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SISSIS – Sezione di Catania Moduli per l’insegnamento specializzato A.A. 2008/’09 PSICOLOGIA DELL' HANDICAP E RIABILITAZIONE COGNITIVA MODULO II: DIAGNOSI PSICOLOGICA DELLA DISABILITA’ (prof. Santo Di Nuovo) - 16 ore Programma - Psicologia cognitiva e obiettivi educativi: esigenze di assessment - Tassonomia della disabilità e strumenti di valutazione - Verifica della qualità dei processi di integrazione scolastica delle persone in situazione di handicap - Un esempio di problema diagnostico: la sindrome di iperattività. Indicazioni per l’esame L’esame consisterà in una prova a scelta multipla comune ai tre moduli che compongono l’insegnamento. Per le parti specifiche del modulo del prof. Di Nuovo, i testi sono quelli riportati di seguito in questo file: 1. La valutazione della disabilità: criteri e strumenti pag. 2 2. Tassonomia delle funzioni cognitive e strumenti di valutazione pag. 6 3. Indicazione per la valutazione delle funzioni e delle specifiche abilità pag. 23 4. Il deficit di attenzione con iperattività pag. 27 5. L’integrazione è possibile?* pag. 38 * Questa parte finale è tratta dalla ricerca promossa dall’IRRE Sicilia nel 2006 e disponibile integralmente nel sito: http://www.irresicilia.it/ricerca/IRRE_ricerca_disabilit_DiNuovo.pdf

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SISSIS – Sezione di Catania Moduli per l’insegnamento specializzato

A.A. 2008/’09

PSICOLOGIA DELL' HANDICAP E RIABILITAZIONE COGNITIVA

MODULO II: DIAGNOSI PSICOLOGICA DELLA DISABILITA’ (prof. Santo Di Nuovo) - 16 ore

Programma - Psicologia cognitiva e obiettivi educativi: esigenze di assessment

- Tassonomia della disabilità e strumenti di valutazione

- Verifica della qualità dei processi di integrazione scolastica delle persone in situazione di

handicap

- Un esempio di problema diagnostico: la sindrome di iperattività.

Indicazioni per l’esame L’esame consisterà in una prova a scelta multipla comune ai tre moduli che compongono l’insegnamento. Per le parti specifiche del modulo del prof. Di Nuovo, i testi sono quelli riportati di seguito in questo file: 1. La valutazione della disabilità: criteri e strumenti pag. 2

2. Tassonomia delle funzioni cognitive e strumenti di valutazione pag. 6 3. Indicazione per la valutazione delle funzioni e delle specifiche abilità pag. 23 4. Il deficit di attenzione con iperattività pag. 27 5. L’integrazione è possibile?* pag. 38 * Questa parte finale è tratta dalla ricerca promossa dall’IRRE Sicilia nel 2006 e disponibile integralmente nel sito: http://www.irresicilia.it/ricerca/IRRE_ricerca_disabilit_DiNuovo.pdf

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1. LA VALUTAZIONE DELLA DISABILITÀ: CRITERI E STRUMENTI 1

I criteri fondamentali per la definizione della disabilità cognitiva sono: - la classificazione e inquadramento diagnostico; - le implicazioni dei diversi gradi di ritardo; - la distinzione fra prestazione intellettiva e adattiva/disadattiva; - l’età di insorgenza del ritardo o della disabilità e le sue conseguenze sullo stato presente.

Per ciascuno di questi criteri il ruolo del momento valutativo e diagnostico è ritenuto fondamentale, per cui è su questo aspetto che occorre soffermare l’attenzione se si vuole instaurare un processo abilitativo/riabilitativo realmente adeguato ed efficace in relazione ai bisogni della singola persona. Alcuni autori sono convinti che l’uso di un testing standardizzato mediante strumenti basati su precise norme è essenziale per la valutazione educativa delle persone con ritardo mentale, mentre altri hanno posizioni molto più problematiche. Altri autori hanno esaminato le difficoltà riguardanti l’uso di un approccio psicometrico, al fine di identificare la disabilità intellettiva dal punto di vista dei bisogni della persona. Più recentemente è stato messo in discussione il QI e gli strumenti psicometrici come mezzi in grado di dare una comprensione piena dei problemi del ritardo; il decremento di fiducia nella diagnosi tramite test standardizzati si accompagna ad una maggiore fiducia nel giudizio clinico e ‘consensuale’ tra gli operatori. Il concetto di ‘psicometria’ – e dell’attendibilità e validità ad esso connesse - va ridiscusso per finalizzarlo all’uso nella diagnosi del ritardo mentale e più in generale della disabilità.

Il termine stesso psicometria riporta alla centralità del ‘metro’ e della ‘norma’: ma quale ‘norma’ è possibile nel ritardo evolutivo? Quella che si riferisce ai soggetti non ritardati consente la collocazione nosografica, ma dice poco rispetto alle potenzialità residue. In alternativa, occorre definire una ‘norma’ all’interno di fasce del ritardo stesso, in base alla quale confrontare le prestazioni dei singoli soggetti? Il problema è stato affrontato nel caso dei deficit neuropsicologici, ed è stato sottolineato che è necessario differenziare tra scopi diagnostici rispetto alla normalità o non normalità, e accertamento della capacità del soggetto di padroneggiare certi compiti. In questo senso è utile avere anche ‘norme’ riferite a specifiche patologie con cui confrontare le prestazioni del caso in esame.

Nel caso del ritardo mentale la situazione assume aspetti paradossali: una persona viene definita ‘in ritardo’ rispetto alla normalità dello sviluppo cognitivo e sociale, in base a criteri desunti soprattutto da test psicometrici, e di questi test si ricerca poi una ‘norma’ all’interno di quella popolazione che mediante il loro contributo è stata definita. Il riferimento a criteri normativi ha senso solo se utilizzato per programmare una riabilitazione più mirata e di verificarne l’efficacia mediante un confronto in diversi periodi temporali.

Altro problema strettamente connesso è il rapporto fra età cronologica e prestazioni cognitive, che sta alla base della definizione delle ‘norme’ di molti test psicometrici, e che si pone in termini diversi quando età cronologica ed età di sviluppo psichico sono per definizione distanti tra loro. Diverse accezioni della valutazione

I criteri della valutazione psicometrica nei confronti di persone con ritardo dello sviluppo vanno ripensati, a partire dal significato stesso della valutazione. Questo termine infatti, utilizzato correntemente in ambito scolastico ed educativo, può ingenerare confusione sul reale significato del processo da esso designato. La radice di ‘valutare’ include la nozione di ‘valore’ che fa pensare ad un giudizio sulla positività o meno del risultato conseguito da un soggetto e che deve essere ‘valutato’. Diversa è la situazione quando si tratta di constatare se, e in che misura, certe abilità cognitive sono possedute o meno, e se possono quindi essere prese a fondamento di ulteriori apprendimenti: in ciò non vi è alcun giudizio di ‘valore’.

Un’alternativa che viene spesso usata quando vanno esaminate abilità carenti è diagnosi: questa dizione, oltre ad essere troppo legata ad una connotazione nosografica, tende ad ingenerare la convinzione che il mancato possesso di una abilità - evidenziato dalla diagnosi - sia l’equivalente del sintomo di una patologia, cioè di qualcosa che non funziona nella mente, o nel substrato organico di essa: cosa vera in certi casi ma non in altri.

Un’ulteriore alternativa, ormai entrata nell’uso comune, è l’uso del termine consueto nella letteratura anglo-sassone assessment, traducibile in qualche modo con accertamento: analisi funzionale delle abilità, delle competenze e dei pre-requisiti che il soggetto possiede ad un dato momento del suo sviluppo e all’interno di un preciso contesto di stimolazioni, finalizzato non ad un ‘giudizio’ e ad un inquadramento nosografico ma alla determinazione di obiettivi educativi e, se del caso, riabilitativi.

1 Il testo è tratto e adattato dal volume: Strumenti psicodiagnostici per il ritardo mentale, a cura di S. Di Nuovo e S. Buono, ed. F. Angeli, Milano.

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Al di là della terminologia usata – che però non è irrilevante rispetto alla connotazione del senso delle operazioni di cui si parla – va centrata l’attenzione sugli strumenti disponibili in relazione ai bisogni concreti della persona con ritardo.

Test psicometrici e strumenti criteriali

Caratteristica essenziale dei test psicodiagnostici è che gli stimoli che li costituiscono (domande, richieste di prestazioni, ecc.) siano rigorosamente standardizzati, e le modalità di somministrazione di questi stimoli siano altrettanto rigorosamente standardizzate (ad esempio, le ‘istruzioni’ da dare al soggetto non possono essere in alcun modo modificate).

Proprio queste caratteristiche di standardizzazione garantiscono la attendibilità del test, cioè la sua ripetibilità in tempi e luoghi diversi; e la validità, che garantisce la misurazione, da parte dello strumento, solo di ciò che tramite esso si intende misurare. Un test è tanto più valido quanto più gli stimoli sono rappresentativi della funzione cognitiva o dell’area della personalità che si vuole studiare.

Un ulteriore aspetto di standardizzazione consiste nel fatto che le risposte del soggetto vengono codificate in modo obiettivo (indipendente cioè dalla valutazione soggettiva dell’esaminatore), ed è possibile ricavare punteggi convertibili in valori standard, riferiti cioè ad un campione normativo rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame.

Sulla base dei punteggi standard così ottenuti, è possibile quantificare le differenze tra soggetti nelle prestazioni al test e quindi nell’area psicologica di cui il test è rappresentativo. Nell’assessment del ritardo mentale i test psicometrici presentano delle difficoltà di ordine sia teorico che pratico.

