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GIUSEPPE ZENTI VESCOVO DI VERONA PER UNA POLITICA VIRTUOSA

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Giuseppe zentiVesCoVo di Verona

PER UNA POLITICA VIRTUOSA

N. 11 - “Per una politica virtuosa” (30 novembre 2013)

Scuola di Atene, Raffaello Sanzio (1509-1511 c.a.)Musei Vaticani - Città del Vaticano

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Verona, 21 maggio 2013

Omelia per la festa di S. Zeno

IL CONTRIBUTO DELLA FEDE CRISTIANA AL BUON VIVERE SOCIALE CIVILE

Carissimi, alla presenza sempre gradita del-le autorità civili e militari, a cui va uno spe-ciale saluto deferente, con questa solenne

concelebrazione eucaristica, in coincidenza con la festa del patrono della città e della diocesi di Ve-rona, San Zeno, sigilliamo anche l’anno zenonia-no, nel quale ci è stata data la grazia di giungere alla sostanziale certezza scientifica dell’autenticità delle sue reliquie, che abbiamo voluto poi portare in peregrinazione per la diocesi, accolte da una significativa partecipazione di popolo, proprio nel mille seicento cinquantesimo della sua ordinazio-ne episcopale.

Suo ottavo vescovo, Zeno “ricondusse Verona alla fede” (cfr ritmo pipiniano). Fede autentica ed integra. Apostolica, per esprimerci attraverso l’immagine dei dodici basamenti della nuova Ge-rusalemme di cui ha parlato il testo dell’Apoca-lisse. Anzi, diciamo con maggior precisione: fede capace di incidere nella vita personale, confor-mandola al progetto di Dio sull’uomo, e nelle rela-

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zioni con il prossimo, al punto da essere l’anima di una società in grado di rispondere al piano di Dio sull’umanità nel suo risvolto sociale civile.

A ragion veduta noi definiamo il vescovo Zeno padre dell’autenticità della nostra fede, che è in grado di assicurare un singolare apporto al buon vivere sociale civile, specialmente in tempi di crisi valoriale, oltre che economica, o economica quale effetto di quella valoriale, come quelli che stiamo attraversando, nei quali resta ignota persino la rotta da perseguire.

Un tale apporto viene assicurato grazie al fatto che la fede cristiana per sua natura è inseparabi-le dalla carità, da S. Zeno definita “l’essenza del cristianesimo” (Tr 36, 6.19), che si traduce in soli-darietà verso la collettività sociale. Quella stessa solidarietà che S. Zeno, commosso, riscontrava viva nei suoi cristiani: “Le vostre case sono aperte a tutti i viandanti. Ormai i nostri poveri ignorano che cosa sia mendicare il cibo; ormai le vedove e i bisognosi (di un tempo) redigono testamento. Potrei dire di più in lode di questa vostra felice generosità, se non foste miei” (Tr 14, 5.8).

Se pertanto la fede cristiana per natura sfocia nella solidarietà fraterna, non c’è dubbio che di-venta un punto di onore da parte di chi si ispira alla fede cristiana farsi carico delle condizioni di vita della gente.

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Entriamo così nel circuito dell’impegno del lai-co cristiano, adulto nella fede, negli ambiti della laicità, cioè del suo vivere quotidiano, di qualun-que genere e natura. Precisando subito che di un cristiano adulto nella fede, cioè capace di coniuga-re la sua appartenenza alla comunità cristiana in quanto battezzato e la sua appartenenza alla città dell’uomo, in quanto cittadino, non c’è mai da te-mere. Come gli sta a cuore sommamente il destino della Chiesa, non meno gli sta a cuore il destino della società civile. E se ne fa carico, mettendo a servizio della collettività la sua competenza e la sua passione. Non si estranea dalle problematiche della gente di cui lui stesso è impastato. Ama la gente. Per essa sa anche sacrificarsi.

Egli è capace di immettere nel tessuto sociale, politico, economico, culturale i principi vitali del-la speranza come motore e di una fede autentica come anima della civiltà. Si tratta di persone cui la società stessa può dare un credito di fiducia, visto che la fede li abilita ad avere una marcia in più nel servire la società. Forse si dovrebbero valutare anche in termini di merito, quando si spendono senza riserve di competenza e di generosità.

Evidenziamo allora le ricadute della fede cri-stiana sulla qualità della vita feriale, grazie all’es-sere del laico cristiano dentro la realtà, dove lui, e non noi ordinati – presbiteri e vescovi – ha com-petenza: semmai noi abbiamo il dovere, connesso

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con la competenza di presidenti della comunità, di formare i laici ad essere all’altezza dei loro compiti dando loro le linee orientative, la cui concretizza-zione è di loro competenza.

Proprio la sua fede gli fa riconoscere senza equi-voci la legittima autonomia delle realtà terrene (cfr GS 34), cioè degli ambiti della laicità secondo la terminologia del Convegno ecclesiale di Verona del 2006, quali la politica, l’economia, la ricerca scientifica con le sue realizzazioni, gli ambiti della salute e della giustizia, del lavoro e della festa, del-la fragilità… mentre fa coscienza al laico cristiano che anche le realtà terrene hanno come autore Dio (cfr GS 36).

