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GUIDA AI SETTE COMUNI DEL GIUGLIANESE P Gulliver orto di

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Magazine guida sui territori interni della Campania. Il progetto editoriale è orientato al risveglio sociale e culturale dei giovani per riscoprire l'orgoglio di appartenenza alla propria terra.

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GUIDAAI SETTE COMUNIDEL GIUGLIANESE

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L’EDITORIALE 3 I SETTE COMUNI DELL’AREA GUGLIANESE

sommarioCALVIZZANO 4 GLI ULTIMI GIORNI DI CARACCIOLO

La peste del 1656Le stradeLe Fonderie ChiurazziLa ricetta quasi segreta del biscotto di Calvizzano

GIUGLIANO 8 TRA SCIPIONE E BASILE PASSANDO PER UN ANGELOIl Lago Patria e Liternum“Ingrata terra non avrai le mie ossa”Il padre delle fiabe in dialettoIl Palazzo PalumboIl borgo di CasacelleSanta Sofia e le altre chiese

MARANO 16 IN PRINCIPIO ERA VALLESANALa tomba di TironeGiuseppe Petronio critico e scrittoreTra castelli e chieseI mestieri di MaranoMarano in festa

MELITO 24 SCARPE DOPPIE E CERVELLO FINE: PICCOLI GRANDI EROI DI CAMPAGNAIl giallo del nomeTrentasei casali Figli di una storia minore

MUGNANO 26 DA CARPIGNANUM AL TERZO MILLENNIOI casaliLe polpette di baccalàIl Sacro Cuore

QUALIANO 32 ARIA BUONA E TAMMURIATE. LO SAPEVANO ANCHE I ROMANILa Villa rusticaIl Ponte di SurrientoEugenio cu’e lente, artista di stradaTrapanarellaLa via CampanaLe MasserieLa chiesa di S. StefanoLa ricetta

VILLARICCA 38 PANE, FAGIOLI E FANTASIAL’eversione della feudalitàBruni la voce di NapoliIl Fagiolo di VillariccaPasta e fagioli maritataLa classica pasta e fagioliTra palazzi e chiesePadre Vittorio Di MarinoIl Santo patrono e la festa dei GigliAnnurca, oro dolceIl tram

Coordinatore editorialeSabatino Di Maio

Riferimento marketingAlessandro Lauritano

FotoAngelo Marra

Hanno collaborato a questo numeroCosimo Brudetti - Giacomo CanarsaIvan Pellegaro - Giovanni Piro - Stefania Vergani

StampaMorconia Print SrlZ.I. 18 82026 Morcone (BN)

Il magazine Porto di Gulliver è proprietà di AM editori srl [email protected]

E’ vietata la riproduzione totale e/o parziale di testi, fotografie e di qualsiasi altro contenuto o allegato.Tutti i diritti sono riservati.

Direttore responsabileAntonio De Cesare

Direttore editorialeMaurizio De Cesare

Progetto e realizzazione graficaPaola Martino

Porto di Gulliver supplemento a Porto&diporto n. 7 Luglio 2010

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E’ per queste ragioni che le guide sono realizzate in maniera trasversale ai partiti politici che amministrano i territori,tutti avranno voce, perché di principio intendiamo riavvicinare il cittadino alle istituzioni di qualsiasi colore siano, risvegliando il senso del rispetto delle regole civili senza prescindere dal dissenso.

Editoriale

è una guida ai territori interni della Campania, per

conoscerne storia, cultura, economia ed enogastronomia.

Una guida curata nei dettagli con contenuti unici frutto di ricerche svolte direttamente sul posto per raccontare la memoria e la vita dei luoghi di cui parla.

Tutte le guide sono realizzate con lo spirito di coinvolgere i lettori alla rinascita culturale della Campania, diffondendo l’immagine sana del nostro tessuto sociale.

Riscoprire l’orgoglio di appartenere ai luoghi di origine è di fondamentale importanza per le nuove generazioni. Solo imparando la memoria di questi luoghi si potrà cambiare il comune senso di sfiducia per il futuro. Bisogna essere consapevoli oggi del nostro passato per costruire il domani.

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E’ Vincenzo Cuoco a riportare le parole pronunciate dall’ammiraglio Francesco

Caracciolo, prima di morire, mentre il marinaio che gli stava preparando il capestro per l’impiccaggione scoppiò a piangere: “Sbrigati: è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debba piangere”. Caracciolo, e la sua famiglia, sono strettamente legati alla storia di Calvizzano. Fu proprio qui, infatti, che l’eroe a cui è dedicato il lungomare di Napoli fu fatto prigioniero dall’ammiraglio inglese Nelson, incaricato di trovare e uccidere i fomentatori della rivoluzione del 1799, tra cui appunto Caracciolo. Quest’ultimo aveva combattuto

le navi inglesi e siciliane in due battaglie: la prima del 17 maggio e la seconda del 13 giugno, a sostegno della resistenza del forte di Vigliena, che era sotto gli attacchi della colonna calabra del cardinale Ruffo. Dopo aver perso, però, Caracciolo, forse tradito da uno dei suoi servitori, viene scoperto da Scipione La Marra, arrestato, condotto sulla fregata Minerva e poi contro i patti già stipulati, impiccato ad un albero, come un qualunque marinaio. Inoltre Caracciolo viene lasciato lì per due giorni, fino a quando, la corda si spezza e il corpo buttato in mare, per poi essere recuperato, quando riaffiora. L’ammiraglio napoletano, supportato anche dal

CalvizzanoGli ultimi giorni di Caracciolo

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cardinale Ruffo, aveva chiesto una morte più dignitosa: essere fucilato, così com’era stabilito nei patti. Ma Nelson, quest’onore glielo negò. E così il 29 giugno Caracciolo viene giudicato, poi condannato e infine ucciso. Un accanimento che non può trovare giustificazione valida, se non in un risentimento personale. Il corpo fu ritrovato da alcuni pescatori, e condotto nella chiesa di Santa Maria della Catena. Nella sua casa a Mergellina Mariano d’Ayala fece porre una lapide con una scritta: “Qui nacque Francesco Caracciolo ammiraglio strangolato nel 1799. Si diè al mare fin da fanciullo, e a 21 anno ebbe il primo comando; né i contrasti dei prepotenti insorti più volte ad attraversarlo poterono impedirgli di correre onestamente per la sua via”. Caracciolo era figlio di Vittoria Pescara Di Diano Dei Duchi Di Calvizzano. Il palazzo ducale in cui trovò rifugio fu costruito per volere di Diego Pescara, duca dell’omonima città. La sua edificazione fu completata nel Seicento. Col tempo il palazzo è stato danneggiato in quanto adibito ad abitazione civile. Ma prima di diventare Ducato, e prima ancora Casale di Napoli, la storia di Calvizzano affonda le radici in epoca romana. Anche il nome della città ne sottolinea l’ascendenza: presumibilmente la denominazione deriva da Calvisuis o Calvicius, forse un proprietario terriero appartenente a una gens molto nota a Roma. Nella Daunia, ad esempio, una

regione della Puglia, si fa riferimento ad una “gens Calvisia”, afferente al console C. Calvisio Sabino, che potrebbe rappresentare una ipotesi di ricerca, per stabilire le origini della città. Per ora solo un’ipotesi. La sua collocazione favorevole ne fa, probabilmente fin dall’inizio, oltre che una zona agricola, anche un piacevole luogo di villeggiatura. La presenza romana è testimoniata da alcune tombe e da alcuni resti che risalgono al III secolo a. C. Annesso al Ducato di Napoli nel 1269 diventa Casale. Solo in seguito, viene concesso, come feudo, prima ai Caracciolo, poi ai D’Allegro, e successivamente ai De Rabo. Nel 1656 si ha notizia di una terribile peste che colpì la città. Nel 1669 viene acquisito da Francesco Comero, che si ritrova anche il titolo di barone. Una ventina d’anni dopo, nel 1681, la baronessa Margherita Carrera, sposando il duca Diego Pescara, gli fa ottenere, in dote, il titolo di duca di Calvizzano. Negli anni a seguire la cittadina segue le sorti altalenanti del Regno delle due Sicilie, e poi quelle dell’Italia. I duchi di Pescara governarono fino al 1806, anno dell’abolizione del feudalesimo. Nel 1890 nasce a Calvizzano il biscottificio del cavaliere Umberto Castaldo, che segna il passaggio all’era industriale. La città vive di questa economia per molti anni, nascono moltissimi biscottifici in città. Fino agli anni sessanta e settanta la città vive un vero boom economico, con i prodotti da forno che

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varcano i confini regionali. Poi la crisi mette in ginocchio tante grandi e piccole fabbriche. Calvizzano, come tante altre città si risveglia dal sogno bellissimo. La ricetta segreta, o meglio la lavorazione, è stata custodita dalla famiglia dei fornai Gagliardi, e poi tramandata ai Saracino. La ricetta è di provenienza francese, anzi parigina. Oggi nella cittadina, che vive una dimensione a misura d’uomo, ha sede il calzaturificio Melluso. Un altro comparto industriale, quello conciario-calzaturiero, che ha attraversato per molti anni il territorio giuglianese, insieme al tessile. Va, inoltre sottolineato che a Calvizzano è esistita una straordinaria tradizione legata alle porcellane di Capodimonte con il maestro Salvatore De Palma, capostipite di una produzione proseguita poi con Massimo De Martino, Pasquale De Palma, Carlo Aveta, Andrea Nardaggio ed altri.

Le chieseCome tutte le chiese dei paesi della provincia di Napoli, dalla storia millenaria, anche Calvizzano annovera scrigni d’arte e di culto di notevole interesse. LA CHIESA DI SANTA MARIA ANNUNZIATALa prima chiesa dedicata al culto di Maria Annunziata sorgeva nel centro del paese. Per rispondere alle esigenze di un incremento

demografico, nel 1550 fu abbattuta per costruirne un’altra che fu ultimata nel 1608, col nome di Santa Maria delle Grazie, con la grossa cupola progettata da Domenico Antonio Vaccaro, architetto, scultore e pittore napoletano, autore, tra le sue innumerevoli opere dell’altare di Sant’Anna di Palazzo a Napoli, della facciata della Chiesa della Concezione a Montecalvario, il palazzo dell’Immacolatella, il palazzo Spinelli di Tarsia. La nuova chiesa fu ultimata nel 1608 e grazie alle elemosine dei fedeli diventò parrocchia nel 1809. LA PARROCCHIA DI SAN GIACOMOOltre ad essere una delle più importanti e antiche della diocesi di Napoli, vanta anche il primato di aver dedicato per prima a Napoli e nella sua provincia la chiesa a San Giacomo, primo martire del collegio apostolico. Nel 1809 la chiesa andò in rovina e fu abbandonata, per cui il titolo di parrocchia passò completamente alla nuova e grande chiesa di Santa Maria delle Grazie. LA CHIESA DI SAN PIETROLa prima data certa sulla sua esistenza risale al 1336. Ma l’attuale chiesa di San Pietro risale al 1656, l’anno della peste che devastò Napoli e la provincia. Gli abitanti si rifugiarono in campagna venerandone il culto. Passata l’epidemia con le

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loro offerte i fedeli ampliarono e abbellirono la vecchia chiesetta.

La peste del 1656La peste del 1656 fu un’epidemia che colpì parte dell’Italia, in particolare il Regno di Napoli. A Napoli pare fosse arrivata dalla Sardegna e provocò 250.000 morti su un totale di 450.000 abitanti e anche nel resto del regno il tasso di mortalità oscillava fra il 50 e il 60% della popolazione.

Le stradeCuriosa la storia delle strade della città. Quella principale, di collegamento con Napoli, fino al 1858 si chiamava via San Jacono, ma l’asse viario, visto l’aumento della popolazione, e del commercio, basato essenzialmente sulla vendita di prodotti agricoli che i villici andavano a portare a Napoli, cominciò ad essere stretto e così venne creata la strada provinciale che collega Giugliano – Villaricca – Calvizzano – Marano. A proposito di strade ancora più intrigante la storia di S. Maria a Cubito, che collegava le propaggini del casertano, e, partendo da Sessa Aurunca arrivava al Garrittone di Capodimonte, dove una lapide ne da notizia. Ancora oggi la strada è curiosamente divisa in due tronconi. Uno che volge verso Napoli e l’altro che si trova da tutt’altra parte, nella zona di Ischitella, appunto e fino al litorale domitio. Furono i Borbone a volerla, ma fu inaugurata soltanto nel 1861. Santa Maria a Cubito che serviva e serve tutti i paesi collegati tra loro, come Calvizzano e i confinanti comuni dell’area giuglianese, era sovrastata da ben quaranta ponti e si sviluppava per circa 30 chilometri. Secondo Chianese in “I casali antichi di Napoli” il nome deriverebbe da un passaggio di Carlo II d’Asburgo, noto anche come Carlo V.Questi trovandosi in quella strada, per una battuta di caccia, venne a conoscenza dell’avvenuta santificazione di suo zio Luigi IX, passato alla storia come San Luigi dei Francesi. Proprio in seguito a questa notizia Carlo si inginocchiò (che in latino si dice “cubavit se”) e baciò la terra. Subito sul luogo fu edificata la piccola chiesa di Santa Maria a Cubito e da quella prese poi nome la strada.

