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POLITECNICO DI TORINO
FACOLTÀ DI INGEGNERIA
Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica
TESI DI LAUREA
DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA MECCANICA E AEREOSPAZIALE
Scaffold tridimensionali per l’ingegneria tissutale a
base di materiali bioartificiali contenenti
copolimeri chitosano e policaprolattone
Relatori:
Prof. Gianluca Ciardelli
Dott.ssa Chiara Tonda Turo
Candidata:
Giovanna Verdicchia
Anno accademico 2017/2018
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INDICE 1 INTRODUZIONE ................................................................................................................ 5
1.1 Substrati tridimensionali per l’ingegneria dei tessuti ............................................... 5
1.1.1 Scaffold............................................................................................................... 6
1.1.2 Biomateriali ........................................................................................................ 8
1.1.2.1 Polimeri naturali .......................................................................................... 9
1.1.2.2 Polimeri sintetici ....................................................................................... 10
1.1.2.3 Copolimeri ................................................................................................. 11
1.1.3 Electrospinning................................................................................................. 13
1.1.4 Fused Deposition Modeling (FDM) .................................................................. 17
1.2 Strategie di coniugazione dei polimeri presenti in letteratura ............................... 20
1.3. Sintesi mediante chimica delle carbodiimidi ......................................................... 21
1.4 Obiettivo del lavoro di tesi ...................................................................................... 22
2 MATERIALI E METODI ..................................................................................................... 24
2.1 Materiali .................................................................................................................. 24
2.2 Metodi ..................................................................................................................... 29
2.2.1 Protocollo di sintesi di CHS-graft-PCL .............................................................. 29
2.2.2 Ottimizzazione del protocollo di sintesi di CHS-graft-PCL ............................... 29
2.2.3 Prove di solubilità ............................................................................................. 32
2.2.4 Ottimizzazione del protocollo per l'electrospinning ........................................ 32
2.2.4.1 Realizzazione delle nanofibre random e allineate .................................... 33
2.2.5 Solvent casting per la realizzazione dei film .................................................... 35
2.2.6 Fused Deposition Modeling (FDM) .................................................................. 36
2.2.7 Caratterizzazione ............................................................................................. 37
2.2.7.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR ................................................................................................... 37
2.2.7.2 Caratterizzazione termica: Calorimetria Differenziale a Scansione (DSC) 39
2.2.7.3 Caratterizzazione colorimetrica: test Kaiser ............................................. 41
2.2.7.4 Caratterizzazione morfologica: microscopia a scansione elettronica (SEM)
.............................................................................................................................. 43
2.2.7.5 Caratterizzazione meccanica: prove di trazione ....................................... 46
3 RISULTATI ....................................................................................................................... 48
3.1 Caratterizzazione del CHS-graft-PCL ....................................................................... 48
4
3.1.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR ....................................................................................................... 48
3.1.2 Caratterizzazione fisica: Calorimetria Differenziale a Scansione (DSC) ........... 49
3.1.3 Caratterizzazione colorimetrica: test Kaiser .................................................... 51
3.2 Membrane elettrofilate .......................................................................................... 52
3.2.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR ....................................................................................................... 52
3.2.2 Caratterizzazione morfologica delle fibre elettrospinnate: microscopia a
scansione elettronica (SEM)...................................................................................... 54
3.2.2.1 Valutazione dell’allineamento delle fibre mediante Trasformata di Fourier
.............................................................................................................................. 59
3.3 Caratterizzazione meccanica: prove di trazione ..................................................... 62
3.3.1 Prove di trazione dei film polimerici ................................................................ 62
3.3.2 Prove di trazione delle fibre ............................................................................. 63
3.4 Strutture estruse mediante FDM ............................................................................ 64
3.4.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR ....................................................................................................... 64
3.4.2 Caratterizzazione morfologica: microscopia a scansione elettronica (SEM) ... 65
4 CONCLUSIONE E SVILUPPI FUTURI ................................................................................. 67
5 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................. 70
5
1 INTRODUZIONE
1.1 Substrati tridimensionali per l’ingegneria dei tessuti
L’ingegneria tissutale è una branca dell’ingegneria biomedica che studia la possibilità
di rigenerare organi e tessuti del corpo umano, danneggiati da una patologia, da
un incidente o dall’invecchiamento, senza dover ricorrere a trapianti o protesi. Si tratta
di una scienza multidisciplinare che applica i principi dell’ingegneria per realizzare dei
sostituti biologici capaci di ripristinare una determinata funzione dell’organismo
avvalendosi di un substrato tridimensionale, chiamato scaffold [1]. Questo tipo di
approccio è applicabile a tutti i tipi di tessuto, dai più semplici con tendenza a rigenerare
(pelle, osso, epiteli), in particolare se il danno è molto esteso, ai più complessi che hanno
una certa difficoltà a rigenerare come, ad esempio, quello miocardico fino ad arrivare ad
interi organi, come il pancreas. Nel caso dell’infarto del miocardio, ci potrebbe essere
una risposta di guarigione nel paziente, tuttavia non si tratta di rigenerazione ma di una
sorta di riparazione; cioè si genera una cicatrice fibrotica non funzionale. Vale un
discorso analogo per un danno al sistema nervoso centrale. Il tissue engineering (TE) si
basa su tre concetti chiave: le cellule, i segnali biochimici, ossia i fattori solubili intorno
alla cellula e lo scaffold.
Figura 1.1. Elementi base del TE.
L’utilizzo di uno scaffold è fondamentale in quanto questo serve come template
tridimensionale per l'adesione iniziale delle cellule, la loro proliferazione e la seguente
formazione di tessuto sia in vitro che in vivo. Il biomateriale che costituisce lo scaffold
deve essere in grado di comunicare con l’ambiente biologico in cui verrà inserito, cioè
deve essere un materiale bioattivo, capace di far aderire le cellule e poi di guidarne il
comportamento. La bioattività è intesa anche come capacità di biodegradare. Con il
tempo lo scaffold deve essere degradato dalle cellule quindi deve essere capace di
interagire con l’esterno biologico rispondendo all’attività degradativa delle cellule, ossia
all’attività enzimatica [2]. Il comportamento che deve avere lo scaffold è di fatto il
comportamento che la matrice extracellulare ha nei tessuti; quindi questo potrebbe
sostituirsi nelle fasi iniziali alla matrice cellulare, fungendo da guida alle cellule con una
ben precisa composizione e una determinata geometria tridimensionale. Le cellule
iniziano ad aderire e in seguito a proliferare, migrare internamente ai pori, differenziarsi
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e a poco a poco sviluppano il tessuto; in un secondo momento dovrebbero degradare lo
scaffold, che viene via via sostituito dalla matrice extracellulare vera e propria prodotta
dalle cellule stesse. La cellula modifica le proprie funzioni in risposta ai segnali che riceve
dall’esterno; essa stessa invia informazioni alla matrice extracellulare. Il TE si prefigge di
riprodurre questa sorta di give and take fisiologico mediante introduzione di stimoli
biochimici all’interno dello scaffold e ottimizzazione di tecniche di rilascio di biomolecole
(fattori di crescita, geni, e così via).
1.1.1 Scaffold
Figura 1.2. Esempio di scaffold.
Lo scaffold è un substrato ingegnerizzato che guida le cellule a ricostruire il tessuto.
L’obiettivo è realizzare uno scaffold biomimetico permettendo di riprodurre l’ambiente
fisiologico (quello della matrice extracellulare) nel miglior modo possibile mediante
informazioni, come stimoli e composizioni per guidare il comportamento cellulare. La
matrice extracellulare è caratterizzata fondamentalmente da tre fattori:
• La morfologia, per la realizzazione di matrici che riproducano la ECM;
• La composizione, che influenza le caratteristiche fisiche, ad esempio i tempi e le
modalità di degradazione o altre proprietà meccaniche;
• gli stimoli biochimici, molecole che stimolano una risposta cellulare.
Si desidera ottenere una matrice fibrosa; un valido strumento del quale ci si può
avvalere è l'electrospinning. Si ottimizza il processo aggiungendo infine nella ECM gli
stimoli biochimici, che devono poter essere rilasciati per essere percepiti dalle cellule in
ambiente solubile con una certa cinetica, nell’intervallo di tempo di interesse.
1.3. Fattori che caratterizzano l’ecm.
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Esistono due differenti approcci mediante i quali popolare di cellule uno scaffold: lo
scaffold può essere cellularizzato prima dell’impianto nel paziente; in tal caso la
presenza di fattori solubili sarebbe secondaria, in quanto lo scaffold non deve richiamare
a sé le cellule. In alternativa, si può impiantare lo scaffold privo di cellule. Lo scaffold è
sottoposto a opportune tecniche di decellularizzazione. In questo secondo approccio la
presenza di fattori solubili è invece fondamentale per il recruitment cellulare.
Lo scaffold ha quattro funzioni principali:
• costituire una matrice di adesione cellulare per far aderire e proliferare le cellule di
un determinato tessuto da rigenerare;
• avere un ruolo strutturale di rafforzamento in modo che i tessuti intorno non
collassino su quella regione impedendo la rigenerazione del tessuto;
• fornire una barriera fisica per impedire a cellule indesiderate di penetrare nella
regione del difetto;
• Fungere da mezzo per il rilascio di cellule, fattori di crescita e geni da rilasciare in
modo controllato [2].
La fabbricazione di un scaffold verte sull’ottimizzazione di quattro parametri
fondamentali:
• la composizione chimica;
• il grado di porosità;
• la cinetica di degradazione;
• determinate caratteristiche meccaniche.
La composizione chimica deve essere tale da garantire adesione, proliferazione e
differenziazione delle cellule. Si desidera che lo scaffold sia biocompatibile, ovvero che
possa essere a contatto con i tessuti biologici senza scatenare risposte infiammatorie o
rilasciare sostanze tossiche. Ѐ possibile funzionalizzare la superficie dello scaffold con
proteine o sequenze peptidiche adesive per la cellula in modo da rendere bioattivo lo
scaffold stesso.
Il grado di porosità deve essere alto (70-90%), con elevato rapporto superficie/volume
per ospitare un elevato numero di cellule e in concomitanza con un buon grado di
interconnessione si può consentire anche la diffusione di nutrienti e sostanze di scarto
nonché piena colonizzazione da parte delle cellule. Una elevata area superficiale
favorisce l’adesione e la crescita cellulare mentre un elevato volume dei pori è utile ad
ospitare e successivamente rilasciare una quantità di cellule sufficienti per la
rigenerazione del tessuto, oltre a favorire un corretto apporto di nutrienti necessari al
mantenimento della vitalità cellulare. Diversi studi hanno dimostrato come un’ampia
porosità, dell’ordine delle centinaia di micron (100-500 µm), favorisca la colonizzazione
e la migrazione cellulare ed inoltre faciliti la diffusione dei prodotti di scarto
dall’impianto, mentre pori con dimensioni minori dell’ordine delle decine di micrometri
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sono utili al fine di ottenere una buona vascolarizzazione del tessuto o per il trasporto di
sostanze nutritive e/o fattori di crescita.
Oltre a garantire le funzioni sopra elencate, lo scaffold deve anche degradare lasciando il
posto al nuovo tessuto, senza indurre risposta infiammatoria. Deve essere costituito da
un materiale che possa essere completamente riassorbito. La cinetica di degradazione
deve essere adeguata alla velocità di rigenerazione del tessuto interessato. Questa
dipende dal tipo di materiale (ci sono materiali idrolizzabili come i poliesteri, altri
degradabili enzimaticamente come proteine o materiali sintetici modificati che
contengono sequenze peptidiche), ma anche dal tipo di scaffold (la cinetica di
degradazione aumenta all’aumentare della superficie per unità di volume) e dal sito di
impianto (diverso tipo di degradazione).
Le proprietà meccaniche dello scaffold devono garantire una forza meccanica sufficiente
durante la coltura in vitro, in modo da mantenere la struttura adeguata per la crescita
delle cellule seminate e successivamente del tessuto. Tali proprietà meccaniche devono
essere simili, in termini di moduli elastici e risposte a tensioni applicate, a quelle del sito
biologico d’impianto in modo tale da fornire alle cellule i corretti segnali che sostengano
vitalità e differenziazione nel fenotipo desiderato [3].
1.1.2 Biomateriali
Il materiale che costituisce lo scaffold deve essere biocompatibile e quindi non deve
rilasciare prodotti tossici neanche durante la fase di degradazione. Un biomateriale è un
materiale che si interfaccia bene con i sistemi biologici. Si parla di una doppia
interazione in campo biomedico poiché il biomateriale induce una risposta biologica
nell’organismo col quale si interfaccia e questo a sua volta causa un processo di
degradazione nel biomateriale stesso. Si può fare una distinzione storica dei
biomateriali:
• Biomateriali di prima generazione (o bioinerti), ovvero devono avere proprietà
fisiche uguali al tessuto sostituito, innescando una tossicità minima;
• Biomateriali di seconda generazione, è richiesto che il materiale sia bioattivo (cioè
che provoca azioni e reazioni controllate nell’ambiente fisiologico) o riassorbibile
(che degrada e si riassorbe in maniera controllata con velocità adeguata alla
generazione del nuovo tessuto);
• Biomateriali di terza generazione, devono essere sia bioattivi che riassorbibili.
I materiali generalmente usati per la realizzazione di uno scaffold possono essere
materiali organici, ma anche materiali inorganici come ad esempio i ceramici e
l’idrossiapatite. I materiali utilizzati nel campo del TE si dividono in due classi: polimeri
sintetici e polimeri naturali, complementari tra di loro. Per colmare i difetti di questi tipi
di materiali l’idea è di andare a combinarli, quindi di creare dei materiali detti
bioartificiali che siano a base sia di polimeri sintetici che di polimeri naturali. Ci sono
varie possibilità per combinare in modo sinergico le loro caratteristiche. Ad esempio, è
possibile realizzare uno scaffold con polimero sintetico rivestito sulla superficie in
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polimero naturale, oppure si può sintetizzare un nuovo polimero che contiene sia dei
segmenti sintetici che dei segmenti a base di monomeri di polimero naturale. I materiali
inorganici, come i ceramici, si utilizzano per rigenerare i cosiddetti tessuti hard, rigidi,
quindi principalmente per il tessuto osseo. Questo perché il tessuto osseo è formato per
il 70% da idrossiapatite mentre il restante 30% da proteine, principalmente collagene.
Dunque generalmente gli scaffold per la rigenerazione ossea sono a base di compositi
polimerici o di soli ceramici.
MATERIALI PER SCAFFOLD
SINTETICI ORGANICI SINTETICI INORGANICI
ORGANICI DI ORIGINE NATURALE
INORGANICI DI ORIGINE NATURALE
• Poliidrossiesteri (polilattico, poliglicolico)
• Poliuretani
• poliamminoacidi
• Idrossiapatite,
• tricalciofosfato
• ceramiche
• Proteine (collagene, fibrina)
• Polisaccaridi (acido ialuronico, alginato)
• Idrossiapatite corallina
Tabella 1.1. Materiali utilizzati nel TE.
1.1.2.1 Polimeri naturali
I polimeri naturali hanno la caratteristica di essere bioattivi e biocompatibili, poiché
derivati dei componenti della matrice extracellulare. Le proteine presentano nella ECM
(matrice extracellulare) dei domini a cui le integrine appartenenti alle membrane
cellulari possono legarsi, permettendo lo svolgimento delle funzioni vitali. Esistono
anche materiali che non fanno parte della matrice extracellulare, ma che sono presenti
in natura con composizione e proprietà simili; sono utilizzati per la realizzazione di
scaffold, poiché ben tollerati dall’organismo [4]. Sono materiali presenti in maniera
abbondante in natura. I polimeri estratti dalla matrice extracellulare che sono
principalmente utilizzati per questo scopo sono:
• I polisaccaridi quali condroitinsolfato, dermatansolfato, cheratan solfato, eparina,
acido ialuronico;
• Proteine come collagene (e suoi derivati), elastina, fibronectina, fibrina, laminina e
vitronectina.
Mentre le macromolecole che non fanno parte della matrice extracellulare, ma
presentano comunque caratteristiche adesive, sono:
• I polisaccaridi quali amido, cellulosa, chitosano, alginato e gellano;
• Le proteine cheratina, proteine della seta e proteine adesive della cozza.
Questi materiali forniscono gli opportuni segnali (ad esempio per mezzo di particolari
sequenze di aminoacidi) che facilitano l’adesione, la differenziazione e la migrazione
cellulare, inducendo le cellule a produrre nuova matrice extracellulare per riformare il
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tessuto nel sito danneggiato. I polimeri naturali hanno composizione simile a quella della
matrice extracellulare, infatti questa è costituita proprio da proteine e polisaccaridi,
quindi si trovano, in particolare nelle proteine, delle particolari regioni peptidiche che
sono riconosciute dai recettori cellulari, dai recettori integrinici che stimolano l'adesione
cellulare.