Proprio per questo, quando le realtà terrene, sotto la spinta di interessi umani o a causa dello smarrimento delle coscienze etiche, si alterano, allontanandosi dalla loro originarietà creaziona-le, i laici cristiani, mediante la presenza, la rifles-sione e la competenza dell’agire, si impegnano a risanarle, con grande senso di responsabilità, in modo che rimangano al servizio esclusivo della dignità dell’uomo, il quale “vale più per quello che è che per quello che ha” (GS 35). Ci bastino alcune esemplificazioni per riconoscere l’alto com-pito del laico cristiano nei riguardi del buon vivere sociale, al cui servizio pone la sua competenza e l’integrità della sua fede cristiana. Di fronte, ad esempio, alla tendenza sempre più agguerrita e

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ruggente all’individualismo, egoista ed utilitari-sta, fenomeno indiscutibile della postmodernità che sta corrodendo come un tarlo il senso stesso del vivere sociale, di qualunque connotazione sia, l’ispirazione al patrimonio cristiano rende il laico cristiano sollecito a riportare alto, soprattutto con la sua testimonianza, il senso civico, intessuto di diritti e, inscindibilmente, di doveri negli ambiti del confronto culturale. Per il cristiano infatti il senso comunionale-comunitario è insito nel suo essere battezzato, membro di un corpo ecclesiale. Vivendo intensamente il suo essere battezzato dà dunque un notevole contributo al senso sociale. Il battesimo, infatti, è decisamente un anticorpo rispetto ad ogni forma di individualismo.

Estendiamo il panorama. Di fronte al pericolo sempre più incombente di trasformare la politi-ca in politicismo, l’economia in economicismo, le finanze in finanziarismo, la laicità inclusiva in laicismo esclusivo di ogni riferimento al religioso e al trascendente, l’identità sessuata della perso-na umana in un possibile ibridismo da gender, la famiglia monogamicamente stabilita sul piano civile o religioso in famiglia allargata o non più necessariamente differenziata nella sessualità, al cristiano, che conosce l’autenticità originaria delle realtà umane sopraddette, compete contribuire in modo decisivo alla loro attuazione e valorizzazio-ne. Appunto in vista del vero bene della società stessa.

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Segnalo altre situazioni, di urgente e improro-gabile attualità, nelle quali al cristiano laico non è lecito essere assente anche in quanto cristiano: l’occupazione e la scuola! Nell’ambito dell’occu-pazione, in un confronto dialogico propositivo con tutte le possibili competenze in campo, il cristiano laico escogita le soluzioni, anche ardite nella loro genialità, di lunga e stabile durata, ispirandosi al patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, non lasciando questa frontiera della civiltà in balia dei giochi malvagi di chi approfitta delle disgra-zie altrui, e persino delle guerre, per le sue inique speculazioni.

Nell’ambito della scuola. Con quanti hanno a cuore il futuro educativo delle generazioni dei giovani, i cristiani laici si adoperano perché l’isti-tuzione scuola, nella sua dimensione statale o pa-ritaria - quella cattolica è stata definita da papa Francesco un patrimonio per tutta la nazione - assurga all’altezza del suo compito, nonostante il travaglio di una crisi generale, al fine di mettere le famiglie degli studenti nella condizione di fare una scelta libera conforme ai propri convincimenti pedagogici, e gli studenti stessi nella situazione di dare il meglio di sé per diventare comunque citta-dini responsabili e protagonisti del loro futuro.

Semmai, se uno speciale contributo può essere assicurato dal laico cristiano alla realizzazione dei valori umani strumentali della secolarità, è quello

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di far risaltare una priorità, che ha la sua matrice ispirativa nel patrimonio specificamente cristiano: quella dell’attenzione premurosa verso gli ultimi, i diseredati, i disperati, i disabili, come garanzia e cartina di tornasole del senso di corresponsabilità nei confronti dell’intera società civile.

È questo il campo di azione immediato e quali-ficante del laico cristiano. È lì soprattutto che egli si santifica. Non gli basta, e al limite poco gli giova, essere cristiano praticante se poi negli ambiti del-la laicità di sua competenza non lo è in modo si-gnificativo e avvincente con una testimonianza di impegno e di corresponsabilità che a lungo andare non può non essere presa in considerazione anche dai non credenti e agnostici. Proprio sull’esempio di tanti cristiani laici che vivendo nelle realtà del mondo hanno dato una testimonianza singolare di impegno civile. Uno per tutti, ma potremmo aggiungervi anche qualche bel nome di nostri con-cittadini, il beato Giuseppe Toniolo, economista. Simili cristiani sono sempre una splendida risorsa per tutti. La loro testimonianza mostra il volto umano del patrimonio cristiano e la sua forza uma-nizzante, come estremo baluardo dell’umanesimo civile. Sono davvero degli alfieri sulle frontiere dell’evangelizzazione. Non sono infatti cristiani di anagrafe e di facciata, ma di sostanza e di coeren-za. E se vanno alla messa e pregano molto lo fanno proprio in vista di essere cristiani adulti nella fede negli ambiti del loro vivere quotidiano.

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Ci ottenga il dono di tali laici cristiani, tutti d’un pezzo, il patrono, civile e religioso, S. Zeno. Per il bene essere della società civile di Verona e come documentazione dell’efficacia della formazione cristiana dei laici agli effetti di un buon vivere so-ciale civile.

