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Alessio Petrizzo
Risorgimento a dimensione-massa
Alla vigilia del centocinquantenario dell’Unità, nell’autunno 2010, il dibattito sul risorgimento è
stato stimolato, accanto ad altre e già allora numerose iniziative editoriali e cerimoniali, dall’attesa
uscita di Noi credevamo, film di Mario Martone, passato in concorso alla Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica di Venezia e più tardi vincitore del Premio David di Donatello (edizio-
ne 2011) come miglior film. La sceneggiatura del film, scritta dal regista insieme a Giancarlo De
Cataldo e ispirata all’omonimo romanzo di Anna Banti (1967), evita meritoriamente di indulgere
nei toni allo stesso tempo epici e autoassolutori che caratterizzano in molte sedi la retorica profusa
in quest’anno giubilare. Ma la dichiarata prospettiva critica e radicale della sceneggiatura, per il
modo in cui sceglie e confeziona gli episodi narrati, rischia piuttosto di confermare convinzioni
altrettanto stereotipate in merito a un risorgimento privo della minima dimensione corale. Il ri-
sorgimento di Martone è il prodotto dell’attivismo di pochi patrioti (divisi non meno che traditi),
colti ripetutamente in scene di intrigo settario e in conventicole appartate in spazi privati, margina-
li, clandestini. In due soli momenti sembra risaltare la rappresentazione di un soggetto più ampio
e inclusivo rispetto a queste ristrette avanguardie: la comunità militare e cameratesca delle camicie
rosse in Aspromonte con Garibaldi nel 1862 (un episodio di tentata opposizione allo stato unitario
e di sacrificio alle sue superiori esigenze) e la comunità di civili ritenuti fiancheggiatori dei briganti
che gli ufficiali piemontesi rastrellano e deportano (in un paesaggio di boschi montani e villaggi
dati alle fiamme, che rinvia alle ambientazioni cinematografiche sulle stragi nazifasciste di civili
compiute in Italia durante la resistenza). In entrambi i casi – sembra legittimo concludere – un
autentico soggetto collettivo si forma a margine delle correnti politiche vincenti del risorgimento
o in opposizione a esse (se non tout court in opposizione al processo risorgimentale). non a caso,
il film non mette in scena episodi che la storiografia più recente ha riscoperto e interpretato come
esperienze cruciali di partecipazione anche popolare alla formazione della sfera pubblica e politica
risorgimentale: il lungo Quarantotto (ovvero il triennio 1846-1849, che negli stati italiani conosce
una periodizzazione diversa rispetto al quadro europeo ed è un’epoca di massiccia – e per più versi
irreversibile – mobilitazione collettiva) o il 1859-1861 o episodi analoghi, anche minori e di portata
regionale o locale, durante i quali, tra gli anni novanta del XVIII secolo e la presa di roma nel
1870, si verifica l’incontro di molte centinaia di migliaia di sudditi degli antichi stati con una sfera
pubblica i cui spazi e le cui logiche sono in corso di lenta e conflittuale definizione.
Se tale incontro conosce forme ed esiti diversificati a seconda dei luoghi, delle circostanze e dei
protagonisti – e non ha necessariamente e ovunque una uniforme e indiscussa declinazione nazio-
nal-patriottica – ciò non implica però che l’acculturazione politica degli Italiani durante il risor-
gimento sia un fenomeno limitato a ristrette cerchie di cospiratori coraggiosi e visionari oppure
il prodotto, inevitabile quanto disciplinato, di una trasformazione geopolitica – la nascita di uno
stato unitario sulla penisola – guidata in realtà da gabinetti e diplomazie. Come la storiografia si
sforza da un decennio di mettere in luce, ribaltando un giudizio plurisecolare, il risorgimento non
è stato un movimento che ha riguardato solo ristretti circoli delle élite sociali e politiche degli stati
preunitari, ma qualcosa di profondamente diverso, caratterizzato da una sua specifica e peculiare
dimensione-massa.