L’aspetto più rilevante è legato allo specifico fine dell’assessment. La valutazione di tipo normativo - tipica del test psicometrico - è finalizzata prevalentemente alla classificazione ‘diagnostica’ ed è in genere preliminare e solo indirettamente connessa all’intervento educativo e riabilitativo. Mirando a conoscere se e in che misura il ritardo è presente, si limita a una “diagnostica constatativa” mentre poco dice rispetto a ciò che occorre per recuperare i ritardi.

Invece l’assessment dei potenziali evolutivi residui nella persona con ritardo mentale mira ad accertare quanto una certa abilità è attualmente sviluppata ed è pertanto direttamente legato all’intervento di potenziamento della abilità stessa.

Feuerstein (1979) ha riassunto in alcuni punti fondamentali le differenze fra le tradizionali tecniche psicometriche e un assessment dinamico: - i test misurano il prodotto (il grado di efficienza) delle funzioni cognitive, mentre un assessment

dinamico deve cogliere soprattutto il funzionamento - più o meno adeguato rispetto agli obiettivi - del processo cognitivo: come il soggetto procede nel rispondere ad una serie di stimoli standardizzati è più rilevante del quanto è efficiente la sua prestazione rispetto al campione normativo. Ricordiamo che già Vygotskij aveva criticato l’uso dei test per determinare il livello cognitivo su cui basare poi l’istruzione, in quanto così facendo si trascurano - specialmente con soggetti portatori di deficit cognitivi - le possibilità di intervenire attivamente sui processi e sulle aree potenziali di sviluppo: se un soggetto portatore di handicap risulta al test intellettivo carente di capacità logico-astratte, si basa l’insegnamento sul pensiero concreto sottovalutando la possibilità di accrescere, seppure in parte, anche le abilità di astrazione.

- Mentre nei test psicometrici la complessità e difficoltà delle prove resta costante per tutti i soggetti, nell’assessment dinamico essa è flessibile e va continuamente aumentata in relazione alle capacità dimostrate dal soggetto.

- Sono essenziali nell’assessment dinamico, in quanto danno informazioni sul modo di procedere del soggetto, quegli aspetti che nei test psicometrici vanno invece evitati in quanto alterano la attendibilità e la validità: stimolazione della motivazione, adattamento delle istruzioni alle capacità specifiche - per esempio linguistiche - del soggetto, aumento del ‘warming-up’ o fase di addestramento al compito secondo la sua recettività iniziale, uso di feedbacks di rinforzo. Anche la modalità di somministrazione della prova o il tempo-limite possono essere modificati secondo le esigenze del bambino, specie se porta-tore di handicap.

- Nella interpretazione dei risultati diventano importanti nell’assessment dinamico le risposte ‘particolari’, fuori dalla norma, che nei test vengono semplicemente scartate come prestazioni casuali o comunque come errori, e che sono invece rivelatrici di particolari modalità di funzionamento utilizzabili per il training.

Questo tipo di assessment è stato assunto come fondamento per la ‘diagnosi funzionale’ ormai diffusa nella pratica, anche se non sempre del tutto chiara agli operatori nei presupposti teorico-metodologici.

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“Quantunque sopravviva ancora una tendenza allo screening basato su verifiche diagnostiche di tipo testistico atte a quantificare lo scostamento dalla norma, oggi si tende ad attribuire maggiore importanza alla comprensione dei meccanismi eziopatogenetici del disturbo riconducibile al ritardo mentale … I progressi metodologici compiuti nell’ambito di impostazioni teoriche diverse … permettono di considerare il soggetto nei suoi aspetti cognitivi, personologici, relazionali, recuperando la mera diagnosi fine a se stessa e posizioni diagnostiche volte ad individuare strategie d’intervento terapeutico-educativo” (Gabassi, 1997, p. 16).

In un’ottica di approccio ‘globale’ alla persona è indubbio che l’assessment debba includere aspetti relazionali, legati alla interazione soggetto-operatore, e non soltanto di testing ‘obiettivo’, compiuto da un tecnico asetticamente distaccato. Vanno distinte la valutazione degli eventuali deficit e la valutazione dei potenziali presenti e utilizzabili per l’apprendimento, nonché degli ausili concretamente recuperabili nell’ambiente.

Non può essere sottovalutato il ruolo del contesto culturale nella valutazione e nel trattamento del ritardo mentale: questo contesto influenza la definizione stessa di ‘ritardo’ e determina le prospettive e le concrete modalità diagnostiche e di intervento su di esso.

Per l’assessment delle capacità cognitive e di adattamento delle persone con ritardo mentale, nella prospettiva qui delineata, risulta utile una distinzione tra: 1. definizione del grado e della tipologia del ritardo, rispetto al funzionamento ‘normale’, da operare

mediante strumenti standardizzati quali i test psicometrici; 2. accertamento delle capacità presenti e delle potenzialità di sviluppo, mediante un esame delle modalità di

funzionamento peculiari del soggetto, avvalendosi di strumenti dalle caratteristiche di seguito elencate: - Pur conservando la standardizzazione degli stimoli, sono più flessibili nelle consegne, nella

possibilità di feedbacks, nella stimolazione della motivazione che possono essere adattate al singolo soggetto, secondo le esigenze sopra delineate.

- Pur dando luogo a punteggi (somma delle prove correttamente risolte), o comunque ad indici di superamento/non superamento della prova, che indicano il possesso o no della abilità in questione, non è sull’aspetto quantitativo che l’attenzione è centrata, ma piuttosto sulla modalità di procedere del soggetto nell’affrontare gli stimoli.

- Il tempo-limite che è tanto importante nei test psicometrici (si pensi alle scale di intelligenza: un item correttamente risolto ma fuori tempo massimo dà luogo a un punteggio di zero alla pari di una completa incomprensione della prova) può essere meno vincolante in un testing che mira a cogliere non solo l’efficienza del soggetto ma il suo modo di procedere, a prescindere dalla pressione temporale che può ingenerare interferenze emotive.

- Il criterio per valutare se la capacità è posseduta o no, quando non direttamente evidente, è riferito non solo al campione normativo - come avviene invece in via esclusiva nei test psicometrici - ma anche all’obiettivo che ci si propone di raggiungere con quel soggetto.

Ad esempio, se si intende valutare lo stato delle competenze di un soggetto con ritardo mentale, rispetto alle abilità essenziali per l’acquisizione delle capacità di lettura e scrittura, si procede alla somministrazione - secondo modalità flessibili ed appropriate al soggetto - di una o più schede criteriali per le abilità interessate. Viene valutato poi, per ciascuna delle abilità, se essa si può ritenere posseduta in modo stabile, o ancora labile e incerto, o se essa non è affatto presente nel repertorio del soggetto; l’insieme delle valutazioni costituirà la base per stabilire quali abilità vanno incrementate con apposite stimolazioni prima che l’apprendimento della lettura e scrittura possa iniziare con ragionevoli probabilità di successo.

Una volta stabiliti gli obiettivi di questo piano di stimolazioni specifiche (trattamenti), mirate al recupero delle abilità carenti, le stesse schede - o altre simili - serviranno per la verifica periodica e per il monitoraggio degli effetti del piano programmato, secondo lo schema tipico della ricerca sperimentale: assessment1 - trattamento1 - assessment2 - trattamento2 (aggiustato sulla base dei risultati dell’assessment2) - assessment3 e così via fino al raggiungimento e alla stabilizzazione degli obiettivi prefissati.

L’assessment delle disabilità: tecniche di osservazione

I problemi e le difficoltà cui si è accennato in riferimento all’assessment nel ritardo evolutivo, si accentuano ovviamente quando il livello di ritardo è tale da pregiudicare sia la comprensione delle prove da svolgere, sia la relazione all’interno della quale le prove stesse vanno svolte. E’ il caso degli autistici o delle persone con ritardo mentale grave o profondo. Oppure quando le caratteristiche del problema non consentono l’uso di strumenti self-report (comportamenti aggressivi, iperattivi, autolesionisti, ecc.).

In questi casi, in cui non possono essere somministrati i tradizionali test né le schede criteriali, unica alternativa resta l’osservazione sistematica da parte di operatori specializzati.

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Schede per l’osservazione sistematica sono diffuse anche nel nostro paese; esse possono essere proficuamente utilizzate dagli educatori e dai riabilitatori, a condizione che criteri e metodi dell’osservazione vengano accuratamente definiti e gli operatori stessi siano opportunamente addestrati.

Per ciò che attiene all’oggetto dell’osservazione, è necessario rilevare accuratamente tipologia, frequenza, intensità e durata del fenomeno osservato: per esempio, se oggetto della osservazione è l’aggressività del bambino, occorre prendere nota - su apposite schede - per ciascun tipo di comportamento aggressivo evidenziato (verbale, fisico, ecc.), in quale grado, per quanto tempo esso è perdurato, quante volte durante la giornata si è ripetuto.

Al fine di andare oltre una osservazione puramente descrittiva, ed ottenere informazioni mirate ad accertare cause ed effetti del fenomeno, vanno ancora rilevati antecedenti e conseguenti del comportamento in questione: per restare nell’esempio dell’aggressività, è possibile registrare per ciascuna reazione ostile del bambino quali sono gli stimoli che la hanno indotta, e quali effetti questa reazione ha avuto sulle figure presenti (compagni, insegnanti, genitori).

L’osservazione può essere effettuata continuativamente (ad esempio per una intera mattinata di attività), ma nel caso questo tipo ottimale di osservazione non sia possibile per ragioni pratiche, si può attuare l’osservazione in periodi limitati appositamente campionati: ad esempio, per tre mezz’ore al giorno, campionate all’inizio e alla fine della attività di apprendimento e durante le attività ricreative.