I polimeri naturali degradano facilmente in ambiente biologico per azione dell’acqua e
hanno scarse caratteristiche meccaniche, anche perché sono materiali fortemente
idrofili, cioè assorbono acqua e hanno scarsa stabilità in ambiente acquoso. Di
conseguenza le caratteristiche meccaniche sono deboli: l’idrofilicità diminuisce la
stabilità di forma. Spesso necessitano di crosslinking (reticolazione), prima del loro
impianto. I polimeri naturali sono estratti prevalentemente da tessuti animali e ciò
comporta un’elevata immunogenicità associata ad un elevato rischio di trasmissione di
malattie. Risultano inoltre complicate e costose le operazioni di estrazione di tali
materiali, in quanto devono essere svolte in condizioni tali per cui il materiale non venga
danneggiato o denaturato, poiché esse richiedono l’utilizzo di condizioni aggressive
(soluzioni acide o alcaline, solventi organici, temperature elevate) che possono causare
denaturazione di tali materiali.
1.1.2.2 Polimeri sintetici
La classe dei polimeri sintetici comprende quei polimeri che sono biocompatibili,
bioriassorbibili ed essendo di sintesi hanno delle proprietà riproducibili, che si possono
adattare ad una determinata applicazione. Le caratteristiche fisiche, chimiche,
meccaniche e cinetiche di degradazione di questi materiali, a differenza di quelli
naturali, sono modulabili a seconda del tipo di applicazione e del sito da rigenerare. Lo
svantaggio dei polimeri sintetici, avendo struttura molto diversa dalla matrice
extracellulare, è relativo alla loro capacità di essere bioattivi, perché in generale
tendono a non stimolare l’adesione, la proliferazione e il differenziamento cellulare. Ѐ
possibile funzionalizzare il materiale per conferirgli la proprietà di bioattività,
immobilizzando all’interno della struttura o sulla sua superficie delle biomolecole quali
sequenze peptidiche, proteine di adesione o polisaccaridi. Esistono diverse strategie di
funzionalizzazione: Il grafting covalente di peptidi o proteine (mediante idrolisi,
amminolisi, trattamento con plasma o con sequenze peptidiche con proprietà adesive
quali ad esempio la polidopamina), l’interazione non covalente (layer-by-layer) e la
funzionalizzazione con accoppiamenti streptavidina-biotina rientrano tra i metodi di
funzionalizzazione superficiale. Ѐ possibile anche inserire delle sequenze peptidiche
durante il processo di preparazione oppure realizzare idrogeli bioattivi, cioè contenenti
all’interno delle catene il peptide di adesione; in alternativa si può realizzare dei blend
miscelando il materiale sintetico con un polimero di origine naturale o con le
biomolecole desiderate.
Tra i materiali sintetici si annoverano i poliesteri di cui fanno parte l’acido poliglicolico
(PGA), il policaprolattone (PCL), l’acido polilattico (PLA) e il poli(lattide-co-glicole) (PLGA)
ma anche i poli-(idrossialcanoati) (PHA) come il poli (3-idrossibutirrato) (PHB). Questi
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materiali sono caratterizzati da una degradazione idrolitica ed enzimatica e i tempi di
degradazione dipendono dal grado di cristallinità e di idrofilicità dei diversi polimeri. PGA
e PCL hanno caratteristiche idrofobiche e tempi di degradazione che consentono di
impiegarli per la fabbricazione di scaffold. PVA (polivinilacetato) e PEO essendo idrofilici
sono più instabili, si sciolgono in acqua e vengono utilizzati per realizzare idrogeli o
all’interno di miscele per migliorare la processabilità di alcuni materiali [5].
Anche i poliuretani sono materiali sintetici utilizzati in ambito biomedicale. Sono
polimeri caratterizzati dalla ripetizione dell’unità uretanica lungo la catena. La struttura
di questi polimeri è costituita da tre componenti (diisocianati, macrodioli ed estensori di
catena) variando i quali è possibile ottenere diversi poliuretani. Un’altra classe di
materiali sintetici è costituita dai polieteri, ad esempio polietilenglicole (PEG) e il
polietilenossido (PEO). Questi degradano per ossidazione e vengono principalmente
usati per rivestimenti anti-fouling, ovvero per impedire l’adsorbimento di proteine sulla
superficie o rivestimenti di scaffold vascolari.
MATERIALI NATURALI MATERIALI SINTETICI
Vantaggi
• Biomimeticità (stessa composizione o simile ai componenti della matrice extracellulare): materiali bioattivi.
• Facile produzione di massa e sterilizzazione;
• Proprietà riproducibili;
• Proprietà fisiche, chimiche, meccaniche e degradative adattabili al tipo di applicazione;
• microstruttura e permeabilità controllabili durante la produzione;
• degradazione controllata.
Svantaggi
• Scarse proprietà meccaniche (necessità di crosslinking);
• Rapida biodegradazione (generalmente 1-2 settimane);
• Rischio di trasmissione di malattie e immunogenicità;
• Differenze da lotto a lotto.
• Scarsa bioattività a contatto col tessuto;
• Difficile approvazione da parte della FDA (Food and Drug Administration).
Tabella 1.2. Vantaggi e svantaggi dei materiali naturali e sintetici a confronto.
1.1.2.3 Copolimeri
Le proprietà del polimero sono modulabili mediante miscelazione, copolimerizzazione
ed alterazione dell’architettura macromolecolare. Il primo di tali metodi, spesso riferito
come blending, ha destato notevole interesse per la possibilità di ottenere miscele con
proprietà che coniugano le proprietà dei singoli materiali. I blend esibiscono
combinazioni di proprietà che non possono essere ottenute da singoli polimeri. Miscele
di polimeri sintetici e naturali possono acquisire una vasta gamma di proprietà fisico-
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chimiche; possono avere la capacità di essere sottoposti a tecniche di processing dei
polimeri sintetici oltre a consentire la biocompatibilità e le interazioni biologiche dei
polimeri naturali, come l’adesione. Quando invece due o più monomeri diversi si
uniscono per polimerizzare, il prodotto viene chiamato copolimero e il processo è detto
copolimerizzazione. La copolimerizzazione è una procedura in grado di condizionare
fortemente le proprietà fisiche, quali la cristallinità e la temperatura di fusione (Tm).
Poiché un copolimero consiste di almeno due tipi di unità costitutive (anche unità
strutturali), i copolimeri possono essere classificati in base a come queste unità sono
disposte lungo la catena. I copolimeri casuali (o random) sono quei polimeri in cui le
unità monomeriche si susseguono casualmente nella catena. I copolimeri ad innesto (o
graft) sono copolimeri ramificati in cui i componenti della catena laterale sono
strutturalmente diversi da quelli della catena principale. La copolomerizzazione a blocchi
rappresenta una delle possibilità di preparazione di polimeri innovativi, biodegradabili
ed altamente flessibili: i copolimeri a blocchi comprendono due o più subunità
omopolimeriche collegate da legami covalenti e detengono proprietà uniche, modulabili
in un range che si estende da plastiche rigide ad elastomeri, per la combinazione della
natura identificativa di entrambi gli omopolimeri [6]. La preparazione dei copolimeri ad
innesto è stata utilizzata per decenni. Esistono vari metodi di sintesi che possono essere
impiegati per conferire proprietà fisiche diverse a seconda dell’applicazione. Si possono
ottenere materiali resistenti agli urti spesso usati come elastomeri termoplastici,
compatibilizzanti o emulsionanti per la preparazione di miscele o leghe stabili.
Generalmente, dai metodi di innesto per la sintesi del copolimero si ricavano materiali
che sono più termostabili delle loro controparti omopolimeriche. Ci sono tre metodi di
sintesi di un polimero ad innesto: grafting to, grafting from, grafting through. Nel
metodo grafting from lo scheletro macromolecolare è modificato chimicamente per
introdurre siti attivi a livello dei quali avviene l’innesto. Il grafting through, anche detto
metodo del macromonomero, consiste nel far reagire un monomero di un peso
molecolare inferiore con un macromonomero funzionalizzato. L’approccio più utilizzato,
grafting to, che è quello contemplato in questo lavoro di tesi, si basa sull’attacco
(covalente o non) di un polimero ad una biomacromolecola e un modo efficace può
essere la preparazione di un polimero con dei gruppi funzionali capace di istaurare un
accoppiamento complementare con le funzionalità presenti sui residui amminoacidici di
proteine o peptidi, o ancora di polimeri naturali come i gruppi amminici del chitosano.
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Figura 1.4. I tre metodi più comuni di sintesi di polimeri ad innesto. In alto a sinistra
grafting to, al centro grafting from, in basso a sinistra grafting through.
1.1.3 Electrospinning
Lo sviluppo di scaffold che imitano l'architettura del tessuto alla nanoscala è una delle
principali sfide nel settore dell'ingegneria dei tessuti. L’electrospinning è un metodo
convenzionale efficace usato per fabbricare scaffold biomimetici di dimensioni micro e
nanometriche, costituiti da una vasta rete di fibre e pori interconnessi che hanno lo
scopo di mimare l'ECM. Si tratta di una tecnica semplice ed economica per il set up
impiegato; è stata sviluppata nella prima metà del 20° secolo ed è stata impiegata per la
fabbricazione di scaffold con una vasta gamma di polimeri biodegradabili, come il poli (Ɛ-
caprolattone) (PCL), il poli (acido lattico) (PLA), il poli (acido glicolico) (PGA), il poli
(lattico-co-glicolico) (PLGA) e i poliuretani (PU). I polimeri artificiali sono dotati di buone
proprietà meccaniche, però sono spesso utilizzati insieme a proteine (collagene, elastina
e gelatina) e polimeri naturali (come chitina, chitosano, alginato, ecc.) per ottenere
materiali caratterizzati da maggiori biocompatibilità, stabilità alla degradazione e affinità
potenziata ai componenti cellulari [7]. La copolimerizzazione e la miscelazione del
polimero sono due mezzi efficaci per combinare diversi polimeri per ottenere proprietà
ottimali in termini di processabilità e biocompatibilità/bioattività nei substrati fabbricati.
Pertanto, selezionando una combinazione di componenti adeguati e regolando il
rapporto componente, si possono realizzare scaffold nanofibrosi elettrospinnati con
determinate proprietà fisiche e biologiche per svariate applicazioni biomediche quali il
tissue engineering [8], ma anche rilascio di farmaci. La realizzazione di scaffold
nanofibrosi per applicazioni di ingegneria tissutale riguarda il tessuto muscolo-
scheletrico, quindi osso [9], cartilagine, legamenti e muscolo scheletrico, i tessuti cutanei
[10], il tessuto vascolare [11], i tessuti neurali [12].
Le caratteristiche delle nano-fibre ottenute per electrospinning sono:
• diametri ultrafini a 100 nm;
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• grande area superficiale con valori prossimi a 100 mq/g;
• pori delle dimensioni di qualche micron.
SET UP
Figura 1.5. Schema di un tipico set up per electrospinning.
Un tipico set up per electrospinning è composto da:
• Siringa: contiene la soluzione polimerica;
• Pompa: genera il flusso di soluzione polimerica;
• Generatore di tensione: genera la differenza di potenziale tra l'ugello e il collettore;
• Collettore metallico: raccoglie le fibre.
L'electrospinning si realizza applicando un campo elettrico ad alto voltaggio ad un
capillare, dotato di un ugello di dimensioni millimetriche, che è riempito con il polimero
e un solvente. La tensione applicata viene trasmessa alla goccia della soluzione
polimerica agendo come uno degli elettrodi. Questa tensione genera una forza
elettrostatica. Sulla goccia agisce anche la tensione superficiale della soluzione che
tende a trattenere il fluido all'interno del capillare. Il campo ad alta intensità genera
delle cariche superficiali sulla soluzione, che si respingono tra di loro e generano degli
sforzi di taglio. Tali forze di repulsione si oppongono alla tensione superficiale,
generando una distensione della goccia di fluido sulla punta del capillare e la formazione
di un cono che prende il nome di cono di Taylor. Quando la forza elettrostatica supera la
tensione superficiale si genera un getto carico diretto verso un elettrodo collettore.
Durante il percorso dall'ago al collettore, il diametro del getto diventa più sottile
raggiungendo anche dimensioni nanometriche [13]. Esistono diversi tipi di collettore a
seconda del tipo di struttura fibrosa che si desidera ottenere: per ottenere delle
membrane di fibre distribuite in maniera random si utilizza il collettore piano, per
realizzare delle fibre allineate (utili nella rigenerazione di tessuti che hanno un certo
livello di anisotropicità, come ad esempio il tessuto nervoso) è possibile utilizzare un
collettore rotante, il quale, ruotando ad una velocità ben definita, raccoglie le fibre
imprimendo un orientamento. Ѐ ancora possibile avvalersi dell’uso di una bacchettina
metallica di 1-2 mm di diametro, per raccogliere le fibre al fine di ottenere un tubicino
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poroso per la rigenerazione del nervo periferico o dei vasi sanguigni. Ѐ possibile inoltre
utilizzare l’electrospinning con ugello coassiale per realizzare delle fibre cave, che
possono ad esempio essere impiegate per il rilascio di farmaco.
1.6. Rappresentazione schematica di tecnologia electrospinning con collettore piano
(a) e collettore rotante (b).
Anche se le parti che compongono l'attrezzatura sono semplici, ci sono alcune difficoltà
nell'impostazione dei parametri sperimentali. Il processo, infatti, è influenzato da diversi
parametri, collegati tra loro, che possono influenzare il risultato. La pompa che spinge in
maniera controllata lo stantuffo fa uscire una certa quantità di soluzione nell’unità di
tempo, dunque gestisce la velocità di fuoriuscita dall’ugello. Tra siringa e collettore il
solvente evapora: quello che resta è solo materiale. La morfologia delle nanofibre e la
presenza di difetti dipendono dai cosiddetti parametri di processo e di sistema.
Parametri di sistema:
I parametri di sistema dipendono dalla soluzione polimerica, dal tipo di polimero, da
quanto è omogeneo, dalla sua struttura (se è lineare, ramificato, ecc), dalla distribuzione
dei pesi molecolari e dalle proprietà della soluzione (viscosità, conducibilità, tensione
superficiale), che dipendono anche dal solvente.
Esiste una concentrazione minima al di sotto della quale si instaura un processo di
"electrospray" ed una concentrazione massima oltre la quale la soluzione è
eccessivamente viscosa per garantire un processo continuo. Se la concentrazione è
elevata nel range ottimale, le fibre hanno un diametro maggiore.
Inoltre a viscosità troppo basse non si formano fibre continue, mentre a viscosità troppo
elevate, il getto polimerico ha difficoltà a formarsi.
La tensione superficiale dipende soprattutto dal solvente. Se il solvente molto volatile,
posso ottenere fibre microstrutturate, porose. Riducendo la tensione superficiale, si
riduce la formazione di fibre con difetti. Ad elevata tensione superficiale, il getto è
instabile e si possono formare difetti (gocce o beads).
16
La conduttività dipende dal polimero, dal solvente e dalla presenza di sali in soluzione. Al
crescere della conduttività il diametro delle fibre decresce. Se la conduttività è
eccessivamente bassa, non si formano fibre continue ma queste presentano dei difetti.
Tuttavia soluzioni eccessivamente conduttive sono altamente instabili in campi elettrici
intensi e la regione di instabilità molto marcata, portando a fibre con diametri molto
disomogenei.
Il peso molecolare influenza la viscosità, la tensione superficiale, la conduttività e la
resistenza dielettrica. Generalmente i polimeri più facilmente filabili hanno un alto peso
molecolare, mentre i polimeri a basso peso molecolare tendono a formare beads. Un
alto peso molecolare aumenta infatti le interazioni inter-catena e causa maggiori
attorcigliamenti fisici di catena (entanglements) che contribuiscono a stabilizzare il getto
polimerico. Inoltre, maggiore è il peso molecolare del polimero e maggiore è il diametro
delle fibre. Un polimero a struttura lineare è più facilmente filabile, a seguito delle
maggiori interazioni inter-catena.
Parametri di processo:
Il generatore (potenziale elettrico), distanza ago-collettore, pompa che influenza il flusso
della soluzione polimerica, parametri ambientali (come temperatura, umidità, velocità
dell’aria nella camera), movimentazione dello schermo di raccolta. Infatti il collettore
può essere di tipo piano, (alluminio o un foglio di plexiglass), oppure più complesso:
permette di raccogliere le fibre in modalità allineata con un mandrino rotante. Quindi si
può ottenere una morfologia random o allineata. Quest’ultima è tipica dei tessuti
fisiologici come muscoli e tessuto nervoso.
