esempio, dal dire che due minuti fa ho provato dolore e un minuto fa
ho provato piacere; o che mentre il mio mal di capo era l’effetto di un affaticamento della vista,
il mio piacere era l’effetto di uno scherzo o del profumo di una rosa. Noi possiamo spiegare al
medico dove avvertiamo dolore e se si tratta di un dolore lancinante, pungente, o bruciante; ma
non possiamo spiegargli, né egli ce lo domanderebbe, dove proviamo piacere, o se si tratti di una
piacere intermittente o stabile. La maggior parte delle domande che si possono fare sui nostri
malesseri fisici, sui nostri fastidi e altre sensazioni o sentimenti, non si possono fare sui nostri
gusti e disgusti, sui nostri godimenti e le nostre avversioni. In una parola, il piacere non è affatto
una sensazione, e tanto meno una sensazione sulla stessa scala con i malesseri o i disturbi fisici.
Altre considerazioni confermano il nostro assunto. Alcune sensazioni, come certe
stimolazioni, sono piacevoli; altre, come certe altre stimolazioni, sono spiacevoli. Una certa
sensazione di calore può essere penosa, mentre un’altra sensazione di calore egualmente acuta,
come quella, per esempio, prodotta da un sorso di tè caldo, può essere piacevole. In qualche rara
occasione noi siamo persino disposti a dire che qualcosa ci fa male, ma che ciò nonostante ci
piace, o quanto meno ci è indifferente. Se fosse giusto classificare il piacere come una
sensazione, dovremmo aspettarci che fosse anche possibile descrivere quindi alcune di queste
sensazioni come piacevoli, altre come neutre, ed altre ancora come sgradevoli, cosa che invece è
Ryle, ‘Il piacere’
166
chiaramente impossibile: le ultime due sarebbero contraddizioni, la prima una ridondanza, o
peggio. Se io mi sono divertito ad un gioco, non c’è alcun bisogno che vi sia stato qualcosa, oltre
il gioco stesso, che mi sia dispiaciuto o piaciuto, vale a dire una qualche speciale sensazione o un
qualche particolare sentimento suscitato in me da quel gioco.
Una persona che abbia un piede dolorante per una scarpa stretta, o un dito solleticato da una
farfalla, può badare al dolore o al solletico senza pensare affatto alla causa di quella sensazione;
oppure può pensare alla scarpa o alla farfalla senza prestare alcuna attenzione al dolore o al
solletico. Anzi, non soltanto qualcosa può farci male o solleticarci senza che noi sappiamo che
cosa, appunto sia, ma addirittura possiamo essere talmente assorti in tutt’altra cosa, che per un
certo tempo possiamo completamente ignorare sia il dolore o il solletico, sia le loro cause. Ma il
godimento e il disgusto sono connessi all’attenzione e alla consapevolezza in un modo del tutto
differente. È impossibile, non solo psicologicamente, ma anche logicamente, che una persona
goda di una musica senza prestarle la minima attenzione o detesti il vento e la grandine mentre è
tutta presa da una discussione con un amico. Vi è una sorta di contraddizione nel descrivere
qualcuno come mentalmente assente da qualcosa che tuttavia sta gustando o detestando.
E neppure egli può ragionevolmente pretendere che gli si dica cos’è che sta gustando o
detestando, a parte il fatto che potrebbe essere contento se qualcuno riuscisse ad individuare il
delizioso odore che sentiva, o se qualcuno gli descrivesse cos’era che non gli piaceva nel tono di
voce della ragazza con cui parlava. Il piacere e il disgusto non richiedono diagnosi, mentre
possono benissimo richiederne le sensazioni. Il fatto che a me piacciono certe cose e non certe
altre ha una spiegazione precisa, della quale posso essere al corrente o no; ma quando io mi sia
divertito ascoltando una barzelletta, la domanda: “Che cosa mi ha procurato quel piacere?” non
può attendere risposta poiché io so già, naturalmente, che è stata quella barzelletta, se era stata
quella barzelletta ad avermi divertito.