Le fonderie ChiurazziEra il 1800 Napoli brulicava di artisti, poeti, scrittori, pittori e scultori. Gennaro Chiurazzi senior incontra lo scultore Pietro Masulli, che ha lasciato, tra le altre sue opere uno splendido Giordano Bruno collocato nel chiostro del Salvatore a Napoli in via Paladino. Chiurazzi fonda una scuola d’arte nell’Albergo dei Poveri,

e, caparbiamente, riesce ad aprire due sale di Esposizione permanente di Arte antica, una nella Galleria Principe di Napoli, e l’altra in piazza dei Martiri. Le due sale ripropongono splendide copie di opere immortali che si trovano a Pompei, Ercolano, Roma e in tutti i luoghi dell’arte italiani e internazionali. La fama di Chiurazzi si espande anche negli Stati Uniti, la stampa ne diffonde l’arte in tutto il mondo. I figli Federico e Salvatore ne continuano l’attività fino alla seconda guerra mondiale, fondando la marmeria, la ceramica artistica e, soprattutto, la fonderia. Riduttivo definire operai le seicento persone che vi lavoravano. Le fonderie Chiurazzi hanno realizzato la Madonna del Carmine a Cuba, il gruppo equestre in onore del generale Artigas a Montevideo, le opere per il Carnegie Library College a Pittsburg, la quadriga del Politeama Garibaldi a Palermo, la quadriga del Vittoriale a Roma, il monumento al Visconte Caijru a Bahia, il gruppo “La civiltà e la scienza” a Panama, il gruppo equestre del Diaz a Napoli. Dopo la guerra la fonderia visse dei momenti drammatici, causati dalla crisi economica post-bellica. Ancora la caparbietà, la voglia di salvare quell’azienda di famiglia che riproduceva, con certosina precisione, le opere dell’arte, mosse Gennaro Chiurazzi senior. Ancora oggi la Fonderia non vive di splendori, pochissime le commesse che arrivano dalle amministrazioni. Nonostante i Chiurazzi dispongano di una raccolta unica al mondo di calchi in gesso che riproducono fedelmente le più grandi opere d’arte che si trovano nei Musei di tutto il mondo, a cominciare da quello di Napoli. Non a caso la ditta Chiurazzi negli anni ‘74-’75 ha fornito al “J. Paul Getty Museum” di Malibù in California, tutte le copie in bronzo e marmo delle opere originali esistenti nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

LA RICETTA(QUASI) SEGRETA

DEL BISCOTTODI CALVIZZANO

Abbiamo carpito gli ingredienti della ricetta del biscotto di Calvizzano, ma, come ci ha detto il signor Ambrogio Sarracino, attualmente unico custode della ricetta il segreto sta nella quantità di ingredienti e nell’amalgama. In ogni caso gli ingredienti del biscotto sono questi: Farina, latte fresco, zucchero, burro e olii vegetali, uova fresche, cacao, agenti lievitanti.

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Uno dei più grandi condottieri e uomo politico romano noto per aver battuto

l’imbattibile Annibale, nella seconda delle guerre puniche, ebbe i natali proprio a Giugliano. E l’autore del “Pentamerone” conosciuto come “Lo cunto de li cunti”. Scipione l’Africano e Giambattista Basile, a cui Giugliano ha dato i natali in due epoche diverse e distanti, hanno ricambiato dando lustro alla città e mettendola al pari di tante altre città d’arte e di cultura del mondo. Grazie a Basile Giugliano ha anche il titolo di “la città della fiaba” e di Scipione conserva i resti con la tomba custodita a Liternum. Il comune di Giugliano era considerato, sia prima che dopo il dominio di Cuma, a pieno titolo, parte di

quella Campania Felix tanto cara proprio ai romani. Le due ipotesi sul suo nome, d’altronde ne attestano la posizione di rilievo. Una delle due teorie, attribuita a Francesco Petrarca, infatti, sembra farne derivare la denominazione da Iulius. In questo caso sarebbe direttamente collegata alla presenza della famiglia di Giulio Cesare, morto nel 44 a. C. L’altra ipotesi vuole che, molto tempo prima, intorno al 420 a. C. un nucleo di Cumani, in fuga dai sanniti, si sia rifugiato nelle campagne giuglianesi, definendo quel luogo Leiranum e poi Lilianum per la folta presenza di gigli. Il territorio di Giugliano si estende tra i campi Flegrei, di cui fa parte a pieno titolo, e Terra di Lavoro, un tempo definita Liburia. Possiede anche una riviera e

GiuglianoTra Scipione e Basile

passando per un angelo

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un lago. Fanno parte del territorio, infatti, il litorale di Licola e il lago di Patria. Quest’ultimo sembra aver preso il nome proprio dall’iscrizione che Scipione fece incidere sulla sua tomba “ingrata patria non avrai le mie ossa”, laddove per “patria” si intende Roma. Giugliano ebbe sempre un ruolo strategico anche se si considerano gli assi viari, che la percorrono, e che lasciano intendere, quanto fosse già crocevia di collegamento di arterie stradali in epoca atellana. Non ci sono tracce della storia di Giugliano fino al 1207, anno in cui Cuma fu distrutta. Quei Cumani in fuga si rifugiarono a Giugliano, insieme a tutto il clero di quella città e ai chierici della cattedrale. Questi ultimi trasferirono anche i loro culti e per questo motivo nella città si venerano San Massimo e Santa Giuliana. Le reliquie di Giuliana furono traslate al monastero napoletano delle Clarisse di Santa Chiara e attualmente sono conservate nella cripta di San Guglielmo del monastero benedettino di Montevergine. Nel XII secolo la città fu governata da varie famiglie tra cui i Trotta, i Varavalle, gli Aversano e i Vulcano. Poi dalle famiglie napoletane Filomarino e Pignatelli, una delle più potenti stirpi nobiliari partenopee, fino a quando tutto il feudo fu acquisito da Ettore Pignatelli, conte di Fondi. Nel 1495 Carlo VIII, che aveva intrapreso la sua campagna bellica in Italia il 22 febbraio, aveva occupato, quasi senza spargimento di sangue, il Regno di Napoli, dal momento che Ferdinando II d’Aragona, detto Ferrandino, era già scappato, consegnandogli di fatto la città. Così Carlo VIII donò per pochi mesi, il feudo a Michele Riccio. Fino a quando però Carlo non fu sconfitto e scacciato da un esercito composto da Venezia, dall’Austria, dal Papato, dal Ducato di

Milano e dalla Spagna. Finalmente nel 1542 i Carafa cedettero il feudo a Galeazzo Pinelli, donando un poco di stabilità alla cittadina. La famiglia Pinelli, infatti, amministrò Giugliano fino a quando, nel 1639, Galeazzo vendette le quote di sua proprietà a Cesare D’Aquino. Nel 1691 Giugliano passa a Francesco Grillo e poi, nel 1778, il feudo viene acquistato da Marcantonio Colonna, che lo perde solo in seguito alla rivoluzione francese e alla legge voluta da Bonaparte e Gioacchino Murat, che abolì tutti i feudi. Il santo patrono è San Giuliano.

Il Lago Patria e LiternumIl Lago Patria a forma di cuore è la Literna Palus degli antichi, così detta perché sulle sue rive, e precisamente a sud ovest, alla foce dell’antico fiume Clanis, che in questo tratto si chiamava Liternus, sorgeva la città di Liternum. Il nome del lago, secondo alcuni, sarebbe ricollegato all’iscrizione fatta apporre da Publio Cornelio Scipione l’Africano e riferita da Valerio Massimo: “Ingrata patria, non avrai mai le mie ossa” (Ingrata patria ne ossa quidem mea habes). Presso il Lago Patria sorge la città di Liternum. L’antica città non ha nulla a che vedere con il comune di Villa Literno. La zona era abitata già in epoca preistorica e successivamente da popolazioni di stirpe osca che probabilmente vi fondarono una città poi ampliata dai romani che nel 194 a.C. vi fondarono appunto Liternum. Liternum fu assegnata a dei veterani della

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seconda guerra punica, appartenenti all’esercito di Scipione l’Africano, che vi si trasferirono con le famiglie. La città ebbe un notevole sviluppo in epoca augustea, ma soprattutto tra la fine del I ed il II secolo d.C., dopo che fu attraversata dalla via Domiziana che, partendo da Sinuessa l’odierna Mondragone, la collegava con i centri della costa campana ed in particolare con il

porto di Puteoli. Liternum, ricordata anche da Cicerone, decadde per l’isolamento rispetto alle vie di comunicazione e per l’impaludamento della fascia costiera. La torre di Patria, situata al km. 43 della via Domiziana in località Lago Patria, è tra gli esempi di torri di avvistamento e di difesa quella meglio conservata, tra le tante che sorgevano lungo tutta la costa domiziana. Il sepolcro di Scipione sormontato da una statua fu visitato da Livio e Seneca. I resti dell’antica città relativi al Foro, il Capitolium, la Basilica ed il Teatro, e l’Ara di Scipione l’Africano, sono stati riportati alla luce nel 1932.

“Ingrata terra non avrai le mie ossa” Uomo politico e generale romano (Giugliano 236-235 - Literno 183 a.C.). Figlio di Publio Cornelio Scipione, console nel 218 a.C., marito di Emilia Terza, sorella di Paolo Emilio Macedonico, e padre di Cornelia, madre dei Gracchi, Scipione fu l’eccezionale protagonista di un’epoca cruciale della storia di Roma. A diciassette anni, nella sfortunata battaglia del Ticino (218 a.C.), salvò la vita al padre; tribuno militare a Canne (216 a.C.), fu tra quelli che a Canusium (Canosa di Puglia) riordinarono i resti dell’esercito disfatto. A ventiquattro anni, fu fatto proconsole e inviato in

Spagna a ristabilire la critica situazione lasciata dalla morte del padre e dello zio. Qui mediante nuovi accorgimenti tattici e una strategia costantemente offensiva, traendo profitto dalle discordie dei capi cartaginesi e dalle simpatie degli indigeni, conseguì un completo successo. Nel 209 a.C. conquistò Cartagine; poi sconfisse a Becula Asdrubale Barca, che avanzava verso

l’Italia in aiuto del fratello Annibale, senza però riuscire a fermarlo; distrusse quindi due armate cartaginesi a Ilipa e ottenne l’alleanza di Cadice. Tornato a Roma, Scipione, sostenuto dal favore popolare, ottenne il consolato per il 205 e come provincia la Sicilia, che nei suoi disegni avrebbe dovuto servirgli come base per portare la guerra in Africa, così da costringere Annibale a uscire dall’ltalia. Il suo piano incontrò l’opposizione di Fabio Massimo che gli negò i mezzi e le truppe necessari. Ma Scipione con l’aiuto spontaneo delle città italiche e italiote allestì una flotta e un esercito agguerrito, se non molto numeroso, con il quale sbarcò in Africa presso Utica

(204 a.C.). Trovatosi di fronte a forze superiori al previsto, alternò azioni di guerra a proposte di pace, riportando, con l’aiuto del re numida Massinissa, una grande vittoria ai Campi Magni (203); poi per stroncare le rinascenti velleità bellicose dei Cartaginesi, attaccò battaglia a Zama infliggendo loro la sconfitta decisiva (202) e pose così fine alla seconda guerra punica. Accolto a Roma in trionfo (201 a.C.), a ricordo della vittoria ricevette il soprannome di Africano. In contrasto con Catone il Vecchio e il partito conservatore favorì una politica d’espansione in Oriente e quando scoppiò la guerra con Antioco III di Siria, fece pressione perché il comando della spedizione toccasse a suo fratello Lucio e a lui fosse concesso di accompagnarlo in qualità di legato. Di fatto ne fu il capo, sia nella preparazione diplomatica sia nel predisporre il piano delle operazioni belliche. Vinse a Magnesia al Sipilo anche se una malattia lo tenne lontano dal campo di battaglia. Ma dalla vittoria finita con la pace di Apamea (188 a.C.) procurò a Roma il dominio in Oriente e un enorme bottino. Al ritorno a Roma Scipione trovò gli avversari politici allarmati del crescente prestigio suo e della sua famiglia e desiderosi di rovinarlo rivolgendogli contro una campagna di accuse di corruzione sostenendo che lui, ma soprattutto il fratello Lucio, avrebbe privatamente

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ricevuto danaro da Antioco III trattenendo 500 talenti. Come conseguenza si ebbero tentativi di incriminazione mai sfociati in veri processi (i «processi degli Scipioni»). Negli ultimi anni della vita, sdegnato con i concittadini, egli abbandonò Roma (pronunciando, secondo Valerio Massimo, la frase « Ingrata patria non avrai le mie ossa ») per ritirarsi nella sua villa di Literno dove, cagionevole di salute, morì a circa cinquant’anni nel 183 a. C.