Esiste un voltaggio minimo al di sopra del quale le fibre possono formarsi. Aumentando
il voltaggio al di sopra della soglia minima, le fibre mostrano inizialmente diametri
progressivamente minori (in quanto crescono le forze repulsive all'interno del getto che
ne favoriscono l'assottigliamento. Il diametro delle fibre diminuisce perché la carica sulla
soluzione polimerica e quindi la forza attrattiva sul collettore è maggiore, quindi tende a
stretchare maggiormente la fibra). Tuttavia è anche vero che ad alti voltaggi si può avere
un aumento dei diametri causato dalla maggiore quantità di getto eiettata. In genere si
usano dei campi elettrici molto intensi, quindi delle differenze di potenziale elevate
(20000-30000V).
La velocità di flusso influenza la velocità del processo. A bassi flussi il processo è più
lento e ciò consente l'evaporazione del solvente prima che le fibre raggiungano il
collettore. Se il flusso è eccessivo, si ottengono fibre con difetti (beads). Il diametro delle
fibre (più materiale nell’unità di tempo) e i pori delle membrane elettrofilate crescono al
crescere del flusso. Il processo non è lineare, vale negli intervalli di spinnabilità della
soluzione, ossia dove posso ottenere delle fibre senza difetti.
Distanza ugello (capillare)-collettore: esiste una distanza minima al di sotto della quale le
fibre non possono formarsi perché il solvente non ha tempo di evaporare. All'aumentare
17
della distanza solitamente il diametro delle fibre diminuisce, in quanto aumenta il tempo
in cui il getto è stirato sotto l'azione del campo elettrico.
La portata della soluzione attraverso l'ago della siringa può influenzare la presenza di
difetti sulle fibre e il diametro della fibra.
Inoltre, i parametri ambientali quali la temperatura, l'umidità relativa e la velocità
dell'aria all'interno della sala elettrofilante possono influenzare il processo di
elettrofilatura, influenzando l'evaporazione del solvente dalla soluzione durante il
processo.
Difetti di filettatura: se i parametri non sono ben ottimizzati, posso ottenere
geometrie con fibre non omogenee, a diametri differenti.
• Ci sono i beads: palline di polimero, disomogenee per diametro; rigonfiamenti della
fibra. La formazione "a pallone collassato" è indice di un'evaporazione del solvente
lenta, che è avvenuta solo dopo la deposizione sul collettore.
• morfologia random, a nastri: i nastri sono presenti quando le fibre, ancora ricche di
solvente, collassano su se stesse, perdendo la loro forma cilindrica; la morfologia si
appiattisce perdendo la geometria cilindrica e si ottengono dei nastri. Se ci sono
solventi residui, attenzione, perché sono tossici.
• difetti superficiali i parametri di processo e di sistema devono essere ottimizzati al
fine di ridurli.
1.1.4 Fused Deposition Modeling (FDM)
Quando si producono gli scaffold bisogna tenere necessariamente in considerazione
alcune specifiche architetturali:
• Il grado di porosità deve essere molto elevato, da un minimo del 70% fino ad un
massimo del 95%;
• La dimensione dei pori deve rientrare in un range critico il cui valore minimo
dipende dalla dimensione delle cellule che colonizzano lo scaffold e il valore
massimo dipende dall’area superficiale.
Utilizzando le tecniche convenzionali si possono ottenere dei valori di porosità medi e
dimensione dei pori media ottimale per la specifica applicazione ma non si può garantire
in alcun modo l'architettura disomogenea dei pori, la loro interconnessione e la
creazione di canali all'interno della struttura. Le tecniche convenzionali comportano
degli svantaggi quali la scarsa riproducibilità e il controllo limitato sull'architettura dello
scaffold.
Per risolvere questi problemi nascono le tecniche non convenzionali che permettono di
controllare il processo di produzione ottenendo degli scaffold che sono esattamente
identici e con pori interconnessi. La presenza di pori interconnessi garantisce una buona
permeabilità dello scaffold e permette alle cellule la completa colonizzazione e quindi
una buona vascolarizzazione [14]. Queste tecniche possono generare un modello fisico
18
direttamente tramite computer attraverso i dati di progettazione. Si basano sul disegno
del modello utilizzando un software di progettazione aggiunto (CAD). Il processo è
additivo e ogni parte è costruita layer-by-layer.
Le tecniche non convenzionali, o di prototipazione rapida, sono utili in moltissimi ambiti
e sono molto variegate. L’aspetto che le accomuna è l’approccio di prototipazione
rapida che consiste nell’avere la struttura tridimensionale da produrre. La struttura, nel
campo biomedicale, potrebbe essere un difetto del paziente che si vuole andare a
riparare con un approccio di Tissue Engineering, producendo uno scaffold che riempie in
maniera precisa il difetto.
1. Il primo passo è visualizzare il difetto del paziente tramite le tecniche di imaging
disponibili e dalle quali si ottiene l’immagine del difetto per ricavare informazioni
sull’architettura che dovrà avere lo scaffold.
2. Dall’immagine viene prodotto un modello CAD 3D.
3. L’oggetto viene scomposto in una serie di layer bidimensionali e si ricavano i dati per
la riproduzione di ogni layer.
4. Dai dati ottenuti, la macchina riesce a costruire lo scaffold strato su strato in
maniera controllata; grazie a questa tecniche si ottengono scaffold personalizzati,
specifici per il difetto del paziente.
5. Mediante una delle tante tecniche disponibili si produce lo scaffold.
I vantaggi di queste tecniche sono molteplici:
• Elevata riproducibilità;
• Pori interconnessi;
• Controllo del processo di fabbricazione;
• Processo automatizzato e facilmente industrializzabile;
• Scaffold personalizzati, adatti alle esigenze del paziente;
• Possibilità di processare diversi materiali contemporaneamente per ottenere
scaffold bifunzionali.
19
Figura 1.7. Diagramma schematico del processo di estrusione e deposizione FDM.
La Fused Deposition Modeling (FDM) si avvale dell’aiuto di un dispensatore (feeder); il
polimero in forma di bobina o grani viene inserito in una testa di estrusione dov’è
sottoposto ad elevata temperatura e viene depositato da fuso su una piattaforma in
maniera precisa secondo il modello CAD del layer [15]. C’è un moto relativo tra il
dispensatore e la piattaforma. Sono possibili generalmente tre configurazioni:
1) Il dispensatore si muove lungo i tre assi e la piattaforma è fissa;
2) Il dispensatore si muove lungo l’asse z e la piattaforma sul piano x-y [16]
3) Il dispensatore si muove sul piano x-y e la piattaforma lungo l’asse z.
Terminata la deposizione dello strato, la testina viene alzata di un’altezza pari allo
spessore del layer da depositare e si procede così per tutti i layer.
Figura 1.8. processo FDM di base.
20
• Step1: importazione dei dati CAD in formato stl (STereoLithography) in un SW di
slicing.
• Step2: divisione del modello CAD in strati orizzontali e conversione in formato slc
(SLiCe).
• Step3: Creazione del percorso di deposizione per ogni strato e conversione in
formato sml (Stratasys Machine Language) per caricalo sulla macchina FDM.
• Step4: processo di fabbricazione utilizzando un materiale sotto forma di filamento in
maniera additiva layer-by-layer [15].
I parametri di processo FDM del riempimento di ogni livello dipendono dagli input
precedenti nel software. Includono la velocità della testa, la velocità del rullo, l’intervallo
della fetta e la direzione di deposizione all'interno di ogni strato. Ogni layer è costituito
da “percorsi” depositati nelle direzioni X e Y, in un raster, una sagoma o una
combinazione dei due. La direzione di deposizione è nota come “angolo di raster” e
viene specificata per ogni layer da un valore compreso fra 0° e 180° rispetto all’asse X. La
larghezza del percorso (RW) è controllata sia dai parametri di flusso ad una temperatura
impostata al di sopra della Temperatura di fusione del materiale termoplastico ma
anche dalla dimensione della punta dell’ugello utilizzata.
Con questa tecnica è possibile lavorare più materiali contemporaneamente utilizzando
più siringhe; spesso questa è un’esigenza costruttiva per ottenere un layer
bidimensionale, cioè può essere necessario un materiale di supporto per ottenere delle
porosità. Ad esempio, durante la deposizione di un layer su un altro con delle porosità,
se il poro ha una grande dimensione e la viscosità del materiale è bassa, lo strato rischia
di collassare facendo sì che si perda la geometria. Il materiale riempitivo caricato nella
seconda siringa deve essere solubile in un solvente diverso rispetto al materiale
strutturale. Se ad esempio il materiale strutturale è il PCL (solubile solo in solventi
organici), quello riempitivo potrebbe essere il PEO che si scioglie in acqua; si può
allontanare il PEO per lavaggio in acqua.
Con questa tecnica si ottengono scaffold caratterizzati da filamenti polimerici con
pattern diversi. Ѐ una tecnica economica perché le macchine sono poco costose, ma
lavorano solo con polimeri specifici della bobina (ABS, policarbonati, policaprolattone).
Per applicazioni di TE possono essere necessari altri tipi di polimeri. A tal proposito sono
state progettate macchine in cui la testina di estrusione viene alimentata da polveri o da
pellet ed è in grado di resistere ad un ampio range di temperature di fusione per poter
utilizzare svariati materiali. I materiali nella testina d’estrusione subiscono il processo di
fusione e vengono spinti, attraverso l’ugello, sulla piattaforma. Queste macchine per
Fused Deposition Modeling, sono molto più performanti ma anche più costose.
1.2 Strategie di coniugazione dei polimeri presenti in letteratura
Un approccio ben noto del TE è la realizzazione di scaffold 3D composti da polimeri
naturali e sintetici. Ad esempio il policaprolattone (PCL) è stato largamente usato a
questo scopo grazie alla sua biocompatibilità, bioriassorbibilità e buone proprietà
21
meccaniche. Come molti altri polimeri sintetici è caratterizzato da una scarsa adesione
cellulare, ragion per cui si decide di abbinarlo ad altri polimeri naturali che suppliscano a
questa mancanza. Un possibile polimero naturale è il chitosano (CHS). Sono state
descritte numerose strategie di fabbricazione di scaffold a base di PCL e CHS. I primi
approcci riguardano la preparazione di un blend. Negli ultimi 15 anni sono stati riportati
diversi lavori di blend PCL/CHS in letteratura. Per molte preparazioni è stata utilizzata la
tecnica di electrospinning. Sono state inoltre condotte ricerche riguardo alla
copolimerizzazione di polimeri sintetici (PCL, PLA e PLGA) con polimeri naturali. Un
tentativo di successo è risultato il copolimero biosintetico descritto da Wiens et all [9]. In
questo lavoro si sviluppa e ottimizza un protocollo per la sintesi di CHS-graft-PCL, un
materiale biosintetico per migliorare la rigenerazione ossea. Il materiale si è rivelato
biocompatibile con aumentate mineralizzazione cellulare e attività ALP (fosfatasi
alcalina). Un altro lavoro presente in letteratura vede lo sviluppo di un copolimero
biosintetico PCL-graft-collagene in grado di essere processato attraverso tecniche
tradizionali di TE. Anche in questo lavoro si usa la chimica delle carbodiimidi per
aggraffare il collagene al PCL [17]. Un altro approccio di coniugazione tra PCL e CHS
prevede invece la polimerizzazione mediante ring-opening (ROP) dell’Ɛ-caprolattone
impiegando dimetilamminopiridina come catalizzatore e acqua come agente di swelling.
Il primo monomero di dell’Ɛ-caprolattone viene fatto reagire con il chitosano e il peso
molecolare medio del PCL aumenta gradualmente aggiungendo un monomero di
caprolattone alla volta [18] [19].
Figura 1.9. Copolimerizzazione mediante ROP dell’ dell’Ɛ-caprolattone
1.3. Sintesi mediante chimica delle carbodiimidi
L’idea è quella di formare dei legami ammidici tra i gruppi amminici NH2 del chitosano e i
gruppi carbossilici COOH del PCL mediante la chimica delle carbodiimidi. Questo
approccio prevede l’attivazione dei gruppi esterei del PCL con le carbodiimidi prima di
far avvenire la reazione di aggraffaggio covalente con il chitosano. Le carbodiimidi sono
dei gruppi di reticolazione carbossi-reattivi che forniscono coniugazione specifica e
diretta agli acidi carbossilici (-COOH) con le ammine primarie (-NH2) tramite legami
ammidici. Le più facilmente reperibili e comunemente usate sono le EDC, idrosolubili per
reticolazione acquosa, e le DCC, insolubili in acqua, per metodi di sintesi organici non
acquosi.
22
Figura 1.10. Schema della reazione di crosslinking mediante carbodiimidi
La DCC reagisce con i gruppi di carbossilici e per formare O-acilisourea, un intermedio
instabile in soluzione acquosa, che è facilmente spostato dall’attacco nucleofilo dai
gruppi amminici primari nella miscela di reazione. L'ammina primaria forma un legame
ammidico con il gruppo carbossile e viene rilasciato il sottoprodotto dicicloesilurea
(DCU).
Figura 1.11. Estere NHS
L'N-idrossisuccinimmide (NHS) è inclusa nel protocollo di accoppiamento DCC per
migliorare l'efficienza e permette l’attivazione delle molecole contenenti il gruppo
carbossilico. NHS interagisce col composto intermedio instabile formando il composto
Estere-NHS ammino-reattivo. La DCC accoppia l’NHS al gruppo carbossilico, formando un
estere di NHS che è considerevolmente più stabile dell'intermedio. A questo punto si
forma il legame ammidico tra i gruppi funzionali di PCL e CHS.
1.4 Obiettivo del lavoro di tesi
L’obiettivo principale di questo lavoro consiste nello sviluppo di un materiale
bioartificiale che combini la buona processabilità dei materiali sintetici con l’elevata
biocompatibilità dei materiali naturali al fine di ottenere dei materiali innovativi
destinati applicazioni biomediche, che siano più efficienti rispetto a quelli ottenuti con i
diversi approcci come le miscele polimeriche per applicazioni di ingegneria tissutale.
Il lavoro si focalizza sull'ottimizzazione del protocollo di sintesi di un materiale
bioartificiale che combini il policaprolattone (PCL) con un polisaccaride (il chitosano,
23
CHS) e sulla valutazione, attraverso diversi test di caratterizzazione fisico-chimica, del
successo della strategia di coniugazione.
Successivamente il materiale è stato impiegato nella fabbricazione di scaffold tramite la
tecnica di electrospinning e mediante stampante 3D attraverso la tecnica di Fused
Deposition Modeling (FDM). La tesi è stata condotta presso il Dipartimento di Ingegneria
Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino, dove i materiali sono stati sviluppati.
In letteratura sono proposte numerose strategie di coniugazione, comunque molti studi
vertono sull'aggraffaggio di PCL al chitosano per applicazioni di tissue engineering. In
relazione a questo settore molti problemi sono dovuti alle proprietà dei materiali
naturali e alla poca possibilità di scelta. Le difficoltà sono legate alle deboli proprietà
meccaniche, alla stabilità chimica, alla lavorabilità e processabilità del chitosano che
vedono necessaria la concomitanza con altri materiali sintetici. Questi ultimi sono dotati
di elevate proprietà meccaniche e facile processabilità, scarseggiano invece in quanto a
biocompatibilità rispetto ai materiali naturali. Da qui nasce l'esigenza di strategie per
combinare al meglio le classi dei due tipi di materiale per ottenere le migliori proprietà
da entrambi.
24
2 MATERIALI E METODI In questo capitolo si riporta in maniera dettagliata l’elenco dei materiali utilizzati e i
protocolli sperimentali impiegati per la sintesi del materiale bioartificiale e per la
fabbricazione di strutture sia elettrofilate che stampate mediante FDM. Inoltre si riporta
l’insieme di tecniche utilizzate per la caratterizzazione.
2.1 Materiali
Una prima fase del lavoro è stata dedicata alla sintesi del copolimero, presso i laboratori
del dipartimento di ingegneria meccanica e aerospaziale (DIMEAS) del Politecnico di
Torino. I materiali utilizzati forniti da Sigma Aldrich sono:
• Policaprolattone (PCL) (440744-250G, Mn ~ 70.000-90.000 Da);
• Ossido di Polietilene (PEO) (Mw 900 kDa);
• N,N’-Dicicloesilcarbodiimide DCC 99% (A10973);
• N-idrossisuccinimmide (NHS) (56480, 25 g);
• Dimetilformammide (DMF), (444926 1L);
• Diclorometano (DCM), (D65100-2.5L);
• Acido acetico glaciale, 99.8% (537020-2.5KG);
• Idrossido di Sodio NaOH 3 M;
• Fosfato di Sodio Bifasico (DSP);
• Dimetilsolfossido DMSO;
• Etanolo 30% v/v (30% etanolo, 70% acqua distillata);
• Soluzione di fenolo, 80% in etanolo, (77615-50ML-KC-F);
• Soluzione Cianuro di Potassio (KCN) in H2O / piridina (60181-50ML-KC-F);
• Ninidrina, 6% in etanolo (72495-50ML-KC-F).