non per questo gli storici che indagano le forme di partecipazione di masse tutt’altro che trascu-
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rabili alle vicende politiche del risorgimento intendono replicare i vecchi cliché di una storiogra-
fia conciliante e consolatoria che affonda le sue radici nell’Italia liberale e in particolare nell’età
crispina, quando le diverse agencies variamente impegnate nel compito di «fare gli Italiani» (dalla
scuola all’esercito, dalla storia accademica al discorso pubblico, dalle feste nazionali alla monu-
mentalistica, dalle riviste illustrate alla letteratura di consumo, per non citare che le sedi più note)
iniziano a edificare il vero e proprio mito di un risorgimento compiuto grazie al concorso concor-
de dell’iniziativa di Casa Savoia e di uno spontaneo patriottismo popolare. Contro questo bozzetto
oleografico molto è stato scritto: si pensi soltanto ai nomi di Gaetano Salvemini, Piero Gobetti,
Antonio Gramsci, tra i critici più acuti degli esiti istituzionali del risorgimento e dei suoi assetti
politico-sociali escludenti, o alle riflessioni del Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799
di Vincenzo Cuoco (uscito in prima edizione nel 1801), vero e proprio archetipo di tutte le future
narrazioni di un risorgimento in cui le masse popolari – ignorate o incomprese – sarebbero com-
parse solo per rimanerne stabilmente ai margini.
nelle pagine che seguono proverò a illustrare rapidamente in che senso si possa parlare, invece, di
risorgimento a dimensione-massa e lo farò sia ricorrendo ad alcune cifre, utili a contestualizzare
i numeri della partecipazione politica e patriottica in quelle che erano le condizioni demografiche,
culturali e delle comunicazioni nel XIX secolo, sia attraverso alcuni cenni alle espressioni concet-
tuali e alle pratiche di questa «nuova politica» (la definizione risale agli studi pioneristici di George
L. Mosse sul nazionalismo tedesco) a dimensione-massa.
A metà ottocento i sudditi degli antichi stati sono circa ventiquattro milioni (nel 1861 il regno
d’Italia, senza il Veneto e roma, ne conta ventisei). Medie città di provincia come Brescia o Cremo-
na hanno intorno ai trentamila abitanti o poco più, Firenze circa centomila, roma meno del dop-
pio. In un contesto simile, caratterizzato peraltro da una notevole segmentazione nel sistema dei
trasporti e delle comunicazioni, oltre che da un altissimo tasso di analfabetismo, proprio i numeri
di certe forme di partecipazione appaiono sorprendenti: da una città come Cremona nel 1859 par-
tono circa un migliaio di volontari per la seconda guerra d’indipendenza e sono in massima parte
giovani uomini, ovvero, grosso modo, un’intera classe d’età; nel 1849 sono tremila i protagonisti
dell’insurrezione antiaustriaca e della difesa di Brescia; nell’autunno 1847 sono numerose decine
di migliaia gli uomini e le donne che partecipano alle manifestazioni e alle feste che attraversano
ripetutamente le strade e le piazze delle città e dei più piccoli borghi toscani dietro slogan riformisti
e patriottici e il 23 marzo seguente, a roma, sono almeno quarantamila gli spettatori stipati nel
Colosseo per prestare un giuramento collettivo di difesa del suolo italiano il giorno stesso della
dichiarazione della prima guerra d’indipendenza. Se in termini assoluti tali numeri impallidiscono
dinanzi a quelli delle società di massa alfabetizzate e altamente mediatizzate del XX secolo, si tratta
però di una comparazione anacronistica: nelle condizioni demografiche, sociali e culturali dell’Ita-
lia del XIX secolo la dimensione-massa di queste occasioni di partecipazione politica appare al
contrario assai rilevante.