Il padre delle fiabe in dialettoIl padre delle fiabe in dialetto seicentesco, straordinario esempio di stile e di tipiche parlate dei luoghi in cui è ambientato, nacque nel febbraio del 1566 a Giugliano e probabilmente apparteneva ad una famiglia benestante. Aveva un forte legame con la sorella Adriana, dalle straordinarie doti canore. Gianbattista Basile divise la sua vita tra la letteratura, unica e grande passione mai abbandonata, la parentesi militare come soldato di ventura e le diverse esperienze politiche come amministratore o governatore. Grazie a questi incarichi di natura politica, Basile ebbe modo di girare e conoscere meglio il territorio campano e il salernitano, l’avellinese, il casertano il lucano venendo così a contatto con una realtà diversa da quella della citt, delle corti e dei nobili. Fu proprio grazie a questa conoscenza delle radici meno nobili che trovò l’ispirazione per “Il pentamerone” ovvero “Lo cunto de li cunti”, a cui tra gli altri si è ispirato Roberto De Simone per “La gatta cenerentola”. Deluso ed amareggiato dalla bassezza degli uomini appartenenti alle classi sociali più elevate, nonostante egli stesso ne facesse parte, preferì dar voce al popolo e alla memoria popolare. Basile amava aggirarsi per i luoghi frequentati da gente appartenente a diversi ceti sociali, infiltrarsi tra i più poveri, tra i popolani e spiarne i comportamenti, le abitudini e le maniere. Furono proprio questi i luoghi che lo ispirarono, come nel caso della quattrocentesca Taverna del Cerriglio, molto nota nel XVI secolo in tutto il territorio napoletano ed oltre i confini del regno, per la bontà della cucina e per l’atmosfera bucolica. In questa taverna, luogo di passaggio frequentato da naviganti e briganti, soldati e esiliati, Basile si divertiva a colloquiare con il genere umano più emarginato. La produzione letteraria di Basile comprende anche lavori in lingua italiana che però trovarono scarso successo. L’insuccesso delle opere in lingua portò Basile ad uno stato di delusione ed insoddisfazione, uno degli elementi decisivi nella scelta di lasciare Napoli per altre zone dell’ Italia dando inizio così alla parentesi militare (1604-1607). Conobbe Venezia prima del suo declino e dalla Serenissima fu inviato a Candia, nell’isola di Creta, per difenderla dalle invasioni dei turchi. Durante il periodo veneziano

Basile, oltre che come condottiero, ebbe modo di essere apprezzato anche come poeta e scrittore. Nel 1608 tornò a Napoli, dove poté dedicarsi ad un’intensa produzione letteraria. A Mantova, dove si era recato per seguire Adriana, Basile pubblicò tutte le opere poetiche fin allora prodotte dedicandole al duca Vincenzo Gonzaga. Dopo un anno però tornò a Napoli a causa del clima umido e poco adatto alle sue condizioni fisiche. Qui comincia l’impegno politico: più volte nominato governatore e amministratore in vari territori del Regno, venne a conoscenza della realtà politica e comprese molto sulla natura meschina dell’uomo: questo sentimento influì molto nella realizzazione della sua opera più importante. E’ di questo periodo anche il matrimonio con Flora Santora, originaria di Giugliano. Inizia così il suo peregrinare nel territorio

campano per assolvere ai vari incarichi; e nonostante gli impegni di carattere politico non trascurò mai l’attività di letterato e quella di filologo. Ancora una volta è la vicinanza alla sorella Adriana a caratterizzare un periodo particolarmente felice per il Basile letterato.

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Insieme entrarono alla corte del Viceré, don Alvares di Toledo, al quale Basile dedicò una raccolta di cinquanta odi, in segno di riconoscenza per l’incarico di Governatore di Aversa. L’ultima corte presso la quale il poeta dimorò fu quella di Galeazzo Pinelli, duca d’Acerenza. Dallo stesso Duca fu nominato Governatore feudale di Giugliano e qui, nella sua terra d’origine, morì nel 1632. Solo grazie alla tempestività e lungimiranza di Adriana Basile, “Lo cunto de li cunti” ed altre opere sono arrivate fino ai nostri giorni. Basile è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi narratori di fiabe di tutti i tempi.

Il palazzo PalumboIl Palazzo Pinelli Duchi di Acerenza, l’attuale Palazzo Palumbo dal nome della famiglia che ne è proprietaria, è stato edificato nel 1545 dall’architetto Giovanni Francesco di Palma, detto il Mormando, su commissione di Cosmo Pinelli che dal 1542 era il proprietario del feudo di Giugliano. Originariamente il Palazzo aveva una torre laterale, in seguito abbattuta. Nella cappella privata, tuttora esistente, si trovano le spoglie di San Feliciano Martire. La maggior parte delle stanze del palazzo sono tutte

adornate da antichi affreschi, in parte restaurati negli ultimi anni. Il palazzo non è visitabile.

Il borgo di CasacellePoco distante dal centro storico c’è il Borgo di Casacelle: citato in un documento dell’anno 819, è quanto avanza del ricordo di un fiorente villaggio romano, e poi medievale, posto sul tracciato dell’antica via Consolare Campana. Il

sito doveva consistere in tre serbatoi per l’acqua con pareti in tufo probabilmente appartenenti ad una stazione di sosta per il rifornimento di coloro che percorrevano la via Campana.

Santa Sofia e le altre chieseLa collegiata di Santa Sofia è una delle chiese più grandi ed importanti, dove è sepolto Giovan Battista Basile. La chiesa fu edificata alla metà del XVII secolo, su progetto di Domenico Fontana e completata poi da Domenico Antonio Vaccaro, artefice delle decorazioni in stucchi dell’interno e del disegno del pulpito in marmo. Durante la seconda guerra mondiale la cupola fu danneggiata. La facciata è caratterizzata da un bel portale in piperno del XVII secolo. Il campanile, su tre piani, è del XVIII secolo: si eleva su un basamento dove erano collocate interessanti sculture del XV secolo una di queste raffigurante una donna gravida è il simbolo e lo stemma della città. Nella navata unica domina il grande organo seicentesco, opera dell’intagliatore Fabrizio Cimino, sulla destra il soffitto incornicia tele di Nicola Cacciapuoti, XVIII secolo. A sinistra della navata, la Cappella del Tesoro di San Giuliano edificata nel 1631 in occasione dell’arrivo in città delle reliquie del

santo da Sora. Nel novembre del 1998 furono rubate dalla cappella otto tele di pittori tra cui Andrea Vaccaro e Pacecco de Rosa. Nella chiesa si segnala una tela raffigurante la Caduta di San Paolo, firmata e datata 1634, di Giuseppe Marullo, replica di un’altra conservata nella chiesa di San Paolo Maggiore a Napoli. Marullo a Giugliano studiò con un certo interesse la Presentazione della Vergine al tempio (1618), opera giovanile di Massimo Stanzione conservata nella chiesa dell’Annunziata. Si segnalano, la Chiesa dell’Annunziata, appunto che conserva la prima opera di Massimo Stanzione, e in cui è annessa la Cappella della Madonna della Pace, che sembra essere una chiesa nella chiesa. Anche in questa cappella sono custodite varie tele del seicento. Nella Chiesa dell’Annunziata è

conservato uno straordinario esempio di organo ligneo. La chiesa di Sant’Anna si trova nel centro storico di Giugliano, probabilmente in quello che era il suo nucleo abitativo più antico. La chiesa di San Giovanni Evangelista in Campo è meglio conosciuta come Madonna delle Grazie. Da non confondere con il complesso francescano di Santa Maria delle Grazie. Anche la chiesa di San Nicola presenta opere di pregio

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ed è riconducibile al XIV secolo. Il complesso di Santa Maria delle Grazie e Sant’Alessio (chiesa e convento) meglio noto come convento francescano, fu edificato ai primi del XVII secolo per ospitare i frati francescani della città sui terreni del Duca Galeazzo Francesco Pinelli, signore di Giugliano, al posto della preesistente chiesa di Sant’Alessio. Sottratto all’ordine religioso nel XIX secolo, fu riacquistato dai frati nel 1901 che provvidero a restaurarne alcune parti.Altre chiese di Giugliano Chiesa di S. Marco Evangelista, Chiesa di San Giovanni Evangelista, Chiesa del Purgatorio, Chiesa di S. Massimiliano Kolbe, Chiesa di S. Matteo, Chiesa di S. Luca, Chiesa della Sacra Famiglia, Chiesa S.Pio X.

Le feste A maggio e settembre a Giugliano si tengono due feste popolari entrambe dedicate alla “Madonna della Pace”. I solenni festeggiamenti

si protraggono per circa nove giorni, durante i quali c’è il suggestivo “Volo dell’Angelo”. Durante il pomeriggio del primo giorno il simulacro della Madonna trainato da buoi viene trasportato dai fedeli lungo le vie della città. Durante il lunedì e l’ultima domenica, a seguito della celebrazione della Messa e del cosiddetto “Volo dell’Angelo”, il carro della Madonna prosegue la processione che, nel corso della

notte, termina i fuochi d’artificio e la replica del “Volo dell’Angelo”. L’origine del “Volo dell’Angelo” è incerta, pur se anteriore all’anno 1749. Durante il “Volo dell’Angelo” una bambina vestita da angelo e sostenuta da robusti cavi, viene sospesa in aria tra due palazzi a circa trenta metri d’altezza e intonando la tradizionale canzone in onore della Madonna, libera dei colombi e viene calata sul carro della Vergine per riporvi un mazzo di fiori. Le celebrazioni civili e religiose iniziano il sabato della vigilia di Pentecoste e si protraggono fino alla successiva domenica dedicata alla SS. Trinità.

Tutti gli uomini di GiuglianoLo scrittore Pasquale Stanzione, lo scrittore Alberto Scialò, lo scultore Giulio Starace, lo storico Fabio Sebastiano Santoro, l’aviere Mario Pirozzi, il magistrato Raffaele Cantone.

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Non tutti sanno che il letterato Jacopo Sannazzaro fu il primo feudatario di

Marano.La nascita di Marano risale, con ogni probabilità, al neolitico. A San Rocco, infatti, sono stati trovati resti che avvalorano questa tesi. Risale agli anni ’70, inoltre, il ritrovamento di parte di una ciotola carenata incisa risalente all’età del bronzo. Il rinvenimento, ad opera del Gan (Gruppo Archeologico Napoletano) fu fatto nei pressi dell’Eremo di Santa Maria di Pietraspaccata a Faragnano.

Marano è anche la cittadina che confina e in parte comprende, la collina dei Camaldoli, insieme al comune di Quarto e, soprattutto, i quartieri di Soccavo e Pianura. In ogni caso Marano ha origini antichissime. Da un lato è importante asse di raccordo per collegarsi, in epoca romana, sempre grazie alla via Consolare Campana, verso la zona flegrea, e, come tutti i comuni dell’area giuglianese in direzione di Capua e del casertano. Poggio Vallesana, la zona di Monteleone, dove sorge il casale delle Torri, la torre Caracciolo sono alcuni dei simboli

MaranoIn principio era Vallesana

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della città. E, a proposito di Quarto, Marano, come è raffigurato in una tela seicentesca, in passato, assieme a Monterusciello la inglobava nei propri confini. Dunque un territorio vastissimo, noto, ancora oggi per la produzione di vino e altri regali della terra. Della presenza osco-sannita rilevata in tutta l’area giuglianese, a Marano restano principalmente tre strade: Cupa dei Cani, via Pendine, via Cupa Orlando (l’antica Consolare Campana). Naturalmente la traccia più importante della presenza romana è il Ciaurro. Sono ancora di epoca romana cinque statue trovate a Marano e attualmente conservate nel Museo Archeologico di Napoli che raffigurano il liberto Dama, sua moglie Terzia, anch’essa ex-schiava (entrambi appartenuti all’imperatore Tiberio), Ercole e due fauni. A Poggio Vallesana, sembra abbia abitato Tirone, in una villa donatagli da Cicerone. Proprio questa parte della città, fu il nucleo abitativo più antico. La storia di Marano è quella di un borgo rurale, dove i patrizi romani e poi i nobili medievali si recavano, come d’altronde in tanti altri siti limitrofi, per trascorrere soggiorni di otium, anche grazie alla rinomata salubrità del luogo (non a caso Balisanum, poi Vallesana ne lasciano intendere la propensione). Ciò è testimoniato anche dalla presenza di decine di ville, tombe e cisterne. A proposito di tombe, a Marano sono state ritrovate sia quelle per la sepoltura dei

nobili e dei ricchi, ma anche tantissime altre più scarne e povere, che ospitano o hanno ospitato i resti mortali di servi e gente di umile provenienza. Con uno scarto di qualche secolo arriviamo ad un altro evento importante per la città, legata al cosiddetto “Castello Belvedere” voluto da Federico II (nato a Jesi nel 1194 e morto a Napoli nel 1268) per farne residenza di caccia, ma anche sua abitazione e centro amministrativo. All’epoca, al seguito di Federico, tra Marano e Quarto arrivarono anche molte truppe elvetiche che popolarono la zona. Il castello alla morte di Federico fu distrutto e incendiato, in quanto era anche il luogo dove i cittadini venivano a pagare le tasse, e fu fatto ricostruire da Carlo I D’Angiò nel 1275. Carlo obbligò sessanta famiglie a risiedere nelle vicinanze del castello e di fatto fu il fondatore dell’attuale frazione di San Rocco. In tutta la zona era anche praticata l’estrazione del tufo, in parte utilizzato per la costruzione del Ciaurro. Dunque un’identità chiara quella di Marano: luogo ameno e salubre, di soggiorno e di estrazione e lavorazione del tufo. Marano aveva all’epoca della dominazione spagnola in Torre Caracciolo, un luogo di grande attrazione, dove si organizzavano anche moltissime feste e ricevimenti, anche grazie al panorama che vi si godeva. Proprio in questo periodo la città godette di una grande espansione edilizia, inglobando

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MacelleriaBelvedere

Nel panorama gastronomico di Marano, e non solo, Agostino Iannicelli è da anni sinonimo di qualità e genuinità nel settore delle carni.La sua rinomata macelleria, in via Castel Belvedere, n° 204 è meta di intenditori di buona cucina da circa venticinque anni.La passione per il suo lavoro e la quotidiana ricerca del “meglio” da offrire alla propria clientela, fanno di quest’uomo un autentico cultore della riscoperta dei sapori e delle antiche tradizioni locali.Nato quarantanove anni fa sulle famose “coste” che da Marano declinano verso Quarto, insieme al padre, Agostino si dedica all’agricoltura fino a quando ventiseienne, scopre la passione per la macellazione. Comincia ad acquistare maiali locali cresciuti all’antica maniera fornendo carni genuine e gustosi salumi ai suoi clienti che diventano man mano più numerosi tanto da indurlo ad aprire un punto vendita.

il regno del gusto

Ma la Macelleria Belvedere è anche impulso al recupero delle tradizioni locali con l’organizzazione di eventi enogastronomici che sono diventati ormai una tradizione e un fiore all’occhiello per la cultura popolare del luogo:– la prima domenica di agosto si svolge nel Borgo del Castello Monteleone la Sagra della salsiccia con degustazione di prodotti tipici del Fortore– la prima domenica di settembre, in occasione della festa di Sant’Alfonso e dell’Immacolata negli stessi luoghi, si svolge la Fagiolata con l’olio biologico di San Giorgio la Molara.– due volte l’anno poi Agostino organizza per i suoi affezionati clienti e amici una escursione gastronomica nei luoghi d’origine dei suoi prodotti.Agostino Iannicelli rappresenta per la città di Marano un prestigioso esempio di imprenditoria: qualificata per la sua capacità di conciliare memoria e innovazione e qualificante per il territorio grazie alla promozione della cultura popolare attraverso il recupero delle tradizioni locali.