Il Chitosano 95/100 HMC+ (Mw 100 kDa, grado di deacetilazione 95%) è stato invece
fornito dalla Heppe Medical.
Chitosano
Figura 2.1. Struttura chimica del chitosano.
25
Con una struttura ripetitiva di _- (1,4) - 2-amino-2-deossi -_-d-glucosio, il chitosano è un
polisaccaride naturale, a catena lineare composto da D-glucosamina ed N-acetilD-
glucosamina, tramite legami β1→4. Ѐ ottenuto per deacetilazione totale o parziale della
chitina, risorsa naturale abbondante, componente delle pareti cellulari dei funghi e degli
esoscheletri di artropodi come i crostacei ed insetti. La cinetica di degradazione del
chitosano è di 12 settimane. Ѐ un polimero biocompatibile e non trombogenico. Ha una
struttura molto simile a quella dei GAG e questo consente delle specifiche interazioni
con l'ECM, in particolare biomolecole, recettori e fattori di crescita. Il chitosano è tra i
polimeri naturali maggiormente utilizzati in applicazioni biomedicali, quali ingegneria
tissutale, rimarginazione delle ferite e rilascio di molecole bioattive [8]. In particolare,
l'esclusiva natura policationica, dovuta alla grande quantità di ammine primarie,
consente di modificare facilmente la catena di chitosano e gli conferisce varie funzioni
affascinanti, tra cui l'attività antibatterica, la solubilità in solventi polari come acido
acetico diluito, acido formico e una notevole affinità con le proteine e il DNA [20].
Sfortunatamente, l'applicazione di chitosano soffre di molti inconvenienti come
insufficienti proprietà meccaniche, specialmente la fragilità, scarsa solubilità (bassa
solubilità in acqua e insolubilità in solventi organici comuni) e processabilità (plasticità
non termica), risultante dai forti legami idrogeno intramolecolare e intermolecolare tra
gruppi idrossili e gruppi amminici. Pertanto, per estendere le applicazioni del chitosano
si utilizza spesso con i poliesteri in copolimeri a innesto come il chitosano-g-poli
(metilmetacrilato), chitosan-g-poliacrilonitrile, chitosan-g-poli (vinil acetato), chitosan-g-
poli (acido L-lattico), chitosan-g-poli (alcol vinilico) e chitosan-g-poli (1,4-dioxan-2-one).
Ne risulta una combinazione delle proprietà dei due materiali. Ad esempio, il chitosano
può efficacemente tamponare l'acidità dei prodotti di degradazione dei poliesteri grazie
alle sue caratteristiche di base [18].
Poli (ε-caprolattone) (PCL)
Figura 2.2. Struttura chimica del policaprolattone.
Il policaprolattone (PCL) è un poliestere alifatico, sintetico biodegradabile,
bioriassorbibile, biocompatibile e non tossico, originariamente sintetizzato da Carothers
mediante polimerizzazione con apertura dell’anello (ROP) dell’estere ciclico ε-
caprolattone. La presenza dei 5 gruppi etilenici -CH2 conferisce idrofobicità alla struttura
complessiva, ragion per cui il PCL è, tra i poliesteri, quello a degradazione più lenta (2
anni). È un materiale semicristallino caratterizzato da una temperatura di fusione Tm a
59-64°C (superiore a quella corporea) e temperatura di transizione vetrosa Tg prossima
a -60°C. Quest'ultima è particolarmente bassa rispetto ad altri polimeri bioriassorbibili
26
usati per applicazioni biomediche. Per questo motivo il PCL risulta molto flessibile a
temperatura fisiologica. Da un punto di vista meccanico il PCL sembra essere il
poliestere meno rigido (modulo elastico nel range 0.2-0.4 GPa), con un'elevata
deformazione a rottura. La temperatura di decomposizione è di circa 360 °C. Questo
consente l’estrusione per la Fused Deposition Modeling (FDM) [21]. Si ottiene per
polimerizzazione con apertura ad anello usando l'ottanoato stannoso come
catalizzatore. A causa della sua lenta cinetica di degradazione il PCL si usa poco per la
fabbricazione di scaffold rispetto agli altri poliesteri. Il fatto che a temperatura ambiente
si trovi nello stato gommoso e l’elevata elongazione finale (>700%) giustificano l’impiego
del PCL ad elevato peso molecolare come additivo, presente generalmente in quota
maggioritaria in molti sistemi polimerici. Tuttavia possiede una migliore resistenza
idrolitica e un basso costo rispetto ad altri polimeri biodegradabili. Sono state prodotte
nanofibre elettrofilate utilizzando diversi solventi; in particolare si è visto che il DMF
migliora la tensione superficiale, la viscosità e la conduttività elettrica.
Ossido di polietilene (PEO)
Figura 2.3. Struttura chimica dell’ossido di polietilene.
Ѐ un polimero semicristallino, altamente idrofilo e solubile in acqua. La sua degradazione
avviene per ossidazione. Si adopera per rivestimenti antifouling e trasporto di farmaci o
molecole bioattive. Il PEO è un biomateriale comunemente usato in Ingegneria Tissutale,
nella forma di idrogelo. Le proprietà fisiche del polimero infatti variano in base alla
lunghezza media delle macromolecole, ovvero al numero medio n di unità ripetitive,
mentre le proprietà chimiche rimangono pressoché inalterate. È stato uno dei primi
polimeri processati con la tecnica dell’electrospinning perché è facile da preparare, in
quanto può essere sciolto in solventi organici e acquosi. Le nanofibre elettrospinnate
sono uniformi e solitamente il PEO è mescolato con un altro polimero, soprattutto se si
devono realizzare scaffold.
N,N’-dicicloesil carbodiimide (DCC)
Figura 2.4. Struttura chimica della N,N’-dicicloesil carbodiimide.
27
La N,N'-dicicloesil carbodiimide è un composto organico il cui utilizzo principale è quello
di unire gli amminoacidi durante la sintesi di un peptide. È altamente solubile
in diclorometano, tetraidrofrano, acetonitrile e dimetilformammide, ma insolubile
in acqua.
N-idrossisuccinimmide (NHS)
Figura 2.5. Struttura chimica della N-idrossisuccinimmide (DCC).
Ѐ un composto organico usato come reagente attivante per acidi carbossilici. Gli acidi
attivati (fondamentalmente esteri con un buon gruppo in uscita) possono reagire con le
ammine per formare ammidi, ad esempio, mentre un normale acido carbossilico
formerebbe semplicemente un sale con un'ammina.
Dimetilformammide (DMF)
Figura 2.6. Struttura chimica della dimetilformammide (DMF).
Le soluzioni di PCL e quelle di NHS e DCC sono state preparate utilizzando come solventi
sciogliendo il materiale a determinate concentrazioni in N,N-dimetilformammide e
diclorometano. Il DMF è un solvente polare e aprotico, liquido e incolore, dal
caratteristico odore di ammina. Quello usato per le prove in laboratorio è stato
acquistato dalla Sigma Aldrich.
28
Diclorometano (DCM)
Figura 2.7. Struttura chimica del Diclorometano (DCM).
La sua struttura è analoga a quella del metano, ma con due atomi di idrogeno sostituiti
da altrettanti atomi di cloro. A temperatura ambiente si presenta come un liquido
incolore e volatile dall'odore dolciastro.
Acido Acetico
Figura 2.8. Struttura chimica dell’acido acetico.
L’acido acetico (o acetico etanoico) un composto chimico organico la cui formula
chimica è CH3COOH. L'acido acetico puro, anidro (ovvero privo di acqua),
chiamato acido acetico glaciale, a temperatura ambiente è un liquido incolore che attrae
acqua dall'ambiente. Il sovente utilizzato in laboratorio come solvente per il chitosano è
l’acido acetico 0.5 M realizzato con acido acetico glaciale della Sigma Aldrich.
Fosfato di Sodio Bifasico (DSP)
Fosfato di sodio o fosfato disodico o disodio fosfato o fosfato di sodio bifasico (Na2HPO4)
è un sale di sodio dell’acido fosforico. Si presenta come una polvere bianca, altamente
igroscopica e solubile in acqua.
Dimetilsolfossido (DMSO)
Figura 2.9. Struttura chimica del dimetilsolfossido (DMSO).
29
Ѐ un composto organico appartenente alla categoria dei solfossidi. Si presenta a
temperatura ambiente come un liquido incolore e inodore particolarmente igroscopico.
Il DMSO è un solvente aprotico, miscibile con una vasta gamma di solventi, fra cui alcoli,
eteri, chetoni. Inoltre è miscibile in tutte le proporzioni con l’acqua.
2.2 Metodi
2.2.1 Protocollo di sintesi di CHS-graft-PCL
Il protocollo seguito per la sintesi del materiale bioartificiale CHS-graft-PCL in questo
lavoro di ricerca è stato estrapolato dall’articolo di Wiens et al. [9]. Per far avvenire la
reazione di copolimerizzazione è stata sfruttata la chimica delle carbodiimidi.
1. Il Policaprolattone (Mw 80000) è stato sciolto (2% w/v) in DCM/DMF 50:50% v/v. Il
Dimetilformammide è stato utilizzato perché è miscibile in acqua, ma anche perché
le NHS sono solubili in questo solvente.
2. Sono state preparate parallelamente:
a. Una soluzione 0.5M di N,N'-dicicloesilcarbodiimmide (DCC) (Mw 0,20633
g/mol) disciolte in 2 ml di DCM/DMF 50:50% v/v
b. Una soluzione 0.5M di N-idrossisuccinimmide (NHS) (Mw 0,11509 g/mol)
disciolte in 2 ml di DCM/DMF 50:50% v/v.
3. Sono state aggiunte le soluzioni di DCC e NHS 2.5 mM in DMF/DCM alla soluzione di
PCL.
4. Si è sottoposto a dialisi la soluzione di PCL-DCC/NHS per 24 ore al fine di filtrare le
carbodiimidi residue che non hanno reagito.
5. Il Chitosano (140-220 kDa, grado di deacetilazione 93%) è stato disciolto al 2% w/v
in acido acetico 0.5 M. In seguito la soluzione di chitosano è portata a pH=5.5.
6. Sono stati miscelati 50 ml di Chitosano a 12.5 ml di PCL attivato aggiungendo goccia
a goccia la prima alla seconda soluzione in agitazione.
7. Il pH è stato aggiustato a 8 (con NaOH 3 M) in modo da avere un ambiente basico
per indurre una parziale deprotonazione del chitosano.
8. Si è posto in agitazione per 24 ore a 50°C.
9. Il risultate materiale è stato lavato in etanolo (30% v/v)/isopropanolo (30% v/v), fuso
per la successiva applicazione e asciugato sotto vuoto.
2.2.2 Ottimizzazione del protocollo di sintesi di CHS-graft-PCL
Per la sintesi del materiale è stato preso a riferimento il lavoro di Wiens et al. [9]
modificando alcuni parametri: la concentrazione delle carbodiimidi e il rapporto in peso
tra i due polimeri (chitosano e policaprolattone). Sono state fatte diverse prove di sintesi
del copolimero con una concentrazione di DCC e NHS pari a:
• 2,5 mM come menzionato nell’articolo di Wiens et al. (campione 1);
• 25 mM secondo quanto riportato invece nel lavoro di Gentile et all. [17]
(campione 2).
30
Dopo un’opportuna caratterizzazione fisica mediante ATR-FTIR si è scelto il campione 2
con concentrazione 25 mM, perché osservando i due spettri si è notato che il secondo
evidenziava in maniera più marcata la presenza dei picchi corrispondenti agli avvenuti
legami ammidici.
Per lo stesso motivo si è deciso di far variare il rapporto in peso PCL-CHS da 1:4 a 1:2, in
quanto nello spettro del copolimero con rapporto PCL-CHS 1:2 si notava meglio la
presenza del PCL. Un’altra variante consiste nel tipo di chitosano utilizzato: Chitosano
95/100 HMC+ (Mw 100 kDa, grado di deacetilazione 95%) al posto di chitosano (140-220
kDa, grado di deacetilazione 93%).
Per prima cosa sono state preparate la soluzione di policaprolattone, carbodiimidi e di
chitosano. In un secondo momento le carbodiimidi sono state aggiunte alla soluzione di
PCL, per ottenere una soluzione di “PCL attivato” da far reagire con la soluzione di CHS.
a. Preparazione della soluzione di Policaprolattone
La soluzione di Policaprolattone (PCL) (Mw 80000) è stata preparata sciogliendo il PCL al
2% (wt/vol) in una miscela di Diclorometano/Dimetilformammide (DCM/DMF) ad un
rapporto 50:50 (vol/vol) e mantenendo in agitazione per 2 ore (180 rpm).
b. Preparazione delle soluzioni di N,N’-dicicloesilcarbodiimide (DCC) N-
idrossisuccinimmide (NHS)
Parallelamente sono state preparate:
• Una soluzione di DCC (Mw 0.20633 g/mol) 25mM disciolta in 2 ml di DCM/DMF
50:50 (vol/vol);
• Una soluzione di NHS (Mw 0.11509 g/mol) 25mM disciolta in 2 ml di DCM/DMF
50:50 vol/vol;
mantenendo in agitazione per 2 ore a 180 rpm.
c. Attivazione del PCL
Le soluzioni di DCC e NHS sono state aggiunte alla soluzione di PCL e si è mantenuto in
agitazione per 12 ore a 180 rpm. Le carbodiimidi attivano il PCL, cioè permettono di
attivare i gruppi carbossilici COOH del poliestere, rendendolo reattivo nei confronti dei
gruppi amminici NH2 delle catene di chitosano, che in ambiente basico è in forma
deprotonata.
d. Dialisi
La soluzione di PCL-DCC/NHS è stata dializzata per un tempo di 24 ore al fine di
eliminare i sottoprodotti e i residui di carbodiimidi che non hanno reagito con il PCL. Il
processo di dialisi è stato eseguito per mezzo di membrane di cellulosa con cut-off,
ovvero dimensione dei pori pari a 10 kDa, in modo da far passare le DCC e le NHS con
peso molecolare inferiore, trattenendo invece il PCL a peso molecolare medio maggiore
(Mw 80000). Le membrane sono state fornite dalla Sigma Aldrich (D9527-100FT, Mw
10335, dimensioni: 43 x 27 mm). Sono liofilizzate, quindi necessitano di qualche minuto
31
in acqua prima dell’utilizzo. Ѐ stato ritagliato un pezzo di membrana di 15 cm circa, è
stato immerso in acqua per qualche minuto. Dopo che è stato liberato dell’acqua in
eccesso, il tubicino di cellulosa è stato chiuso ad una estremità e sono stati versati al suo
interno la soluzione di PCL-DCC/NHS e il magnete. Si è chiuso anche dall’altro lato e si è
posto sull’agitatore magnetico all’interno di un beaker contenente la stessa miscela di
solventi DCM/DMF 50:50 (vol/vol) fino a immergere completamente la membrana.
e. Preparazione della soluzione di CHS
La soluzione di CHS è stata preparata sciogliendo il quantitativo del polimero naturale al
2% (wt/vol) in acido acetico 0.5 M e lasciando in agitazione per 2 ore a 180 rpm.
- Preparazione dell’Acido Acetico 0.5 M: 4.4 ml di acido acetico glaciale sono stati
diluiti in 150 ml di acqua distillata.
Il pH della soluzione di chitosano è stato portato a 5.5 prima di unirla alla soluzione di
PCL attivato aggiungendo goccia a goccia Idrossido di Sodio (NaOH) 3M.
- Preparazione dell’Idrossido di Sodio 3 M: 4 g x 3 di NaOH sono stati sciolti in 100 ml di acqua distillata.
f. Unione delle due soluzioni e titolazione
La soluzione di CHS (100 kDa, grado di deacetilazione 95%, HMC+) è stata infine aggiunta
alla soluzione di PCL attivato goccia a goccia sull’agitatore magnetico a 200 rpm circa. Il
pH della soluzione di CHS-g-PCL è stato aggiustato a 8 in modo da avere un ambiente
basico (con NaOH 3 M). Ad un pH leggermente alcalino il chitosano non dovrebbe essere
più solubile per via delle poche cariche positive (NH3+), dunque dovrebbe
semplicemente precipitare [22]. Il pH della soluzione è stato misurato mediante il
pHmetro HI9125 con l’elettrodo in vetro.
a. La soluzione con pH pari a 8 è stata posta in agitazione per 24 ore a T= 40 °C (200
rpm);
b. Il risultante composto gummy-like è stato poi sottoposto a lavaggio in etanolo 30%
(vol/vol) al fine di rimuovere le DCC residue.
c. Il materiale è stato infine prelevato e si è fatto asciugare sotto cappa. Ѐ stato
successivamente processato per la realizzazione delle membrane elettrofilate e delle
strutture tridimensionali.