Quanto agli strumenti da utilizzare per l’osservazione, si va dalle check-lists (formulari a codifica prefissata), alle schede a codifica flessibile preparati dallo stesso osservatore, fino alle registrazioni tramite video-tape in cui la codifica può avvenire a posteriori, con elevati livelli di precisione e di condivisione tra osservatori diversi.

Accertare le capacità per ri-abilitare

In linea con le nuove definizioni dell’handicap in relazione alla quantità e alla qualità di sostegno necessario per il recupero, l’assessment del ritardo mentale va finalizzato – oltre che alla definizione del grado e della tipologia del ritardo - alla programmazione individualizzata di interventi abilitativi e ri-abilitativi, specie con riferimento all’età prescolare. A questo duplice obiettivo l’assessment va sempre finalizzato, anche se in momenti e con strumenti diversi per ciascuno degli obiettivi.

Ricordiamo che, nella definizione dell’OMS, la riabilitazione – in molti casi meglio sarebbe dire ‘abilitazione’ in quanto non ci sono abilità perdute da ‘recuperare’, ma solo da costruire ex novo – consiste in “un insieme di attività tendenti alla massimizzazione delle possibilità dell’individuo e alla minimizzazione degli effetti disabilitanti” (1987). Essa si riferisce a quel campo di azioni e di interventi volti ad alleviare le menomazioni, la disabilità e gli handicap negli individui e migliorare, nei limiti del possibile, la qualità di vita delle persone disabili (1997).

La formazione degli operatori per la disabilità ha come obiettivi l’abilitazione o la ‘compensazione’, ma anche l’accettazione e la gestione del limite che questa attività comporta; i metodi sono l’addestramento delle funzioni carenti ma anche il coinvolgimento attivo, globale e non parcellizzato della persona disabile, partendo dal suo ‘patrimonio personale’ secondo la definizione di Freinet.

Si eviteranno così i rischi di riduzionismo tipico del riabilitatore che vede il disabile come una ‘macchina da aggiustare’, quindi il tecnicismo e lo scarso coinvolgimento personale; dall’altro i rischi di un eccessivo coinvolgimento emotivo che potrebbe sfociare in condizioni di stress o addirittura di burnout professionale.

L’antidoto vero è la formulazione di un progetto educativo articolato e non generico – come peraltro la normativa per il ‘sostegno’ nella scuola prevede – che parta da un corretto assessment e dalla comprensione delle caratteristiche specifiche della persona disabile nella sua ‘unicità’.

Una riflessione prima di concludere: particolare importanza nell’assessment a scopi abilitativi assume la corretta interpretazione e la comunicazione dei risultati a quanti debbono prendersi cura del bambino e dell’adulto con ritardo: educatori, assistenti, famiglie.

Gli aspetti legati alla comunicazione dei dati ottenuti in fase di accertamento di funzioni e capacità vanno approfonditi in modo più sistematico di quanto finora non sia avvenuto: il ruolo dell’équipe che prende in carico il soggetto è in questo senso assolutamente centrale per ‘costruire’ un senso della riabilitazione, cosa che nessuno specialista – per quanto tecnicamente esperto - da solo può fare in modo adeguato.

Una rete di interventi opportunamente coordinati, dei quali l’assessment è solo un momento ma centrale e imprescindibile, può mirare ad un processo integrato di abilitazione del disabile in quanto persona globalmente considerata.

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2. TASSONOMIA DELLE FUNZIONI COGNITIVE

E STRUMENTI DI VALUTAZIONE2 Scopo di questa sintesi è individuare le funzioni generali dei processi del pensiero, le abilità

cognitive specifiche (o ‘di base’) in cui queste funzioni si articolano e che sono necessarie per un loro corretto sviluppo, gli strumenti per l'accertamento del possesso delle abilità da parte del soggetto. Questa tassonomia consente di definire gli obiettivi concreti in cui abilità specifiche e funzioni generali possono essere tradotti, ai fini di instaurare un proficuo processo di apprendimento e di educazione complessiva della persona umana, in particolare se in condizione di ritardo o disabilità.

Può servire da traccia per la formulazione del Profilo Dinamico Funzionale nella diagnosi della disabilità in ambito scolastico. 1. Le funzioni. A. Funzioni dell'area ricettiva-elaborativa (attenzione, percezione). Consentono all'organismo di interagire adeguatamente con i molteplici stimoli provenienti dal mondo esterno, utilizzando quelli pertinenti, articolando, interpretando e organizzando in modo significativo i loro aspetti parziali e globali, e lasciando 'sullo sfondo' quelli non pertinenti o disturbanti. B. Funzioni dell'area riflessiva (pensiero analitico, sintetico, concettuale, valutazione, problem-solving). Mediante esse il soggetto agisce cognitivamente sugli stimoli e sui dati della esperienza: li analizza, li classifica, modifica e struttura in vista di un fine; li pone in relazione tra loro in modo da utilizzarli produttivamente per la soluzione di problemi. C. Funzioni dell'area creativa (immaginazione, fantasia, originalità produttiva). Tramite queste funzioni il soggetto è in grado di elaborare configurazioni nuove ed originali di stimoli e di avvalersene per programmare eventi futuri: l'esperienza del soggetto può essere così estesa ed arricchita mediante 'costruzioni' personali. D. Funzioni dell'area ritentiva (apprendimento, memoria). Servono ad immagazzinare stimoli recepiti dall'ambiente esterno, o prodotti dal soggetto stesso, in modo che siano riutilizzabili in momenti successivi. Nuove conoscenze e competenze vengono così integrate nell'esperienza del soggetto. E. Funzioni dell'area espressiva simbolica (comunicazione, linguaggio). Mediante queste funzioni un soggetto può codificare e trasmettere ad altri soggetti messaggi, verbali o non verbali, relativi alle proprie percezioni, ai propri pensieri, ai propri stati affettivi. F. Funzioni dell'area espressiva pratica (motricità, comportamento relazionale e sociale, produttività).

Mettono il soggetto in condizione di muoversi nel contesto sociale di cui è parte, e di agire produttivamente in esso, interagendo con gli altri soggetti conviventi nel medesimo contesto e con l'ambiente fisico. Va precisato che le funzioni risultano sovrapporsi sia riguardo alla sequenza temporale di sviluppo, che alla collocazione all'interno delle aree evolutive. Esse sono in realtà manifestazioni diverse di un unico processo complessivo di relazione tra il soggetto (mente, volontà, corpo) e l'ambiente: aspetti differenti - anche da un punto di vista evolutivo - ma interrelati fra loro nella globalità del funzionamento complessivo della persona. 2. Le 'abilità di base'. 2.1 Definizione di abilità di base.

Si intendono per capacità o abilità di base ('basic skills' nella terminologia degli autori anglosassoni) le competenze specifiche di cui una funzione si compone e che sono necessarie perché la funzione possa essere sviluppata ed integrata proficuamente e senza problemi nel complesso delle attività dell'individuo. Nel corso dello sviluppo le capacità devono essere costruite, sulla base di disposizioni già presenti nel patrimonio genetico, dei processi di maturazione neurofisiologica, e di specifici apprendimenti spontanei 2 Tratto e riadattato dal capitolo pubblicato nel volume: Dal fine agli obiettivi nell’educazione personalizzata (di V. Garcia Hoz, A. Bernal Guerrero, S. Di Nuovo, G. Zanniello), Palumbo, Palermo 1997 (pp.141-179). Il saggio è la traduzione italiana del capitolo “De la psicologia cognitiva a los objectivos educativos”. Nel volume: Del fin a los

objetivos en la educacion personalizada (di A. Bernal Guerrero, S. Di Nuovo, V. Garcia Hoz, G. Rodriguez Gomez, G. Zanniello). Vol. 3 del Tratado de Educacion Personalizada, Ediciones RIALP, Madrid, 1995 (pp. 176-230).