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Verona, 05 ottobre 2013

Inaugurazione della scuola di formazione all’impegno sociale

e politico 2013/2014

LA FAMIGLIA PERNO E VOLANODELLA SOCIETÀ CIVILE

È mia ferma convinzione che se alla famiglia come istituzione sarà riconosciuto il ruolo di perno della società civile, nei suoi risvolti

caratteristici degli ambiti del sociopolitico cultu-rale economico, essa sarà anche il volano del loro improrogabile rinnovamento. A tale proposito, lo stesso papa Francesco ad Assisi, rivolgendosi alle Istituzioni civili così si è espresso: “Dobbiamo mettere al centro dell’attenzione e sociale e poli-tica le persone più svantaggiate, le famiglie non siano lasciate sole” (Assisi 4 ottobre 2013).

Sta di fatto che siamo lontani anni luce da que-sto obiettivo. In quanta considerazione sia tenuta oggi la famiglia con tutto il complesso delle sue problematiche è dimostrato dallo spazio riservato dalle testate mediatiche, eccezione fatta per quelle cattoliche, alla 47° Settimana sociale dei Cattolici italiani che si è svolta a Torino nel settembre scor-

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so sull’argomento: “La famiglia, speranza e futuro per la società italiana”: praticamente nulla! Sem-bra quasi che la famiglia Istituzione dia fastidio, sia una realtà da seppellire nel passato o che sia riserva di caccia della Chiesa Cattolica. Quanto poi sia oggetto di attenzioni da parte della politica lo si constata dalla legislazione di questi ultimi de-cenni sostanzialmente estranea alla famiglia.

Di fronte a tanto e stridente assenteismo media-tico e politico, la Chiesa non teme di riproporre, come paladina della civiltà, il valore della famiglia edificata sul matrimonio, benché questa dimen-sione dell’essere sociale dell’uomo sia un dato in se stesso semplicemente umano, non targabile da nessuna religione. In realtà, la Chiesa si fa carico della dimensione “naturale, umana” della famiglia sia perché è sempre schierata dalla parte del bene dell’umanità che prevede come suo fondamento il senso della famiglia, sia perché è consapevole che il matrimonio sacramento si innesta su una realtà umana, quella di una coppia di nubendi predispo-sti al matrimonio, elevando gli sposi cristiani ad una sublimità di condizione sponsale da essere la trasparenza sacramentale dell’amore di Cristo per la sua Chiesa (cfr Ef 5, 32).

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Un eccellente intervento di Zamagni sulla dimensione economica della famiglia

Per dare sviluppo a questa tematizzazione, solo apparentemente da utopia, mi sia consentito an-zitutto di esporre per flash un significativo ed ec-cellente apporto di riflessione offerto da Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica dell’Uni-versità di Bologna, nella sua applaudita relazione tenuta alla citata 47° settimana sociale dei Cattolici italiani sull’argomento a lui affidato: “Le politiche familiari per il bene comune” (13 settembre 2013).

Ecco nei punti nodali il suo ragionamento. Oc-corre, ha esordito, passare da una politica per la famiglia come destinataria dei residuati asfitti-ci delle premure e delle risorse di uno stato ad una politica della famiglia intesa come sogget-to originario di risorse, riscoprendola e valoriz-zandola come il massimo generatore di capitale umano, sociale, relazionale. Di conseguenza, oc-corre riportare la famiglia al centro della politica come soggetto produttore anche di economia, non meno delle imprese aziendali, e non esclu-sivamente come destinataria di consumo. No-nostante tutto, anche allo stato attuale delle cose la famiglia è soggetto produttivo per eccellenza, capace di contribuire ad un quarto del Pil nazio-nale, anche se il lavoro svolto in casa, a differenza di quello compiuto ad esempio dalle colf, non entra nel calcolo del reddito nazionale. Infine,

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occorre passare da politiche settoriali, a segmenti (per bambini, giovani, anziani, disabili..), cioè da “una considerazione delle famiglie come settore ad una visione della famiglia come criterio di misura di tutta l’azione politica”, come ebbe a precisare Giovanni Paolo II a vent’anni dalla Fa-miliaris Consortio.

Ne consegue che gli stessi contributi da parte dell’istituzione statale per la famiglia non sono un mero atto di compassione, ma una doverosa resti-tuzione e compensazione per quanto la famiglia è e per quanto fa e produce. Se poi consideriamo il rapporto famiglia fisco, grazie alla sua valenza so-ciale la famiglia va trattata con particolari attenzio-ni, quanto meno non va discriminata persino nei confronti della cultura del single cosicché, precisa Zamagni, “le unioni civili possono essere titolari di due prime case; possono beneficiare della du-plicità di agevolazioni per le utenze domestiche; conservano separati i propri redditi ai fini fiscali, godono riduzioni sulla tassa rifiuti..”. Quale equi-tà fiscale si sta imponendo? Gravemente lesiva del valore famiglia.

Va da sé che se la famiglia viene riconosciuta nel suo ruolo sociale, lo stato deve trovare solu-zioni adeguate per conciliare famiglia e lavoro, famiglia e carriera femminile. Aggiungo io: deve assicurare lavoro a chi ha famiglia, a partire da chi è preparato a farsi una famiglia, istituzione

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essenziale e originaria di bene essere dell’intera società civile.

Zamagni non esita a schierarsi per una famiglia che ha forte senso di appartenenza; aperta alla natalità come ricchezza; capace di calibrare pro-fessionalità lavorativa con senso di responsabilità familiare. Ed invita lo stato ad attuare quella sus-sidiarietà nei confronti delle famiglie, come effetto di una politica lungimirante, che lo farebbe uscire dalle secche in cui proprio, soprattutto, la margi-nalizzazione della famiglia l’ha trascinato.