Mentre una sensazione o un sentimento sono un antecedente, un concomitante o, un
susseguente di altri accadimenti, il piacere non è un antecedente, concomitante o susseguente di
alcunché. Il piede può dolermi, continuamente o a tratti, sia quando calzo la scarpa sia dopo che
l’ho tolta. La pressione sul dito dolorante e il dolore provocato possono essere cronometrati
separatamente. Ma quando io mi diverto o mi annoio ad una conversazione non vi è, oltre i
segmenti facilmente cronometrabili della conversazione stessa, qualche altra cosa, i cui segmenti
possano essere separatamente cronometrati, un qualche fenomeno, cioè, individuabile
introspettivamente, continuo o intermittente, che sia per me la piacevolezza o la spiacevolezza
della conversazione. Io potrei invero gustare i primi cinque e gli ultimi tre minuti della
conversazione, detestarne una delle fasi intermedie ed esser in un modo o nell’altro indifferente
Ryle, ‘Il piacere’
167
ad un’altra fase. Ma se poi mi si chiedesse di paragonare in retrospettiva la durata del mio
godimento e quella del mio disappunto con la durata dei segmenti della conversazione che mi ha
divertito o annoiato, non riuscirei a pensare a due cose diverse di cui poter paragonare la durata.
Né potrebbe il mio piacere nel contribuire alla conversazione o nell’ascoltarla porsi come una
qualche attività o esperienza collaterale che potesse ragionevolmente pretendere ad una parte del
mio interesse o della mia attenzione, nel modo in cui il solletico potrebbe distrarre la mia
attenzione dalla farfalla.
È molto più corretto dire che il mio gradimento o non gradimento non sono dei particolari
oggetti di un possibile secondario interesse introspettivo, bensì piuttosto particolari qualità del
mio interesse effettivo alla conversazione; e che questo interesse, a sua volta, non è un
concomitante del mio conversare in modo attivo e ricettivo, ma la particolare qualità di quel
conversare.
Si potrebbe pensare che, dopo tutto, sia un peccato veniale e irrilevante quello di classificare
erroneamente il piacere insieme alle sensazioni. Non si fa gran danno, in circostanze ordinarie, se
classifichiamo erroneamente i conigli come una specie di topi o i piselli dolci come una specie di
ombrellifere. Ma il nostro è un tipo differente di classificazione erronea; nel nostro caso noi non
tentiamo già di pescare un salmone concettuale con una concettuale canna da trote anziché con la
corretta canna da salmone; ma cerchiamo di pescare un salmone concettuale con una mazza da
cricket o con un asso di picche.
Ne seguono conseguenze ben più importanti. L’assimilazione del gradimento e
dell’avversione alle sensazioni era soltanto una parte del programma generale teso alla
costruzione di una teoria dinamica della condotta umana, nella quale teoria cose come i desideri
e i piaceri dovevano fornire i corrispettivi mentali della pressione, dell’urto, dell’attrito e
dell’attrazione propri della teoria meccanica. I moti psichici sarebbero diventati calcolabili
quando la durata e l’intensità dei desideri e dei piaceri fossero diventate misurabili o valutabili e
quando la composizione dei composti di queste forze fosse stata analizzabile nei suoi
componenti. Un piacere sarebbe stato così un qualcosa dotato di una determinata grandezza,
almeno quanto alla durata e all’intensità; sarebbe stato un processo, esattamente sullo stesso
piano del processo di una cosa che fa attrito con un’altra. Ma le nostre obbiezioni a classificare il
piacere insieme alle sensazioni, sé non vado errato, avevano l’effetto generale di mostrare che il
piacere non è affatto un processo. Il concetto di godimento non passa attraverso il cerchio logico
dei processi. I processi sono caratterizzabili come relativamente veloci o lenti, ma, come vide
Aristotele, io non posso godere di qualcosa in modo lento o rapido. Quale che possa essere il
posto, ed è certamente un posto importante, delle nozioni di gradimento e di avversione nella
Ryle, ‘Il piacere’
168
descrizione della condotta umana, non è certamente il posto richiesto per esse dalla progettata
teoria dinamica. Non serve a nulla dire che questo puledro dovrebbe andar bene per questi
finimenti o deve essere adattato in modo da andar bene; quelli non erano i finimenti giusti, e
dovevano essere buttati o usati altrove.
Si può adesso fissare un punto ben più generale. I dolori sono l’effetto di cose come la
pressione di una scarpa su un dito del piede, e la causa di cose come gesti agitati di insofferenza.