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o frutto di apposite stimolazioni sistematiche. Al di là delle sterili e ormai superate contrapposizioni tra 'genetico', 'organico' e 'ambientale', è unanimemente condiviso nella letteratura scientifica che l'insieme di questi tre elementi, interagenti in proporzioni diverse a seconda del tipo di abilità in questione e della particolare condizione del soggetto, è indispensabile per l'attivarsi della competenza. Il bambino deve quindi apprendere ad utilizzare e integrare le abilità possedute: l'uso appropriato di una certa abilità all'interno della funzione complessiva non è infatti automatico ma va a sua volta appreso. La articolazione delle funzioni generali in una gamma di 'abilità' è resa necessaria da ragioni di ordine sia teorico che operativo. Una caratteristica tipica degli apprendimenti cognitivi è la multi-componenzialità, per cui la funzione più complessa si costruisce progressivamente a partire dalla acquisizione di abilità più elementari. Il riconoscimento della multi-componenzialità evita semplificazioni dannose per la costruzione di una teoria psico-pedagogica scientificamente fondata, consentendo di proporre linee di sviluppo specifiche da cui dedurre obiettivi educativi concreti. Riferirsi soltanto a processi evolutivi di tipo generale lascia di fatto al singolo educatore la decisione su quali abilità considerare essenziali per la funzione, facendo correre il rischio di valutare ed educare solo alcune di esse, tralasciandone altre parimenti importanti. Una tassonomia delle abilità che le più accreditate teorie psicologiche - sulla base di rigorose ricerche empiriche - riconoscono collegate alle funzioni, è il presupposto migliore per pervenire ad un sistema di obiettivi educativi da proporre agli insegnanti nel loro lavoro quotidiano con soggetti sia normodotati che portatori di deficit dello sviluppo. 2.2 Nozione di 'fase critica' La tassonomia di abilità di base che intendiamo proporre prescinde - entro certi limiti - da stretti riferimenti alla età cronologica dei soggetti. Come nella teoria piagetiana dello sviluppo, una acquisizione cognitiva o la maturazione di una competenza fa riferimento ad una concezione stadiale, piuttosto che ad una serie di tappe cronologiche rigidamente prefissate. Ad un dato 'stadio' dello sviluppo quella acquisizione è necessaria perché una funzione si stabilizzi; e se è vero che nella media dei soggetti la acquisizione in questione avviene in corrispondenza di una certa età, è pure vero che in soggetti con particolari deficit evolutivi o con svantaggi socio-culturali tutto il processo può essere spostato in avanti nel tempo, pur seguendo le stesse sequenze e le stesse priorità. Nel momento in cui - prescindendo dalla età cronologica - una certa abilità diventa essenziale per una certa funzione, e deve essere acquisita altrimenti pregiudica il corretto funzionamento dell'area evolutiva cui è connessa, ci troviamo nella 'fase critica' per la abilità in questione: in questo senso le abilità di base vengono spesso definite 'pre-requisiti' dei diversi apprendimenti. Ad esempio, come meglio si vedrà più avanti, diverse abilità sono necessarie per l'apprendimento di una adeguata competenza nella lettura e scrittura: la fase critica della acquisizione di queste capacità si colloca generalmente tra i 5 ed i 6 anni di età, ma può avvenire in anticipo se il bambino è particolarmente stimolato nell'ambiente in cui vive, o in ritardo se il soggetto ha dei deficit di tipo neurologico o psico-motorio. Ovviamente, diverse abilità entrano in gioco in modo 'critico' in differenti momenti dello sviluppo, in relazione alla maturazione differenziale e progressiva delle strutture neurofisiologiche sottese. Lo stesso avviene per diversi livelli di una stessa abilità: si pensi ad esempio alle abilità di pensiero logico, i cui livelli evolutivi sono molto diversi tra loro. In sintesi, e con riferimento ad una ipotetica abilità X al livello Y: - Prima della fase 'critica' la abilità X - o meglio, il suo livello Y - può essere considerata latente: vale a dire, non acquisita e non ancora acquisibile per la mancata maturazione delle strutture neurofisiologiche. - Durante la fase 'critica' la abilità può e deve essere acquisita (spontaneamente oppure tramite specifico insegnamento), altrimenti viene pregiudicata, in tutto o in parte, la funzione cui la abilità è connessa e finalizzata. Ci si trova in quella che Vygotskij definiva 'zona di sviluppo prossimale', caratterizzata da uno scarto fra il livello di prestazione effettivamente raggiunto dal bambino e il livello di sviluppo potenziale raggiungibile tramite una adeguata stimolazione. - Immediatamente dopo la fase 'critica' occorre che la acquisizione venga sufficientemente stabilizzata affinché resti costantemente - e non solo a tratti - disponibile per la funzione. Solo a queste condizioni la abilità è finalizzabile al raggiungimento di concreti obiettivi didattici ed educativi.

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3. Abilità di base relative alle varie funzioni. A. Area ricettiva-elaborativa

Va rilevato preliminarmente che le funzioni dell’area convenzionalmente definita ‘ricettiva’ hanno anche aspetti che vanno al di là dalla pura acquisizione passiva, e prevedono elaborazioni attive e ‘produttive’.

Ovviamente le schematizzazioni tipiche delle tassonomie, utili a fini didattici e operativi, riducono la complessa interrelazione tra le funzioni psichiche messe di recente in luce dalle teorie connessioniste e dalla moderna neuropsicologia. 3.1 Abilità componenti la funzione della attenzione. La prima teoria moderna sulla attenzione (Broadbent) era fondata sull'ipotesi del 'filtro': un meccanismo selettivo che consente solo ad una parte della informazione proveniente dal mondo esterno o da quello interno, di accedere al meccanismo centrale di controllo (meccanismo a capacità limitata). In realtà, il filtro non agisce soltanto al momento dell'input degli stimoli esterni, ma è anche presente, seppure con modalità diverse di intervento, in momenti successivi dell'elaborazione dei dati dell'esperienza (Norman, 1969). Sulla base di analisi empiriche, l'ipotesi del 'filtro' appare inoltre insufficiente a rendere conto di un fenomeno complesso, che altri autori definiscono come finalizzato alla pianificazione e al controllo dei diversi processi cognitivi in funzione delle priorità prescelte, degli scopi e delle condizioni. Differenti sono le dimensioni implicate nei processi attentivi. 3.1.1. - La selettività, cioè la capacità di focalizzare gli stimoli pertinenti fra i tanti disponibili, è solo uno degli aspetti dell'attenzione, che pure comunemente viene identificata in toto con questo aspetto. Ad esso vanno aggiunti altri fattori che sono anch'essi componenti essenziali della funzione attentiva: 3.1.2 - La abilità di resistenza alla distrazione, intesa come interruzione o cambiamento involontario in un focus attentivo precedentemente stabilito, causato da interferenze esterne o interne all'organismo. La capacità di resistere agli elementi distrattori di un campo di stimolazioni e di mantenere la concentrazione per tutto il tempo necessario è un aspetto specifico dell'attenzione (alcuni autori parlano di 'attenzione di mantenimento'). 3.1.3 - La abilità di 'shifting' volontario, vale a dire di cambiamento attivo del focus attenzionale se ciò è necessario ai fini del compito. Un funzionamento inadeguato di questo aspetto può condurre alla perseverazione (il soggetto non riesce a staccarsi dal focus attentivo ormai inappropriato) o, al contrario, al passaggio incontrollato da un focus all'altro: ambedue questi estremi sono tipici, ad esempio, di gravi patologie neurologiche o psichiatriche. 3.1.4 - La abilità di attenzione divisa, o multi-canalizzata: badare cioè contemporaneamente a due categorie di stimoli, senza che una di esse, come comunemente avviene, sia tenuta 'sullo sfondo'. Il soggetto esegue contemporaneamente due compiti, come avviene ad esempio quando scrive sotto dettatura: ascolta e percepisce gli stimoli e al tempo stesso li traduce nei simboli grafici della scrittura. Tutte le abilità attentive elencate sono indispensabili per un corretto funzionamento della funzione recettiva: esse devono essere possedute molto precocemente dal bambino - prima dell'ingresso nella scolarizzazione primaria - perché i processi di apprendimento possano procedere correttamente, e ne costituiscono pertanto i primi pre-requisiti essenziali. 3.2 Abilità componenti la funzione della percezione.

L'organismo riceve attraverso i cinque canali sensoriali (vista, udito, olfatto, gusto, tatto) le informazioni essenziali dal mondo esterno. Ma è solo mediante il processo percettivo che i dati sensoriali vengono trasformati in esperienza psicologica, ossia vengono confrontati, interpretati e organizzati secondo regole peculiari: regole studiate, già a partire dagli inizi del secolo, dai teorici della Gestalt (Kohler). La elaborazione percettiva - che è peraltro strettamente connessa alla attività motoria, di cui ci occuperemo parlando della funzione espressiva pratica (3.9) - è composta da molteplici aspetti specifici, le cui linee di sviluppo possono essere individuate nelle prime fasi di evoluzione cognitiva (a partire dai primi mesi di vita), e la cui fase critica si colloca all'inizio degli apprendimenti scolastici: 3.2.1 - Analisi percettiva: capacità di discriminare e scomporre il campo di stimolazioni articolando ed 'estraendo' alcune parti significative di esso in modo rapido e preciso. Esempio tipico di analisi percettiva visiva è il riconoscimento di uno stimolo target (una lettera, un simbolo, o una sequenza di essi) tra un