Ancora, nel 1859, i volontari alla seconda guerra d’indipendenza provenienti dall’Italia centro-set-
tentrionale censiti da Anna Maria Isastia sono non meno di cinquantamila. Alla stessa cifra – cin-
quantamila – assommano i cosiddetti «mille» di Garibaldi alla fine della sua spedizione. 38.000
sono i volontari garibaldini arruolati per la campagna del 1866. Già tra 1848 e 1849, del resto, sui
vari fronti bellici italiani, sono stati conteggiati intorno ai trecentocinquanta corpi armati volon-
tari, da aggiungere ai regolari, ai riservisti e alle guardie civiche. Se non tutti costoro si arruolano
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o combattono solo per ragioni politiche e ideali, le guerre quarantottesche però costituiscono per
molti un’occasione di rapida e spesso profonda politicizzazione, essendo insistentemente propagan-
date come crociate per la liberazione dal dominio straniero (in Lombardia e in Veneto) o in difesa
dell’autonomia insulare e delle istituzioni liberali (in Sicilia) o in difesa della repubblica sul piano
locale e, allo stesso tempo, dell’indipendenza sul piano nazionale (è così a roma e a Venezia).
Sempre tra 1848 e 1849 si tengono le prime consultazioni elettorali a suffragio universale maschile
(nella repubblica di Venezia, negli stati romani e in Toscana), come pure i «liberi voti» di annes-
sione della Lombardia, delle province venete e degli ex ducati padani al Piemonte sabaudo: episodi
che coinvolgono ovunque centinaia di migliaia di uomini di tutti i ceti e che conoscono anche varie
mobilitazioni di voto extralegale, sia da parte di donne particolarmente reputate per meriti patriot-
tici o di gruppi femminili organizzati, sia da parte di giovani maschi che non posseggono ancora i
requisiti anagrafici previsti dalle varie leggi elettorali, ma rivendicano il loro diritto di voto dopo
aver partecipato attivamente a insurrezioni e difese urbane. Fenomeni simili sono stati rilevati an-
che durante i plebisciti di annessione tenuti negli antichi stati via via che si compiva il processo di
unificazione, tra 1860 e 1861, nel 1866 e nel 1870. Anche nel caso dei plebisciti – spesso rubricati
sotto lo sbrigativo giudizio di «farsa» politica, piuttosto che analizzati da vicino nella profondità
di taglio di esperienze inedite quanto memorabili – furono letteralmente coinvolte intere comunità,
fino alle più piccole, come testimoniano ancora oggi le lapidi apposte in epoca postunitaria sulle
facciate, negli atri o nelle sale di molti palazzi comunali e come del resto non avrebbe cessato di
ricordare il discorso pubblico degli ultimi decenni del secolo, ripetendo l’immagine di una monar-
chia autenticamente nazional-popolare perché sanzionata dal concorso di milioni di SÌ all’atto di
nascita dello stato italiano.
Data alla seconda metà degli anni Quaranta anche l’affermazione di un’altra pratica tipica della
«nuova politica» a dimensione-massa, una tecnica di mobilitazione e formazione dell’opinione
pubblica già sperimentata altrove in europa (in particolare dal movimento cartista in Gran Bre-
tagna): la manifestazione, o «dimostrazione» nel lessico del tempo. A seconda dei casi a centinaia
o a migliaia, i partecipanti, uomini e spesso donne, sfidano le legislazioni preunitarie in materia
di «assembramenti» pubblici e sfilano ordinati attraverso i luoghi più rilevanti dei rispettivi spazi
cittadini, alzando cartelli e bandiere, scandendo slogan, cantando inni, allo scopo di fare pressione
sui governi per ottenere riforme liberali (e poi per festeggiare quelle riforme una volta concesse).
nel lungo Quarantotto manifestazioni del genere, di orientamento liberale, costituzionale, radicale
o patriottico, si svolgono in tutte le principali città. e, accanto e contemporaneamente a esse, si dif-
fonde la pratica di firmare petizioni collettive intorno ai temi del giorno, da inviare poi alle autorità
di governo o ai competenti organi consultivi o legislativi. Per fare un solo esempio, nel giugno 1848
a Venezia una petizione contraria alla «fusione» con il regno di Sardegna raccoglie oltre cinque-
mila firme: a scorrerle – come del resto a scorrere petizioni analoghe di orientamento opposto – si
incontrano anche molti individui di estrazione popolare, spesso con l’indicazione della professione
a fianco al nome, intere famiglie e non poche donne.