32
Figura 2.10. Schema di sintesi del materiale.
2.2.3 Prove di solubilità
Il materiale ottenuto al termine del processo di sintesi è stato pesato e si è provato a
sciogliere il copolimero in diversi solventi realizzando delle soluzioni di 2 ml ciascuna al
10% (wt/vol). I solventi utilizzati in queste prove di solubilità sono:
• Acido Acetico 0.5 M;
• Cloroformio;
• Cloroformio/Acido formico;
• DMSO;
• DCM;
• DMF;
• DMF/Cloroformio;
• Acido formico.
Il copolimero risulta sciogliersi bene solo in due solventi: acido acetico 0.5 M e acido
formico. Ma quest’ultimo solvente non ha portato ad ottenere una buona viscosità della
soluzione finale da elettrospinnare. Per questa ragione è stato scartato e si è deciso di
utilizzare come solvente unicamente l’acido acetico 0.5 M [23].
2.2.4 Ottimizzazione del protocollo per l'electrospinning
Il processo di elettrofilatura è stato eseguito utilizzando l'attrezzatura disponibile presso
il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino. I
componenti principali inclusi nell'apparecchio sono: il generatore di alta tensione, la
camera di elettrofilatura costituita da una cappa dotata di un sistema di ventilazione e di
regolazione di temperatura, la pompa e un collettore collocati all’interno della camera.
33
Figura 2.11. Apparato per electrospinning.
Il generatore di alta tensione (Linari Engineering s.r.l.), in grado di erogare una differenza
di potenziale che va da 0 a 60 kV, deve fornire la tensione richiesta dal processo. Il suo
morsetto positivo è collegato all'ago della siringa, mentre i due morsetti negativi sono
collegati al collettore dove sono depositate le nanofibre. La camera di elettrofilatura
contiene la pompa volumetrica (Linari Engineering s.r.l.), che premendo sul pistone della
siringa, consente di regolare il flusso della soluzione (μl/min) attraverso l'ago.
2.2.4.1 Realizzazione delle nanofibre random e allineate
Preparazione delle soluzioni di CHS-g-PCL e di CHS
Al fine di ottenere nanofibre di CHS-graft-PCL prive di difetti è stato seguito il protocollo
ottimizzato in un lavoro precedente da Tonda-Turo et al. [5] con cui sono state realizzate
appunto anche le nanofibre a base di CHS. Secondo questo studio per elettrofilare il
copolimero, per prima cosa è stata preparata la soluzione di CHS-graft-PCL al 5% wt/vol
disciogliendo il materiale in 3 ml Acido Acetico 0,5 M a temperatura ambiente.
1. Parallelamente è stata preparata la soluzione di poli(etilenossido) (900000 g/mol) al
3% wt/vol disciogliendo il PEO in 3 ml di A.A. 0,5 M [24]. Date la natura policationica
del CHS, la sua struttura chimica rigida e le interazioni inter e intra-molecolari,
l’elettrospinnabilità del CHS è limitata a pH acido e a temperature ambiente. Proprio
al fine di ridurre la sua viscosità si unisce in blend con polimeri facilmente
elettrospinnabili come il PEO [25].
2. Le due soluzioni sono state miscelate e si è posto sull’agitatore magnetico a
temperatura ambiente per due ore.
3. Ѐ stata preparata la soluzione di fosfato di sodio bifasico (DSP), il reticolante ionico
da aggiungere alla soluzione del punto 3. Questo passaggio serve a migliorare la
stabilità delle nanofibre in acqua e per neutralizzare il pH acido delle nanofibre
elettrospinnate al fine di ridurre la citotossicità del materiale finale stesso [26].
34
Figura 2.12. Schema del CHS crosslinkato mediante DSP (reticolante non-covalente).
Per la preparazione della soluzione di DSP sono stati sciolti 0,231 g di DSP in 1,5 ml
di acqua. Si è quindi aggiunto alla soluzione di CHS/PEO un volume di DSP pari al
7,5% vol/vol rispetto al volume della soluzione di cp9 (3 ml).
4. Si è infine aggiunto alla soluzione di CHS-graft-PCL/PEO/DSP il dimetilsolfossido
(DMSO), un cosolvente che ha la funzione di far rilassare gli aggrovigliamenti delle
catene di chitosano e di aumentare la resa delle fibre e conseguentemente
migliorare la spinnabilità della soluzione a base di chitosano.
5. Si è infine spinnato il materiale utilizzando i parametri in tabella 2.1.
Per la soluzione CHS-g-PCL è stata utilizzata una siringa di plastica da 5 ml. La soluzione è
stata inserita in una siringa con punta dell’ago di diametro pari a 12 G (2,05 mm). La
portata della soluzione polimerica è stata impostata a 1,2 ml/h mediante una pompa a
siringa. Sulla punta dell'ago è stata applicata un'alta tensione di 30 kV e il collettore è
stato mantenuto a una distanza di 15 cm dall'ago. Il processo di elettrofilatura è stato
effettuato mantenendo una temperatura di 37,5°C.
Invece la soluzione di CHS è stata caricata in una siringa di plastica da 5 ml (12 G) ed è
stata elettrospinnata con una tensione di 30 kV, una temperatura di 40°C e la velocità
del flusso della pompa impostata a 1,8 ml/h. La distanza tra l’ugello e il collettore è stata
tenuta a 12 cm. I parametri dell’electrospinning sono riassunti in Tabella 2.1.
Preparazione della soluzione di PCL
Ѐ stata preparata una soluzione di PCL (Mw: 70000-90000 g/mol) al 12% wt/vol
sciogliendo il PCL in una miscela di cloroformio/acido formico in rapporto 70/30 vol/vol.
1. Innanzitutto il PCL è stato sciolto in solo cloroformio ponendo in agitazione
magnetica a 100 rpm; in un secondo momento è stato aggiunto acido formico.
2. La soluzione di PCL è stata caricata in una siringa di vetro da 5 ml con un diametro
della punta dell'ago di 12 G. Sulla base di precedenti risultati sperimentali, la portata
è stata impostata a 1,5 ml/h. Per ottenere le fibre era necessaria una tensione di 20
kV. Il collettore è stato tenuto a una distanza di 20 cm dall'ago. L'intero processo è
stato eseguito a temperatura ambiente.
35
PARAMETRI CHS-graft-PCL/PEO CHS PCL
Flusso 1,2 ml/h 1,8 ml/h 1,5 ml/h
Temperatura 37,5 °C 40°C -
Distanza ago-collettore 15 cm 12 cm 20 cm
Tensione 30 kV 30 kV 20 kV
Tabella 2.1. Parametri di processo per l’electrospinning di fibre random del copolimero
e dei materiali di controllo.
Per la realizzazione di fibre allineate ci si è avvalsi dell’aiuto di un collettore rotante,
impostando i parametri secondo quanto segue:
PARAMETRI CHS-graft-PCL/PEO CHS PCL
Flusso 1,2 ml/h 1,8 ml/h 1,5 ml/h
Temperatura 37,5 °C 40°C -
Distanza ago-collettore 15 cm 12 cm 20 cm
Tensione 30 kV 30 kV 20 kV
Velocità di rotazione 2400 rpm 2400 rpm 2400 rpm
Figura 2.2. Parametri di processo per l’electrospinning di fibre allineate del copolimero
e dei materiali di controllo.
2.2.5 Solvent casting per la realizzazione dei film
I film sono stati preparati per le diverse caratterizzazioni, come la DSC, l’analisi FTIR-ATR
e le prove meccaniche. Il solvent casting è un metodo semplice ed economico che non
richiede l’uso di particolari attrezzature. Consiste nella dissoluzione di un polimero in un
solvente organico e in seguito nella colatura all’interno di un contenitore della forma
desiderata. Infine si lascia evaporare il solvente. Nel caso di questa applicazione la
soluzione è stata fatta colare all’interno di dischi di Petri del diametro di 60 mm per la
realizzazione di membrane di spessore inferiore al millimetro e dalla superficie piana,
adatta alla caratterizzazione.
Figura 2.13. Film di PCL.
36
Per la realizzazione dei film sono state preparate delle soluzioni al 5% wt/vol. Il CHS-
graft-PCL e il CHS sono stati disciolti in acido acetico 0.5M, mentre il PCL è stato disciolto
il cloroformio.
2.2.6 Fused Deposition Modeling (FDM)
Per facilitare il processo di estrusione del materiale, i campioni sono stati sottoposti ad
un trattamento con azoto liquido per renderli più fragili e sono stati macinati per
adattare la granulometria al diametro della vite senza fine del dispositivo FDM.
Figura 2.14. Stampante 3D 3DRAGV1.2 a sinistra e dispositivo custom-made al centro.
La stampante 3D utilizzata è la 3DRAGV1.2, resa disponibile dal laboratorio di
Alessandria del Politecnico di Torino, che originariamente alimentata a filamento (in ABS
o PLA, i materiali più utilizzati), è stata modificata con l’aggiunta di un altro dispositivo
custom-made (quello al centro in figura 2.5), che consente l’estrusione di polveri e si
può quindi utilizzare con una grande varietà di materiali. Il dispositivo è costituito da
un’intelaiatura, una piattaforma di deposizione e una testa di estrusione totalmente
custom-made. La testina in ottone è sempre a 160°C, mentre la parte superiore è un
dissipatore con un sistema di raffreddamento dotato di ventole che serve a non far
scaldare il materiale che ancora non è nella testa di estrusione. Quest’ultima contiene
una vite senza fine, all’interno della quale si inserisce il materiale, la quale avvitandosi
verso il basso spinge il materiale ad uscire dall’ugello. Il dispositivo è inoltre fornito di tre
motori, per controllare le tre direzioni di movimento lungo gli assi x, y e x. Su ogni asse si
hanno dei mechanical switches.
La realizzazione del pezzo da estrudere comincia da un file STL, che è importato in un
programma di slicing (SlicƐr), mediante il quale il modello è diviso in fette. Questo si
importa poi in Solidworks che permette di ottenere il Gcode, un codice contenente le
coordinate x, y, z e altri parametri come la velocità con cui il filamento viene spinto nella
testa di estrusione (in questo caso la velocità della vite senza fine). Su Solidworks si
37
impostano diversi parametri, ad esempio l’altezza, la lunghezza e larghezza della
struttura che si vuole realizzare, l’altezza di ciascun layer. La testa di estrusione ha un
Nozzle di 1 mm, che è anche indice della risoluzione. Gli altri parametri sono: fill angle
90°, fill density 20%, la velocità di stampa (mm/min) che è stata regolata ad un valore
ottimale di 300 mm/min e la temperatura di stampa a 180°C. Per far sì che il materiale si
depositi sulla piattaforma con la giusta consistenza è possibile azionare una ventola che
serve a velocizzare il raffreddamento del filamento estruso, oppure per rallentarlo, si
può scaldare il piatto (temperatura minima da impostare 50°C).
Il file Gcode è stato importato sul computer dedicato e sono stati estrusi dei filamenti da
1 mm di diametro, che sono poi stati caratterizzati mediante analisi chimica FTIR-ATM e
morfologica SEM.
Figura 2.15. Processo di estrusione del materiale.
2.2.7 Caratterizzazione
2.2.7.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR
L'analisi FTIR-ATR è stata eseguita per valutare la composizione del materiale
sintetizzato, delle fibre elettrospinnate e per le strutture estruse con FDM. La
spettroscopia con riflessione attenuata totale è un metodo di spettroscopia infrarossa
basata sulla riflessione e sull’assorbimento di un fascio che passa attraverso il campione
e permette di studiare i legami chimici. Questa tecnica spettroscopica dà informazioni
sui gruppi funzionali presenti nella molecola attraverso la formazione di segnali.
38
Figura 2.16. Principio fisico della tecnica ATR-FTIR.
Il campione è a contatto con un elemento ottico (cristallo ATR) con un elevato indice di
rifrazione. Il fascio IR passa inizialmente attraverso questo elemento; quando l'angolo di
incidenza è maggiore di un certo angolo critico si ha riflessione totale. Quando un fotone
infrarosso viene assorbito da una molecola, questo passa dal suo stato vibrazionale
fondamentale ad uno stato vibrazionale eccitato. Questo fascio riflesso quando arriva
sulla superficie del campione può attraversarlo e dopo questo assorbimento la
radiazione sarà attenuata: in questo caso si può registrare lo spettro IR. Per l'analisi FTIR-
ATR lo strumento usato è stato lo spettrofotometro PerkinElmer UATR Two (figura 2.8
(a)) presente nel laboratorio di Alessandria del Politecnico di Torino.
Figura 2.17. (a) spettrofotometro PerkingElmer UATR TWO; (b) regolatore girevole di
pressione e piatto con cristallo in diamante.
Gli spettri sono stati ottenuti grazie all’impiego del software Spectrum, mediando 32
scansioni nel range che va da 4000 a 600 cm-1; è stata impostata una risoluzione di 4 cm-
1; l’analisi è stata eseguita con punta piana, mediante l’impiego di un cristallo in
diamante (figura 2.8 (b)). In un tipico spettro infrarosso in ascissa troviamo una scala di
frequenze espresse in un numero d'onda e in ordinata la percentuale di trasmittanza. Lo
spettro nel dominio della frequenza viene ricavato grazie ad un algoritmo di trasformata
di Fourier veloce (FFT). Se un materiale non è completamente trasparente si
verificheranno degli assorbimenti e quindi delle transizioni tra livelli energetici
vibrazionali. In questo caso lo spettro registrato sarà caratterizzato da una serie di picchi
di altezza variabile per ciascuna transizione. Inoltre l'analisi FTIR è stata effettuata in
modalità di riflettanza attenuata ATR, in cui il campione viene irradiato quando viene
39
posto a stretto contatto con un cristallo, sfruttando così l'attenuazione del fascio dovuta
alle molteplici riflessioni che avvengono tra cristallo e campione.
2.2.7.2 Caratterizzazione termica: Calorimetria Differenziale a Scansione (DSC)
La calorimetria differenziale a scansione, nota anche con la sigla DSC (differential
scanning calorimetry) è, insieme all'analisi termica differenziale (DTA), la principale
tecnica di analisi termica utilizzabile per caratterizzare molti tipi di materiali e
determinarne le proprietà termodinamiche quali la temperatura di transizione vetrosa, il
punto di fusione e il calore di fusione.
Figura 2.18. Interno di un calorimetro differenziale a scansione.
Il principio di base di queste tecnica consiste nel ricavare informazioni sul materiale
riscaldandolo o raffreddandolo in maniera controllata. In particolare la DSC si basa sulla
misura della differenza di flusso termico tra il campione in esame e uno di riferimento
mentre i due sono vincolati a una temperatura variabile definita da un programma
prestabilito. Il set up di un’apparecchiatura DSC è composto da una camera di misura e
un computer. La camera di misurazione consiste di due piatti dedicati all’alloggiamento
di altrettante capsule, contenenti una il campione, in quantità di 10 mg, una di
riferimento, in questo caso una capsula vuota. I campioni sono riscaldati nella camera di
misurazione. Le celle calorimetriche contenenti i campioni sono dei microcalorimetri e
sono sottoposte allo stesso programma termico: in assenza di transizioni di fase
campione e riferimento sono alla stessa temperatura, in caso contrario si crea uno
squilibrio termico, letto da termocoppie. Queste permettono di controllare la potenza
elettrica fornita ai microcalorimetri: tale flusso di energia è predisposto al fine di
annullare la differenza di temperatura tra il campione e il riferimento. Il computer
interfacciato al DSC consente di monitorare la temperatura e impostare il programma,
ovvero regolare di volta in volta la velocità con cui cambia la temperatura del
contenitore. Inoltre il software restituisce e consente di elaborare i dati al termine della
prova. Viene registrata la differenza nella potenza termica dei due riscaldatori. Il
risultato è un grafico della differenza di calore (q) rispetto alla temperatura (T).
40
Per l’analisi DSC sono stati ritagliati dai film di PCL, CHS, cp5 e cp6 (copolimeri ottenuti al
termine della quinta e sesta prova di sintesi) in modo da ottenere dei campioni di peso
noto da 10 mg ciascuno. Al fine di testare la ripetibilità dell’analisi la misura è stata
ripetuta per 3 campioni, a, b e c per ciascun tipo di materiale. Per il CHS la misura è stata
ripetuta solo su due campioni dato che non ci sono transizioni termiche eccetto
l’evaporazione dell’acqua sulla prima rampa in temperatura. Il dispositivo utilizzato è
stato il DSC del Centro di Micro-BioRobotica dell’Istituto Italiano di Tecnologia (CMBR-
IIT) del Polo Sant’Anna Valdera di Pontedera (Pi). La temperatura minima del dispositivo
è di -40°C, quindi non è stato possibile misurare ad esempio la Tg del PCL ma è stata
misurata la Tm.