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insieme di stimoli diversi. Nella modalità uditiva la capacità analitica si manifesta ad esempio riconoscendo un certo suono tra altri di diverso tono o intensità. 3.2.2 - Sintesi percettiva: capacità di cogliere una globalità significativa nel campo di stimoli (una immagine, una melodia), che non è una pura 'sommatoria' delle singole parti, ma viene colta direttamente ed immediatamente. Va rilevato che tanto l'analisi quanto la sintesi percettiva possono essere assolutamente primitive e 'massive', come tipicamente avviene in fasi precoci dello sviluppo: in tal caso, l'analisi deriva dalla incapacità di attingere unitariamente l'oggetto, mentre la appercezione globale dipende dalla incapacità di articolare adeguatamente le parti (ciò che avviene ad esempio nel sincretismo). Nelle fasi più avanzate dello sviluppo il soggetto è capace di usare appropriatamente analisi e sintesi e di integrarle ove necessario: per esempio scomponendo prima le parti di un insieme per poi tornare ad una percezione globale che integra le parti prima analizzate (questi processi sono esemplarmente descritti, in una prospettiva genetica, nel classico volume di Werner, 1948). 3.2.3 - Percezione spaziale: capacità di collocare e orientare adeguatamente nello spazio gli stimoli percepiti. Questa abilità ha un suo primo livello 'critico' nella fase pre-scolare: è necessaria perché il bambino percepisca correttamente lettere percettivamente simili ma diversamente orientate nello spazio (come p,q oppure b,d, oppure ancora n,u, ecc.). Un altro momento critico di questa abilità, a livello di complessità superiore, si ha quando occorre organizzare relazioni tra figure nello spazio (ad esempio nel caso di problemi di geometria) o rappresentarsi mentalmente forme a più dimensioni: abilità collegata a quella di immaginazione di movimenti nello spazio (§ 3.6.2). 3.2.4 - Costanza percettiva: nella modalità visiva, una certa forma - ad esempio, un quadrato - viene percepita come tale anche se presentata in diverse condizioni di dimensioni, colore, prospettiva. Analogamente, nella modalità uditiva una melodia viene riconosciuta anche se trasposta su una ottava differente. 3.2.5 - Percezione figura-sfondo: capacità di organizzare il campo percettivo in modo che una parte di esso risalti rispetto al resto e venga elaborata differenzialmente (una forma riconosciuta contro uno sfondo complesso; un suono contro altri rumori di fondo). 3.2.6 - De-contestualizzazione della forma ('disembedding'): abilità, connessa sia alla analisi che alla figura-sfondo ma anche al cambiamento rapido di focus attentivo e percettivo, che consiste nella scomposizione di un campo percettivo complesso per articolarne una parte significativa. Ricerche sperimentali di Witkin e collaboratori hanno dimostrato l'esistenza di relazioni tra questa abilità percettiva e una più ampia capacità di articolazione e flessibilità cognitiva, legata a sua volta a caratteristiche neuro-psicologiche e a variabili di 'differenziazione' complessiva della personalità. 3.2.7 - Fusione visivo-uditiva: abilità ad integrare un suono ascoltato e differenziato da altri con la sua rappresentazione grafica. Tutte queste abilità - il cui momento 'critico' di sviluppo si colloca fra il terzo e il quinto anno - costituiscono pre-requisiti essenziali, congiuntamente alle capacità motorie (v. § 3.13) per l'apprendimento della lettura e della scrittura. 3.2.7 - Discriminazione tattile, olfattiva, gustativa e integrazione con altre modalità percettive: capacità di differenziare adeguatamente gli stimoli avvalendosi di canali sensoriali diversi da quelli più comunemente usati (percettivo e uditivo). Ad esempio, discriminare mediante il tatto caldo da freddo, duro da molle, liscio da ruvido, spesso da sottile; distinguere mediante il gusto dolce, amaro, salato, acido; riconoscere odori diversi per mezzo dell'olfatto. Queste capacità possono diventare preminenti in caso di danneggiamento - momentaneo o persistente, come nel caso di handicaps sensoriali - degli altri canali; in ogni caso, il loro potenziamento è importante non solo per il recupero dei deficit di apprendimento ma anche per un armonioso sviluppo della persona umana nella sua globalità.

B. Area riflessiva. 3.3 Funzioni di pensiero e concettualizzazione. Nella ben nota concezione psico-genetica dello sviluppo cognitivo di Jean Piaget, l'evoluzione del pensiero infantile attraversa diverse tappe che corrispondono a successivi livelli di adattamento fra le strutture della mente del bambino e gli stimoli provenienti dal mondo esterno. Il dato esterno viene strutturato secondo lo schema mentale pre-esistente nel bambino, e con questa operazione gli viene attribuito

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un significato (processo definito da Piaget assimilazione); per converso, lo schema mentale viene pro-gressivamente modificato per renderlo meglio corrispondente alle stimolazioni esterne e agli altri schemi che vanno costituendosi (processo di accomodamento). Nelle primissime fasi dello sviluppo cognitivo gli schemi derivano direttamente dall'azione e permangono in ambito senso-motorio: ad esempio, dal movimento di avvicinare-allontanare un oggetto e dal feed-back percettivo che ne consegue deriva la strutturazione dello schema relativo alla nozione spaziale. Successivamente, lo schema viene organizzato all'interno del pensiero stesso, superando la diretta dipendenza dallo stimolo senso-motorio e procedendo alla rappresentazione mentale - in termini progressivamente sempre più appropriati - della realtà. Dopo i 5-6 anni il bambino è capace di tenere contemporaneamente conto di più rappresentazioni e coordinarle in un unico pensiero, 'operando' attivamente sui dati rappresentati senza lasciarsi guidare passivamente da essi (fase del pensiero reversibile e operatorio). Vengono acquisite in questa fase alcune nozioni essenziali per la strutturazione del pensiero logico: 3.3.1 - Nozioni spaziali e temporali: riconoscere sopra-sotto, dentro-fuori, vicino-lontano, prima-dopo, breve-prolungato; distinguere la distanza nel passato (poco fa, ieri, il mese scorso) e nel futuro (domani, fra un mese, ecc.). Queste nozioni spazio-temporali sono strettamente connesse alle nozioni relative al proprio

corpo inserito nello spazio e nel tempo: il concetto di vicino-lontano nasce riferito alla sperimentazione - dapprima puramente senso-motoria, poi rappresentata mentalmente - di relazioni tra il sé corporeo e oggetti esterni ad esso. 3.3.2 - Nozioni dimensionali: riconoscere grande-piccolo, largo-stretto, lungo-corto, alto-basso, ecc. 3.3.3 - Nozioni di quantità e numero: differenziare molto-poco, niente-pochi-molti, e successivamente, attribuire un simbolo (numero) a ciò che è molteplice. A questa abilità di tipo elementare - la cui fase critica si colloca intorno ai 4-5 anni e che costituisce il presupposto dell'apprendimento della aritmetica - va aggiunta quella che riguarda il lavorare con i numeri, cioé compiere operazioni mentali con essi, sommando, sottraendo, moltiplicando, dividendo: si tratta di una capacità (definita da alcuni autori ragionamento numerico) che va affinandosi progressivamente nel corso dello sviluppo, raggiungendo livelli sempre più elevati e complessi di elaborazione. 3.3.4 - Seriazione: mettere in ordine (di grandezza, di lunghezza) una serie di elementi, per esempio di bastoncini; presupposto per il lavoro con i numeri ordinali. 3.3.5 - Corrispondenza: riconoscimento della biunivocità fra due serie (bicchieri-bottiglie; palline-recipienti). Solo superando il vincolo dello schema senso-percettivo è possibile ammettere la corrispondenza fra due insiemi percettivamente differenti. Le abilità fin qui richiamate sono pre-requisiti per la più generale capacità di comparazione che costituisce elemento essenziale del pensiero tendente alla differenziazione e alla integrazione combinatoria di elementi diversi della realtà. 3.3.6 - Conservazione del peso, della quantità di un oggetto anche quando la forma viene alterata. Esempio classico il travaso di un liquido da un bicchiere stretto e alto in uno largo e basso: il riconoscimento della invarianza della quantità del liquido è testimonianza del fatto che il bambino riesce a staccarsi dal dato percettivo per operare attivamente sulle rappresentazioni mentali legate alla operazione compiuta. 3.3.7 - Classificazione: capacità di raggruppare degli oggetti secondo categorie prefissate (forma; colore; dimensione; spessore). Tipica è la classificazione richiesta nel lavoro con i 'blocchi logici': al bambino viene richiesto di classificare per forma ('prendi tutti i quadrati') o per colore ('tutti i pezzi rossi'), o per forma e colore (‘tutti, e solo, i quadrati rossi'), o per forma, colore e dimensione ('tutti, e solo, i quadrati rossi grandi'). E' possibile classificare per esclusione ('tutti i quadrati non rossi', oppure 'tutti i pezzi che non sono quadrati') e così via. Parallelamente, vi è la capacità di comprendere i rapporti di inclusione fra una certa categoria e la categoria super-ordinata; questa capacità consente di rispondere correttamente a una domanda del tipo: 'dato un insieme di 7 palline bianche e 4 nere, ci sono più palline o più palline bianche?'. La capacità di classificare a partire dal dato concreto costituisce un primo livello di costruzione di categorie che è la base per la formazione dei concetti; ma solo più avanti nel tempo, quando il ragazzo supera la fase operatoria concreta ed è capace di lavorare su rappresentazioni mentali puramente ipotetiche, è possibile accedere alle capacità tipiche del pensiero operatorio astratto: 3.3.8 - Concettualizzazione astratta. E' l'abilità a costruire categorizzazioni del tutto scisse dal dato concreto ma fondate su considerazioni puramente formali (appunto, legate alla astrazione). Esempio: il concetto di 'malattia infettiva', che deve rispondere a determinate caratteristiche formali (costituire una patologia che dà luogo a sintomi, provenire da un virus diffuso nell'ambiente). Sulle modalità di formazione dei concetti un notevole contributo hanno dato gli studi di Bruner e coll. (1956).