In altre parole, i soggetti che si muovono nella sfera pubblica e le loro pratiche nell’Italia del risor-
gimento – dal volontariato ai plebisciti, dalle manifestazioni alle petizioni, per restare agli esempi
che ho sommariamente evocato – grazie a ricerche recenti o tuttora in corso ci appaiono oggi
decisamente più numerosi e diversificati di quanto non si sia comunemente pensato fino ad anni
recenti.
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Le forme di questa «nuova politica» a dimensione-massa si sono affacciate nell’europa in rivolu-
zione tra gli ultimi anni del XVIII secolo e i primi del XIX, quando, sul piano dei concetti poli-
tici, soggetti collettivi quali «popolo» e «nazione» sono stati riconosciuti come i depositari della
sovranità e quindi, sul piano delle pratiche, tutta una serie di dispositivi – simbolici e rituali, non
meno che organizzativi e procedurali: dagli strumenti di organizzazione del consenso ai canali della
rappresentanza, dalle cerimonie della religione civile (cortei, feste, commemorazioni) alla levée en
masse – è stata approntata per dare un corpo visibile, una legittimità e una memoria duratura e
trascendente alle nuove identità collettive proposte all’apprendistato di sudditi divenuti cittadini.
negli stati italiani restaurati, però, le occasioni di discussione e propaganda intorno a questi temi,
per non parlare delle occasioni di partecipazione in termini analoghi a quelli dell’epoca rivoluzio-
naria, sono censurate e represse. Alla formazione embrionale di un’opinione pubblica nazionale
possono allora contribuire circoli o gabinetti di lettura, che si affiancano ai tradizionali istituti
della socialità aristocratica quali salotti e accademie, e accolgono esponenti dei ceti che hanno
conosciuto in epoca napoleonica la loro ascesa sociale oltre che la loro formazione intellettuale e
politica. È allora che, nonostante la censura e le difficoltà di circolazione, emerge un embrionale
mercato culturale, grazie a periodici di contenuto scientifico, letterario, di varietà che valicano i
confini degli stati preunitari fornendo occasioni per un dibattito condiviso – anche se mai diretta-
mente politico. Lo stesso accade con i congressi degli scienziati, organizzati a turno in varie città,
a partire da Pisa nel 1839. Un reticolo a parte, ovviamente, è quello settario, clandestino, che negli
stessi anni si rinnova per iniziativa di Giuseppe Mazzini e raggiunge anche strati sociali più bassi,
di piccola borghesia e artigianato urbani.
rispetto a questi spazi esigui, rigidamente controllati e spesso perseguitati e repressi dalle polizie e dai
tribunali preunitari, nella seconda metà degli anni Quaranta si produce una svolta profonda, che con-
sente finalmente di conquistare a una politica apertamente connotata in senso nazional-patriottico
nuovi spazi pubblici, nuove modalità d’azione, nuovi attori sociali. È allora che la «nuova politica» a
dimensione-massa originata dalla rivoluzione francese può tornare a occupare le strade e le piazze,
peraltro con grande coraggio e rischio dei suoi promotori (fino alla concessione delle costituzioni del
1848 non esiste alcun diritto riconosciuto di riunione e associazione). È allora che il profilo sociale
dei protagonisti delle nuove forme di mobilitazione patriottica inizia a includere settori crescenti di
popolo minuto urbano, i cui appartenenti compaiono tra i partecipanti e gli organizzatori di ban-
chetti patriottici o manifestazioni e feste pubbliche, figurano nelle liste dei caduti nelle difese urbane
o negli elenchi degli aderenti ai circoli popolari – anche se per molti aspetti restano ignoti i confini
e i meccanismi della politicizzazione di «operai» e «artigiani» (o «artieri» o «artisti») e ancora non
sono chiariti il profilo complessivo del fenomeno, i suoi canali di mediazione, le istanze specifiche del
popolo minuto e gli effetti della sua presenza e iniziativa – anche autonoma – sulle élite. Un discor-
so analogo (ma in un contesto di maggior interesse da parte della storiografia) vale per la presenza
femminile: formalmente escluse dalla sfera politica, le donne trovano spesso nei canali offerti dalla
«nuova politica» occasioni di partecipazione diretta, presa di parola, rivendicazione.