La temperatura di transizione vetrosa (Tg) è la soglia termica alla quale si verifica il
passaggio dallo stato rigido-vetroso di un solido polimerico ad uno liquido
viscoso/gommoso. Per un polimero amorfo il passaggio dallo stato vetroso a quello
gommoso non avviene in modo netto, ma si manifesta come una variazione
endotermica della linea di base. Il valore della Tg è quello in corrispondenza della metà
dell’intervallo in cui avviene la variazione di calore specifico.
Figura 2.19. Temperatura di transizione vetrosa Tg.
La temperatura di fusione (Tm) è la temperatura a cui avviene il passaggio da solido a
liquido e nel tracciato DSC si presenta come un picco endotermico. La temperatura
rimane costante durante la fusione nonostante continui il riscaldamento. L'energia
termica aggiunta durante questo periodo viene utilizzata per fondere le regioni
cristalline; non aumenta l'energia cinetica media delle catene. Il calore aggiunto al
sistema durante il processo di fusione è il calore latente di fusione [J/g], proporzionale
alla cristallinità del polimero. Può essere calcolato dall'area sottesa di un picco di fusione
osservato in un diagramma di flusso di calore in funzione della temperatura, mentre la
Tm corrisponde all’ascissa di tale picco.
41
Figura 2.20. Temperatura di fusione Tm.
Tutte le misure sono state effettuate in atmosfera ad azoto. Il programma delle
scansioni utilizzato è il seguente:
- una rampa da -25°C a 200°C ad una velocità di 10°C/min;
- 2 min isoterma a 200°C;
- Una rampa da 200°C a -25°C ad una velocità di 30°C/min;
- 2 min isoterma a -25°C;
- una rampa da -25°C a 200°C ad una velocità di 10°C/min.
2.2.7.3 Caratterizzazione colorimetrica: test Kaiser
Il Kaiser test, o test alla ninidrina, è un test colorimetrico che evidenzia la presenza di
gruppi amminici liberi [27]. La ninidrina è un indicatore che reagisce con i gruppi
amminici primari dando una colorazione azzurro-violetto (assorbimento a 570 nm) e con
le ammine secondarie con le quali forma un complesso giallo (assorbimento a 517 nm).
Il test può essere usato quindi per monitorare la presenza di ammine libere (blu scuro
colore) e la completezza dell’accoppiamento dell'amminoacido (colore giallo). La
reazione attraverso la quale si ottiene il cromoforo che assorbe nel visibile è riportata in
figura 2.12.
Figura 2.21. Reazione della ninidrina con il residuo N-terminale del peptide in crescita.
42
Il Kit comprende 50 ml di ciascuna delle seguenti componenti:
• fenolo, 80% in etanolo;
• Soluzione Cianuro di Potassio (KCN) in H2O / piridina;
• Ninidrina, 6% in etanolo [28].
Procedura
Per il Kaiser test sono stati ritagliati tre campioni per ciascun materiale (PCL, CHS, cp9 e
cp10), sono stati pesati e trasferiti all’interno di bijoux. Innanzitutto i campioni sono stati
sottoposti a dei lavaggi di etanolo, dopodiché si è aggiunto un piccolo volume (20 µl) di
ciascuno dei tre reagenti del kit menzionato sopra. I campioni sono poi stati avvolti nella
carta di alluminio al fine di non essere esposti alla luce e per velocizzare la reazione sono
stati scaldati in stufa ISCO NSV 9000 a 120 °C per 5 minuti.
Figura 2.22. Riscaldamento dei campioni in stufa.
Dopo il riscaldamento i campioni di PCL risultano fusi, ma non il chitosano. Le soluzioni
in cui è presente l'ammina primaria diventano blu scuro/violetto come si vede nella
multiwell in figura 2.14.
Figura 2.23. Campioni dopo la reazione con la ninidrina.
Infine la multiwell (figura 2.14) contenente i campioni è stata inserita nell’apposito
contenitore dell’apparato Multimode PerkinElmer Plate Reader Victor X3 messo a
disposizione dai laboratori di Alessandria del Politecnico di Torino per la lettura dei
43
valori si assorbanza. Il software dedicato restituisce i valori di assorbanza per ciascun
pozzetto della multiwell; i dati sono stati elaborati su Excel.
Figura 2.24. Apparato Multimode PerkinElmer Plate Reader Victor X3.
2.2.7.4 Caratterizzazione morfologica: microscopia a scansione elettronica (SEM)
Il microscopio elettronico a scansione sfrutta la generazione di un fascio di elettroni
primari ad alta energia nel vuoto. Lo strumento è costituito principalmente da:
• una colonna sotto vuoto spinto al cui interno vi sono un filamento di tungsteno,
sistemi di bobine e lenti condensatrici;
• una base in cui alloggiano i portacampioni (stub), su cui vengono disposti i campioni
da analizzare;
• un sistema di elaborazione e un monitor che consentono di visualizzare ed eseguire
operazioni di ingrandimento e spostamento lungo la superficie del campione (figura
2.16).
Si applica una differenza di potenziale (da 1 keV a 50 keV) ai capi del filamento che funge
da catodo. Questo riscaldandosi emette un fascio elettronico che viene poi accelerato
dalla differenza di potenziale, consentendo di orientarlo verso una piastra forata
costituente l’anodo. La velocità di emissione del fascio è regolata facendo variare la
tensione applicata. A questo punto il fascio è focalizzato grazie al sistema di lenti
condensatrici ed è indirizzato verso il campione attraverso bobine percorse da corrente
che generano un campo magnetico. Quando il campione è colpito dal fascio di elettroni,
questo emette elettroni secondari, che vengono catturati da un rivelatore e convertiti in
segnali che compongono l’immagine che viene visualizzata sullo schermo. Il fascio non è
fisso, ma viene focalizzato da un sistema di lenti e deflesso per scandire un’area del
campione. Nell’interazione tra il fascio primario e gli atomi costituenti il campione,
vengono emesse numerose particelle, fra le quali gli elettroni secondari. Questi elettroni
sono catturati da un rivelatore e convertiti in impulsi elettrici che vengono inviati in
tempo reale, ad uno schermo (un monitor) dove viene eseguita simultaneamente una
scansione analoga. Il risultato è un’immagine in bianco e nero ad elevata risoluzione e
grande profondità di campo. Grazie alla lunghezza d’onda degli elettroni di molto
inferiore rispetto a quella dei fotoni il potere di risoluzione di un microscopio elettronico
a scansione è nettamente superiore rispetto a quella di un microscopio ottico (1 nm) e
44
consente immagini perfette anche per campioni tridimensionali (con uno spessore
elevato).
2.25. Schema del principio di funzionamento del SEM.
Per la caratterizzazione morfologica sono stati ritagliati dei piccoli campioni (di
dimensioni 1 cm2 circa) dalle fibre e sono stati posizionati sugli stub, fissati mediante
nastro biadesivo conduttivo in carbonio. Prima dell’analisi i campioni sono stati resi
conduttivi mediante rivestimento in oro attraverso la tecnica dello sputtering. La
doratura avviene con lo strumento Agar Auto Sputter Coater (figura 2.17) messo a
disposizione dal laboratorio di Alessandria del Politecnico di Torino. Sono stati impostati
i parametri di pressione su 30 mA e tempo di sputtering su 50 s.
Figura 2.26. Agar Auto Sputter Coater.
Per l’analisi è stato invece utilizzato lo strumento LEO 435VP Scanning Electron
Microscope (figura 2.18), strumento che garantisce un’elevata risoluzione (2 nm) e una
45
combinazione di alti ingrandimenti (fino a 100000X). Sono state ottenute le immagini a
tre diversi ingrandimenti: 100X, 2000X, 5000X. Inoltre la tensione del fascio è stata
impostata a 20 kV, mentre la distanza tra la lente del microscopio e il campione è stata
mantenuta a 15 mm per tutte le acquisizioni.
Figura 2.27. LEO 435VP SEM.
Software di elaborazione di immagini ImageJ
Le immagini ottenute mediante microscopio elettronico sono state analizzate con il
software ImageJ. Per ogni immagine sono stati valutati la dimensione dei diametri delle
nanofibre e l’area media dei pori. Per ciascuna immagine sono stati misurati 50 diametri
di fibre per valutare i dati con un buon livello di significatività. Oltre al diametro medio è
stata anche valutata la distribuzione dei diametri (d) dei diametri all’interno di 10 classi
comprese tra d < 30 nm e d > 500 nm. Inoltre è stato analizzato il grado di allineamento
delle fibre nella direzione di estrusione del getto polimerico mediante lo strumento FFT
(Fast Fourier Trasform). Ogni immagine SEM di ingrandimento 5000x, a 8 bit su scala di
grigi è stata importata sul SW ed è stata ritagliata in modo da avere una finestra
quadrata di dimensioni 512x512 pixel. Ѐ stata quindi calcolata la FFT. Questo strumento
converte le immagini dal dominio spaziale a quello in frequenza. Ciò che si ottiene è
un’immagine ruotata di 90° in direzione antioraria; l’errore è legato alla trasformazione
matematica, ma può essere facilmente corretto. Ѐ stato infine applicato il filtro oval
profile plug-in (di William O’Connell) che consente di sommare radialmente l’intensità
dei pixel da 0° a 360° con incremento unitario. Tali valori sono stati rappresentati in
funzione dell’angolo ottenendo degli spettri nei quali l’altezza e la forma dei picchi,
distanti 180° l’uno dall’altro, costituiscono parametri direttamente correlati al grado di
allineamento delle fibre nella direzione rappresentata dall’angolo in corrispondenza del
picco.
46
2.2.7.5 Caratterizzazione meccanica: prove di trazione
Il comportamento meccanico dei film polimerici è stato valutato sottoponendo i
campioni a sforzo a trazione mediante il dispositivo MTS QTest/10 (figura 2.19) presente
nel laboratorio del DIMEAS del Politecnico di Torino. Questo strumento è costituito da
due traverse orizzontali, su cui si montano due afferraggi, che fissano il provino
mantenendolo in posizione verticale. La traversa superiore è mobile; si collega una cella
di carico all’afferraggio montato sulla questa traversa. La cella di carico è un
dinamometro che registra la forza che la traversa mobile deve avere per salire con
velocità costante. Ѐ stata impostata una velocità della traversa mobile di 2 ml/min
mediante il software dedicato TestWorks 4. I provini sono stati realizzati mediante una
fustellatrice, ritagliando i film a forma di osso di cane. I provini delle fibre e di film di CHS
invece sono stati ritagliati a forma rettangolare. Prima della prova sono stati misurati tre
parametri di ciascun campione: lo spessore del provino, l’altezza e la larghezza del tratto
utile, ovvero della porzione di provino tra gli afferraggi quando questo è mantenuto in
completa estensione. Per ogni tipologia di campione sono stati preparati tre provini,
tutti sottoposti ad una cella di carico di 10 N; i provini di CHS sono stati sottoposti ad una
cella di carico da 50 N.
Figura 2.28. Apparato MTS QTest/10, con cella di carico da 10 N (a) e da 50 N (b).
La prova consiste nel sottoporre il provino a trazione fino ad arrivare a rotture. Si aziona
il dispositivo e la traversa superiore inizia a salire verso l’alto a velocità costante. Il
provino è così sottoposto ad uno stato di sforzo. Viene misurata una forza crescente in
modulo, di segno opposto alla velocità della traversa mobile. L’estensimetro posizionato
47
sulla cella di carico inoltre consente di misurare l’allungamento. La prova termina ad
avvenuta rottura del provino; a quel punto il software restituisce i valori della forza (N)
in funzione dell’allungamento (mm). I dati sono stati trasferiti ed elaborati su Excel per
ricavare i grafici sforzo-deformazione per ciascuna prova. Da questi sono stati ricavati i
valori del modulo di Young e dello sforzo massimo di ogni campione, di cui infine sono
stati valutati il valor medio e la deviazione standard.
48
3 RISULTATI
3.1 Caratterizzazione del CHS-graft-PCL
3.1.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR
Per verificare se la coniugazione tra il CHS e il PCL è avvenuta con successo è stata
eseguita l’analisi chimico-fisica FTIR-ATR. In figura 3.1 è possibile vedere gli spettri
ottenuti mediante analisi FTIR-ATR dei controlli PCL (a), CHS (b) e del materiale
coniugato CHS-g-PCL (c).
Figura 3.1. Spettri FTIR-ATR del copolimero (c) e dei controlli PCL (a) e CHS (b).
Le bande caratteristiche del CHS sono: la larga banda a 3410-3100 cm-1 dovuta ad una
combinazione di stretching dei gruppi ossidrili O-H e delle ammine primarie N-H, 2956
cm-1 rappresenta lo stretching C-H del gruppo -CH2, i picchi a 1638 cm-1 e 1560 cm-1
dovuti alle piegature N-H (bending) (caratteristici dei gruppi amminici primari) e ai
legami ammidici, la larga banda a 1080 cm-1 e 1033 cm-1 dovute alla vibrazione dello
scheletro coinvolta nello stretching del C-O, 1160 è attribuito allo stretching del C-O
asimmetrico del ponte C-O-C e il picco a 1590 appartiene alle deformazioni N-H dei
gruppi amminici. I picchi a 1650 e 1380 sono associati allo stretching C=O e C-H
piegamento del gruppo ammidico, che indica la deacetilazione incompleta del chitosano,
il picco a 896 cm-1 dovuto allo stretching del C-O del legame glicosidico [18] [29]. Le
bande caratteristiche del PCL invece sono: i picchi a 2960 cm-1 e 2870 cm-1, dovuti
rispettivamente allo stretching del C-H asimmetrico e simmetrico del gruppo CH2; le
bande caratteristiche delle vibrazioni dovute ai legami esterei sono a 1724 (C=O
stretching), 1296 (C-O stretching nella fase cristallina), 1184 (C-O stretching) e 1162 (C-
O-C stretching) [30]. Tali picchi sono visibili anche nello spettro del CHS-graft-PCL (c),
49
quindi la presenza delle catene laterali del PCL è confermata. Inoltre si vede da
quest’ultimo che la banda del C-O di PCL a 1296 cm-1 forma un doppio legame con l’N-
acetilglucosammina a 1310 cm-1 del CHS, confermando ulteriormente l’avvenuto
aggraffaggio delle catene di PCL a quella di CHS. La formazione dei legami ammidici è
stata confermata dalla comparsa delle tre bande caratteristiche di assorbimento dei
legami ammidici secondari (O=C—NH) formate dopo la coniugazione tra PCL e CHS: la
prima a 3322 cm-1 che rappresenta lo stiramento N-H (stretching), la seconda a 1567 cm-
1 è la piegatura vibrazionale del gruppo N-H (-N-H bending) e la terza a 641 cm-1 è la
vibrazione N-H (N-H wagging). Dall’altro lato le condizioni richieste per la coniugazione
provocano un parziale sfaldamento dei legami β-(1,4)-glicosidici, che spiegherebbero la
diminuita intensità dello stretching del C-O-C della banda a 890-1160 cm-1.
3.1.2 Caratterizzazione fisica: Calorimetria Differenziale a Scansione (DSC)
La caratterizzazione mediante DSC è servita ad analizzare il comportamento del
copolimero quando questo è sottoposto a cicli di riscaldamento. Per l’analisi sono stati
impiegati due campioni di copolimero, campione1 e campione2, aventi stessa
composizione, per testare la ripetibilità della prova. I 2 campioni e i polimeri di controllo
CHS e PCL sono stati sottoposti a due rampe di riscaldamento. Il dispositivo DSC
utilizzato arriva ad una temperatura minima di -40°C quindi non è stato possibile
effettuare un’analisi sulle temperature di transizione vetrosa Tg dei materiali. Il PCL
infatti ha una Tg intorno ai -62°C. La Tg del CHS invece varia al variare del grado di
acetilazione e del peso molecolare è intorno ai 203°C secondo quanto riportato in alcuni
studi [31]. Sono state esaminate le temperature di fusione dei diversi materiali. I dati
relativi alle curve calorimetriche ottenute dalla prima e seconda scansione sono riportati
in tabella 3.1:
Polimeri Prima scansione Seconda scansione Tm (°C) Tm2 (°C)
PCL 62,5 ± 0,2 56,2 ± 0,1 Campione 1 60,3 ± 1,6 58,7 ± 0,5 Campione 2 60 ± 1,6 57,8 ± 0,4
Tabella 3.1. Dati di caratterizzazione termica: Temperature di fusione Tm di PCL e dei
campioni 1 e 2 di CHS-graft-PCL.