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3.3.9 - Induzione / deduzione: processi complementari del pensiero logico, tramite i quali si stabiliscono relazioni o 'regole' fra due o più eventi (processo induttivo) oppure a partire da alcune premesse si giunge a delle conclusioni sulla base di un procedimento di tipo formale (deduzione). Gli esperimenti di fisica sono spesso fondati su ragionamenti induttivi: procedendo alla variazione sistematica di un fattore alla volta, si può determinare (appunto, induttivamente) da quali fattori dipende il getto d'acqua che fuoriesce da un buco praticato in un recipiente: quantità, livello dell'acqua, forma del recipiente, ecc. Tipico esempio di ragionamento deduttivo - in cui può non servire la verifica empirica diretta - è il sillogismo: se alcuni X sono Y, e se tutti gli Y sono Z, allora alcuni X sono Z. Strettamente connesse al ragionamento induttivo o ipotetico-deduttivo sono due altre nozioni: 3.3.10 - Probabilità: verosimiglianza e grado di fiducia con cui si può prevedere un evento ipotetico a partire da dati conosciuti, attraverso un ragionamento di deduzione logica (es.: lanciando due dadi, è più probabile ottenere una somma di 6 - che deriva da numerose combinazioni possibili - che di ottenere 12, possibile solo in una combinazione). 3.3.11 - Causalità: capacità di cogliere correttamente i nessi causa-effetto e quindi di mettere in relazione appropriatamente gli eventi. Viene superato così il sincretismo tipico del pensiero infantile, in base al quale eventi in realtà non correlati vengono percepiti come legati da relazioni di causa-effetto ('sono stato cattivo, e perciò piove e non posso uscire come mi piacerebbe') Le forme di ragionamento astratto e di pensiero inferenziale - la cui fase critica si colloca a partire dai 13-14 anni in poi, dunque all'uscita dalla scuola media inferiore - sono pre-requisiti imprescindibili per la comprensione di 'teorie' e per lo studio di materie quali l'algebra, la filosofia, la fisica, le scienze naturali, ecc. tipiche di alcuni indirizzi di studio superiore. 3.3.12 - Pensiero analitico: finalizzato a scomporre il campo cognitivo, superando la pregnanza delle configurazioni già consolidate. Witkin definiva questa abilità cognitiva 'indipendenza dal campo', cioé capacità di staccarsi dal tipo di conoscenza che l'insieme delle stimolazioni tende ad 'imporre' al soggetto. 3.3.13 - Pensiero sintetico: attività cognitiva complementare alla precedente, volta a cogliere relazioni essenziali che permettono di valutare il campo di stimoli cognitivi nella sua complessità o ad inserirlo in uno 'schema' riassuntivo. Alcuni autori (tra cui H. Werner) definiscono 'olistico' un processo di pensiero, tipico della intelligenza matura, che ricostruisce l'unitarietà di un campo cognitivo dopo averne scomposto le varie parti ed averle messe in relazione tra loro e con il tutto. 3.3.14 - Pensiero intuitivo: secondo la nota definizione di Bruner, una «scorciatoia fondata su strutturazioni informali», una abbreviazione del procedimento di inferenza che viene usata quando gli elementi per il pensiero analitico non sono sufficienti ed il soggetto mette in atto strategie attive di completamento. 3.3.15 - Pensiero generalizzante: estensione delle deduzioni compiute in una certa situazione del campo cognitivo a situazioni analoghe, eventualmente di portata più estesa. Questa caratteristica cognitiva - che è quella utilizzata nella estensione dei risultati della ricerca scientifica e nella creazione di modelli teorici generali - è sottoposta ai rischi di 'sovra-generalizzazione' ossia di estensione indebita da una situazione all'altra, se esse sono diverse tra loro in aspetti essenziali. Le conclusioni dedotte da un esperimento sul travaso dei liquidi possono essere generalizzate se le condizioni (per esempio, la forma dei recipienti ed il tipo di liquido) sono analoghe o non tanto diverse da modificare le conclusioni stesse. 3.3.16 - Pensiero valutativo: implica il confronto del dato - esterno o interno - con uno standard o criterio che il soggetto stesso accetta come valido per la specifica situazione. Questa capacità consente, se adeguatamente sviluppata, di interpretare, apprezzare o criticare la realtà senza lasciarsi sommergere passivamente da essa, ed è pertanto di importanza fondamentale per la crescita globale della persona umana: in quanto tale potrebbe essere considerata una vera e propria funzione. 3.4 Funzione di problem-solving.

Certamente legate alle abilità di ragionamento astratto (cfr. § precedente) ma distinte quanto a finalizzazione e modalità di funzionamento cognitivo sono le abilità necessarie per la soluzione di problemi cognitivi o anche di tipo interpersonale. Le abilità necessarie per una ottimale procedura di problem-solving sono: 3.4.1 - Pensiero 'alternativo': produrre quante più possibili soluzioni diverse, prescindendo per il momento dalla qualità e vagliandone poi separatamente la plausibilità e la efficacia (strategia particolarmente utile per i problemi che implicano soluzioni 'aperte' e per i problemi di tipo interpersonale). Questo tipo di pensiero è messo in atto nelle procedure, individuali o di gruppo, di 'brain-storming'. E' una abilità che può essere ritenuta preliminare alla soluzione dei problemi (e non di tutti i problemi), e va integrata in ogni caso con le altre modalità di pensiero citate di seguito.

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3.4.2 - Pensiero 'strategico' o mezzo-fine ('means-end'): programmazione passo per passo delle strategie decisionali necessarie per raggiungere un certo obiettivo, valutando di volta in volta la discrepanza fra la situazione attuale e l'obiettivo e cercando i mezzi più utili a ridurre questa differenza. Questo comporta in genere la scomposizione dell'obiettivo principale in sotto-obiettivi, il che facilita l'approccio specie ai problemi molto complessi (es.: calcolare il volume di un tetraedro; risolvere il problema della conflittualità elevata in una famiglia o in una azienda). 3.4.3 - Pensiero 'sequenziale': prevedere le conseguenze di una certa decisione alternativa, ipotizzando e verificando di volta in volta l'efficacia della decisione ('Se... allora...quindi...'). La procedura di ipotesi-verifica può risultare utile se la gamma di alternative è già stata ridotta, altrimenti diventa poco praticabile per cui occorre scomporre il problema in modo da semplificare la verifica. In ogni caso, nel pensiero sequenziale occorre procedere ad una gerarchizzazione, su basi di inferenza logica, tra le possibili decisioni in modo da sottoporre a verifica per prime quelle che si trovano ai posti più elevati nella gerarchia, e che hanno maggiori probabilità di risultare efficaci. 3.4.4 - Pensiero 'analogico': confrontare la situazione-problema in esame, o una sotto-specificazione in cui il problema è stato scomposto, con una situazione problemica di cui si è già sperimentata una soluzione efficace. Occorre scegliere correttamente la situazione analoga (alcune analogie potrebbero non essere realmente tali), cercare le corrispondenze fra gli elementi delle due situazioni (processo definito di proiezione problemica), sviluppare la proiezione in modo da trovare la soluzione del problema attuale. I bambini di età pre-scolare sono già in grado di utilizzare il pensiero analogico per la soluzione di problemi, ma a condizione che l'analogia possa essere basata su molti elementi comuni. La capacità di cogliere spontaneamente le analogie tra situazioni-problema simili va stimolata adeguatamente durante il processo di istruzione/educazione, dato che essa costituisce una caratteristica essenziale dell'expertise nel risolvere un determinato tipo di problemi. Un esperto matematico è capace di risolvere più agevolmente del non-esperto dei problemi matematici nuovi anche perché si avvale delle analogie tra questi problemi - o loro parti separate - e problemi analoghi già risolti in precedenza. 3.4.5 - Pensiero 'causale': attribuire correttamente il rapporto causa-effetto (abilità già considerata in 3.3.11), distinguendo le conseguenze provocate dalle nostre decisioni da quelle casuali. Questa abilità di pensiero ha la sua fase critica nelle fasi pre-scolari dello sviluppo, più avanti nel tempo, e precisamente nelle fasi pre-adolescenziali, si colloca invece la fase critica per l'acquisizione della 'causalità sociale': capacità di riconoscere la causalità collettiva, oltre che personale, nel determinarsi di un evento. La corretta attribuzione della causalità è requisito essenziale per la soluzione dei problemi - sia cognitivi che interpersonali e sociali - che implicano la produzione di effetti. C. Area creativa. 3.5 Abilità componenti la funzione di produttività 'divergente'. La funzione creativa è stata ampiamente studiata sia nei suoi aspetti cognitivi che con riferimento alle applicazioni educative. Il pensiero creativo parte dalla esigenza di staccarsi da schemi mentali consolidati, ricercando vie nuove e 'diverse': divergenti, secondo la fortunata definizione di Guilford. La produzione cognitiva 'creativa' non è in alcun modo implicita nella situazione di avvio e rigorosamente conseguente ad essa, come avviene invece nella produzione convergente, in cui la soluzione del problema è deducibile dalle premesse secondo regole già codificate. Le specifiche abilità individuate dagli studi fattoriali sulla creatività, a partire da quelli classici di Guilford, sono: 3.5.1 - Fluidità ideativa o simbolica: abilità nella produzione 'divergente' di singole unità (parole, simboli), puntando sulla quantità del flusso ideazionale a partire da un determinato stimolo, e prescindendo dalla qualità delle produzioni. 3.5.2 - Flessibilità: capacità di produzione 'divergente' di categorie, passando con facilità da uno schema categoriale ad un altro, e facendo variare la impostazione del pensiero secondo le esigenze contingenti. Questa capacità si contrappone alla rigidità o cristallizzazione funzionale. 3.5.3 - Originalità: capacità di scoprire relazioni e di cogliere implicazioni nuove, statisticamente non frequenti. 3.6 Abilità componenti le funzioni di immaginazione e fantasia. Strettamente legata alla creatività, ma diversa quanto ai processi implicati, è la funzione di immaginazione ed elaborazione fantastica, che può poi tradursi in espressioni simboliche linguistiche o non verbali (v. § 3.8 e 3.9).