L’idea della progettata teoria dinamica della condotta umana consisteva in questo: che il piacere
dovesse in qualche modo essere la causa di certe cose, cioè di azioni umane, ed essere l’effetto di
altre cose, talché potesse esservi una regolarità causale secondo i modelli: “Ogni volta che così e
così, allora un piacere” e “Ogni volta che un piacere, allora così e così” (la goffaggine stessa di
una siffatta enunciazione è il segno di un qualche pasticcio logico).
Un piacere, si assumeva, deve essere un accadimento registrabile, allo stesso modo in cui lo
sono il lampo di un fulmine o il fragore di un tuono, se le proposizioni della desiderata scienza
della natura umana debbono avere una forma ufficialmente prescritta. Non abbiamo qui bisogno
di soffermarci a discutere le credenziali di questa dottrina secondo cui tutte le proposizioni
scientifiche, o almeno le migliori, sono della venerata forma ‘lampo-tuono’. Vorremmo solo che
si riconoscesse che le proposizioni sui nostri godimenti e sulle nostre avversioni non si potranno
trasformare in giudizi della forma lampo-tuono senza violenza logica. Mentre possiamo chiedere
quanto fosse lungo l’intervallo fra il lampo e il tuono, non possiamo chiedere quanto fosse lungo
l’intervallo fra l’afferrare lo spirito di una barzelletta e il goderne, e non già perché, come un
tuono che venga udito nello stesso istante in cui si scorge il lampo, il capire una barzelletta e il
goderne erano eventi simultanei, bensì perché non si trattava affatto di due eventi che potessero
essere sincroni o distinti. Il lampo e il tuono sono fenomeni discernibili, sincroni o no che siano.
Ma il piacere e l’afferrare lo spirito di una barzelletta non sono fenomeni differenti fra loro come
il lampo e il tuono, anche se altre cose, oltre alle barzellette, ci possono divertire e anche se
alcune barzellette si capiscono ma non ci divertono. Per quanto i tuoni non scoppino mai in
assenza di lampi, potremmo pensare che lo facessero, ma non possiamo concepire piaceri che
abbiano luogo di per sé. Non si può considerare sensata la semplice affermazione che qualcuno
ha provato piacere, non più di quanto si possa ritenere sensata l’affermazione che egli era
meramente e semplice-niente interessato o assorto. Il verbo ‘godere’ è un verbo transitivo,
laddove non lo sono i verbi ‘tuonare’ e ‘rombare’.
Chi conosca un po’ la storia delle teorie psicologiche edonistiche e delle teorie etiche
edonistiche e utilitaristiche, saprà anche come su tutto il loro fronte siano scoppiati conflitti
locali fra i campioni di dette teorie e coloro che, con o senza altre teorie o dogmi d’appoggio, si
Ryle, ‘Il piacere’
169
opponevano, in nome di differenti corollari e clausole a queste dottrine generali. Costoro
sentivano nel proprio intimo che una cosa era dire, come tutti dicono, che, a parte certe
circostanze particolari, ciò che facciamo di proposito siamo lieti di farlo, e non dispiaciuti, e che
ci piace più che non dispiaccia l’averlo fatto; e una cosa del tutto diversa è dire che in tutte le
azioni volontarie noi deliberatamente tentiamo di garantirci la massima quantità di piacere. La
prima asserzione è un truismo innocuo, la seconda suona come una scoperta scientifica, e per
giunta di un tipo assai inquietante. Ancora, è un truismo innocuo dire che gente disinteressata e
affettuosa gode nel procurare piacere e gioia ad altri; ma sembra un paradosso demoralizzante
asserire che una condotta disinteressata sia soltanto un tipo di condotta egoistica, o che persone
affettuose siano soltanto persone il cui calcolo dei piaceri richieda come condizione che altri
godano in pari misura.