A questo punto risulta ancor più provocante la questione posta da Zamagni: “Sorge spontanea la domanda: come è possibile che la società con-temporanea sempre più tesa a ‘individualizzare gli individui’ – come si esprime Bauman – riesca a conservare l’identità della famiglia, scongiuran-do il rischio dell’alterazione del suo genoma? In un contesto quale quello odierno, profondamente segnato da fenomeni quali la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale, si può pensare e spe-rare che, mediante l’approntamento di adeguate politiche familiari, si riesca a rafforzare la frui-zione del bene umano comune della famiglia?”. Sono domande che attendono risposte adeguate, di fronte ad una cultura della medianicità e della politica, a livello europeo se non mondiale, che sta andando in senso contrario alla cultura della famiglia.

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La famiglia e il bene essere della società civile

A seguito di questo rapido excursus, non in-tendiamo improntare un discorso ideologizzato e preconcetto né far suonare le trombe per una crociata a favore della famiglia. Stiamo ai dati che la storia ci offre. Il bene essere dei singoli coincide con il bene essere delle famiglie nel loro insieme e di quello della propria famiglia di origine in par-ticolare. Solo l’insieme di famiglie che godano al loro interno un bene essere relazionale è garanzia di un bene essere relazionale sociale.

Ora, se vi è ampia condivisione sul fatto che la miglior condizione di vita per la persona umana è quella di vivere in una famiglia ben riuscita, per-ché di fatto a livello culturale, sociale, politico ed economico la famiglia, denominiamola pure doc cioè conforme alla sua identità originaria di ma-schio e femmina aperti alla trasmissione della vita, è marginalizzata e persino contrastata? Chi ne ha l’interesse? Perché non si opera concordemente per mettere le famiglie nelle condizioni migliori per essere ben riuscite?

Non a caso ho messo a capocordata delle que-stioni problematiche che riguardano la famiglia l’aspetto culturale. Se infatti, nonostante l’articolo 34 della Costituzione, proprio la marginalizza-zione della famiglia e la conseguente deriva di interesse nei confronti della famiglia da parte del-

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la politica, dell’economia e del sociale ha inge-nerato una diffusa cultura di presa di distanza fino allo snobbamento della famiglia, ritenuta un istituto antiquato destinato a scomparire o quanto meno un fatto relegato al privato, grazie anche alla connivenza di Media che a questa cultura hanno fatto ponti d’oro, è altrettanto vero che una volta radicata la cultura dell’antifamiglia, o della non famiglia, per essere più precisi, se ne incrementa il sostanziale disinteresse della politica, dell’econo-mia e del sociale.

In realtà, se la famiglia istituzione, che con-tempera un uomo e una donna aperti alla tra-smissione della vita, come segno e monumento alla fecondità del loro amore e sigillo della loro fedeltà, favorita nella sua realizzazione dalla po-litica, dall’economia e della cultura, resta per es-senza la cellula generatrice di capitale umano, senza il quale la società sarebbe costretta a spe-gnersi, e di relazioni coese, cimentate dal sangue, essa non può che essere riconosciuta e salutata come il nucleo del bene essere del vivere sociale civile. Se per ipotesi una società fosse costitui-ta da un insieme di famiglie riuscite nello loro identità, quella società sarebbe davvero altamen-te civile. Non avrebbe bisogno nemmeno delle forze dell’ordine. Il senso solidaristico ne sarebbe semplice conseguenza. Il senso della giustizia e dell’equità sarebbe un fatto normale. Le grosse anomalie e le assurde situazioni di asocialità o

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antisocialità hanno radici in realtà non assimi-labili a famiglie sane. Di fatto la qualità di una società è la risultanza dell’insieme delle sue fami-glie o delle non famiglie, soprattutto di quell’in-dividualismo imperante e pervasivo che dello spirito di famiglia è il virus letale, come lo è della stessa società, nella quale chi è affetto di egoismo individualista si comporta da parassita. Come a dire che il volto bello di una società è dato dalle famiglie ben riuscite. Mentre quello abbruttito è dato dalle famiglie sfasciate, alle quali non pos-siamo che esprimere vicinanza e comprensione, dalle non famiglie e dall’individualismo.

Viene spontaneo attribuire al mancato spirito di coesione proprio dell’essere famiglia la crisi della politica schierata su fronti di opposizione invece che essere polo di forti alleanze finaliz-zate alla soluzione dei problemi della società: anche le ripetute e sempre incombenti crisi di governo stanno ad indicare che davanti agli occhi dei parlamentari e dei governanti, almeno in una consistente maggioranza, non c’è l’insieme delle famiglie, o non ne è ampiamente condivisa l’at-tenzione, con il suo volto teso dall’esasperazione e le lacrime agli occhi, supplichevole. Simili os-servazioni si potrebbero applicare all’attuale sfo-camento dell’economia e delle finanze che hanno perduto la bussola della loro funzione sociale, sostituita dagli interessi individuali, di parte, di lobby, fino alle speculazioni più vergognose. Ai

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loro occhi la famiglia non esiste e, di conseguen-za, non se ne sentono interpellate.