Presso la Macelleria Belvedere è possibile, infatti, trovare le migliori razze di bovini italiani, Marchigiana, Pezzato rosso, Podonico, Romagnola, Chianina, l’agnello Latigauda (corachiatta) le Caciotte e i Pecorini del Fortore, il Caciocchiato di Avellino oltre ai gustosissimi salumi di produzione propria come Pancetta steccata con legno di castagno stagionato, salami, salsicce secche, capicolli, filetti, culatelli, zamponi, annoglie e mozzarielli, e il profumato lardo per condire all’antica pietanze come la polenta…Ma anche olio extravergine “Oro San Giorgio”, uova fresche di campagna , verdure sott’olio di produzione casareccia, vino e pollame di qualità.

Il 13 novembre 1986 nasce la Macelleria Belvedere che oggi offre ai suoi numerosissimi estimatori le pregiate carni bovine, ovine e suine del Fortore, incontaminata località ai confini fra Benevento e Foggia.Qui tra splendide colline e borghi medioevali, sopravvivono le antiche masserie dove allevatori e contadini dai volti bruciati dal sole e solcati dalla fatica si dedicano ai loro mestieri con perizia e competenza.

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La Storia ci insegna da sempre che i Popoli che hanno abitato le nostre Terre sono stati portatori e conduttori di culture e costumi.Se pensiamo che Greci e Romani prima,Angioini e Aragonesi dopo,hanno portato le loro viti, lavorato la nostra terra, cucinato quei piatti che poi sono diventati i nostri, allora ci rendiamo conto di quanto sia importante quella continuità che alla Taverna Neapolis è ricerca quotidiana……La Pasta e Patate al forno, i Paccheri alla Genovese, La Zuppa di Cozze, le Carni alla Brace e, naturalmente, la Pizza, sono i piatti che più ci piace abbinare ai nostri Vini.In Cantina prevalgono le etichette Regionali, con particolare attenzione alle D.O.C. dei Campi Flegrei falanghina e piedirosso.…Un menù stagionale, dove non manca mai una ricca

selezione di carni, che cuociono su brace viva fornita dai forni a legna…Ad una manciata di minuti di auto dal Centro Storico di Marano, proprio dove i Campi Flegrei cedono il passo ad altri centri urbani, Taverna Neapolis si ripropone di essere punto di legame tra la più tipica cucina marinara della vicina Pozzuoli e le ricette delle Masserie dell’hinterland Partenopeo.

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nel 1630, Quarto e Monte Rusciello. Gli spagnoli abolirono il divieto di semina e di pascolo, imposti da Federico II. Il territorio vastissimo fu diviso tra tre governatori: la principessa Caterina Manriquez, peraltro anche marchesa di Cirella, amante del re di Spagna Filippo IV, proprietaria dell’attuale centro storico della città. In particolare nel 1630 Antonio Manriquez, padre di Caterina aveva ricevuto in feudo la zona – insieme a Quarto - dal vicerè Ferdinando Afan de Ribera. Il resto della città era in possesso della famiglia Capece Galeota per i possedimenti di San Rocco e Monteleone, mentre il principe Ruffo Scilla dominava la collina fino a Pianura. Dal 1704 tutta Marano passerà ai Caracciolo. Senza troppi sussulti la città fu segnata dalle vicende legate prima all’eliminazione del feudalesimo, per poi essere influenzata dagli avvenimenti politici dell’unità d’Italia, fino ad arrivare ai giorni nostri. La presenza di masserie come in tutti i luoghi ad economia agricola, è dovuta alla eliminazione dei feudi voluta da Gioacchino Murat. Da ricordare inoltre, che Marano, oltre che essere secondo molti la “porta dei Campi Flegrei” è anche la porta per un versante della collina dei Camaldoli. Il santo patrono di Marano di Napoli è San Castrese.

La tomba di TironeIl ciaurro il cui nome deriva quasi certamente dall’arabo tdjiaurr, “luogo degli infedeli”, si ritiene sia il sepolcro tombale di Tirone, fedelissimo liberto di Cicerone, di cui fu segretario, che ha posto, tra l’altro, le basi per la scrittura stenografica. Tirone, malato di tisi, avrebbe abitato in una villa donatagli da Cicerone a Poggio Vallesana, poi sarebbe morto, parecchio anziano, per essere sepolto nel mausoleo del Ciaurro. L’imponente struttura fu catalogata e più che scoperta, riconosciuta, ancora una volta dallo straordinario archeologo Giacomo Chianese. Le pareti, come anche le nicchie sono di tufo, forse proveniente dalla vicina collina dei Camaldoli, furono intarsiate con dei rombi per rendere ancora più suggestiva l’intera scena. Una volta il Ciaurro aveva anche una grande cupola distrutta dagli agenti atmosferici e dall’incuria dell’uomo. Il secondo piano si è salvato ed il crollo della cupola ha fatto rompere

solo il pavimento e non l’intero ambiente. Il piano terra è intatto e si trova a circa 3 metri sotto il livello attuale della villa che prende nome dallo stesso mausoleo. Il Ciaurro inizialmente fu usato come fienile e deposito di legna e carbone. Marco Tullio Tirone (Marcus Tullius Tiro; Arpino, aprile 103 a.C. – Pozzuoli, 4 a.C.) fu uno schiavo, poi affrancato, di Marco Tullio Cicerone. Fu proprio in funzione dei servigi prestati e del lavoro alle dipendenze dello statista come segretario e scrivano, che fu reso libero. A Tirone si deve la raccolta delle lettere ciceroniane scritte tra il 48 e il 43 a.C. Secondo la tradizione, sarebbe stato l’inventore di un sistema di stenografia, le “note tironiane”, costituito da simboli e abbreviazioni. Gerolamo nel suo Chronicon riporta che morì quasi centenario durante la 194.a olimpiade (4 a.C.-1 a.C). Tirone è anche una località appartenente al territorio di Chiaiano, zona situata su una collinetta al confine con Napoli, dalla quale si giunge nel Comune di Marano, in località Poggio Vallesana. Proprio dalla vicina località Vallesana è avvalorato il toponimo di Tirone. Anche se, alcuni sostengono che il termine Tirone derivi da un torrione presente nella zona.

Giuseppe Petronio critico e scrittoreTra le personalità legate a Marano si ricorda la figura di Giuseppe Petronio. La famiglia di Giuseppe Petronio era calabrese, ma Giuseppe

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nacque a Marano il 1 settembre 1909 e morì a Roma, il 13 gennaio 2003 all’età di 94 anni. Petronio è stato un critico, storico della letteratura italiana, a anche scrittore. Autore di una storia della letteratura italiana “Attività letteraria in Italia” che ha formato generazioni di studenti. Fu docente di Letteratura italiana alle Università di Cagliari e Trieste, ove diede origine alla “Scuola triestina”. Dal 1967 e per decenni diresse la rivista “Problemi” e dal 1984 fu presidente dell’“Istituto Gramsci” friulano. Antifascista, nel dopoguerra approdò al marxismo dedicandosi ad una intensa attività politico-sindacale con il partito socialista e poi con il partito comunista. Il contributo di Petronio è stato fondamentale per quella rivoluzione culturale che volle vedere l’opera letteraria incastonata nel proprio contesto, e frutto di una serie di condizioni non solo derivanti dal genio umano. Tra i personaggi della cultura, da ricordare anche lo scrittore nonsensista e poeta surrealista Franco Cavallo, morto nel 2005.

Tra castelli e chieseTorre Caracciolo ubicata su una propaggine dei Camaldoli che dà verso Quarto e Pianura e costruita dagli Aragonesi (probabilmente sui resti di un’altra precedente torre costruita per gli avvistamenti dei saraceni), fu sede di svaghi e divertimenti. Quasi sicuramente vi dimorò il primo feudatario di Marano, il letterato Jacopo Sannazzaro grande amico dei re Alfonso d’Aragona e Federico I.La chiesa di S. Maria di Vallesana fu costruita su resti di epoca romana, prima monastero dei padri agostiniani fu poi acquisita dal Comune di Marano. Nel 1817, Ferdinando I promulgò la legge n. 653 in cui si prescriveva l’erezione dei cimiteri fuori dai centri abitati e così, nel 1820, si iniziò la costruzione del cimitero di cui la chiesa divenne la cappella. Nella chiesa c’è la statua della “Vergine della Cintura” per la quale il lunedì di Pasquetta si celebra la festa con la processione.La chiesa della Madonna dell’Annunziata fu eretta su antiche preesistenze romane nel 1512, ma solo negli anni ottanta ne furono costruite le fondamenta. Inizialmente fu dedicata a S. Maria delle Grazie. Sull’altare maggiore della chiesa c’è il quadro della Madonna dove è raffigurata la zona nel seicento.La Parrocchia di S. Castrese fu la prima parrocchia di Marano, risale al 1585, anche se fu edificata già nel ‘400. Di rilievo la “pala dell’altare maggiore” realizzata

da Domenico Antonio D’Amato che rappresenta la discesa dello Spirito Santo sulla Madonna e sugli Apostoli (Pentecoste - 1589). Il castello Scilla fu costruito per volere di Carlo D’Angiò nel 1250 e sorge su quella che ancora oggi viene chiamata via Castello. Era attigua alla fabbrica per l’estrazione di tufo. A Marano esistono ancora moltissime grotte di tufo. La chiesa di Santa Maria di Pietraspaccata, piccolo luogo di culto rupestre risale al 1200, ed è molto amata dai maranesi per un miracoloso ritrovamento della statua di una Madonna.

I mestieri di MaranoA Marano c’erano alcuni mestieri ormai scomparsi o rari: il cestaio che produceva manufatti per il lavoro dei campi, gli scalari che producevano le classiche scale per la raccolta in alto dagli alberi e non solo, i carrai costruttori di carri e i mugnai che lavoravano il grano per la farina, i montesi dediti all’estrazione del tufo nelle cave.

Marano in festaLe feste a Marano: 11 febbraio – festa di S. Castrese, lunedì di Pasquetta – festa di Maria SS. della Cintura; martedì di Pasquetta – Pasquetta dei Maranesi.

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MelitoScarpe doppie e cervello fine:

piccoli grandi eroi di campagna

A parte qualche bellissima tradizione, ormai perduta nel tempo, come quella di bagnarsi

il viso in un recipiente pieno d’acqua e petali di rose, e qualche altra usanza legata alla vita di tutti giorni, Melito non sembra avere avuto nella sua storia, nessun sussulto, nessun grande evento che ne abbia segnato il percorso. Il primo documento in cui si cita Melito risale al 932, mentre il nome richiama direttamente la coltura della mela “maletus”, anche se poi fu modificato in “melitus” per distinguerlo dall’omonima cittadina calabrese Melito di Porto Salvo. Nel periodo dei Gracchi, intorno al 133 a. C. e poi successivamente sia sotto Cesare, ma anche durante il dominio di Augusto, la città era stata sottoposta alla centuriazione. Quest’ultima era un vero e proprio sistema, un piano regolatore di organizzazione dei campi agricoli. Già questi pochi elementi ne tracciano la connotazione di territorio agricolo. A partire dal X secolo si trova traccia di luoghi omonimi: “malitu sancti petru” e “malitu sancte neapolitane ecclesie”. Pochi anni

dopo il mistero si infittisce con il ritrovamento di un “malitu maiore” e di un “malitu pictulum” che si trovava vicino a Carpinianum. Quest’ultimo è stato identificato quale villaggio posto ai piedi della collina dei Camaldoli, da cui poi, a causa dei continui attacchi, gli abitanti si spostarono per andare a fondare la città di Mugnano. Ma questa è un’altra storia che vi racconteremo parlando di Mugnano. La questione dei due nomi gli storici l’hanno risolta distinguendo Melito maggiore o Melito da Melito minore o Melitello collocati ai due lati del confine fra le terre dominate dai Longobardi e quelle amministrate dai Napoletani. Con l’invasione longobarda uno dei due Melito (“malitu sancti petri”, Melitello?) venne a ricadere nella parte dominata da Benevento, forse con dipendenza dalla diocesi atellana, mentre l’altro era dipendente da Napoli e dalla diocesi napoletana. Con la fondazione di Aversa da parte dei Normanni, il primo Melito diventa uno dei suoi casali ed è nell’elenco del 1459. Al contrario l’altro Melito è indicato come casale di Napoli nel

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1601 mentre di Melito come casale di Aversa non c’è più traccia. Giustiniani riferisce di una carta della Regina Giovanna in cui si legge: ‘Feudum Mileti in parte pertinentiarum civitatis nostre Neapolis in parte pertinentiarum civitatis nostre Averse’ e ciò avvalora questa interpretazione. Con la costituzione dei comuni in epoca murattiana Melito, o meglio il centro risultante dalla fusione dei due centri omonimi, fu elevato a comune con il nome di Melito che diventa Melito di Napoli con R. D. 4-1-1863 n. 1196. Il centro è riportato anche nella carta del Rizzi-Zannone del 1793. Quindi uno dei Melito fu assorbito da Melito di Napoli.