Non è tuttavia necessario conoscere la storia delle teorie edonistiche e utilitaristiche per poter
vedere i tipi di antagonismo che esse provocano; noi stessi abbiamo avuto infatti i nostri
momenti edonistici ed utilitaristici e ne siamo rimasti insoddisfatti. Abbiamo sentito noi stessi,
anche se in modo abbastanza confuso, che le nozioni fondamentali di gradimento e avversione,
che pervadono di sé così profondamente e tuttavia così poco tendenziosamente le nostre
riflessioni quotidiane autobiografiche e biografiche, hanno subito delle sottili e sospette
trasformazioni allorché sono state presentate come le forze di base che spiegano tutte le nostre
scelte ed intenzioni. D’altra parte, non abbiamo soltanto imparato a pensare in termini di schiere
di generalizzazioni proverbiali, pedagogiche, giuridiche e omiletiche a proposito delle preferenze
e delle avversioni della gente, ma abbiamo avvertito la necessità di organizzare insieme queste
generalizzazioni stesse in concerto con altre generalizzazioni collegate, magari in qualcosa di
simile ad un codice etico o forse in qualcosa di simile ad una teoria psicologica esplicativa, o
forse ancora in qualcosa di simile ad uno schema religioso o teologico o, più verosimilmente, in
una vaga associazione di tutte queste cose insieme. Per bene che si sappia come fare
considerazioni di carattere autobiografico e biografico intorno ai godimenti e alle avversioni
della gente, non per questo sappiamo con chiarezza come connettere quelle generalizzazioni di
dette considerazioni in codici, teorie o schemi. Non possediamo, pertanto, per cominciare,
strumenti o competenze con cui correggere o rifiutare, per esempio, una psicologia dinamica che
ci venga suggerita, la quale segua un esempio così illustre come quello della fisica del secolo
XIX. Noi siamo piuttosto mezzo persuasi fin dall’inizio che ciò che si dichiara nel gergo di una
teoria scientifica debba a sua volta essere una teoria scientifica.
Potrei esprimere la stessa cosa dicendo, con una deliberata esagerazione, che naturalmente noi
tutti ben sappiamo come condurre i nostri quotidiani affari informativi e argomentativi con i
Ryle, ‘Il piacere’
170
verbi ‘apprezzare’, ‘detestare’, ‘dolere’; ma che tuttavia non sappiamo come cavarcela con nomi
astratti come ‘piacere’, ‘avversione’ e ‘dolore’, perchè tutte le generalizzazioni espresse con
l’aiuto di questi incomodi nomi astratti non possono essere null’altro che distillazioni, di questo
o quel tipo, di ciò che si comunica con l’ausilio di quei comodi verbi. Sappiamo cosa si può e
cosa non si può dire sulle preferenze e le avversioni della gente; ma non perciò sappiamo anche
necessariamente cosa si può e cosa non si può dire sul piacere. Noi non usiamo costruzioni del
tipo lampo-tuono quando parliamo delle preferenze e delle avversioni della gente: ma questo non
ci impedisce di lasciarci persuadere dai teorici che dicono, in termini generali e con tono di voce
scientifico, che il piacere sta a ciò che lo produce come il tuono sta al lampo o come il dolore sta
all’ustione; una cosa è infatti usare un concetto in modo adeguato, e una cosa completamente
diversa è descrivere questo uso stesso; proprio come una cosa è fare un uso corretto nel
commercio, di monete e banconote, e una cosa del tutto differente è parlare di contabilità o di
economia. L’efficienza nell’un compito è compatibile con l’incompetenza nell’altro, ed una
persona che non si lascia facilmente imbrogliare quando fa acquisti o quando le danno il resto,
può facilmente farsi ingannare dalle più stravaganti teorie sui valori di scambio.
Vorrei ora brevemente accennare a un altro modo in cui si è tentato di fissare il ruolo della
nozione di ‘piacere’ nella descrizione della vita e della condotta umane. Questo secondo
tentativo nel lavorio concettuale, così come io lo descrivo, avrà probabilmente per il lettore un
aspetto arcaico, prescientifico. In parte è per questo che io ho deciso di prenderlo in esame, dal
momento che non tutti gli schemi intellettuali sono o pretendono di essere teorie scientifiche. Ma
io ho deciso di prenderlo in esame anche per un’altra ragione, perché questo arcaico apparato
concettuale conserva tuttavia una sua attrattiva. Persino gente sofisticata come noi ricade
nell’usarne e gli dà una certa fiducia.