Quanto invece la famiglia sia ancor oggi im-portante, valida e insostituibile, potremmo defi-nirla soggetto politico, economico e sociale, è un dato di fatto convalidato dal risultare, anche in questo fin troppo prolungato tempo di crisi eco-nomico occupazionale, un importante ammor-tizzatore sociale nei confronti dei disoccupati, non ancora pensionati. Quanti, pensiamo sem-plicemente al nostro territorio, stanno trovando possibilità di sopravvivenza nelle famiglie di origine che, come vedremo tra poco, hanno pa-trimonializzato i loro risparmi e sono disposti a mettere a disposizione persino le pensioni, non di rado striminzite, in funzione dei figli, magari anche sposati, in stato di precarietà o di miseria! E che dire delle famiglie che hanno a carico un figlio o più figli disabili, con disabilità fisiche o mentali, senza godere di un adeguato intervento di assistenza?

La famiglia protagonista del miracolo economico del Nord Est

A questo punto, proprio in considerazione del valore aggiunto della famiglia, anche come am-mortizzatore sociale, viene al naturale in mente quel genere di famiglia che ha caratterizzato il Nord Est, dagli inizi degli anni sessanta, gli anni

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del boom economico. È stata la famiglia coesa il vero protagonista del “Miracolo del Nord Est”.

Che forza produttiva ha dimostrato il Nord Est nei decenni passati, mezzo secolo circa, grazie alla cultura della famiglia dove vigeva la legge dell’uno per tutti e tutti per uno? Grazie a quella famiglia che si mostrava fiera di essere imprendi-trice geniale, sia nelle imprese a carattere artigia-nale sia in quelle agricole, capace di concorrenza, e soprattutto determinata ad affrontare il nuovo tutti uniti, orientati tutti ad un medesimo obietti-vo! Sono state famiglie di grande audacia impren-ditoriale, di notevoli doti di abilità, anche se non sempre con una elevata cultura. Sorrette da buon senso, da instancabile laboriosità, da indomita vo-lontà di riuscita, da orgoglio di uscire dalla crisi postbellica. Sono state famiglie che hanno saputo coinvolgere nell’impresa familiare anche i loro fi-gli, fin da piccoli, per appassionarli ad un’impresa che, nella fatica ma anche con tante soddisfazioni, apriva loro un futuro di sicurezza economica, e per far conoscere loro, come si diceva un tempo, quanto costa il sale. Aspetto, quest’ultimo, di forte valenza pedagogica: fin da bambini si era allenati a sentire le vicende della famiglia come proprie; a non avanzare pretese; ad essere protagonisti di impresa. E i genitori non avevano paura di mette-re al mondo figli, che consideravano la loro vera ricchezza. In questo contesto di cultura della fa-miglia si comprende anche l’impegno dei genitori,

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mai disgiunto da sano orgoglio di farcela, senza sussidi statali, di costruire una casa, un apparta-mento per i figli a mano a mano che si sposavano.

Davvero un sistema virtuoso! Antiparassitario. Antinflazionistico. Produttivo ad oltranza. Capace di spendere e di risparmiare, di tesaurizzare per le evenienze, per gli imprevisti, per mettere al sicuro il futuro. Frutto di passione e di coraggio, mai di-sgiunto da un profondo senso di fede, oltre che di genuina religiosità.

Purtroppo, specialmente dallo scoppio della bolla speculativa di cinque anni fa, la cieca pres-sione fiscale che non ha distinto situazione da si-tuazione, davvero insopportabile in situazioni di aziende già in crisi; l’indisponibilità degli istituti di credito che, precettati dall’alto, hanno improv-visamente chiuso tutti i rubinetti, dopo aver invo-gliato con incentivi puramente virtuali le piccole aziende, oltre che le famiglie e i singoli clienti, illu-dendole; il sistema sotterraneo dei prestiti ad usu-ra.. tutto ha contribuito alla crisi economica anche delle aziende a conduzione familiare. A queste cause, in qualche modo esterne, è doveroso ag-giungerne altre di carattere più interno. Purtroppo non sempre e non ovunque i figli sono stati all’al-tezza del compito loro affidato dai genitori. Molti non hanno saputo tenere il passo con i tempi delle accelerate trasformazioni tecnologiche imposte dalla spietata concorrenza del mercato globalizza-

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to; non si sono presentati sui mercati globalizzati con prodotti di nicchia di cui avevano il genio, at-testandosi piuttosto su prodotti consolidati; e non hanno accettato la legge di un virtuoso corporati-vismo entrando in rete con aziende similari.

Una sana politica che fa perno sulla famiglia

Consapevoli del bene sommo che è la famiglia ai fini di una società civile, generatrice essa stessa di comportamenti civili, primi tra i quali il senso del rispetto, delle belle relazioni, della fiducia e della responsabilità, siamo non solo fiduciosi ma anche certi che se la Politica la porrà al centro delle sue attenzioni e programmazioni, favorendone la cul-tura e finalizzando al suo bene essere le sue risorse giuridiche ed economiche, se si riconquisterà la famiglia come alleata, non tarderà ad uscire anche dalla palude delle rivalità e delle incomprensioni, dei ricatti e delle ritorsioni, delle accuse reciproche e della mancata assunzione di responsabilità. Solo quando e nella misura in cui l’empatia nei confron-ti della famiglia tornerà a farsi cultura e ci sarà dato di respirare a pieni polmoni aria di famiglia, la nostra Nazione, l’Italia, il cui destino non può non starci sommamente a cuore, ragione per cui siamo in quotidiana trepidazione, ma anche in quotidia-na preghiera, farà il salto qualitativo che la tirerà fuori dal guado fangoso in cui la cultura che ha marginalizzato la famiglia, quella dell’individuali-smo egoista, l’ha fatta precipitare.