Da allora in avanti, però, ci si muove in un contesto mediatico in rapida trasformazione, in cui (in Ita-
lia a partire dalle riforme sulla stampa del 1847-1848) la dimensione-massa è raggiunta non solo dai
numeri dei partecipanti attivi agli eventi in sé, ma è ribadita e rafforzata dall’effetto di amplificazione
e moltiplicazione che viene dalla stampa e dalle numerose e crescenti tribune dove è ormai possibile
raccontare pubblicamente quegli eventi, continuare a ripeterli anche dopo che sono accaduti, ren-
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derli memorabili, rappresentarli secondo modalità che ne orientino la ricezione anche presso quel
pubblico che non vi ha preso parte ma che finisce così per esserne coinvolto. Tra 1848 e 1849 nella
sola Palermo sono stati censiti centoquaranta giornali; da allora, e per tutto il decennio seguente, nel
regno di Sardegna costituzionale il giornalismo riesce a fidelizzare e a espandere il pubblico dei suoi
lettori (negli anni Cinquanta la «Gazzetta del popolo» supera le diecimila copie). Dappertutto sono
documentati moltissimi testi e fogli volanti specificamente pensati per un pubblico popolare, spesso
analfabeta, testi dall’andamento piano, dialogico, simile ai catechismi, che molti mediatori si incari-
cano di leggere o recitare agli angoli di strada, nei mercati, nei luoghi della sociabilità più popolare
come le taverne. Altri media contribuiscono a questo processo di crescente allargamento del pubblico
coinvolto da notizie ed eventi politici. La comunicazione per immagini, per esempio, costituisce una
delle principali innovazioni nel mercato editoriale e in quello dell’intrattenimento ottocenteschi: gra-
zie all’evoluzione delle tecnologie di produzione e riproduzione dell’immagine, illustrazioni satiriche,
allegoriche o cronachistiche dei fatti del giorno sono vendute sciolte o compaiono sui giornali e nei
libri illustrati e anche gli spettacoli visuali più popolari (dai giochi ottici ambulanti ai panorama)
mettono spesso l’attualità politica o il racconto di imprese politiche o militari al centro del loro inte-
resse. Lo stesso accade con il teatro, inteso sia come insieme di testi composti o reinterpretati in base
alle urgenze dell’attualità (è nota la ricezione in senso patriottico dei libretti verdiani), sia come luogo
fisico e sociale, che nei momenti di maggior attivismo delle società civili preunitarie si trasforma in
un’autentica vetrina dei sentimenti dell’opinione pubblica patriottica.
La costruzione dell’evento è un tratto fondante della nuova dimensione-massa della politica e co-
nosce numerosi strumenti e canali – giornali, opuscoli e fogli volanti, romanzi, teatro, canzoni, il-
lustrazioni – che intorno alla metà del XIX secolo iniziano a funzionare come un vero e proprio si-
stema di comunicazione multimediale, i cui contenuti sono progressivamente orientati all’attualità
e alla politica e i cui codici espressivi – e perfino i pubblici – si intrecciano e si rafforzano a vicenda.