Si pensò in una certa epoca che il problema di stabilire in qual tipo di terminologia la natura
umana dovesse essere descritta fosse risolubile o almeno semirisolubile mutuando
deliberatamente il linguaggio della politica. Le istituzioni, i costumi e le classi di una comunità
politica così evoluta come quella greca o quella romana, erano cose necessariamente suscettibili
di descrizione, poiché i suoi statisti, i suoi giudici, i suoi avvocati, i suoi diplomatici, i suoi
funzionari dovevano comunicare al pubblico direttive, regolamenti, informazioni e deliberazioni
intorno appunto a quelle questioni. Il linguaggio della politica è assai articolato e gran parte di
esso, se non tutto, entra a far parte del linguaggio di quasi tutti i cittadini della comunità. Non è il
codice privato di una cricca privilegiata. Ora, può essere conveniente e giovevole, per una
quantità di ragioni, parlare della costituzione dell’essere umano in linguaggio politico. Come
Ryle, ‘Il piacere’
171
l’assemblea o il parlamento di una comunità delibera, discute e decide, così pure ciascuno di noi
delibera, discute e decide. Come si possono violare le leggi, e come le pubbliche deliberazioni
possono essere impedite o degenerare in alterchi tra fazioni, così pure noi individui alberghiamo
i nostri privati violatori di leggi e le nostre giunte private. Alla folla sregolata di uno stato,
corrispondono in noi potenziali elementi sovversivi, che sempre richiedono disciplina e talvolta
repressione. L’autocontrollo qui è ciò che lì è il governo dei governati. In particolare, sembra
corretto assimilare cose come terrore, collera, ingordigia, indolenza ed invidia ai riottosi, ai
ribelli e alla canaille di una società. Chi sia sotto il giogo di siffatte passioni è simile ad una
comunità nella quale la legge e l’ordine siano scomparsi. Un uomo furibondo o in preda al
panico non può ascoltare la voce della ragione; non può pensare rettamente o tener conto dei
consigli di chi lo può. La passione domina. Il governo ha ceduto ai moti della folla; l’uomo,
come uno stato, è in lotta con se stesso.
Questo confronto ci appare oggi non più che una suggestiva e pittoresca metafora.
Proveremmo una certa sorpresa nel sentirlo abbozzare e sviluppare in una predica, ma rimarremo
certamente assai stupiti di trovarlo usato, come filo conduttore teorico di un manuale di
psicologia; non per nulla abbiamo avuto un paio di secoli di teorie psicologiche, le cui strutture
sono state prese a prestito dalla meccanica, dalla chimica e, più di recente, dalla biologia; e
abbiamo anche avuto circa un paio di secoli di schemi di idee religiose e teologiche, le cui
strutture teoretiche, non certo riprese da una scienza, non furono ricavate neppure da alcun
gruppo di idee politiche e legali della Grecia o di Roma.
Nondimeno, noi continuiamo ad avere i nostri momenti platonici — momenti invero nei quali
sembra assai meno eccessivamente ricercato descrivere un uomo, la cui collera abbia infranto
ogni controllo, per analogia con una émeute in uno stato, che non per analogia con, diciamo, un
non-equilibrio fra due forze. In particolare le nostre opinioni morali meglio si adattano
all’inclinazione di voce dell’orazione politica che non a quella della spiegazione meccanica.
Non dobbiamo preoccuparci qui di cercare parafrasi grossolane per rappresentare il controllo
e la perdita di controllo della collera e del terrore in termini di mantenimento e rottura della legge
e dell’ordine. Il mio assunto immediato è che questa rappresentazione stessa è stata incapace di
fornire un domicilio politico acconcio al piacere. Se, per resuscitare una parola ormai antiquata,
noi attribuiamo il nome di ‘passioni’ agli agenti potenzialmente sovversivi di
un uomo, e cioè, precisamente il terrore, la collera, l’allegria, l’odio, il disgusto, la
disperazione e l’esultanza, allora godere o detestare qualcosa non vuol dire essere vittime di una
passione. Terrore, collera ed allegria possono essere parossismi o frenesie. Una persona in tale
stato, per tutto il tempo in cui vi si trova, perde la testa o le viene a mancare il terreno sotto i
Ryle, ‘Il piacere’
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piedi. Se una persona è perfettamente padrona di sé nelle sue deliberazioni e azioni, non può
(non può, dico, logicamente) essere descritta come in collera, agitata o in preda al panico. Certi
gradi di pazzia temporanea sono, per definizione implicita, un aspetto intrinseco alle passioni, in
questo senso di ‘passione’. Ma nessuna di simili connotazioni si addice al piacere — per quanto