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Ci sta troppo a cuore il destino della nostra Na-zione nel quadro dell’Europa e del mondo, per non operare strategicamente in favore di una cultura che mette al centro valoriale la famiglia. Verrebbe da dire, con un po’ di audacia: la salvezza dell’Ita-lia sta in una modifica della Costituzione, nel suo stesso primo articolo che annuncia i suoi principi fondamentali. Suggerisco una tale modifica, pron-to ad un confronto civile. Eccola: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sulla famiglia!”. Su questo principio avremmo maggiori chance per affrontare anche i nodosi problemi del lavoro e, non meno, gli spinosi problemi dell’affettività e della sessualità non omologabili alla famiglia, i cui soggetti comunque sono membri di una famiglia che ha trasmesso loro la vita.

Chiunque, oggi strategicamente, fa massa, anche se minuscola minoranza, sostenuta da grandi lobby, allergica e intollerante della verità oggettiva, sbilan-ciata e accanitamente schierata sul fronte della sog-gettività individualista, di cui esalta i diritti senza abbinarli ai doveri civici, al fine di alterare il DNA della famiglia, come ha precisato il card. Angelo Bagnasco nella già citata 47° settimana dei cattolici, mina alla base il principio fondante il senso stesso del sociale, che non può identificarsi con l’indivi-duo, ma esattamente solo con una realtà in se stessa plurale e coesa, qual è la famiglia che coagula in sé alterità assolutamente differenziate, il maschile e il femminile, per essere una comunità comunionale.

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Ecco le ragioni per le quali ha senso tematizza-re il soggetto famiglia attorno alle varie dimensio-ni del vivere umano: politica, economica, socia-le e culturale. Da un loro articolato e armonioso rapporto, facendo ognuna perno sulla famiglia, ne consegue una società ad alta quotazione di ci-viltà.

Queste sono le mie convinzioni, fondate sulla Dottrina sociale della Chiesa e sul buon senso, cioè sulla coscienza del vero bene comune. Sempre di-sposto, comunque, ad avviare ed instaurare un dialogo civile e fruttuoso, a forma di laboratorio, su un argomento, come questo, che ha bisogno di trovare consensi e condivisioni. Per il bene essere della nostra società. Nell’oggi travagliato e in vista del futuro almeno prossimo che auspichiamo più benevolo verso la famiglia.

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Verona, 30 novembre 2013

Auguri prenatalizi ai politici

IL POTERE POLITICO TRA DOMINIO E ARTE DEL SERVIRE IL BENE COMUNE

Non vi nascondo quanto è a me gradito, oltre che atteso nella trepidazione, que-sto annuale incontro tra il Vescovo, i

Politici e gli Amministratori che risiedono nella giurisdizione canonica della diocesi di S. Zeno. L’occasione è motivata da questo tradizionale scambio di auguri natalizi, formulati per tempo, così da non incidere sull’agenda di alcuno nelle vicinanze della festività.

Perché i miei auguri non si dissolvano in un fla-tus vocis, propongo una riflessione, che considero molto attuale, sulla realtà politico amministrativa.

Mi soffermerò infatti sul senso - cioè sul signi-ficato, sul valore e sulle linee guida - del “potere politico”, evidenziandone le possibili oscillazioni tra i cedimenti alla logica del dominio e la sua valenza originaria primordiale che è data dalla di-sponibilità a servire, con competenza e passione, il bene comune.

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Tratterò così il tema del potere politico tra do-minio e arte del servire il bene comune.

Il senso semantico del termine “potere”

Cos’è “potere”? In se stesso, nella sua portata, il termine potere è neutro. Sta per: “Ho la facoltà cioè la capacità di dare attuazione ad un obiettivo, in quanto mi trovo nella condizione reale di raggiun-gerlo”. Si tratta di un potere dalle multiformi efflo-rescenze e diramazioni: potere legislativo, esecuti-vo, giudiziario; ma anche economico, finanziario, tecnoscientifico, direttivo, genitoriale, religioso, culturale. Un tale potere può avere diverse origini: per nascita, e quindi per trasmissione ereditaria; per acquisizione di merito; per conferimento de-mocratico rappresentativo; per conquista violenta.

Va da sé, comunque, che ogni potere citato ha ricadute sulla sfera sociale, sulla qualità della vita umana. E, come siamo in grado di constatare, può essere esercitato in tanti modi. Solo quando viene esercitato in vista del bene comune, e da persone autorizzate – dalla natura, come i genitori, o per deputazione della cittadinanza – possiamo parlare di “autorità”, nel senso più profondo della parola. Il termine autorità infatti deriva dal latino “auge-re” che significa “far crescere”, sottinteso “l’insie-me”! Al punto che l’imperatore Cesare Ottaviano, dopo aver creato un impero vastissimo ed avervi imposto la pace, si è autodefinito “Augusto”, at-

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tribuzione in se stessa divina, dal momento che la crescita di un regno era attribuita alla divinità invocata e propiziata.