Per via dei forti legami idrogeno inter/intramolecolari tra i gruppi -OH e i gruppi -NH2, il
punto di fusione del chitosano è molto più alto della sua temperatura di
decomposizione. Per cui, il chitosano non può fondere, di conseguenza è caratterizzato
da una bassa termoplasticità.
50
Figura 3.2. Termogramma DSC del CHS (prima e seconda scansione).
Dal termogramma (figura 3.2) del CHS si può notare che l’unico evento termico rilevante
è la forte evaporazione dell’acqua durante la prima scansione, come evidenzia il grosso
picco endotermico intorno ai 100°C.
Figura 3.3. Termogrammi DSC di campione1, campione2 e PCL: prima scansione.
I termogrammi presenti in figura 3.4 si riferiscono al primo ciclo di riscaldamento. Per
quanto riguarda il PCL, esso risulta semicristallino, come evidenziato dalla presenza del
basso picco endotermico di fusione a 60°C, indice della rigidità della struttura, conferita
dalla catena alifatica contenente i gruppi metilenici. Confrontando le tre curve il PCL è il
polimero con la Tm e l’entalpia di fusione maggiore. Osservando le curve calorimetriche
riferite ai campioni 1 e 2, si vede che presentano invece un picco endotermico intorno ai
51
60 °C (figura 3.4), ad una temperatura leggermente inferiore rispetto a quella del solo
PCL. Ciò suggerisce una ridotta cristallinità all’interno del copolimero, e la
cristallizzazione delle catene laterali di PCL può essere limitata dalla presenza della
catena principale di CHS [19]. Questa è confermata anche dal picco endotermico a più
elevate temperature, lo stesso che caratterizza l’evaporazione dell’acqua durante la
prima scansione nel termogramma del CHS (figura 3.3). Infine sempre in figura 3.3 si
nota che la curva in verde riferita al campione 2 oltre alla Tm del copolimero presenta
un secondo picco endotermico visibile nella curva del campione 2, indicando la
compresenza di una componente blend all’interno del copolimero.
Figura 3.4. Termogrammi DSC di campione1, campione2 e PCL: seconda scansione.
Dalla figura 3.5 si osserva che la temperatura di fusione del PCL dopo il secondo ciclo di
riscaldamento risulta leggermente più bassa [32], mentre quella dei copolimeri varia in
maniera meno consistente. L’entalpia di fusione invece decresce in maniera visibile nei
due copolimeri [24]; ciò è legato ad una diminuzione della componente cristallina
presente nel copolimero [6]. Tuttavia i visibili picchi endotermici evidenziano la presenza
del materiale coniugato. Esaminando il comportamento dei due campioni di copolimero
dopo i due cicli di riscaldamento si può quindi affermare che anche dalla
caratterizzazione calorimetrica è confermata la presenza del CHS e del PCL all’interno
del materiale sintetizzato.
3.1.3 Caratterizzazione colorimetrica: test Kaiser
Dopo l’analisi DSC, grazie alla quale si è potuto valutare in maniera qualitativa la
presenza sia delle catene laterali di PCL che del CHS all’interno del copolimero, è stato
eseguito il Kaiser test per eseguire una stima quantitativa del numero di ammine
primarie presenti nel materiale coniugato per mezzo dell’indicatore ninidrina. I dati
presenti in tabella 3.2 sono stati ottenuti mediando tre campioni per tipologia di
52
materiale. Anche in questo caso sono stati esaminati due campioni del copolimero con
stessa composizione, al fine di testare la ripetibilità dell’analisi, mentre il PCL e il CHS
sono stati utilizzati come controlli.
Polimeri Assorbanza media
CHS 0,38 ± 0,02
campione1 0,34 ± 0,01
campione2 0,31 ± 0,7
Tabella 3.2. Valori di assorbanza media.
Come si evince dal rapporto tra il valore di assorbanza media dei copolimeri e il valore di
assorbanza media del CHS presenti in tabella, il quantitativo di gruppi amminici rilevati
dal test è molto alto rispetto a quello che si poteva aspettare, cioè è dell’86%. Questo
risultato è però giustificabile, se si pensa che il CHS essendo più idrofilico rispetto al PCL,
in ambiente acquoso tende a esporre le sue catene con i gruppi amminici verso la
superficie. Il valore stimato è dunque da considerarsi in maniera approssimativa, poiché
questo tipo di analisi resta vincolato alla superficie.
3.2 Membrane elettrofilate
L’ottimizzazione dei parametri di electrospinning per realizzare le nanofibre a base di
CHS-graft-PCL è stata eseguita cercando di ottenere delle membrane in cui le nanofibre
fossero prive di difetti di elettrofilatura e omogeneamente distribuite nello spazio.
Inoltre si è cercato di ottenere delle membrane la cui distribuzione dei diametri delle
nanofibre fosse la più omogenea possibile, con valor medio inferiore al micrometro, in
modo da avere strutture il più possibile simili a quella della matrice extracellulare. Le
membrane sono state caratterizzate in modo da valutare la loro morfologia, le proprietà
chimico-fisiche e le proprietà meccaniche e vedere come queste varino rispetto ai
polimeri di partenza, CHS e PCL, utilizzati come materiali di controllo.
3.2.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR
Le membrane nanofibrose di CHS-graft-PCL sono state analizzate mediante
spettroscopia FTIR e lo spettro ottenuto è stato confrontato con PCL, CHS e PEO.
53
Figura 3.5. Spettri FTIR-ATR dei controlli PCL, CHS, PEO e delle fibre di copolimero CHS-
g-PCL/PEO.
In confronto agli spettri del solo PEO e del solo CHS, lo spettro delle fibre di CHS-g-PCL
/PEO evidenzia dei picchi in più dovuti alle specifiche interazioni tra i gruppi amminici del
CHS e i gruppi dell’etere PEO, visibili in figura 3.5 e descritti più avanti. Il CHS si comporta
da donatore di protoni mentre il PEO da accettore, generando legami idrogeno e
interazioni bipolari in blend polimerici omogenei. La figura 3.2 mostra gli spettri FTIR di
PCL, CHS, PEO e delle fibre di CHS-g-PCL/PEO. Dallo spettro del PEO si nota lo stretching
del CH a 2895 cm-1 (complesso C-O-C), che può sovrapporsi al picco del CHS, la
biforcazione del CH2 a 1475 cm-1, l’ondulazione (wagging) del gruppo CH2 (1367, 1350 e
968 cm-1) e la torsione del gruppo CH2 (1288, 1250 e 847 cm-1). I principali picchi
caratteristici dovuti allo stretching del complesso C-O-C si vedono a 1157 (stretching del
C-C), 1111 e 1086 cm-1 (oscillazione del CH2) [33]. Dato che è il peso molecolare del PEO
utilizzato è molto alto (900 kDa), le bande di assorbimento dei gruppi ossidrili possono
essere trascurati [34]. Lo spettro FTIR delle fibre di CHS-g-PCL/PEO cambia
considerevolmente rispetto allo spettro del CHS-graft-PCL da solo (figura 3.1). La banda
a 3429 cm-1 e quella a 1568 cm-1 appartenenti al CHS sono spostate rispettivamente a
3410 cm-1e a 1570 cm-1. Inoltre le bande di vibrazione dei gruppi CH2 del PEO sono
leggermente shiftate verso più alte frequenze. Questi risultati suggeriscono una specifica
interazione tra i gruppi eterei del PEO e i gruppi amminico, ammidico e ossidrile del CHS.
Si nota infine la presenza del picco a 1120 cm-1, che sarebbe il picco che nel PCL è a 1184
cm-1, indice del complesso C-O-C del poliestere. Le bande dovute ai legami ammidici a
3322, 1567 e 641 cm-1 sono ancora presenti anche se meno evidenti. Il picco a 1725 cm-1
attribuito al carbonile dell’estere, diventa più debole con il diminuire del contenuto di
PCL aggraffato nel CHS-graft-PCL.
54
3.2.2 Caratterizzazione morfologica delle fibre elettrospinnate: microscopia a
scansione elettronica (SEM)
Le fibre di CHS-graft-PCL/PEO sono state elettrospinnate seguendo il protocollo per
ottenere le fibre di CHS e ottimizzando i seguenti parametri:
• flusso pompa: 1.2 ml/h;
• tensione: 30 kV;
• temperatura 37.5°C;
• distanza:12 cm.
La morfologia delle membrane ottenute è stata valutata attraverso il microscopio SEM.
In figura sono riportate a diversi ingrandimenti le immagini delle fibre a base di CHS-
graft-PCL/PEO random (figura 3.3).
Figura 3.6. Immagini SEM di fibre in distribuzione random di CHS-graft-PCL/PEO,
ingrandimenti 2000X a sinistra e 5000X a destra.
Come si può osservare in figura 3.6, le nanofibre di CHS-graft-PCL/PEO risultano essere
omogenee, ben distribuite in configurazione random. Hanno una certa continuità
morfologica ed una bassa presenza di difetti. Inoltre si nota una configurazione di pori
interconnessi, di dimensioni variabili. Si vedono in figura 3.7 le immagini delle
membrane elettrofilate di PCL e CHS di controllo.
55
Figura 3.7. Immagini SEM di fibre random di PCL a ingrandimenti 2000X (a) e 5000X (b),
CHS a ingrandimenti 2000X (c) e 5000X (d).
A partire dai parametri utilizzati per realizzare le fibre random si sono settate le
condizioni ottimali per la realizzazione di strutture allineate.
Figura 3.8. Immagini SEM: fibre random di CHS-graft-PCL, ingrandimenti 2000X (a) e
5000X (b); fibre allineate di CHS-graft-PCL/PEO, ingrandimenti 2000X (c) e 5000X (d).
56
In figura 3.8 si possono vedere a confronto le immagini delle fibre di CHS-graft-PCL/PEO
random (a) e allineate (c). Le fibre allineate (figura 3.8 (c) e (d)) hanno un visibile
orientamento rispetto alle fibre random (figura 3.8 (a) e (b)). Per avere una misura
dell’orientamento delle fibre è stata eseguita un’analisi di tipo quantitativo grazie al SW
ImageJ e al metodo della FFT. Le immagini sottostanti sono invece relative alle fibre
allineate di PCL e CHS usate come controllo.
Figura 3.9. Immagini SEM di fibre allineate di PCL a ingrandimenti 2000X (a) e 5000X
(b), CHS a ingrandimenti 2000X (c) e 5000X (d).
Al fine di valutare in maniera più precisa come varia la morfologia delle fibre a base di
CHS-graft-PCL sia in distribuzione random che allineata è stata condotta anche un’analisi
di tipo statistico sulla dimensione delle fibre e sulla porosità. È stato possibile
estrapolare i dati di interesse dalle immagini mediante software ImageJ, che ha
permesso di individuare il diametro medio delle fibre e l’area media dei pori dopo
un’opportuna elaborazione su Excel.
57
Figura 3.10. Distribuzione dei diametri delle fibre random di membrane elettrofilate di
CHS-graft-PCL/PEO, CHS/PEO e PCL.
58
Figura 3.11. Distribuzione dei diametri delle fibre allineate di membrane elettrofilate
di CHS-graft-PCL/PEO, CHS /PEO e PCL.
59
Dagli istogrammi relativi alla distribuzione dei diametri delle fibre random e allineate
(figure 3.10 e 3.11) si evince come la distribuzione media dei diametri di CHS-graft-
PCL/PEO sia molto simile e non risulti alterata; in entrambi i casi il diametro medio delle
fibre cade con maggior frequenza nell’intervallo tra i 150 e 200 nm.
Fibre random Diametro fibre (nm) Diametro pori
CHS-graft-PCL/PEO 166 ± 42 357 ± 270
CHS /PEO 198 ± 74 572 ± 166
PCL 471 ± 109 804 ± 377
Tabella 3.3. Dimensione media delle fibre e porosità delle membrane elettrofilate in
distribuzione random di CHS-graft-PCL/PEO, CHS/PEO e PCL.
Fibre allineate Diametro fibre (nm) Diametro pori
CHS-graft-PCL/PEO 188 ± 38 342 ± 265
CHS /PEO 216 ± 74 616 ± 198
PCL 433 ± 108 504 ± 381
Tabella 3.4. Dimensione media delle fibre e porosità delle membrane elettrofilate in
distribuzione allineata di CHS-graft-PCL/PEO, CHS/PEO e PCL.
Le tabelle 3.3 e 3.4 evidenziano come il diametro medio delle fibre delle membrane
elettrofilate a base del copolimero sia minore rispetto a quello delle fibre di CHS e di PCL
sia in distribuzione random che allineata. Anche la dimensione dei pori delle membrane
di CHS-graft-PCL/PEO risulta minore rispetto alle strutture dei controlli. Dunque
dall’analisi morfologica e dall’elaborazione matematica dei dati si può dedurre che le
membrane nanofibrose del copolimero sono dotate di una buona morfologia e di una
porosità nanometrica interconnessa, che potrebbero ad esempio essere favorevole per
la realizzazione di scaffold per applicazioni di ingegneria del tessuto vascolare.
3.2.2.1 Valutazione dell’allineamento delle fibre mediante Trasformata di Fourier
L’allineamento delle nanofibre è stato determinato in maniera quantitativa mediante il
metodo della Fast Fourier Transform (FFT) delle immagini SEM. Quest’analisi è stata
eseguita sulle immagini a ingrandimento 5000X. Lo strumento FFT consente di
convertire le informazioni contenute nelle immagini dal dominio dello spazio a quello
della frequenza, dando come risultato lo spettro di potenza. Gli output della FFT
contengono dei modelli su una scala di grigi che riflettono il grado di allineamento delle
fibre nello spazio reale. Gli output ella FFT contengono dei pattern su una scala di grigi
che riflettono il grado di allineamento delle fibre nello spazio reale; in presenza di
un’immagine di fibre random la FFT genera un pattern isotropico con i pixel distribuiti in
forma circolare e simmetrica rispetto all’origine, in quanto la frequenza con cui un pixel
dotato di una determinata intensità si manifesta è teoricamente uguale in ogni direzione
(figura 3.10 (a)). Invece per un’immagine di fibre allineate mostrerà un pattern con i
pixel disposti in forma ellittica con l’asse maggiore coincidente con la direzione
60
ortogonale a quella di orientamento ad indicare che la loro intensità segue una direzione
preferenziale (figura 3.10 (c)). L’errore dovuto alla trasformazione matematica stessa, si
corregge facilmente ruotando l’immagine di 90°; a questo punto l’asse dovrebbe
indicare la direzione di allineamento delle fibre. Una volta plottata l’intensità radiale
normalizzata in funzione dell’angolo di acquisizione, i dati relativi alle fibre allineate
mostrano due ampi picchi distanti tra loro 180° circa (figura 3.10 (d)), mentre quelle
random mostrano dei picchi casuali (figura 3.10 (b)) [35].
3.10. Confronto: immagini di output della FFT riferiti a fibre di CHS-graft-PCL random
(a) e allineate (d), e relativi spettri di potenza (b) e (d).
Gli spettri sono caratterizzati da una forma e un’altezza proporzionale al grado di
allineamento; maggiore è l’altezza e migliore sarà l’allineamento lungo una sola
direzione preferenziale. La distanza tra i due picchi dello spettro relativo alle fibre
allineate di copolimero è di 175°. La misura è affetta da una certa variabilità introdotta
dal rumore sovrapposto, che altera il valore reale di intensità di ciascun pixel
dell’immagine. Sempre a causa del rumore e dell’effetto di bordo, difficili da rimuovere,
la curva tra i due picchi non va a zero, ma presenta un andamento irregolare. Dallo
spettro relativo alle fibre random di copolimero (figura 3.10 (d)) si evince l’assenza di
picchi, e di conseguenza l’assenza di una direzione preferenziale, come già si era dedotto
dalla caratterizzazione morfologica. Lo stesso tipo di analisi è stato effettuato anche
sulle fibre random e allineate dei controlli PCL e CHS. Anche qui si nota l’assenza di
picchi nello spettro relativo alle distribuzioni casuali di fibre (figura 3.11 (b) e figura 3.12
(b)), mentre gli spettri relativi alle fibre allineate presentano due picchi principali a
distanza 178° (figura 3.11 (d)) e 179° (figura 3.12 (d)).
61
3.11. Confronto: immagini di output della FFT riferiti a fibre di PCL random (a) e
allineate (d), e relativi spettri di potenza (b) e (d).
3.12. Confronto: immagini di output della FFT riferiti a fibre di CHS random (a) e
allineate (d), e relativi spettri di potenza (b) e (d).