esse, naturalmente, si addicano a condizioni come trasalimenti, estasi, raptus e convulsioni. Chi
prende parte attiva a una conversazione o a un gioco provandone grande diletto, non per questo
perde completamente il ben dell’intelletto. Altrimenti, quanto più una persona fosse appassionata
per il gioco del golf o per il violino, tanto meno sarebbe capace di giocare a golf o di suonare il
violino in modo intelligente. Se godere di qualcosa con una certa intensità equivalesse ad esser
fuori di sé in pari misura, si dovrebbe essere dissennati per tutto il tempo dedicato alle proprie
occupazioni preferite. Lasciarsi completamente assorbire da qualcosa implicherebbe la completa
incapacità di pensare a ciò che si sta facendo; e questo è assurdo. Una calma completa non
esclude un grande piacere. Il concetto di godimento rifiuta di passare attraverso lo stesso cerchio
logico in cui passano la collera, la disperazione, il panico o il giubilo. Non è neppure un placido
abbandono, poiché non è affatto un abbandono. Il godimento non è qualcosa che noi reprimiamo
o non riusciamo a reprimere, che soffochiamo o non riusciamo a soffocare, che controlliamo o
non riusciamo a controllare. Se ci proviamo con tutte le forze, o persino blandamente, ad
esprimere la costituzione del microcosmo umano sullo sfondo delle lettere, ben più grandi, del
macrocosmo politico, forse riusciremo a leggere alcune delle relazioni fra governanti e governati
in alcune delle relazioni fra le deliberazioni di un individuo e le sue passioni. Ma le preferenze e
le avversioni di un individuo non sono delle repliche in miniatura di elementi di quella struttura
politica. Il nostro puledro concettuale mal si adatta a questi finimenti presi in prestito proprio
come mal si adattava a quelli della dinamica psicologica del XIX secolo.
Ma non dobbiamo mostrarci ingrati all’una o all’altra di queste gualdrappe prese in prestito.
Noi impariamo a conoscere le capacità di uno strumento preso in prestito proprio mentre
impariamo a conoscere i suoi limiti e scopriamo le proprietà di un determinato materiale sia
quando scopriamo come e perché lo strumento preso in prestito non ha efficacia su di esso, sia
quando viceversa scopriamo come e perché ne ha. Alla fine siamo in grado di progettare lo
strumento appropriato a quel materiale — alla fine, ma mai al principio. Al principio dobbiamo
ancora scoprire le primissime cose sui modi in cui si può o no utilizzare quel materiale; e
facciamo questa esplorazione servendoci di arnesi con i quali abbiamo già appreso a lavorare
altri materiali. Non v’è altro modo di cominciare.
La nozione di piacere ha smesso ai nostri giorni di essere tema di controversie brucianti;
anche se, a mio avviso, non per la ragione che filosofi, predicatori, psicologi, economisti ed
Ryle, ‘Il piacere’
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educatori si siano alla fine messi d’accordo sul suo ruolo logico. Essi hanno, mi sembra, lasciato
cadere l’argomento, perché i pensatori del XIX secolo lo hanno seppellito. Esso fu impiegato
come la loro cameriera tuttofare, che sempre rovinò i compiti per i quali i dottrinari dichiararono
che avesse qualificazione adeguata.
Per riprendere un filo che ho lasciato andare in un passo precedente, possiamo dire che i
concetti di godimento e disgusto sono stati erroneamente presentati come appartenenti alla stessa
categoria del dolore fisico; alla stessa categoria di quel genere di accadimenti che vengono
classificati come cause ed effetti di altri accadimenti; e alla stessa categoria di passioni come
terrore, disappunto, avversione o giubilo. Dire questo è quanto dare la promessa generale che si
troveranno dei modi nei quali i concetti di godimento e avversione opporranno resistenza a ogni
tentativo di attribuire loro anche soltanto una rozza parità di manipolazione discorsiva con i
concetti di queste altre famiglie. Le discipline logiche che controllano queste ultime, non sono in
grado di controllare quelli. I dilemmi derivano dall’attribuzione erronea di analogie di
ragionamento. La maggior parte degli interrogativi concernenti una persona che potrebbero
ricevere risposta, vera o falsa, da enunciati intorno alle sue sensazioni, oppure, il che è del tutto
diverso, da enunciati intorno alle sue estasi, ai suoi accessi di collera o alle sue esplosioni, non
potrebbero ricevere risposta, né falsa né vera, da enunciati intorno alle sue preferenze e alle sue
avversioni; e viceversa. Il portiere di cricket non fa una ‘renonce’, né ‘risponde al colore’; egli
non compra né vende, non dichiara nessuno colpevole, né dimette dietro cauzione; si trova
proprio in tutt’altro piano di affari.