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Nel volume sulla struttura e funzioni della fantasia, Klinger ha distinto due diversi approcci teorici al fenomeno. Uno, denominato 'teoria della espressione sostitutiva', vede la fantasia come mezzo di esteriorizzazione di bisogni o pulsioni che non possono essere espressi direttamente nel comportamento; l'altro considera invece la fantasia come una forma di comportamento 'coperto', in parallelo al comportamento 'esplicito' ed in continuità con esso. Senza voler negare la possibilità che in determinate situazioni la fantasia possa assumere una funzione compensatoria di esigenze latenti non altrimenti realizza-bili, o possa agire da 'valvola di scarico' delle tensioni, preferiamo qui considerare la produzione fantastica come frutto di una abilità - non necessariamente sostitutiva - che il bambino acquisisce molto presto nel corso dello sviluppo e che si manifesta ad esempio nelle diverse forme di gioco simbolico messe in atto nella prima infanzia e persistenti fino alla tarda adolescenza. Da un punto di vista neuropsicologico, la produzione immaginativa è ritenuta legata alla attivazione prevalente dell'emisfero cerebrale destro, deputato soprattutto al pensiero di tipo 'analogico', parallelo, non-sequenziale, su basi visuo-spaziali, mentre l'emisfero sinistro è attivato prevalentemente per compiti di tipo analitico, seriale, logico, su base verbale. Questa diversità nel funzionamento cerebrale è ampiamente accettata nelle teorie neuropsicologiche, seppure dopo un ridimensionamento della dicotomizzazione eccessivamente netta che si era affermata negli anni '70, quasi si trattasse di 'due cervelli' distinti. Le principali capacità che compongono la funzione di immaginazione e fantasia sono: 3.6.1 - Produzione e registrazione di immagini mentali: si tratta di rappresentazioni visive, uditive, olfattive, cenestesiche, non direttamente provenienti dalla realtà esterna - anche se alla realtà fanno riferimento - che derivano da una produzione interna al soggetto e come tali vengono percepite da esso (se fossero percepite come provenienti dalla realtà effettiva, si parlerebbe di allucinazioni). La capacità di distinguere le immagini mentali dalle percezioni e rappresentazioni di oggetti ed eventi realmente esistenti come stimoli esterni costituisce l'esame di realtà ('reality testing'). Gli studi di Kosslyn hanno permesso di verificare che le immagini mentali variano in quantità e qualità a seconda del tipo di rappresentazione e della capacità del soggetto. Vedremo (§ 3.7.5) che i soggetti possono essere differenziati a seconda della loro prevalente propensione alla 'visualizzazione' o alla 'verbalizzazione' nella elaborazione e nella ritenzione degli stimoli. La codifica di tipo non-verbale, basata sull'immagine, risulta prevalente nei bambini ed è più facile anche per gli adulti ai fini della memorizzazione 3.6.2 - Visualizzazione di movimenti di oggetti nello spazio: questa attività congiunge abilità percettivo-spaziali alla capacità di prescindere da stimoli immediati, come appunto avviene nella immaginazione. 3.6.3 - Capacità di formulare concettualizzazioni astratte in modalità visive: diversamente dalla precedente che ricostruisce uno stimolo concreto, implica la integrazione, nella attività immaginativa, dei canali senso-percettivo e simbolico-astratto. A proposito di questa capacità, che è essenziale nel processo di produzione artistica, Arnheim ha parlato di 'pensiero visivo'. 3.6.4 - Capacità di immaginazione eidetica: ossia di visualizzare e di descrivere in modo anche molto dettagliato, immagini viste in precedenza ma non più presenti nel campo di stimolazione. D. Area ritentiva. 3.7 Abilità componenti le funzioni di apprendimento e memoria. I processi di apprendimento fanno sì che 'tracce' delle stimolazioni e delle esperienze cognitive, emozionali e comportamentali dell'individuo siano conservate nel suo patrimonio di acquisizioni, e restino disponibili per essere richiamate e riutilizzate in momenti successivi. Mediante l'apprendimento viene accresciuto il repertorio di competenze sia cognitive che strumentali, mediante la acquisizione di competenze nuove che abbiano le caratteristiche di integrazione (non essere cioè puramente giustapposte alle competenze pregresse, ma organicamente interconnesse), e di stabilità (essere cioè disponibili in modo persistente, e non soltanto temporaneo). Questa acquisizione può avvenire in modo spontaneo, mediante la immersione del soggetto in un campo di stimolazioni pre-esistente: si pensi all'apprendimento di una lingua straniera, prescindendo da particolari studi, mentre ci si trova per un certo periodo nel paese in cui quella lingua è parlata; oppure può avvenire in modo guidato, avvalendosi di specifiche e organiche stimolazioni (cosa che avviene nei processi formali di istruzione / educazione).

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Gagné ha distinto diversi tipi di apprendimento, secondo un modello definito 'gerarchico cumulativo' in quanto ciascun tipo è consentito da quello precedente nella gerarchia, e a sua volta pone le condizioni per quello seguente. La gerarchia di apprendimenti vede, nei successivi livelli: a. L'apprendimento di segnali (secondo lo schema del condizionamento classico); b. l'apprendimento di associazioni stimoli-risposta (modello del condizionamento operante o strumentale); c. l'apprendimento per concatenamento motorio (vengono apprese sequenze di connessioni stimolo-risposta); d. l'apprendimento per associazione verbale (il concatenamento riguarda risposte di tipo simbolico e semantico); e. l'apprendimento di discriminazioni (vengono apprese risposte diverse a stimoli diversificati secondo certi criteri); f. l'apprendimento di concetti (vengono apprese risposte uguali a stimoli classificati secondo certe categorie); g. l'apprendimento di regole (coordinamento e relazione tra concetti); h. l'apprendimento di soluzione di problemi (utilizzare regole già note per dedurre regole di ordine superiore). Una categoria ulteriore di apprendimento riguarda quella che viene definita 'metamemoria': ossia l'apprendimento della consapevolezza, da parte dello stesso soggetto, delle attività di memorizzazione e dei processi di apprendimento necessari per ottenerla: presupposto della abilità più generale che è l'apprendimento ad apprendere, cioè la capacità di utilizzare gli apprendimenti precedenti per facilitare quelli successivi. E' utile differenziare, all'interno dei processi di apprendimento, gli aspetti prevalentemente 'strumentali' (acquisizione di competenze anche senza il controllo del soggetto, come nelle molteplici forme di condizionamento; addestramento di abilità squisitamente tecniche senza la conoscenza dei principi su cui esse si basano) e aspetti che possono essere definiti 'formativi', in cui le conoscenze e le competenze nuove vengono armonicamente e funzionalmente integrate in un sistema di consapevolezza complessiva con cui la persona si pone in relazione con il mondo. Quale che sia la tassonomia di base degli apprendimenti, è indubbio che essi sono in ogni caso connessi alla conservazione di 'tracce' in quelli che vengono definiti, con termine derivato dalla informatica, 'magazzini' di memoria. Secondo le teorie dell'elaborazione dell'informazione, esistono diversi livelli di immagazzinamento degli stimoli: il registro sensoriale (dove gli stimoli si fermano solo per pochi secondi), che consente una memoria immediata; il magazzino 'a breve termine' (in cui le informazioni permangono per un periodo più lungo, ma sempre limitato ad uno span che in genere non va oltre le 6-7 unità); il magazzino 'a lungo termine', in cui le tracce memorizzate restano disponibili per tempi anche estremamente lunghi. Ognuno di questi 'magazzini' si avvale di basi neurofisiologiche diverse. Non poche informazioni vengono ritenute senza la volontà del soggetto (si parla in questi casi di apprendimenti incidentali); ma nella memorizzazione intenzionale - che è quella tipica degli apprendimenti scolastici - affinché le informazioni passino dai registri sensoriali, da cui facilmente possono essere cancellate, a magazzini più stabili e duraturi, è utile avvalersi di modalità e tecniche di codifica e

consolidamento della traccia mnestica, quali: 3.7.1.1 - La organizzazione del materiale da apprendere: fin dagli esperimenti di Ebbinghaus (1885) è stato dimostrato che il raggruppamento spazio-temporale o la strutturazione semantica (associazione tra stimoli, categorizzazione, imposizione di una struttura significativa da parte del soggetto che apprende) facilita la archiviazione e memorizzazione dei dati. Nei bambini i raggruppamenti organizzativi sono incerti e poco stabili, e la capacità di organizzazione del materiale da apprendere deve pertanto essere adeguatamente stimolata durante il processo di istruzione/educazione. 3.7.1.2 - La trascrizione dello stimolo: il dato da memorizzare viene trascritto in una codifica più facilmente accessibile e categorizzabile (come quando si usa un alfabeto di segnali per facilitare la comunicazione). 3.7.1.3 - La fusione fra la componente visiva della informazione da memorizzare e la componente uditiva. Baddeley parla di 'taccuino visuo-spaziale' e di 'loop articolatorio', che interagiscono attraverso il magazzino fonologico (in cui il materiale è conservato in base alle caratteristiche fonetiche) e il processo di reiterazione (v. 3.7.1.4). 3.7.1.4 - La reiterazione (o 'rehearsal'): gli stimoli da apprendere, o le loro codifiche, vengono periodicamente ripetuti, mentalmente o con verbalizzazioni esplicite, e questo 'ripasso' consente di mantenerli attivi e di evitarne il decadimento.