Perché la dimensione-massa della politica risorgimentale si può intercettare anche in quanto lettori
di giornali e romanzi; in quanto spettatori di melodrammi; in quanto visitatori di esposizioni di pit-
tura in cui fa irruzione la storia in funzione allegorica o, più tardi, negli anni Cinquanta, il presente
delle battaglie risorgimentali; e perfino in quanto collezionisti di cartes-de-visite (ritratti fotografici
di piccolo formato, circa 6x10 cm) dei protagonisti dello scenario politico o in quanto acquirenti
di una vasta oggettistica destinata all’uso domestico e decorata con episodi o personaggi pubblici
celebri. Alcuni di questi aspetti della storia del risorgimento sono appena entrati, in questi termi-
ni, nell’agenda storiografica e costituiscono uno dei cantieri di ricerca più promettenti per indagare
le modalità del radicamento della politica e delle appartenenze collettive sul piano delle pratiche
quotidiane e perfino dei consumi privati.
Dalla «nuova politica» rivoluzionaria che pone i soggetti collettivi «nazione» e «popolo» al centro
dello spazio concettuale del politico e che, di conseguenza, reclama e ottiene che le loro incarna-
zioni simboliche – cittadini in armi, liturgie civili, monumenti ecc. – occupino visibilmente il centro
degli spazi sociali urbani, siamo arrivati a intravedere lontane ricadute e rinnovate occasioni di
politicizzazione nel mercato dei consumi culturali e perfino in gesti apparentemente minuti, isolati
o privati (certe letture, certe forme di collezionismo). Ma si tratta solo in apparenza di uno scarto,
oppure di un paradosso. La dimensione-massa della «nuova politica» guarda espressamente a que-
sto spazio intimo della vita dei cittadini. Lungi dal postulare una rigida dicotomia tra due sfere se-
parate – una sfera dell’impegno politico e militare e una sfera riservata agli affetti e alla domesticità
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– il discorso nazional-patriottico elaborato dalla fine del XVIII secolo in poi prevede al contrario
una stretta interdipendenza tra pubblico e privato. La nazione si realizza anche, e forse soprattutto,
attraverso il disciplinamento dei costumi privati, familiari, di genere dei suoi componenti e quindi
per tutto il secolo, prima e dopo l’Unità, il quotidiano degli Italiani è una sorta di terra di con-
quista ai valori pubblici, uno spazio nel quale far scoprire o radicare i valori fondanti della nuova
comunità politica e patriottica. Ma allo stesso tempo le pratiche, i codici espressivi dell’affettività,
i profondi valori simbolici associati alle relazioni più intime invadono lo spazio pubblico affinché
i contenuti della politica non appaiano estranei, ma al contrario “risuonino” presso le audiences a
cui mirano. Complice la gestazione in epoca romantica dei linguaggi che guidano l’apprendistato
politico e patriottico per tutto il XIX secolo, lacrime, baci e abbracci sono elementi assai ricorrenti
nel repertorio dell’azione collettiva che caratterizza la «nuova politica»: durante manifestazioni,
feste, commemorazioni, marce di volontari, plebisciti (e nelle loro innumerevoli rappresentazioni
mediatiche), immancabilmente questi elementi tornano con sorprendente insistenza, come se fos-
sero una delle rappresentazioni in assoluto più efficaci del legame orizzontale e reciproco, intimo e
irrevocabile, che deve unire fra loro i concittadini, i «fratelli (e le sorelle) d’Italia».
Con ciò occorre ricordare che i confini della cittadinanza attiva rimangono strettissimi ancora per
lunghi decenni di vita postunitaria – nel 1861 meno del 2% della popolazione del neonato regno
d’Italia gode di pieni diritti politici e tale percentuale sale intorno al 7% per effetto della riforma
elettorale del 1882: un quadro decisamente lontano da qualsiasi pur riduttiva dimensione-massa.
Ma sarebbe erroneo liquidare i linguaggi della «nuova politica» e i canali e le pratiche della loro
diffusione come forme di compensazione illusoria e come dispositivi funzionali al mantenimento
dell’esclusione formale – per esempio delle donne e dei ceti popolari – dall’esercizio attivo della
cittadinanza. Si tratta al contrario di correnti attive di politicizzazione, rispetto alle quali la sto-
riografia, piuttosto che ripetere conclusioni ormai di senso comune, dovrebbe iniziare a indagare
appieno estensione, radicamenti ed effetti.
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