Il giallo del nomeSecondo altri tra cui lo studioso Chianese, il nome deriverebbe da “Mellito” che nella bassa latinità significò “fossato profondo”. Al tempo del Ducato Napoletano, a fare da confine territoriale esisteva un “fossato di Napoli” che divideva il territorio di Napoli da quello di Capua prima e di Aversa poi. Il fossato di cui parliamo era stato scavato da Giugliano verso Napoli, attraversava la fattoria Signorelli, l’attuale Via Signorelli, per arrivare a Melito e fermarsi poi in prossimità di Capodichino Inizialmente il “fossato” assume importanza al tempo del Ducato napoletano per le continue battaglie contro i Normanni di Aversa e successivamente acquisisce valore in quanto esso veniva a costituire una vera e propria difesa per il territorio di Napoli. Nel tempo, quindi, al nome di Mellito di Napoli (vale a dire “fossato di Napoli”) si preferì quello attuale di Melito di Napoli.

I trentasei casali Fu Federico II, a dare dignità di Casale di Napoli a Melito di Napoli, che prese appunto quel nome, mantenendo sempre la vecchia dicitura, che nel corso dei secoli, perdendo la doppia “t”, divenne Melito. La definizione fu poi mantenuta in epoca fascista. Il distretto di Napoli era formato dalla città dentro le mura, dai borghi che cingevano le mura come una fascia, dai villaggi situati all’estrema periferia.Al di là dei villaggi, i trentasei casali circondavano il distretto, in modo da servire negli antichi documenti a delirnitarlo. Essi appartenevano solo largamente alla circoscrizione civile di Napoli, in quanto avevano gli stessi privilegi della città, si regolavano con le stesse consuetudini, e dovevano corrispondere al governo dei diritti sull’annona e sul dazio; ma si governavano con sindaci propri.Si possono dividere naturalmente in quattro zone. La prima, al nord, tutta di campagne, è un triangolo avente come lati la Regia strada di Capua, la Strada di Benevento e una linea tirata tra il casale aversano di Sant’ Antimo e la città diAcerra: è formata dai casali di San Pietro

a Patierno, Secondigliano, Casavatore, Casoria, Casalnuovo, Melito, Afragola, Arzano, Casandrino, Grumo, Nevano, Frattamaggiore, Cardito. La seconda zona dei casali si stende a nord-ovest fra la Regia Strada di Capua e i Camaldoli di Napoli, anch’essa tutta fertili campi trapunti di gruppi di case, i quali, ritornando verso Napoli, si chiamano Panecocolo, Mugnano, Calvizzano, Marano, Chiaiano, Marianella, Piscinola, Polveca e Miano che fa tutt’uno con Mianello. La terza zona, a sud-ovest tra i Camaldoli e la città di Pozzuoli, è una vallefiorita che da Posillipo, per i casali di Soccavo e di Pianura, lungo la regione dei laghi, si perde nei boschi. Finalmente, asud-est, una quarta zona serpeggiante a pie’ del Vesuvio che allinea lungo il mare i casali di Pazzigno, Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, S. Sebastiano, Pietra bianca (oggi Pietrarsa), San Giorgio a Cremano, Portici, Resina, Bosco, Torre del Greco, Torre Annunziata. Era questa la divisione amministrativa dei casali secondo una prammatica vicereale del 1646, che fu comunemente seguita anche dopo le varianti introdotte da un’altra prammatica del 1650. Al di là anche della circoscrizione civile e amministrativa della capitale, ai confini dei suoi casali, la topografia settecentesca che abbiamo dinanzi ci mostra quattro piccole città, ciascuna coi suoi rispettivi casali: a nord Aversa e Acerra; a est NoIa; a ovest Pozzuoli; mentre a sud si stende l’arco del golfo. I chiarimenti su Melito sono tratti da Scipione Mazzella in “Descrittione del Regno di Napoli del 1601, tra i CASALI DELLA CITTA DI NAPOLI i quali per priuilegio che tiene detta Città non pagano pagamenti fiscali ne altro”.

Figli di una storia minoreI personaggi che hanno fatto la storia minuta della città hanno nomi strani. Sono i soprannomi sonori e mai volgari di quegli uomini e quelle donne che hanno segnato con le loro imprese la memoria di una città. Si chiamavano donna Chicchinella e le rivendite di carne si chiamavano “chianche”, mentre l’economia locale, prevalentemente agricola, viveva attorno alla “mela annurca”, messa ad addolcire nelle “porche”. Le ragazze, ma anche i ragazzi, il giorno prima dell’Ascensione, mettevano petali di rose in un bacile, perché lavarsi con quell’acqua, aveva il significato di un rito di purificazione e manteneva la pelle fresca e profumata.L’economia locale, oltre a produrre le mele, rinomate in tutta la regione, e anche oltre i confini regionali, esprimeva anche un ottimo vino, e anche botti in rovere, per le quali, anche, la città di Melito era visitata da persone che venivano da fuori. Non a caso a Melito esiste ancora un importante mercato ortofrutticolo.

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MugnanoDa Capignanum al terzo millennio

Anche Mugnano viveva di una modesta vita rurale, che ne

faceva, tra l’altro, anche meta di soggiorni, prima dei patrizi romani e dei signori poi in epoca medievale e feudale. Dovette essere abitata dagli osci, di cui oggi si conservano i resti di una tomba, all’interno della scuola Filippo Illuminato, dove è custodita in un ipogeo. Laddove oggi si trova la chiesa di San Giovanni, esisteva il villaggio di Carpignano. L’unica traccia del nome Carpignanum lo fa derivare dall’antico messapico (i messapi vivevano nell’attuale Salento, nel

tarantino) e significa “luogo posto su un’altura”.Il villaggio di Carpignano era sorto sulla riva di un canalone che portava le acque dalla non lontana collina dei Camaldoli, verso la pianura, e quindi verso Napoli, e in direzione della via Appia, che aveva anche la funzione di irrigazione. Proprio nel tentativo di avanzare verso Napoli, per conquistarla, gli Ostrogoti, intorno al 540 si imbatterono in questo piccolo villaggio. Da allora gli abitanti, non sentendosi più al sicuro, si spostarono sull’altra riva, fondando, così, la città di Mugnano. Ci sono varie versioni sull’origine

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del nome. La prima lo farebbe derivare dal termine latino “munio”, dal verbo fortificare. L’altra versione che poi si rifà anche al vecchio stemma del comune è che la città, come d’altronde Marano, fosse luogo di mulini e quindi di mugnai. Sono stati rinvenuti documenti risalenti intorno al X secolo che dimostrano che Mugnano ebbe fortunatamente la sorte di diventare regio casale, con tutti i vantaggi fiscali e amministrativi della situazione. Quindi Mugnano non fu feudo, ma regio casale. La città era molto frequentata da molte famiglie nobili napoletane, tra cui i Capece Minutolo. Fabrizio Riccardo Memola Capece Minutolo, fu sindaco di Mugnano per due volte: dal 21 febbraio 1885 al 25 maggio 1888, poi dall’ 1 ottobre 1900 all’8 ottobre del 1909. Si deve alla famiglia Capece Minutolo la costruzione di quella che oggi è nota come villa Venusio perché fu acquistata dal marchese Turi Ottavio Venusio, che vi trascorreva le vacanze estive. Il palazzo dei Capece Minutolo era quella che oggi è la scuola elementare che si trova in piazza Brando, poco distante dal centro cittadino. L’edificio fu acquistato dall’amministrazione comunale nel 1931, dagli eredi dei Capece Minutolo. Qualche secolo prima, nel seicento, proprio aiutati dalle famiglie nobiliari della città, i mugnanesi riuscirono a scongiurare la vendita della loro città, rivolgendo una supplica al re Carlo V, che poi accettò. A memoria di questo

episodio il primo maggio del 1680 i mugnanesi fecero costruire il crocifisso che si trova oggi, proprio di fronte alla casa comunale. La leggenda fa risalire proprio ai primi del novecento la vocazione ittica della città. Si narra che qualcuno con una sporta sulla testa andava a comprare a Pozzuoli il pesce per poi rivenderlo. L’affare si allargò negli anni a tal punto da far sorgere poi, negli anni uno dei mercati ittici più grandi d’Italia per una città non di mare. Ma un’altra fonte di reddito, ormai in disuso, era quella della canapa utilizzata dall’industria tessile. La canapa era molto coltivata anche nei comuni limitrofi, come Arzano e Marano. Fino agli anni cinquanta erano in molti a coltivare la canapa nei campi. Soprattutto a Mugnano, più in altre cittadine ha avuto sviluppo l’industria calzaturiera, dei pellami e derivati. Oggi esistono vari progetti di recupero del comparto che ha dato da vivere a tante famiglie negli anni passati e che oggi meriterebbe un rilancio. Oggi Mugnano ha nel mercato ittico e nel centro fieristico due grandi opportunità di rilancio. Il mercato ittico, la cui storia inizia negli anni ’90, è composto da 24 posteggi di vendita all’ingrosso dotati di celle frigo e una anche per il congelato, 4 esercizi commerciali a supporto delle attività di vendita per una superficie complessiva di 3.500 mq. Il fatturato annuale si aggira intorno ai 5 milioni di euro. Il centro fieristico è composto

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da 1800 metri quadrati per un’area espositiva di 1200 mq. coperta, una sala multimediale, uffici, un’area ristoro la biglietteria e un’area esterna di circa 400 mq.

I casaliDa Sosio Capasso “Rassegna storica dei comuni” a cura dell’Istituto di Studi Atellani Mugnano fu un casale di Napoli e secondo una definizione del Pecori riportata da Sosio Capasso nel ‘700: «Casali chiamiamo noi tutte le abitazioni costruite in territorio di un’altra università e sono come un ramo o nuova produzione di esse: atteso che o si costruiscono da’ cittadini medesimi della stessa, e son figura di figli prodotti da un medesimo padre; o si costruiscono da esteri, e sono come figli nati da una stessa madre, perché nati nello stesso territorio, che ne sarebbe il ventre. Sempre adunque sono membri di un medesimo corpo, e diramazione di uno stesso tronco. Quindi segue che debbonsi reputare della stessa natura: debbono godere degli stessi privilegi, dipendere dall’amministrazione della città da cui nascono, soggiacere alla giurisdizione del di lei magistrato, avere comune e promiscuo il territorio, doversi richiedere ne’ parlamenti, avere il voto nelle conclusioni, potere i cittadini eleggere ed essere eletti, e formare la stessa cittadinanza, perché son membri di un corpo». Ciascuno dei vari casali ha la sua storia; generalmente si è trattato di un aggregato di case contadine intorno ad una chiesa o ad un palazzo

feudale, aggregato che è venuto crescendo nel tempo, ma non mancano quelli che hanno avuto origini più complesse.Ma vediamo quali erano i casali in varie epoche successive.In età ducale, e la ricerca è dovuta a Bartolommeo Capasso, essi erano: Pausillipus, Foris Criptam, Suttuscaba, (Soccavo), Planuria, Antinianum, la Conocchia, Caput de Monte, Secundilianum, Miana, Claunalum (Chiaiano), Pulbica (Polvica), Balusanum, Maranum, Calbectianum (Calvizzano), Granianum pictulum, Munianum, Cuculum (Panicocoli), Caloianum (Qualiano), Julianum, Melitum, Cantarellum, Afraore (Afragola), Antinianum, Lanceasinum, Casauria, Malitellum, Carpinianum, Casandrinum, S. Anthimus, Fracta, Grumum, Arcupintum, S. Petrus ad Paternum, Arcora, Pomilianum foris Arcora, Licilianum foris Arcora, Paccianum foris Arcora, Quartum, Giriolum, Casabalera, Tertium, Sirinum, Ponticellum, Perclanum, Crabanum, Capitinianum ad S. Jorgium, Portici, Resina, S. Andreas ad Sextum, Calastrum, Sola.Un secondo elenco di casali risale al 1268 e si ricava da un documento che si riporta ad un ricorso dei revocati, in merito al pagamento di alcune tasse, e contiene la decisione del Tribunale della Magna Curia. Ora da 52 i casali diventano 46, taluni scompaiono, altri si aggiungono, e sono: Posilipus, Succavus, Planura, Secundillianum, Myana, Playanum, Polvica, Vallisanum, Maranum, Calbiczanum, Mugnanum, Panicocolum, Coliana, Malitum, Cantarellum, Afragola, Arzanum, Lanzasinum, Casoria, Malitellum, Carpignanum, Casandrinum, Fracta Major, Grumum, Arcus Pintus, S. Petrus ad Paternum, S. Severinum, Casavatore, Porzanum, Pollanella, Piscinola, Turris Marani, Marianella, Myanella, Casavaleria, Tertium, Sirinum, Ponticellum magnum et parvum, Porclanum, Sanctus Anellus de Cambrano, S. Georgius, Portici, Resina, Turris Octava, S. Joannes ad Teduczulum, S. Ciprianus.In un altro elenco dovuto al Summonte e riferito al 1585 Mugnano non compare ma torna in quello di Scipione Mazzella del 1601; i casali enumerati sono quarantatré: Santo Pietro à paterno, La Fragola, Lo Salice, Casalnuovo, Fratta maiure, Grummo, Casandrino, Melito, Mugnano, Carnizzano, Panecuocolo, Marano, Polveca, Chiaiano, Mariglianella, Piscinola, Maiano, Maianella, Secundigliano, Capo di Chino, Casavatore, Arzano, Casoria, Capo di monte, Antignano, Socchavo, Pianura, Fuoragrotta, Posilipo, Percigno, San Gio: Teduccio, La Varra, Serino, S. Spirito, S. Ionio a Carumano, Ponticello, Terzo, La piscinella, La Villa, Pietra bianca, Portici, Resina, La Torre del Greco.Altro elenco Bartolommeo Capasso ci dà dell’età vicereale; i casali ora enumerati sono