Se chi è rivestito di potere ne ha coscienza, non può che esercitarlo in vista della crescita del corpo sociale, cioè di quella parte di cittadinanza su cui è autorizzato ad esercitare il potere di sua compe-tenza. Qualora poi lo eserciti con una competenza davvero all’altezza del ruolo, e come icona e per-sonificazione della realtà su cui ha competenza, viene riconosciuto come autorevole. Al contrario, se lo esercita senza adeguata competenza e ne im-pone l’esecuzione, è un autoritario. Tra autore-volezza, che nei confronti dei referenti pensa in termini di cittadini, e autoritarismo, che pensa in termini di sudditi, si giocano le condizioni civili del vivere sociale. I risultati di eccellenza si otten-gono quando è dato di unire in simbiosi potere, autorità e autorevolezza. Come a dire: “Ho il po-tere. Lo esercito con autorità. Sono all’altezza di esserne il testimone, autorevole appunto!”.

Da notare che in ultima istanza il potere provie-ne da Dio stesso, come ha ricordato Gesù a Pilato: “Non avresti nessun potere su di me se non ti fos-se stato dato dall’alto” (Gv 19, 11), anche nel caso in cui , come Pilato, chi ne è rivestito lo esercita in modo contraddittorio. In sé il potere è partecipa-zione della cura che Dio ha nei confronti dell’uni-verso e che riserva all’umanità. Sicché, chiunque

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lo esercita in modo degno, in qualche modo fa esperienza di Dio e chiunque crede in Dio è solle-citato e aiutato ad esercitarlo sul modello di Dio.

Il termine “dominio”

E veniamo al secondo termine: dominio. Evoca il senso della padronanza. In genere, con valenza tendenzialmente negativa: uno che spadroneggia! Ha la sua matrice in “dominus”, dalla lingua la-tina, con il suo corrispondente greco “kyrios”. Il dominus, il kyrios, esercita un potere assoluto su-gli schiavi o, ben che vada, sui sudditi, obbligati a riconoscergli ogni prerogativa: politica (concentra in sé i tre poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario) ed economico-fiscale (le monete portano incisa la sua effigie e il suo nome: dunque sono “cosa sua”.

Che nel corso della storia il potere abbia as-sunto il volto del dominio è confermato da tutte le dittature e da tutti i regimi assolutisti di qua-lunque matrice. E non ci meravigliamo più di tanto, pur sentendone tutto il peso asfissiante. Gesù stesso, come leggiamo nei Vangeli sinottici, lo ha rilevato come un dato di fatto, pur stigma-tizzandone l’operato attraverso due verbi: “Voi sapete – dice ai discepoli – che coloro che sono ritenuti degni di comandare i popoli li sottomet-tono (lett: li dominano mettendoli sotto i piedi), e i grandi esercitano il potere su di essi” (Mc 10, 42; cfr Mt 20, 24-28; Lc 22, 24-27).

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Certo, chi esercita il potere come dominio, nella ricerca del mito di sé, al punto che gli imperatori romani sono stati idolatrati, pena la sentenza di morte, non accetta contestazioni, che soffoca im-mediatamente, ma tiene avvinghiati a sé con il sistema della cortigianeria, della clientela, degli encomi, dei panegirici, delle adulazioni da vol-tastomaco, dei privilegi, mentre semina sospetti, delazioni, invidie e gelosie ovunque.

Ciò che invece è strano e assurdo è il fatto di riscontrare quanto meno atteggiamenti da despo-ta in un regime di democrazia costituzionale. Che di kratos si tratti, cioè di potere, nulla da eccepire. Ma da quando soggetto depositario del potere è il demos e non più il monos, passando da un re-gime “monarchico” ad uno “democratico”, atteg-giamenti e comportamenti di assolutismo sono intollerabili, perché contraddittori. Pur se siamo consapevoli che in coincidenza di una marcata decadenza del senso generale democratico, con il suo forte senso di responsabilità sull’intera cit-tadinanza, esponendo la democrazia alla facile vulnerabilità, si infiltrano come serpenti velenosi gli approfittatori. In veste di democratici, in realtà da demagoghi disinibiti, fanno il bello o cattivo tempo. Tengono sulla corda la politica naziona-le e le amministrazioni regionali e locali, con la minaccia magari di buttare in piazza gli scheletri custoditi negli armadi. Talmente arroganti da non sentirsi minacciati nemmeno da nuove tangento-

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poli, mirano a farsi una fortuna, attraverso la poli-tica. A ben considerare le cose, si tratta di persone, presenti un po’ ovunque, che hanno nei geni dei cromosomi l’istinto a dominare, a spadroneggiare, costi quello che costi. Il senso democratico che sospinge al confronto dialogico in vista di trovare soluzioni eque condivise non le sfiora nemmeno.

L’arte del servire il bene comune

Focalizziamo infine l’espressione “l’arte di ser-vire il bene comune”. In coniugazione con il ter-mine potere, potremmo anche ritradurla così: “il potere di servire con arte il bene comune”.