174
Robert Nozick (1938-2003)
Anarchia, Stato e Utopia (1974)
Traduzione Elena e Gaspare Bona
Cap. 3 § 6 (La macchina dell’esperienza)
Ci sono anche enigmi sostanziali quanto ci chiediamo che altro importi se non il modo in cui le
persone sentono ‘da dentro’ le esperienze. Si supponga che ci sia una macchina dell’esperienza
che ci procuri qualunque esperienza desideriamo. I neuropsicologi eccezionali potrebbero
stimolarci il cervello in modo che pensiamo e sentiamo di scrivere un grande romanzo, o
stringere un’amicizia, o leggere un libro interessante. Per tutto il tempo galleggeremmo in una
vasca, con elettrodi attaccati al cervello. Ci collegheremmo a questa macchina per tutta la vita,
programmandone in anticipo le esperienze? Se ci crucciamo perché non riusciamo ad avere
esperienze desiderabili, si può supporre che imprese commerciali abbiano indagato
esaurientemente la vita di molti altri. Possiamo scegliere con cura nella loro vasta biblioteca su
tali esperienze, selezionando le esperienze della nostra vita per, diciamo, due anni. Passati due
anni, staremo dieci minuti o dieci ore fuori della vasca, per selezionare le esperienze dei nostri
prossimi due anni. Naturalmente, mentre siamo nella vasca, non sappiamo d’essere lì: penseremo
che tutto stia realmente accadendo. Anche altri possono collegarsi per avere le esperienze che
desiderano, quindi non è necessario che stacchiamo il nostro collegamento per permettere loro di
servirsene. (Non chiedetevi chi farà funzionare le macchine se tutti si collegano). Vi
colleghereste a quella macchina? Che altro può importarci, se non come sentiamo la nostra vita
dall’interno? E non dobbiamo certo rinunciare a causa dei pochi attimi di sconforto tra il
momento in cui ci risolviamo e il momento in cui ci colleghiamo. Che cosa sono pochi attimi di
sconforto in confronto a una vita intera di beatitudine (se è questa che scegliamo), e perché poi
dovremmo provare sconforto se la nostra decisione è la migliore?
Che cosa ci importa oltre alle nostre esperienze? In primo luogo, desideriamo fare certe cose,
e non soltanto avere l’esperienza di farle. Nel caso di certe esperienze, è soltanto perché
vogliamo prima di tutto compiere le azioni, che desideriamo le esperienze di farle o di pensare di
averle fatte. (Ma perché desideriamo svolgere le attività invece di sperimentarle
semplicemente?). Un secondo motivo per non collegarci è il fatto che desideriamo essere in un
certo modo, essere un certo tipo di persona. Uno che galleggia in una vasca è un’inezia
insignificante. Non si può rispondere alla domanda su come sia una persona che è stata a lungo
nella vasca. È coraggiosa, gentile, intelligente, spiritosa, affettuosa? Non è solamente. difficile
dirlo, quella persona non è niente. Collegarsi alla macchina è una specie di suicidio. Ad alcuni,
Nozick, ‘La macchina dell’esperienza’
175
vittime di un’immagine, sembrerà che non possa avere importanza quel che siamo, tranne in
quanto si riflette nelle nostre esperienze. Ma sorprenderebbe che quel che siamo sia per noi
importante? Perché dovrebbe interessarci soltanto come riempiamo il nostro tempo, e non quel
che siamo?
In terzo luogo, il collegamento a una macchina delle esperienze ci limita a una realtà fatta
dall’uomo, a un mondo non più profondo e non più importante di quello che possiamo costruire1.
Non c’è vero contatto con una qualsiasi realtà più profonda, benché si possa simularne
l’esperienza. Molte persone desiderano essere disponibili a tale contatto e a scendere nel
profondo*. Questo chiarisce l’intensità dei contrasti circa i farmaci psicoattivi, che secondo
alcuni non sono che macchine locali dell’esperienza, e secondo altri sono una via verso una
realtà più profonda: quel che, a parere di qualcuno, equivale ad arrendersi alla macchina
dell’esperienza, per altri insegue una delle ragioni di non arrendersi!