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i seguenti: Soccavo, Pianura, Secondigliano, Miano, Chiaiano, Polvica, Marano, Calvizzano, Mugnano, Panecocolo, Melito, Afragola, Arzano, Casoria, Cardito, Casandrino, Frattamaggiore, Grumo (Nevano), S. Pietro a Patierno, Casavatore, Piscinola, Casalnuovo, Marianella, Mianella, Serino e Barra, Ponticelli, S. Giorgio a Cremano, Portici, Resina, Torre del Greco, S. Giovanni a Teduccio, S. Sebastiano, Torre Annunziata, Pietra Bianca o Case in Demanio, Bosco.Abbiamo, poi, l’elenco dovuto al Galante e risalente al 179: Soccavo, Pianura, Secondigliano, Miano, Chiaiano, Polvica, Marano, Calvizzano, Mugnano, Panicocolo, Melito, Fragola, Arzano, Casoria, Casandrino, Fratta Maggiore, Grumo, S. Pietro a Patierno, Casavatore, Piscinola, Casalnuovo, Marianella, Barra, Ponticelli, S. Giorgio a Cremano, Portici, Resina, Torre del Greco, S. Sebastiano, Torre Annunziata.Gli Argonesi esentarono sia Napoli che i suoi casali dall’imposta del focatico e ciò determinò nel tempo successivo la mancata enumerazione ufficiale dei casali e pertanto vengono a mancare notizie precise intorno allo sviluppo della popolazione. D’altro canto, col passare del tempo, non mancarono casali vicinissimi alla cinta urbana che finirono con l’esservi assorbiti: ricordiamo in proposito l’allargamento della città ordinato dal viceré don Pietro di Toledo; altri si fusero, così Sanctus Anellus, Casavaleria, Sirinum, S. Ciprianus, Canterellum, Lanceasinum, S. Severinus, Vallisanum, Turris Marani e Carpignanum finirono con l’essere fagocitati dai maggiori centri urbani di Barra, Marano, Afragola e Casoria.Alla fine del XVI secolo la popolazione di Napoli era di 232.000 abitanti, quella dei casali di 41.700; nel 1614 una grave carestia imperversò nel territorio napoletano; in quel tempo si calcola che la città abbia avuto 267.793 abitanti ed i casali 42.000.Vi fu poi la tremenda pestilenza del 1656, dalla quale si salvò appena un terzo della popolazione; ma si ebbe poi un nuovo incremento e si calcola che i casali giunsero a contare da 50.000 a 55.000 abitanti.Nel 1783, e la notizia ci viene dagli atti di un donativo fatto all’epoca al re Ferdinando IV, i casali erano trenta (gli altri erano stati assorbiti dalla città o si erano fusi) e la loro popolazione era di 121.423 abitanti, divenuti, nel 1789, 130.653 e, nel 1791, 135.049: i casali, quindi, crescevano in proporzione maggiore che non la capitale, rispetto alla quale stanno fra la

terza e la quarta parte.La popolazione dei casali, benché esentata come quella di Napoli, dal pagamento del focatico, non era scevra da pesi fiscali; sta di fatto che essa soggiaceva a oneri notevoli per il tempo, come quello imposto dagli Angioini del versamento di tre tareni l’anno alla regia Corte.Un beneficio, per altro solo simbolico per i casali, era quello di far parte delle terre demaniali e come tali di godere del privilegio di non poter essere ceduti in feudo. Ma questo diritto veniva ripetutamente violato ed i casali, specialmente al tempo del vicereame spagnolo, furono ripetutamente venduti, anche se si riconosceva loro lo jus praelationis, cioè la possibilità di ricomprarsi col proprio denaro, sottraendosi così agli arbitri del potere feudale. Ma anche ciò non tranquillizzava definitivamente le popolazioni, le quali venivano facilmente vendute di nuovo. Si ricordi la vendita ed il riscatto di Frattamaggiore.A tal fine gli uffici del viceré tenevano costantemente aggiornato il valore dei più importanti villaggi della provincia. Tale valore era calcolato in base alla capacità contributiva degli abitanti, capacità desunta dalle loro attività.Ecco un elenco di casali con l’indicazione del valore loro attribuito:

Concludiamo qui la parte dedicata ai casali, straordinaria ricostruzione firmata dal professor Capasso.

Afragola 29808 ducati 1 tarì 4 grane S. Pietro a Patierno 5560 » 4 » 14 » Secondigliano 6407 » 3 » 4 » Casoria 11826 » 3 » 8 » Casandrino 7056 » 3 » 10 » Frattamaggiore 3443 » 3 » 15 » Arzano 5165 » 2 » 6 » Nevano 733 » 4 » 12 » Grumo 2766 » 1 » 14 » Marano 20238 » 3 » 14 » Pianura 5927 » 1 » 12 » Soccavo 4345 » 4 » 8 » Mugnano 3979 » 2 » - » Panecocolo 6688 » - » 14 » Calvizzano 3953 » 1 » 6 » Miano 7931 » 4 » 12 » Chiaiano 2060 » 3 » 1 » Melito 4008 » 1 » 14 » Piscinola 2822 » 3 » 15 » Marianella 1875 » 4 » 15 » Polveca 2371 » - » 9 » Barra-Serino 12476 » 2 » 14 » S.to Iorio 3725 » 4 » 19 » Ponticello 9879 » 3 » 8 » Casalnuovo 6181 » 4 » 3 » Torre del Greco 21672 » 4 » 16 » Bosco 5615 » 4 » 18 » Torre Ann.ta 3442 » 4 » 4 » Resina 10949 » 1 » 16 » Portici 6264 » 4 » 4 » S.to Giovanni 3950 » 4 » - »

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Il Sacro CuoreLa città è legata a doppio filo alla Festa del Sacro Cuore di Gesù. Nell’occasione la statua lignea viene portata in processione per tutta la giornata attraversando tutte le strade della città. Alla festa è abbinato il Festival Pirotecnico, una straordinaria gara di fuochi che ogni anno esibisce le novità e la tecnica dei rinomati “cavalieri”. I fuochisti di Mugnano sono famosi nel mondo. Hanno tra l’altro, aperto e chiuso, con il loro spettacolo le Olimpiadi di Atene nel 2004. Altra festa della città è quella dedicata al patrono San Biagio. La chiesa più antica della città è quella di San Giovanni, ma anche quella di Santa Maria

dell’Annunziata è antichissima e risale al 1369. Da segnalare anche l’ottocentesca chiesa e convento del Sacro Cuore e del Ritiro del Carmine. Le suore del Ritiro del Carmine erano famose per la loro produzione di pasta. Più recente la chiesa dei Santi Alfonso e Luigi edificata nel 1970. Tra le opere dell’uomo villa Vulpes, il palazzo de Magistris, villa Venusio, Palazzo Zurlo Capasso (‘700), il palazzo dei Principi Flauto (‘600), palazzo Chianese.

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QualianoAria buona e tammurriate

lo sapevano anche i romani

C’è una canzone famosa nella storia culturale di Napoli, Trapanarella, in cui si cita Qualiano per la bontà delle patate. E’ un testo reso noto dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, anche se in molti sostengono, che sia per questo e sia per molti altri tra cui “Tammurriata Nera” ci sia stata la collaborazione di un artista di strada di Giugliano, Eugenio Pragliola. Qualiano non fu fin dall’inizio una città dalla vita rurale e contadina. Perché se è vero che doveva essere, come tutti i piccoli centri dislocati alla

periferia dei campi flegrei, meta di otium, e non certo di negotium, e quindi di vacanze campestri, è vero anche che i ritrovamenti, compresi quelli della Necropoli di Qualiano, ospitata in una sala del Museo Archeologico di Napoli, ci forniscono elementi per una diversa interpretazione. Qualiano in epoca romana fu anche una stazione militare. L’ipotesi più accreditata, dunque, è che la città di Qualiano, per la sua naturale salubrità, e per la sua posizione strategica, sia stata un luogo sì di villeggiatura, ma anche

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quello di ricovero per truppe a cavallo, sia che fossero di passaggio per una breve sosta, sia invece, nel caso, dovessero effettuare soste più lunghe. Lo proverebbero, tra le altre cose, la presenza di varie e grosse vasche probabilmente con la funzione di abbeveratoi. Ciò potrebbe coincidere anche con la cospicua presenza di locande. Anche qui la datazione, rispetto alle prime presenze testimoniabili, risale all’epoca romana. Poi la vita di Qualiano coincide anche con l’acquisizione dei romani della città di Cuma. Questi ultimi man mano si sovrapposero, fino alla gestione di un territorio vastissimo, a cui, appunto, tutti i paesi dell’area giuglianese appartenevano come estreme propaggini, e di cui Cuma, già in epoca greca aveva rappresentato uno dei centri più importanti. Lo straordinario rinvenimento della necropoli di Qualiano, portata alla luce nel 1921, quando il professor Amedeo Maiuri, ipotizza per primo che si tratti di una necropoli osca, con un successivo ritrovamento nel 1948, oggi ospitata nella sala LX del Museo Archeologico di Napoli è la testimonianza più chiara della storia della città. Risalente al IV secolo a. C. è composta di ventidue tombe ed è corredata di tutti gli arredi funerari. Per quanto riguarda la genesi del nome c’è più d’una ipotesi interpretativa. Una ne farebbe risalire l’origine a Cololanum, riconducibile al culto del dio Giano,

di cui è stata anche ritrovata una statua, barbuta e bifronte. Un’altra ipotesi ricondurrebbe a

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Gaudianum, in quanto “città nel bosco”. Ancora il nome della città deriverebbe da Quaelius nome latino di persona, a cui fu aggiunto il suffisso -anus per indicare l’appartenenza. Ma tra le altre ipotesi fantasiose ce né una che fa derivare da città adatta alle battute di caccia di quaglie, e quindi Qualiano. I reperti archeologici ritrovati riguardano un periodo lunghissimo che dal III secolo a. C. al IV d. C. che ne mostrano anche un aspetto rurale. Ma che testimoniano la presenza romana soprattutto nella zona di San Pietro ad Aram. Ma la storia di Qualiano è sicuramente connessa anche con la strada Consolare Campana, un lunghissimo asse viario che collegava la zona flegrea a Capua e al casertano ed alla strada Atellana. Dal IV secolo d. C., come in altri paesi confinanti, anche a Qualiano, si registra la presenza degli osco – sanniti. Nel 1340, Qualiano fu donata da Roberto D’Angió come feudo e fino al 1805 al monastero di Santa Chiara di Napoli, poi grazie alla legge Tanucci si affranca dal dominio di Napoli. Dal 1806 fino al 1836 fu accorpata al comune di Villaricca (Panicocoli). Il 5 settembre del 1836, Ferdinando II, con regio decreto rese la cittadina amministrativamente autonoma. La presenza di Ferdinando II segna un periodo molto importante e florido per Qualiano. Nonostante sia stato impossibile rintracciarne nel tempo il nome, Qualiano era stata donata ad uno dei fratelli di Ferdinando II che lo andava a trovare frequentemente anche per le sue battute di caccia. Fu proprio Ferdinando II di Borbone infatti a volere alcune opere urbanistiche e di ingegneria, rifacendo la via Campana, costruendone una nuova ed edificando il ponte di Surriento. Come tutti gli altri paesi della provincia di Napoli, anche Qualiano segue le sorti della unificazione, delle guerre, fino ai giorni nostri. Oltre ai prodotti della terra, Qualiano vive anche per l’allevamento di bovini.

La Villa rustica Risale al IV secolo a.C., gli antichi resti dell’edificio sono stati portati alla luce nel 1971, in località Pioppitelli. Sono stati trovati alcuni blocchi in tufo, due cisterne, due vasche, utilizzate forse per conservare l’olio, alcune monete in bronzo e vasi d’argilla.

Il ponte di SurrientoSul sito del Museo Diffuso esiste una bella ricostruzione della storia del Ponte di Surriento. Il ponte fu costruito in epoca borbonica per volontà di Ferdinando II, nell’ambito dei lavori di sistemazione della via Campana, resa strada provinciale allo scopo di superare il sottostante Alveo dei Camaldoli, e rappresenta un’opera di alta ingegneristica realizzata per migliorare i

collegamenti tra l’agro giuglianese ed il porto di Pozzuoli. Il ponte è raffigurato in un dipinto datato 1851, opera del pittore Vincenzo Fraschini e custodito al Museo di Capodimonte. Durante la ritirata i tedeschi data l’importanza, come punto di collegamento, tra l’area flegrea e casertana, ne fecero saltare una campata. Il ponte di Surriento è a tre campate, con archi a tutto sesto, con blocchi di tufo giallo e di trachite.Il re vi fece apporre una lapide marmorea con un’iscrizione in latino recante la data 1850. La traduzione della iscrizione, ad opera del professor Giovanni Sabatino nel volume Ipotesi storico-urbanistiche sull’origine e sullo sviluppo della città di Qualiano: Ferdinando II re delle Due Sicilie, fece costruire per nove miglia la Via da Giugliano a Pozzuoli detta Campana, per l’onore dei Romani, per i rapporti commerciali della circostante fertile regione col mare e sulle rovine gettò un ponte a testimonianza della regale munificenza - nell’anno 1850.