Intendiamoci. Anzitutto sul senso del bene comune, estraneo ai poteri assolutisti e solo ap-parentemente incluso nelle monarchie paternali-ste. Il bene comune si riferisce allo stato di salute sociale dell’intera cittadinanza. Nessuna perso-na esclusa. Se infatti anche una sola persona, o una categoria di persone o un lembo di società rimanessero fuori dagli interventi di chi gesti-sce il potere, si creerebbero inevitabilmente degli squilibri che avrebbero comunque ripercussioni sull’intera società. Il bene comune si identifica con il bene essere dell’insieme dei cittadini, e non soltanto con il benessere economico. Il bene essere infatti riguarda la convivenza pacifica, il superamento di sperequazioni e di ingiustizie palesi, la solidarietà nei confronti dei disagiati e

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disabili, la volontà di collaborare nel segno delle corresponsabilità.

Servire il bene comune. Significa essere ido-nei, per competenza ampia, a risolvere le questio-ni esistenziali e sociali della gente. Non tuttavia in forma di paternalismo clientelare, che induce da una parte al senso della facile beneficienza e dall’altra un servilismo abietto e parassitario, ma con il diretto coinvolgendo della gente nella solu-zione delle problematiche. A tal fine, ancor prima di mettere mano a progetti di soluzione, occorrono due premesse. La prima: il governo del potere è finalizzato alla gente; la seconda: occorre guardare in faccia la gente, per coglierne i drammi segnati in volto, ascoltarla nel suo grido di sofferenza, spesso velata e persino soffocata dal forte senso di pudore e di dignità personale. Evitando in tutti i modi di aggiungere umiliazione a sofferenza nel far pesare l’ascolto e l’eventuale coinvolgimento.

Quando vengono a conoscere la realtà della si-tuazione, e dei singoli e dell’insieme, gli Ammi-nistratori che vivono e operano sul territorio e gli stessi Politici, essi pure mai autorizzati a sentirsi esentati dal guardare in faccia i cittadini, avendo chiara la mappa della situazione generale, inter-vengono in modo oculato e rispondente alle esi-genze del caso. Specialmente nei confronti delle fasce deboli, tenendo presente un principio di ca-rattere sapienziale, che a lungo andare trova veri-

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fica anche nella storia: senza alcuna scusa, la prio-rità va sempre riservata al sociale debole! Senza procrastinare all’infinito gli interventi, annacquati tra promesse e dilazioni. Una marcata e ampia tra-scuratezza nei riguardi del sociale economicamen-te debole si risolve in un accumulo di mine sociali, pericolosissime in primo luogo per il sociale eco-nomicamente forte. Sarebbe grave miopia storica.

Va da sé che la competenza professionale nel caso di amministratori e politici è finalizzata, in-dirizzata, all’obiettivo sociale da perseguire e non ad un accaparramento di benefici collaterali, che sconfesserebbero il proprio ruolo esercitato non in una azienda privata ma nell’ambito della politica e dell’amministrazione per loro natura a servizio del sociale. Certo, chi impronta l’autorità come servizio non trova la strada spianata e in discesa. Non di rado viene osteggiato dall’attuale cultura del potere che non ammette una autorità che non sia dominio, in vista di benefici economici e rela-zionali a basso costo.

Veniamo infine a quell’inciso che può essere considerato la cartina di tornasole dell’autenticità di un servizio: “con arte”. Servire con arte vuol dire dare il meglio di sé, in termini di professio-nalità e di umanità, mostrando di avere a cuore la situazione e disponibilità a prendersene cura, pro-spettando non una qualsiasi soluzione, ma quella migliore allo stato delle cose.

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Questo è il genere di esercizio del potere che denominiamo governo. Governare infatti è l’arte di considerare l’insieme delle situazioni per risol-verle, ad una ad una, nel quadro dell’insieme e in una visione di grandi prospettive, motivata dalla speranza di riuscita. Perciò è comprensibile che sia arte di pochi, ben preparati, con una limpida coscienza civile.

Non è difficile renderci conto che un tal eserci-zio del potere appare più come obiettivo che come segnalazione di realtà in atto. Osiamo però pen-sare che non sia una utopia. Tutto dipende dalla cultura che nel frattempo avrà il sopravvento: se quella delle furberie premiate o quella del senso della responsabilità da parte di persone di alto profilo, cioè di personalità stagliate, cui sta som-mamente a cuore, da veri statisti, il bene di tutti, come il bene della propria famiglia. Che merita di essere servita. Con competenza e con amore.

Questo è il percorso per una politica che osia-mo definire virtuosa. Convinti che solo una poli-tica virtuosa è degna di essere chiamata politica. All’altezza delle questioni di tutti i tempi.

Vescovo

COLLANA OMELIE DEL VESCOVO DI VERONA

1 Nel Tempio respiriamo storia di Chiesa - 30 agosto 2007

2 Grati perché avvolti dall’Amore - 20 gennaio 2008

3 L’amicizia fraterna alimenta la comunione presbiterale 20 marzo 2008

4 Comunione tra laici, consacrati, diaconi e presbiteri nel segno della corresponsabilità - 9 aprile 2009

5 Sulle orme del santo Curato d’Ars - Lettera ai Presbiteri della Diocesi di Verona nell’Anno Sacerdotale 9 settembre 2009

6 L’istituzione civile e l’istituzione ecclesiale a servizio del bene comune - 18 dicembre 2009

7 “Il Presbitero penitente e Confessore” - 18 febbraio 2010

8 “L’Arte del Buon Governo” - 18 dicembre 2010

9 “Alla ricerca di una democrazia compiuta” 26 novembre 2011

10 “La fede, anima della vita sociale” 1 dicembre 2012

11 “Per una politica virtuosa” 30 novembre 2013

Cattedrale di Verona