62
3.3 Caratterizzazione meccanica: prove di trazione
Ѐ stato valutato il comportamento meccanico dei film di CHS-graft-PCL, CHS e PCL e delle
membrane elettrofilate di fibre allineate di CHS-graft-PCL e PCL sottoponendo i campioni
a prove statiche di trazione. Ѐ stata utilizzata la cella di carico da 10 N per tutti i
campioni, tranne che per i provini dei film di CHS per i quali è stata utilizzata la cella di
carico da 50 N. Per quanto riguarda i film sono stati testati quattro campioni differenti
per ogni tipo di polimero, mentre per le membrane elettrofilate se ne sono testati sei.
3.3.1 Prove di trazione dei film polimerici
I grafici della figura 3.13 mettono in evidenza la diversità del comportamento dei tre
materiali sottoposti a sforzo di trazione. Il CHS infatti presenta un comportamento
fragile; pur avendo un modulo elastico e uno sforzo massimo molto alti, maggiori
rispetto agli altri due materiali, giunge bruscamente a rottura [36]. Le curve sforzo-
deformazione di PCL e CHS-graft-PCL invece sono caratterizzate da un breve tratto
iniziale elastico, dovuto all’allungamento delle catene delle zone amorfe, seguito da un
tratto di deformazione plastica, causato invece dallo scorrimento irreversibile dei piani
cristallini nelle zone cristalline, comportamento tipico degli elastomeri. L’aumento dello
sforzo fino alla rottura è dovuto all’allineamento delle catene polimeriche, che obbliga le
cricche a propagarsi solamente nella direzione di applicazione del carico. La curva del
copolimero presenta un comportamento intermedio tra i due polimeri, come si può
notare anche dalla tabella 3.5. Ha un allungamento a rottura di gran lunga superiore
rispetto a quello del CHS, ma inferiore a quella del PCL, a causa della componente fragile
del CHS.
3.13. Curve sforzo-deformazione dei film sottoposti a sforzo di trazione.
63
Film polimerici Modulo di Young (MPa)
Sforzo Massimo (MPa)
Allungamento a rottura (%)
CHS 3492,5 ± 1830,6 80,9 ± 18,8 3,4 ± 0,8
PCL 175,5 ± 100,7 14,9 ± 7,6 407,3 ± 242,3
CHS-graft-PCL 192,1 ± 102 11,8 ± 9,3 53,7 ± 18,8
Tabella 3.5. Proprietà meccaniche dei film polimerici.
I valori del CHS e del PCL in tabella sono in accordo con quanto riportato in letteratura
[37]. Il film di copolimero presenta dei valori di modulo di Young e sforzo massimo molto
vicini a quelli del film di PCL, sebbene l’allungamento a rottura sia molto basso.
3.3.2 Prove di trazione delle fibre
Dai dati riportati nella tabella 3.5 si può osservare subito come le proprietà meccaniche
delle membrane fibrose siano nettamente inferiori rispetto a quelle dei film, a causa
della struttura porosa. Infatti i valori dei moduli elastici sono decisamente inferiori
rispetto ai corrispettivi film.
3.14. Curve sforzo-deformazione delle fibre sottoposte a sforzo di trazione.
Anche in questo caso i valori ricavati dalle prove meccaniche trovano un riscontro negli
lavori riportati in letteratura [38]. Il comportamento meccanico delle fibre allineate di
CHS-graft-PCL è intermedio tra quello delle fibre di PCL (figura 3.14) e quello delle fibre
di CHS, secondo quanto riportato in altri studi [36]. L’aumento del modulo elastico e
della resistenza sono chiaramente influenzati dalla componente fragile del CHS. La
differenza del modulo elastico che si ha tra le fibre allineate di PCL e quelle di CHS-graft-
CPL/PEO, oltre alla composizione chimica dei materiali, può essere dovuta anche alle
dimensioni dei diametri delle fibre, pari a 432 nm per il PCL e 188 per il CHS-graft-
PCL/PEO. Come risultato dell’orientamento delle fibre, lo sforzo massimo raggiunto
64
aumenta rispetto alle fibre random, in letteratura infatti i valori di sforzo massimo riferiti
alle fibre di PCL random sono inferiori.
Fibre allineate Modulo di Young (MPa)
Sforzo Massimo (MPa)
Allungamento a rottura (%)
PCL 97,1 ± 49,2 16,6 ± 7 31,6 ± 5,1
CHS-graft-PCL/PEO 105,9 ± 44,7 3,2 ± 1,1 6,4 ± 2
Tabella 3.5. Proprietà meccaniche delle fibre allineate elettrofilate.
3.4 Strutture estruse mediante FDM
3.4.1 Caratterizzazione chimico-fisica: spettroscopia Infrarossa a Trasformata di
Fourier FTIR-ATR
Al fine di valutare la composizione chimica delle strutture estruse mediante FDM è stata
eseguita l’analisi FTIR-ATR. In figura 3.15 è possibile vedere a confronto gli spettri in
trasmittanza del materiale stampato e del materiale sintetizzato.
Figura 3.15. Spettri FTIR-ATR del copolimero CHS-graft-PCL estruso e del copolimero
sintetizzato usato come controllo.
Ѐ ancora una volta rilevata la presenza dei legami ammidici secondari (O=C—NH), come
si evince dalle tre bande di assorbimento d’interesse a: 3322 cm-1 per cui si ha lo
stiramento del gruppo N-H (stretching N-H), 1567 cm-1 che indica la piegatura
vibrazionale del gruppo N-H (-N-H bending) e 641 cm-1, la vibrazione N-H (N-H wagging).
Inoltre sono ben distinguibili tutti i picchi caratteristici del PCL (descritti nel paragrafo
65
3.1.1) indicati in figura 3.1(a). Del CHS si osserva ancora la larga banda a 3410-3100 cm-1
dovuta allo stretching dei gruppi ossidrili O-H e delle ammine primarie N-H.
L’attenuazione o quasi totale assenza del resto dei picchi caratteristici dello spettro del
CHS sottolineano tuttavia una diminuzione della componente di CHS nel copolimero
estruso, probabilmente a causa dell’elevata temperatura di stampa (180°C) che
potrebbe aver causato la degradazione di parte del CHS, o meglio la componente del
CHS unita in blend, in accordo con quanto dedotto dai termogrammi ricavati mediante
DSC (figura 3.3 e figura 3.4). Si era infatti visto che dopo il ciclo di riscaldamento il
campione 2 aveva rivelato un grosso picco intorno ai 100 °C; ciò aveva fatto intendere
che oltre alla componente coniugata, è presente una idrofilica unita in blend all’interno
del copolimero.
3.4.2 Caratterizzazione morfologica: microscopia a scansione elettronica (SEM)
Figura 3.11. Filamento di CHS-graft-PCL estruso mediante FDM: ingrandimenti 30X e
100X.
Dopo una serie di prove la struttura estrusa che si può osservare in figura 3.11 è stata
effettuata ottimizzando i seguenti parametri:
Parametri di processo
Fill angle 90°
Fill desnity 20%
Velocità di stampa 300 mm/mm
Temperatura di stampa 180°C
Temperatura del piatto 50°C
Risoluzione 1 mm
Tabella 3.5. Parametri di processo della stampa FDM di CHS-graft-PCL.
Questi parametri così impostanti al SW SolidWorks hanno consentito l’estrusione
dall’ugello e la deposizione del materiale sul piatto. In particolare la temperatura di
stampa di 180°C ha conferito al materiale fuso la giusta viscosità per fuoriuscire
dall’ugello, mentre il piatto scaldato a 50°C ha permesso al filamento di depositarsi sul
66
piatto alla giusta velocità in modo da mantenere la forma. Sono stati realizzati dei
semplici filamenti di cui sono state misurate le dimensioni.
- Diametro: 43.197 µm
- Lunghezza: 2 cm.
In questo lavoro di tesi sono state estruse delle strutture di geometria semplice, ma in
generale il materiale sintetizzato è risultato performante per la fabbricazione di
strutture più complesse multilayer. Il prossimo passo potrebbe essere quello di utilizzare
una stampante dotata di una risoluzione più elevata per un maggior controllo del
processo di estrusione e per poter stampare strutture di dimensioni nanometriche, e
impostando i parametri opportuni si potrebbe provare a impiegare il CHS-graft-PCL per
la stampa di scaffold personalizzati, aventi le caratteristiche desiderate per applicazioni
in campo biomedicale.
67
4 CONCLUSIONE E SVILUPPI FUTURI In questo lavoro si è tentato un approccio di coniugazione tra materiali sintetici e
naturali per combinare le loro proprietà complementari. L'obiettivo principale è stato
quello di realizzare un materiale, il CHS-g-PCL, che fosse dotato di buone proprietà
meccaniche, in quanto composto in buona percentuale da PCL, ma anche specifiche
proprietà fisico-chimiche e biologiche grazie alla componente del CHS. La prima parte
del lavoro di tesi si è focalizzata sul processo di sintesi. Si è partiti dal lavoro di Wiens et
al. [9] in cui la realizzazione del copolimero a base di CHS e PCL avviene mediante la
chimica delle carbodiimidi. Si è deciso però di far variare il rapporto in peso tra PCL e
CHS da 1:4 a 1:2 per aumentare il numero di gruppi carbossilici attivabili di PCL, che
potessero reagire con i gruppi amminici del CHS. Per lo stesso motivo è stata scelta una
concentrazione di carbodiimidi pari a 25 mM, al fine di aumentare l’efficienza di
coniugazione. Dopo l’analisi dei risultati ottenuti dai vari tipi di caratterizzazione è stato
possibile affermare che la coniugazione del materiale non solo è avvenuta con successo,
ma il copolimero sviluppato si è rivelato anche un materiale dotato di una buona
processabilità, idoneo per la realizzazione di membrane elettrofilate, ma anche di
strutture estruse mediante tecniche di stampa 3D. Com’è stato verificato con l’analisi
FTIR-ATR la coniugazione è avvenuta con successo, infatti gli spettri hanno rivelato la
presenza dei legami ammidici avvenuti tra le ammine del CHS e i gruppi carbossilici del
PCL. La componente del CHS è inserita all’interno del copolimero per conferire la
bioattività tipica del polimero naturale e per migliorare le caratteristiche biologiche quali
l’idrofilicità. Infatti, il CHS essendo idrofilico, in ambiente acquoso, tende a esporre le
sue catene con i gruppi amminici verso la superficie del materiale. Questa ipotesi è stata
confermata dal Kaiser test, eseguito per esaminare la quantità di ammine primarie libere
è risultato un valore percentuale di assorbanza media molto alto, pari all’86% circa,
rispetto al valore di assorbanza totale del CHS. Questo esito del test colorimetrico è da
ritenere più che positivo poiché la presenza superficiale del CHS è molto vantaggiosa sia
per una successiva funzionalizzazione del materiale sia per promuovere l’adesione
cellulare. Il risultato non è tuttavia allarmante dal punto di vista della buona riuscita
della sintesi del CHS-graft-PCL, poiché è da considerarsi in via del tutto approssimativo,
dato che è vincolato alla superficie. La compresenza dei due materiali, poliestere
semicristallino e polimero naturale, all’interno del copolimero è stata confermata grazie
alla caratterizzazione calorimetrica DSC.
Al fine di testare la processabilità del CHS-graft-PCL, il materiale è stato impiegato nella
fabbricazione di membrane elettrofilate mediante la tecnica di electrospinning. Lo scopo
era quello di ottenere dei substrati a base di copolimero destinati ad applicazioni di
ingegneria tissutale, che fossero quindi adatti alla coltura cellulare. Sono state valutate
la morfologia, la porosità media e il diametro medio delle fibre realizzate. Si è visto che
sia per le fibre random che per quelle allineate la maggior parte delle fibre cade
nell’intervallo dimensionale tra 150 nm e 200 nm. Sia il diametro medio che la
dimensione media dei pori delle fibre sono minori se confrontati ai valori dei controlli
68
(tabella 3.3 e 3.4). Infine, è stato valutato in maniera quantitativa l’orientamento delle
fibre tramite software Image J e FFT.
Inoltre, sapendo che la diversa morfologia del substrato influenza il comportamento
cellulare, sono state elettrofilate membrane random e allineate. Sono state testate le
proprietà meccaniche delle membrane in distribuzione allineata di CHS-graft-PCL/PEO e
confrontate con quelle dei film realizzati con i corrispettivi materiali, CHS-graft-PCL, e i
controlli CHS e PCL. Numerosi studi presenti in letteratura hanno dimostrato che i
segnali topologici e biochimici indirizzano il comportamento cellulare [39]. Quindi
sarebbe interessante riuscire a raggiungere l’obiettivo di favorire l’adesione cellulare e la
differenziazione ad esempio, di determinati fenotipi, in base alla composizione chimica e
alle caratteristiche meccaniche di queste membrane nanofibrose a base di CHS-graft-
PCL.
Il CHS-graft-PCL ha dimostrato un buon grado di processabilità da fuso. Il materiale
coniugato sembra promettente per la fabbricazione di strutture 3D con caratteristiche
personalizzabili, tuttavia bisognerebbe ancora ottimizzare la composizione in modo da
superare le limitazioni imposte dalla componente naturale. Considerando nell’insieme i
risultati ottenuti, si potrebbe quindi affermare che il materiale ha delle buone proprietà
meccaniche e biologiche, ma certamente saranno necessari ulteriori studi. Ci sono
numerosi miglioramenti che possono essere apportati. In particolare, si potrebbe
tornare a puntare l’attenzione sul processo di sintesi. Ci sono diverse strategie di
coniugazione, come descritto nel paragrafo 1.2. Un metodo di coniugazione tra PCL e
CHS prevede in particolare la polimerizzazione mediante ring-opening (ROP) dell’Ɛ-
caprolattone, in cui il primo monomero dell’Ɛ-caprolattone viene fatto reagire con il
chitosano e il peso molecolare medio del PCL aumenta gradualmente aggiungendo un
monomero di caprolattone alla volta [18] [19]. Ciò potrebbe rendere più semplice il
controllo del processo di sintesi. Focalizzandosi sul metodo adoperato in questo lavoro
di tesi invece, si potrebbe effettuare una serie di prove di sintesi facendo variare in
maniera sistematica il rapporto tra i due materiali di partenza al fine di ottimizzare tale
parametro, incrementando l’efficienza della reazione tra i gruppi carbossilici del PCL e i
gruppi amminici del CHS.
L’approccio della coniugazione è un approccio sofisticato, che coinvolge numerosi
parametri, ma che se opportunamente ottimizzato, potrebbe in futuro soddisfare
l’obiettivo di ottenere materiali biologicamente più attivi e stabili per applicazioni di
ingegneria tissutale del tessuto soft. L’architettura complessa di tessuti come quella del
nervo o del muscolo, ad esempio, richiede l’uso di scaffold multifunzionali con segnali
specifici capaci di indirizzare il comportamento cellulare. Per riprodurre l’ECM dei diversi
tessuti e organi (cuore, tendini, vasi sanguigni) in maniera biomimetica è importante
riprodurre l’architettura anisotropica esatta, che è cruciale per determinare la specifica
funzione di un particolare tessuto. In questo contesto la tecnica di electrospinning si è
rivelata di fondamentale importanza negli ultimi anni per la realizzazione di scaffold
nanofibrosi con specifici pattern di fibre di dimensione desiderata e con particolare
69
orientamento a seconda della destinazione d’uso. Lavori in letteratura hanno dimostrato
che la fabbricazione di strutture unidirezionali facilitano ad esempio l’estensione del
neurite e fungono quindi da guida per la rigenerazione nervosa [40] [41]. Gli assoni
possono essere guidati sia da una combinazione di segnali topografici che biologici-
chimici [42]. Per questo motivo il copolimero sarebbe un potenziale candidato, grazie
alle proprietà combinate che lo caratterizzano, quali la processabilità conferita dal
materiale sintetico e la bioattività data dal polimero naturale. Recenti studi suggeriscono
che impartendo determinate forze alla cellula è possibile esercitare un controllo fisico
della forma della cellula stessa, determinante per la differenziazione di cellule staminali
in determinati fenotipi. Il CHS-graft-PCL potrebbe anche essere impiegato per
l’elettrofilatura di scaffold tridimensionali con fibre molto sottili orientate in maniera
casuale, per supportare la differenziazione di cellule staminali mesenchimali in adipociti
[43]. Dalla caratterizzazione morfologica e dall’elaborazione matematica dei dati ricavati
dalle immagini SEM si è infatti notata la possibilità di elettrofilare membrane
nanofibrose con diametri di dimensioni ridotte (tabella 3.3). Per concludere quindi, si
può asserire che il biomateriale trattato in questo lavoro di tesi potrebbe essere valido
per la realizzazione di substrati di diverse geometrie, anche molto complessi, idonei alla
rigenerazione di tessuti soft. Sarà necessario approfondire gli studi e ottimizzare la fase
di sintesi per conferire al materiale le proprietà desiderate e renderlo performante in
termini di processabilità mediante diverse tecniche, sia convenzionali che di
prototipazione rapida.
70
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