Eugenio cu’e lenteEugenio Pragliola detto “Eugenio cu ‘e llente” (Eugenio con gli occhiali) e anche “ciucciariello”

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TRAPANARELLA Trapanarella cu ‘o trapanaturoe trápana ‘a mamma e ‘a figlia pure...e, trapanianno, ‘mmiez’a sti guaje,canto ‘a canzona d’’a cuccuvaja...Na signurina cammina p’’a strata,nu giuvinotto lle fa na guardata...e chella che sùbbeto è femmena onesta,aret’’o purtone, s’aíza ‘a vesta!San Genná’, pènzace tu,ca tanto d’’e ccorne ‘un se campa cchiù!Nu prèvete, ‘ncopp’a ll’altare maggiore,mme pare nu santo prerecatore,ma quanno va dint’’a sacrestia,vò’ mille lire p’’Avummaria...San Genná’, tu vide a chiste?‘mbrogliano pure a Giesù Cristo!E nuce, nucelle e castagne ‘nfurnate...quanta paíse aggiu curriate...‘A Torre d’’o Grieco e ‘Annunziatae quanta guaje ch’aggio truvato...e quanta defiette ch’aggiu ‘ncantate!...‘E culamappate só ‘e Veneziane,‘e magnapulenta sóngo ‘e Milano,

‘e meglie cantante stanno a Giugliano,e ‘e tirapistole stanno a Casale...‘E ffacce toste sóngo italiane,‘e cchiù mafiuse só’ siciliane,‘e po’ ‘e sbruffune songo ‘e Rumane,‘e ffemmene belle só’ napulitane,e ‘e mmazze ‘e scopa só’ americane....‘E ‘mbrogliamestiere só’ ll’ingegnere,‘e ‘mbrogliamalate só’ ll’avvucate,‘e priévete fanno ‘e zucalanternee ‘e cchiù mariuole stann’ô guverno!San Genná’, dice ca sí...chi ‘o ssape comme va a ferní!Na signurina, a via dei Mille,s’ha misa ‘a parrucca ‘a copp’ê capille...Quanno va â casa se magna ‘e ppurpettee chi tene famma guarda ‘e rimpetto...Nu giuvinotto, cu ‘e sòrde d’’o pato,s’accatta ‘o cazone ‘mpusumato...po’ va dint’’a machina, allero allero,e vò’ mená sotto a chi va a père...‘E ccunuscite a sti milorde,

chille stanno ‘nguajate ‘e sorde...‘e pate só’ tanta scurnacchiate...e campano ‘ncopp’’a famme ‘e l’ate....San Genná’, pènzace tu,ca tanto d’’e ‘mbruoglie ‘un se campa cchiù!............Mme ne vaco pe’ sott’’o muro,e sento ‘addore d’’e maccarune...Mme ne vaco pe’ Qualiano,e sento ‘addore d’’e ppatane...Mme ne vaco p’’o Granatiéllo,e sento ‘addore d’’e friariélle...Ma si vaco add’’o putecaro,tutte cosa va cchiù caro...Ma vedite quando maje‘sta miseria va aumentanno...e aumenta ogge,aumenta dimane,e doppodimane...sabato sí e dummeneca no...Chi fatica se more ‘e fammana vota ca síe na vota ca no...Chi fatica se more ‘e fammmana vota ca síe na vota ca no...

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fu l’inventore delle famose strofette che chiudono la celebre “Tammurriata nera”. Pragliola fu un artista di strada, un cantastorie, posteggiatore e poeta. I versi originali della Tammurriata nera vengono integrati da Roberto De Simone con alcune strofe di una cantilena di Pragliola. “Eugenio cu ‘e llente” si esibiva nei quartieri popolari napoletani dopo la fine della guerra, quando in molti si inventarono il mestiere di chansonnier di strada. Eugenio si esibiva anche sui tram e sugli autobus provinciali. Era solito girare con un paio di occhiali senza vetri, improvvisando strofe divertenti o eseguendo il suo vastissimo repertorio. Nonostante sia morto a Giugliano era considerato patrimonio di tutta la zona a nord di Napoli.Lo abbiamo inserito nella storia di Qualiano, in quanto coautore di Trapanarella, dove si cita esplicitamente Qualiano.

La via CampanaLa via Consolare Campana – nota come via Campana - fu costruita dai romani per congiungere il porto di Puteoli al casertano e alla città di Capua. Quest’ultima, a sua volta, era collegata a Roma dalla via Appia. La strada che era lunga 21 miglia (oltre 33 chilometri): partiva dal centro dell’antica Puteoli per poi arrivare a Capua (attuale Santa Maria Capua Vetere) attraversando i territori di Quarto, Marano, Qualiano, Giugliano e Aversa. La strada penetrava nella conca di Quarto all’altezza della montagna Spaccata. Quella che è nota come montagna Spaccata è un taglio eseguito in epoca romana nella parete di una collina per creare un passaggio stradale carrozzabile e permettere la circolazione delle mercanzie e quindi agevolare il commercio, oltre che gli spostamenti. La strada taglia la collina che presenta una perfetta forma semicircolare, simile ad una immensa abside naturale di m 900 di diametro, che in effetti è la metà rimasta della bocca di un vulcano. Si tratta in effetti del bordo

di uno dei vulcani dei Campi Flegrei, cratere conservatosi soltanto per metà, la cui eruzione (chiamata appunto “eruzione di Montagna Spaccata”) ha avuto luogo fra i 10.500 e gli 8.000 anni fa.

Le masserieMasseria del Cardinale Risale al XVII secolo e inizialmente era di proprietà del Monastero di Santa Chiara fino a quando la cittadina ne rivenne in possesso in seguito alle leggi instaurate da Bernardo Tanucci. Masseria dei Monaci Chiamata così perché in passato era di proprietà dei Francescani dell’Opera pia di Terra Santa. Si trova in località Pozzo Nuovo e attualmente custodisce ancora l’aia e un pozzo. Masseria del Principe Fu costruita in onore di un fratello del re Ferdinando II e attualmente è di proprietà privata.

La chiesa di S. Stefano A Qualiano esiste una sola chiesa dedicata prima a San Magno e poi Santo Stefano, patrono della citta. Nel 1647 subì un primo interventò di restauro conservativo e divento parrocchia.Nel 1893, all’unica navata centrale vennero aggiunte le due navate laterali, ad opera del canonico Antonio Vigliaccio. Di particolare interesse artistico sono le tele raffiguranti immagini di santi, fra cui Santo Stefano, San Magno e forse San Nullo prima metà del XVIII secolo.

LA RICETTA Oca imbottita - papera ‘mbuttunata. L’imbottitura è fornita dalle stesse interiora dell’oca, gli altri ingredienti sono uova, olive e capperi.

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VillariccaPane, fagioli e fantasia

Se il panicocolo oggi è anche una tipica cialda a base di vino e semi di anice

che si trova nella zona e nella provincia di Sassuolo, Panicocoli fu una città nota per i suoi forni e in cui la cottura del pane era un’attività molto sviluppata. L’altra versione sul nome deriverebbe da Pan, il dio del bosco. In effetti la prima delle due è rafforzata anche dallo stemma del paese che raffigura un lupo sormontato da tre spighe di grano. Oggi proprio il pane di Villaricca, non a caso, è ancora un prodotto famoso, insieme alle mele e al fagiolo di cui parleremo a parte. Furono

proprio gli abitanti, nel 1871, a chiedere, tramite colui che è passato alla storia come amico di Giacomo Leopardi, Antonio Ranieri, che all’epoca era un parlamentare, il cambio del nome da Panicocoli a Villaricca. Gli abitanti di Panicocoli - in dialetto Panecuocole - chiesero il cambio perché venivano sempre derisi dagli abitanti dei paesi confinanti. Ma di nomi, Villaricca ne ha avuti tre: un altro, infatti, fu quello di Gioacchinopoli, all’inizio dell’800, in onore di Gioacchino Murat, sorte che toccò anche altre città del napoletano come Torre Annunziata. Anche Villaricca confermerebbe,

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in parte, la presenza di accampamenti romani, come la vicina Qualiano, dove troviamo degli abbeveratoi per i cavalli, quindi zona di breve sosta prima di ripartire da e verso Cuma e Capua. Il destino di Villaricca è legato a quello di Qualiano, che ne distaccò, solo nel 1836, grazie al diretto interessamento di Ferdinando II, che volle rendere autonoma Qualiano. Ma fino ad allora il territorio di Villaricca si sviluppava fino al paese confinante inglobandolo. Quando si instaurarono i primi insediamenti umani a Villaricca? Un primo ragionamento si può fare partendo dalla sua agricoltura. L’attività era legata alla “mela annurca” molto presente nella cittadina. La prima catalogazione della annurca è stata ad opera di Plinio il Vecchio, morto nel 79 d. C. Vuol dire che anche Villaricca era già nata all’epoca di Plinio? Alcune altre ipotesi ne fanno risalire l’origine ancora prima, ben cinque secoli prima di Cristo. Secondo questa ipotesi sarebbe stata fondata dagli osco-sanniti. Il primo documento ufficiale, una compravendita di terreni, è databile nel 988. Poi la cittadina subisce l’assedio di Ruggero il Normanno, che nel 1134 viene respinto, ma l’anno dopo riesce nell’intento di conquistare la cittadina. La presenza di Ruggero e del suo popolo è testimoniata dal palazzo baronale, voluto quasi certamente proprio da Ruggero. Villaricca era già stata normanna, nella metà del IX secolo sotto il controllo di Danebaldo. Poi del duca di Napoli, probabilmente Sergio V,

ne volle tornare in possesso. Il Medioevo per Panicocoli fu un periodo florido. Fu elevata a capoluogo del distretto ed usufruì dei privilegi fiscali e amministrativi legati alla condizione di regio demanio. Poi seguono alcuni secoli duri, segnati anche da una continua instabilità dovuta anche alle vicende legali e fiscali che i suoi amministratori ebbero con la locale Università. Si deve precisare che il termine Università in questo caso sta ad indicare l’insieme delle persone e delle istituzioni di riferimento sul territorio. Nel 1631 il vicerè di Napoli Emanuele Fonseca y Zunica eliminò i privilegi di cui usufruivano i territori inclusi nel Demanio regio e cercò di vendere il casale di Panicocoli. La forte opposizione degli abitanti a questa decisione lo fece decidere a non vendere in cambio di un contributo fiscale versato da ogni famiglia. Ma non potendo pagare gli abitanti proposero a Fonseca di vendere il feudo, pur di non essere costretti ad abbandonarlo. Qui inizia una serie di passaggi. Nel 1633 fu acquistato da un certo Salvo Selano che governò per un solo anno: nel 1634 il feudo venduto al barone Giannantonio Parisio, che ebbe molte controversie fiscali con l’Università di Panicocoli per il pagamento di alcuni diritti, che si risolsero nel 1653. Nel 1700 il feudo fu acquisito dal principe Carlo de Taxis. Anche con il principe ci furono contrasti con l’Università per il pagamento dei diritti feudali. De Taxis, per problemi economici, vendette nel 1728 Panicocoli a Nicola Petra, duca di

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Vastogirardi, con cui finalmente si conclude un periodo dalla stabilità altalenante. La famiglia Vastogirardi governò fino al 1806, anno in cui venne promulgata l’eversione della feudalità. Nel 1816 venne eletto il primo sindaco del paese, Filippo d’Alterio. Nel 1847 iniziarono i lavori per la costruzione della Casa comunale.

L’eversione della feudalitàEversione della feudalità fu il provvedimento (legge 2 agosto 1806) di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, re di Napoli con cui abolì la feudalità in quel regno. « La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili »(Legge eversiva della feudalità del 2 agosto 1806)Il regno di Napoli ebbe un fiorire delle istituzioni feudali propriamente dette molto più tardi rispetto all’Italia settentrionale, ma, forse proprio per questo, gli istituti feudali continuarono a sussistere per molti più secoli. Rientrato il Regno di Napoli sotto l’influenza francese e posto sotto il regno di Giuseppe, il nuovo re con un atto di rottura delle tradizioni locali, volle abolire l’ultimo retaggio della feudalità nell’Europa occidentale, anche se ormai la spinta rivoluzionaria giacobina era da tempo attenuata. Il provvedimento rispondeva ad una effettiva esigenza, anche per il mutato clima, anche se non tutte le novità

furono completamente positive come le difese, recinzioni di terreni simili alle chiudende. Fu innanzi tutto necessaria la ricognizione dei beni demaniali, molti dei quali erano stati usurpati nel corso dei secoli. Altro grande problema era che sui beni feudali coesistevano antichi diritti delle popolazioni locali, in base al principio ubi

feuda, ibi demania e che portarono al riconoscimento degli usi civici. Il provvedimento fu continuato con la legge 1º settembre 1806, dal Real Decreto del 3 dicembre 1808, che affidava agli Intendenti di ciascuna provincia il compito di determinare i diritti residui degli antichi baroni. Fu istituita anche una magistratura speciale, la Commissione Feudale, per dirimere l’enorme contenzioso tra i baroni e le università (nome degli antichi comuni).