Impariamo che, oltre all’esperienza, qualche cosa d’altro ha importanza per noi,
immaginando una macchina dell’esperienza e poi accorgendoci che non la useremmo. Possiamo
continuare a immaginare una serie di macchine, ciascuna ideata in modo da riempire le lacune
scoperte nelle macchine precedenti. Per esempio, dal momento che la macchina dell’esperienza
non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo, immaginate una macchina di
trasformazione, che ci trasformi in qualunque tipo di persona ci piaccia essere (compatibilmente
con il rimanere noi stessi). Sicuramente non useremmo la macchina di trasformazione allo scopo
di diventare come desideriamo, e per poi collegarci alla macchina dell’esperienza**! Quindi c’è
1 Questo punto mi fu suggerito da Mr. Thom Krystofiak (nota dell’autore).
* Le dottrine religiose tradizionali differiscono sul punto di contatto con una realtà trascendente. Alcune dicono che
il contatto produce eterna beatitudine o Nirvana, ma non l’hanno distinto sufficientemente da un semplice
periodo molto lungo nella macchina dell’esperienza. Altre dottrine pensano che sia intrinsecamente desiderabile
fare la volontà di un essere superiore che ci ha creati tutti, quantunque, presumibilmente, nessuno lo penserebbe
se scoprissimo di essere stati creati come oggetto di divertimento da qualche fanciullo ultrapotente proveniente
da un’altra galassia o da un’altra dimensione. Altre ancora immaginano un confondersi finale in una realtà
superiore, lasciando poco chiara la sua desiderabilità, o dove ci lasci tale fusione (nota dell’autore).
** Qualcuno non userebbe affatto la macchina della trasformazione: gli sembrerebbe d’imbrogliare. Ma l’uso per
una sola volta della macchina della trasformazione non eliminerebbe tutte le discussioni; il nuovo noi avrebbe
ancora da superare ostacoli, ci sarebbe un nuovo livello da cui impegnarsi a salire ancora. E questo livello è
forse guadagnato o meritato meno di quello cui contribuiscono il corredo genetico e l’ambiente della prima
infanzia? Ma se la macchina della trasformazione potesse essere usata spesso e a tempo indeterminato, in modo
che fosse possibile compiere qualsiasi cosa, premendo un bottone e trasformandoci in qualcuno che la
Nozick, ‘La macchina dell’esperienza’
176
qualcosa che ha importanza, oltre alle proprie esperienze e a come si è. E questo non solo per il
motivo che le proprie esperienze non sono collegate a come si è. Infatti la macchina
dell’esperienza potrebbe essere ridotta a provvedere soltanto esperienze possibili al tipo di
persona che vi è collegata. Desideriamo forse rendere diverso il mondo? Si consideri allora la
macchina del risultato, che produce nel mondo qualunque risultato vogliamo produrre e inserisce
il nostro vettore degli input in ogni attività collettiva. Non ci addentreremo qui negli affascinanti
particolari di queste o di altre macchine. Ciò che più ci disturba in queste macchine è il fatto che
vivano per noi la nostra vita. E’ sbagliato cercare particolari funzioni supplementari che vadano
oltre la competenza delle macchine ad agire per noi? Forse desideriamo proprio vivere (verbo
attivo) noi stessi, in contatto con la realtà. (E questo le macchine non possono farlo per noi).
Senza elaborare ciò che questo implica, che secondo me ha sorprendenti collegamenti con le
questioni del libero arbitrio e le spiegazioni causali della conoscenza, occorre soltanto che
notiamo la complessità del problema di che cosa abbia importanza per le persone oltre le loro
esperienze. Finché non si scopre una risposta soddisfacente, e non si determina che questa
risposta non si applica anche agli animali, non si può ragionevolmente pretendere che soltanto le
esperienze sentite dagli animali limitino quel che possiamo fare loro.
compirebbe facilmente, non rimarrebbero limiti che ci occorra oltrepassare o tentare di superare. Ci rimarrebbe
qualcosa da fare? Forse alcune dottrine teologiche mettono Dio fuori del tempo perché un essere onnisciente e
onnipotente non saprebbe come riempire le sue giornate (nota dell’autore).