Bruni, la voce di Napoli“‘A ggente saie che dice? Ca tu si ‘a voce ‘e Napule E sa’ che dice pure? Ca Napule songh’io Si tu si’ ‘a voce ‘e Napoli, e Napule songh’io; chesto che vene a dicere? Ca tu si’ ‘a voce mia!” Queste parole cariche di affetto sono i versi di una celebre poesia che Eduardo de Filippo dedicò all’ “amico fraterno” Sergio Bruni. Bruni, non tutti lo sanno era di

Villaricca, nato qui da una famiglia poverissima. Lui Guglielmo Chianese aveva un solo paio di scarpe, e poca voglia di studiare. Ma vista la sua passione per la musica che manifestava in ogni sua azione quotidiana, il padre decise di fargli studiare musica per suonare il clarinetto nella banda del paese. A diciassette anni la famiglia si trasferisce a Chiaiano. E’ il 1943, Guglielmo, militare di leva in fanteria di stanza a Torino, si trova in licenza a Napoli. Mater Dei, i Quartieri Spagnoli, piazza Carità, tutto il centro della città, insorgono contro i tedeschi. Guglielmo trova armi e una decina di compagni e parte. Tolgono le mine al ponte di Chiaiano, ma sulla strada del ritorno si scontrano con una pattuglia di nazisti. Si sparano dei colpi, Guglielmo viene ferito ad una gamba. Quella camminata un poco strana gli resterà per sempre. Guglielmo si iscrive alla scuola del maestro Gaetano Lama, dove insegna canto Vittorio Parisi. Ma Guglielmo non trova spazio, nonostante gli apprezzamenti di tutti. Sono anni bui, difficili e di povertà. Il 1945, per Guglielmo, è l’anno della svolta. Partecipa ad un concorso per voci nuove indetto dalla Rai. La finale si tiene il 21 ottobre del 1945 al teatro

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delle Palme. Guglielmo non vince: trionfa. E si assicura un contratto con radio Napoli. E’ qui che il maestro Campese direttore dell’orchestra dell’emittente gli suggerisce di cambiare il nome in Sergio Bruni, per non essere confuso con un altro cantante Vittorio Chianese. Il biennio 1948/1949 è straordinario per Sergio Bruni. Sposa Maria Cerulli da cui avrà le sue quattro figlie, Michela, Anna Maria, Adriana e Bruna, incide per La voce del padrone, etichetta discografica, che pubblicò tra gli altri Louis Armstrong, Bruno Martino e Tony Renis. Con La voce del padrone Bruni incide per quasi venticinque anni. Partecipa a Piedigrotta e nel frattempo canta Vocca ‘e rose, Surriento d’’e ‘nnammurate, ‘A rossa, ‘O rammariello, ‘A luciana, Chitarrella chitarrè, Vienetenne a Positano, Piscaturella. Sergio Bruni aveva in comune con Eduardo il suo carattere difficile. Cesellatore della parola e della musica, ebanista nel canto e nel suono, scultore di note, non voleva essere disturbato mentre si esibiva dal vivo. Gli anni 50 sono quelli del massimo splendore. E consegna alla storia Sciummo, ‘O ritratto ‘e Nanninella, Suonno a Marechiaro, Vieneme ‘nzuonno. Partecipa a Sanremo con “Il mare” e “E’ mezzanotte”, in coppia con Joe Sentieri, dove Pippo Baudo ricorda che Bruni giocò sul suo difetto di camminata. Poi, con il

maestro Gianni Aterrano, volle concentrarsi sul repertorio classico napoletano, di cui diventò straordinario interprete, riconosciuto in tutto il mondo. Nel 1970 scrive Palcoscenico e ‘Na bruna, e inizia anche la collaborazione con il poeta Salvatore Palomba. Dal sodalizio viene fuori Carmela, Amaro è ‘o bbene. Dopo tantissimi anni di studio Bruni realizza una monumentale Antologia della canzone classica napoletana, tra quelle da lui più amate dal 1500 in poi, pubblicata nel 1984. Nel 2000 si trasferisce a Roma, dove già vive una delle sue figlie. Nel 2001 Bruni canta, in coppia con il cantautore Lino Blandizzi, l’ultima canzone Ma dov’è. Si spense nel 2003 all’ospedale Santo Spirito di Roma. Dal palco durante un concerto in piazza Plebiscito recitò “Quà Parigi? Quà Londra? Quà pizzo d’’o munno fosse pure ‘o cchiù bello? Io voglio campà a Napule ogni momento ogni minuto d’’a vita e faccio finta ‘e niente d’‘e cose storte ca se vedeno ccà; pecchè me piace ll’aria, ‘a gente e ‘o culore d’’o cielo”. Nel giorno della morte Pippo Baudo volle ricordarlo così: ”Bruni faceva grandi tournee ma era molto appartato rispetto agli altri cantanti che lo ritenevano comunque un maestro”. A casa sua, ”un salotto per pochi, gli piaceva fare le pizze”.

Il fagiolo di VillariccaAltro prodotto della terra, dalle proprietà

organolettiche straordinarie. Con il fagiolo di Villaricca vi proponiamo tre ricette.

LA CLASSICA PASTA E FAGIOLI (PER QUATTRO PERSONE)

Ingredienti: Tondini di Villaricca 300 grammi. olio extravergine d’oliva 1 cucchiaio, 2 spicchi d’aglio, un cucchiaio di prezzemolo tritato, 200 grammi di pomodori pelati, sale, peperoncino rosso, 350 grammi di pasta mista. Mettere a mollo in acqua tiepida i fagioli secchi la sera precedente; al mattino, in una pentola preferibilmente di terracotta, cuoceteli a fuoco basso in un litro e mezzo d’acqua, con olio, aglio, i pomodori e il prezzemolo, fin quando saranno quasi spappolati.A questo punto mettere il sale necessario. A parte lessate la pasta molto al dente, scolatela e aggiungetela ai fagioli completando la cottura a fuoco moderato. La minestra deve essere quasi asciutta e cremosa. Servite dopo averla fatta riposare per una decina di minuti. Per rendere il piatto più gustoso, se lo si preferisce, aggiungere a metà cottura, insieme ai pomodori, un osso di prosciutto, 50 gr. di lardo (al posto dell’olio) e 100 gr. di salsicce secche tritate. Quando i fagioli saranno cotti, tirate fuori l’osso, scarnirtelo e mettete di nuovo nella pentola la carne che ne avrete ricavato. Calate la pasta direttamente nella pentola dei fagioli, allungando con acqua bollente se necessario, salate e pepate.

PASTA E FAGIOLI MARITATAIngredienti e dosi per quattro persone200 g di fagioli tardivi di Villaricca2 spicchi d’aglio3 pomodorini del “piénnolo”, 1 costa di sedano150 g di pasta mista corta (o di soli tubetti)2 “muzzarielli” (salsicce piccanti di maiale)1/2 bicchiere di olio di oliva, sale grossoLessate le salsicce in abbondante acqua salata per un paio d’ore, avendo l’accortezza di cambiare l’acqua almeno due volte. Mettete i fagioli - tondini o cannellini- in ammollo per almeno un’ora, quindi sciacquateli e cuoceteli in una pentola di coccio, con abbondante acqua per 30 minuti. Aggiungete l’olio, una presa di sale grosso, i pomodorini, la costa di sedano, gli spicchi d’aglio e continuate la cottura ancora per una mezz’ora. A questo punto tuffate la pasta nella pentola e cuocete a fuoco moderato per una decina di minuti, rimestando continuamente con un cucchiaio di legno. A cottura ultimata unite le salsicce lessate. Servite la pasta e fagioli maritata in tegami monoporzione di coccio.

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Ci sono varie altri usi in cucina dei fagioli di Villaricca, tra cui quelli che li abbinano al pesce. Una buona versione è quella con le seppie, in alternativa a quella con cozze o frutti di mare.

Tra palazzi e chieseIl Palazzo Baronale (Palazzo maione)E’ l’edificio più rappresentativo della città. Il palazzo baronale fu probabilmente la tenuta di caccia dei Normanni e successivamente trasformato in fortezza dal Duca di Napoli Sergio IV nell’anno mille. Nel 1136 fu ristrutturato per la prima volta, forse da Ruggiero il Normanno,

fino a quando nel 1825 divenne di proprietà del Barone Carlo Petra. Fu poi venduto dalla moglie in parte al Comune ed in parte a privati. Oggi, con la ristrutturazione del Palazzo,

l’edificio si presenta articolato su tre livelli. Al piano terra gli uffici comunali; al primo piano ospiterà una sezione dell’archivio storico della canzone napoletana, uno spazio dedicato a Sergio Bruni e al premio legato al suo nome. La Chiesa Parrocchiale Della Madonna Dell’arcosorta sul tempio di San Simplicio, antico, nonché unico luogo di ritrovo della comunità, fu edificata intorno al 1400, come attesta la piccola lapide ritrovata accanto al fonte battesimale. A causa degli innumerevoli interventi di restauro e riqualificazione si è quasi completamente perduta l’originaria struttura architettonica della chiesa. Tele e sculture del ‘500 e del ‘600 arricchiscono la decorazione barocca della chiesa. Alla parrocchia è annessa una grande sacrestia che presenta una volta finemente affrescata nel 1848. La Parrocchia venne consacrata nel 1783 dal vescovo Tommaso Taglialatela.Chiesa Della Madonna Dell’aiutoIn supporto alla chiesa parrocchiale fu edificata, nel 1960, su un lato di un giardino la chiesa della Madonna dell’Aiuto. Il terreno fu donato alla popolazione dal barone Giacinto Casimiro Parisio. All’interno della chiesa si conservano tele di pregevole fattura, attribuite a Nicola Malinconico e Luca Giordano.Chiesa Di San Mattia

La Chiesa di San Mattia fu edificata intorno al XVI secolo. Le sue origini cinquecentesche sono ulteriormente ravvisabili nella presenza di un affresco raffigurante una Madonna con Bambino, proveniente dalla Cappella della Madonna delle Grazie.

Padre Vittorio Di MarinoLa storia di una città è legata anche a

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personaggi che sono stati importanti per una comunità. Di padre Vittorio Di Marino, oggi sono ancora in molti a ricordarne il sorriso, la straordinaria disponibilità. In molti soprattutto gli anziani lo ricordano come il medico buono. Ma vanno citati anche Tommaso Taglialatela, che fu anche vescovo di Sora in provincia di Roma. In tempi recenti, oltre a Sergio Bruni, va ricordato che anche Luca Persico, leader dei 99 Posse, è nato a Villaricca.

Il Santo Patronoe la Festa Dei GigliIl Patrono di Villaricca è San Rocco di

Montpellier, pellegrino francese vissuto nel XIV secolo. I festeggiamenti in onore del patrono San Rocco, ma anche della Madonna e di S. Gennaro si svolgono nella prima decade di settembre e durano un intera settimana. La festa dura un’intera settimana ed è ricca di giochi tradizionali, gare sportive e concerti. Durante i festeggiamenti per San Rocco viene organizzata anche la “ballata” del giglio, originaria di Nola, che dura due giorni.

PRO LOCO VILLARICCA252/A, Via Fermi Enrico - 80010 Villaricca (NA) [email protected] - Tel: 081 5062272,

Annurca, oro dolceE’ Plinio il Vecchio, nella sua Historia naturalis, a parlare per primo di “Mala Oracula”, descrivendo le mele che si coltivavano a Pozzuoli. La coltura dell’annurca si è poi trasferita alla periferia dei Campi Flegrei, vale a dire in tutta l’area giuglianese. La mela “annurca” è tipica per il colore rossastro, che si ottiene nei melai, quando il frutto viene messo a maturare e quindi ad addolcire per terra. Anche questo è “oro rosso”.

La provenienza puteolana, luogo in cui la mitologia romana individuava l’ingresso agli inferi, ha condizionato la fantasia dello scrittore latino che definì questo frutto “Mala Oracula”, ovvero il frutto dell’Orco (gli inferi appunto). La definizione è confermata da Gian Battista della Porta che nel “Suae Villae Pomarium”, parlando delle mele di Pozzuoli, riferisce che questo frutto è volgarmente detto orcola.Da questa volgarizzazione discendono le definizioni di anorcola e annorcola finché nel 1876 il nome

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“annurca” compare ufficialmente nel manuale di Agricoltura di G. A. Pasquale. Indicata come la “regina delle mele”, soprattutto per le spiccate qualità organolettiche, l’annurca ha da sempre caratterizzato la melicoltura campana.E’ diffusa in tutta la regione e rappresenta il 50% circa delle produzione regionale di mele e il 5% di quella nazionale. Luce ed acqua costituiscono i due elementi essenziali per la formazione dell’autocianina che dona al frutto il suo colore rosso brillante. Il resto lo fa l’esperienza secolare dei contadini tramandata di generazione in generazione. Negli ultimi anni la mela annurca ha avuto una promozione

nazionale ed internazionale di notevole successo. La mela è un vero e proprio concentrato di vitamine. Questo frutto possiede caratteristiche organolettiche (profumo, sapore, aroma), nutritive e dietetiche che non trovano riscontro in altre varietà di mele. Infatti, al pari degli altri frutti della stessa specie, l’annurca presenta una quantità maggiore di vitamine B1, B2, PP, C, di potassio, di fosforo, di ferro e di zolfo. Inoltre, è un ottimo tonico muscolare, nervino, antireumatico e diuretico e, allo stesso tempo, risulta essere un potente protettore gastrico e un efficace decongestionante epatico.

Il tramIn piena espansione industriale, furono in molti ad abbandonare la coltivazione della terra, per cercare un più sicuro posto nelle fabbriche. L’esigenza di molti era quella di spostarsi verso il centro di Napoli e verso Chiaiano. Cavalcando questa esigenza e fiutando il grosso affare economico, negli ultimi anni dell’ottocento è attiva a Napoli ed in provincia una società tranviaria belga, la Société Anonyme Belge des Tramways (SABT), fondata nel 1896, in sostituzione della fallita Société Anonyme du Nord de Naples, che aveva rilevato le concessioni della Provincia e del comune di Napoli ottenute da alcuni imprenditori napoletani nei mesi precedenti. Nel 1899 la SABT costruisce la linea Museo – Capodimonte - S. Rocco, allungata poi fino a Marano nel 1901. Fin dall’inizio adopera la trazione elettrica, mediante una propria piccola centrale in località Garittone. Nel 1904 la SABT prolunga la linea da Marano fino a Villaricca e Giugliano, e nel 1907 realizza una diramazione dal Garittone,

anche verso Miano e Secondigliano; in entrambi i casi vengono così a crearsi due allacciamenti, uno a Secondigliano, l’altro a Giugliano, con la linea Napoli - Aversa della SATP. Nel complesso la rete tranviaria di questa azienda supera i 16 chilometri; quasi tre milioni sono i passeggeri trasportati ogni anno. Nel tempo verranno poi costituite prima le linee di autobus che conosciamo, fino ad arrivare ai giorni nostri con la linea metropolitana che serve ormai anche Aversa, da e verso Napoli.

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