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3.7.1.5 - Il super-apprendimento ('overlearning'): la memorizzazione viene prolungata dal soggetto anche oltre il raggiungimento del livello ritenuto ottimale, e questo può rendere più stabile la fissazione del materiale. L'effetto del super-apprendimento è legato però al tipo di materiale ed al contesto in cui l'apprendimento avviene. Quanto invece ai canali mediatori dell'immagazzinamento e del richiamo degli stimoli, vengono distinte: 3.7.2.1 - Memoria semantica. Diversi teorici attribuiscono alla codifica verbale un ruolo preminente nella conservazione e nel richiamo della traccia mnestica: ciò che va immagazzinato deve essere tradotto in ter-mini semantici. 3.7.2.1 - Memoria iconica: è basata sugli aspetti figurali dello stimolo, la cui traccia è conservata anche a prescindere dal significato verbale (in alcuni casi difficile o addirittura impossibile da assegnare, come nel caso di figure senza contenuti simbolici). Secondo la teoria del doppio codice ('dual code') avanzata da Paivio esistono due registri mnestici specializzati l'uno per gli stimoli di natura verbale-semantica e l'altro per gli stimoli iconico-figurali, entrambi attivabili a secondo del bisogno. Altri autori sono arrivati a distinguere due tipi di soggetti a secondo della prevalenza di abilità nella elaborazione e ritenzione di stimoli a connotazione semantica ('verbalizzatori') oppure visuo-spaziale ('visualizzatori'). Non vi è dubbio comunque che entrambe le modalità di elaborazione e memorizzazione sono utili e devono essere acquisite e stabilizzate nel processo di sviluppo. Il richiamo della traccia mnestica può avvenire secondo diverse modalità: 3.7.3.1 - Rievocazione: consiste nel richiamare e descrivere liberamente, anche in assenza di stimoli-guida, aspetti specifici della esperienza passata. 3.7.3.2 - Riconoscimento: individuazione, tra un certo numero di stimoli, di quelli in precedenza fatti oggetto di apprendimento. Una volta appresa una certa sequenza di lettere, la memoria di riconoscimento permette di ritrovarla in un insieme di lettere variamente disposte. 3.7.3.3 - Ricostruzione: riproduzione in un momento successivo della struttura con cui degli stimoli erano stati presentati in precedenza. Non sempre la quantità di materiale memorizzato corrisponde alla quantità di quello accessibile al richiamo o recupero da parte del soggetto. Ai fini di rendere maggiori le possibilità di richiamo possono essere utili le seguenti abilità: 3.7.3.4 - Resistenza alla interferenza da parte di apprendimenti precedenti: avere appreso una certa lista di parole può inibire l'apprendimento di un'altra lista, e occorre uno sforzo particolare del soggetto per superare questa interferenza negativa. 3.7.3.5 - Utilizzazione della facilitazione indotta da apprendimenti precedenti, fenomeno che nella psicologia sperimentale viene definito transfer positivo di apprendimento: l'apprendimento delle regole di un gioco facilitano l'acquisizione delle regole di un gioco simile. 3.7.3.6 - Utilizzazione di appropriati indizi (cues) di recupero: stimoli particolari che 'suggeriscono', e rendono quindi più agevole, il richiamo di altri stimoli. Il tradizionale nodo al fazzoletto viene usato come cue per ricordarsi qualcosa da fare. Usare una certa parola come cue di richiamo può suggerire il ricordo del contenuto di un certo paragrafo studiato; la stessa tecnica che viene usata dal 'suggeritore' in teatro quando fornisce all'attore l'avvio di una certa battuta. I bambini fino a 6-7 anni hanno particolari difficoltà nel ri-chiamo mnestico ('deficit di recupero', secondo la definizione di Flavell), per cui addestrarli opportunamente all'uso dei cues può essere utile a rinforzare le capacità di ricordo indispensabili per le prestazioni scolastiche. Le abilità ritentive - di acquisizione e memorizzazione - riepilogate in questo paragrafo sono tutte di estrema utilità, e vanno quindi adeguatamente stimolate nelle diverse fasi di sviluppo, sia per l’adattamento globale della persona al contesto che in particolare per realizzare nel modo più proficuo gli apprendimenti scolastici. E. Area espressiva simbolica. 3.8 Abilità componenti la funzione di comunicazione linguistica. Il linguaggio verbale è una delle funzioni tipiche della specie umana.

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Esso serve anzitutto a regolare il pensiero e a permetterne un ordinato svolgimento: funzione su cui hanno insistito gli psicologi della scuola russa, come Vygotskij e Lurija, o i teorici del determinismo linguistico, come Whorf, secondo i quali la struttura linguistica determina il modo di pensare. Secondo Bruner invece il linguaggio è un sistema rappresentativo in cui si oggettiva il pensiero, grazie al quale il comportamento si rende indipendente dalla stimolazione immediata. L'uso del linguaggio di cui ci occupiamo in questa sede è quello di comunicazione - mediante il canale verbale - di idee, sentimenti, emozioni, seguendo le regole e i codici condivisi che costituiscono la struttura di una certa lingua. Fondamenti della comunicazione linguistica sono le capacità legate agli aspetti 'tecnici' della produzione del linguaggio, che vengono progressivamente apprese durante le prime fasi dello sviluppo. 3.8.1 - Competenze fonatorie: adeguato uso del respiro, emissione corretta dei suoni che compongono lettere e parole. 3.8.2 - Competenze articolatorie: capacità di combinare i suoni e di produrre unità linguistiche superando i difetti tipici del linguaggio della primissima infanzia, quali ripetizioni di sillabe, ecolalie, pronuncia incompleta o alterata, balbettamenti. Le abilità che permettono l'uso di un linguaggio condiviso in un certo contesto culturale (sia esso la propria 'lingua madre' o una lingua straniera acquisita in un secondo momento) sono: 3.8.3 - Competenze grammaticali morfologiche: capacità di corretta applicazione delle regole per costruire correttamente la forma delle parole nel contesto della frase (uso dei tempi, della persona, del singolare-plurale, del caso, ecc.). 3.8.4 - Competenze sintattiche: conoscenza e corretta applicazione delle regole di collegamento tra le parole in una frase, e tra più frasi in un periodo (uso delle preposizioni, negazioni, comparazioni, dei pronomi, dei verbi attivi/passivi, ordine delle parole, punteggiatura). Sia per le competenze grammaticali che per quelle sintattiche va distinta la comprensione dei patterns corretti dalla produzione di essi (in genere la prima precede la seconda da un punto di vista evolutivo). 3.8.5 - Competenze semantiche: conoscenza e uso adeguato del significato delle parole, valutabile tramite l'ampiezza del 'vocabolario' che il soggetto possiede. Un problema peculiare di certi contesti socio-culturali è la armonizzazione, non sempre corretta, tra competenze semantiche in lingua e nel dialetto specifico del luogo. 3.8.6 - Fluidità verbale: rapidità e correttezza con cui un soggetto è capace di organizzare i vocaboli conosciuti, e di produrre unità linguistiche significative. E' una abilità correlata con la fluidità che abbiamo visto caratterizzare la funzione creativa. 3.8.7 - Competenze pragmatiche: capacità di utilizzare il linguaggio verbale per sollecitare, stimolare, influenzare il comportamento di altri soggetti. Esempio tipico di questa abilità è l'uso del linguaggio per persuadere altri sulla bontà delle proprie idee e/o convicerli a fare qualcosa. Gli aspetti pragmatici del linguaggio (verbale e non verbale, v. § seguente) sono stati sottolineati dalla scuola di psicologi di Palo Alto (Watzlawick e coll.); su essi è fondata gran parte della funzione linguistica come comunicazione.

3.9 Abilità componenti la funzione di comunicazione non verbale. Il comportamento non verbale assume funzioni essenziali all'interno del processo di comunicazione: può confermare e rinforzare il messaggio verbale (annuire con un cenno del capo mentre si dice di sì), può sostituirlo (rispondere con un sorriso anziché con parole), può completarlo o chiarirlo, ma anche contraddirlo (assumere una espressione sarcastica mentre si fa un complimento). Esso può pertanto essere fonte di ambiguità ed anche di mistificazione. In ogni caso la comunicazione non verbale ha una funzione essenziale nella strutturazione e nel controllo della interazione sociale. Diverse specifiche abilità sono necessarie per acquisirne un sufficiente controllo. 3.9.1 - Uso dello sguardo e contatto oculare: capacità di regolare la interazione con un interlocutore attraverso la direzione dello sguardo, per dare e ricevere feedbacks. Una particolare capacità nell'uso dello sguardo consiste nel guardare negli occhi l'interlocutore, durante una interazione, per una percentuale di tempo né eccessiva (suscitando imbarazzo nell'altra persona) né eccessivamente ristretta (segno di scarso coinvolgimento o di inibizione). Ricerche sperimentali hanno fissato intorno al 70-80%, sul totale dell'interazione, la proporzione di tempo ottimale in cui lo sguardo incontra quello dell'interlocutore. 3.9.2 - Espressione mimica: abilità a comunicare sentimenti ed emozioni tramite i movimenti dei muscoli facciali. L'espressione del volto può servire a mascherare una emozione, o a de-intensificarla, o al contrario ad accrescerne la manifestazione. Le modalità e le capacità di manifestazione delle emozioni tramite la mimica facciale variano non solo da soggetto a soggetto, ma anche da cultura a cultura.

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3.9.3 - Gestualità: abilità a coordinare i movimenti delle mani e delle braccia durante l'espressione. Ekman e Friesen (1969) hanno distinto diversi tipi di gesti, che servono da un lato a 'punteggiare' la comunicazione verbale, dall'altro ad aggiungere specifiche connotazioni emotive. 3.9.4 - Postura: capacità di usare adeguatamente la posizione del corpo rispetto alle persone con cui si interagisce ed alle situazioni in cui ci si trova. Ad esempio, portamento eretto e mani sui fianchi esprimono atteggiamento posturale di dominanza, mentre stare seduti in posizione semi-distesa e con le gambe accavallate è indicatore di rilassamento e non è adatto a situazioni socialmente impegnative (come partecipare ad una importante conferenza). 3.9.5 - Comportamenti spaziali e di 'distanza interpersonale' (prossemica): capacità di assumere una adeguata collocazione spaziale relativamente alle diverse 'zone' di interazione umana: intima, personale, sociale (piccolo gruppo) e pubblica. Occorre che il bambino acquisisca la capacità di collocarsi nelle diverse situazioni con sicurezza e senza disagi, ma anche senza 'invadere' eccessivamente lo spazio degli altri con cui si interagisce. Ad esempio, nelle situazioni interpersonali è importante mantenere una distanza adeguata, senza avvicinarsi troppo se la situazione non consente eccessiva intimità, ma senza indicare con un distanziamento esagerato il distacco emotivo e/o lo scarso coinvolgimento nella interazione. 3.9.6 - Paralinguismi: abilità ad usare appropriatamente gli aspetti correlati al linguaggio verbale, quali tipo e qualità della voce, ritmo e fluidità dell'eloquio, caratterizzatori vocali (sospiro, pianto, riso, sbadiglio, ecc.). In termini generali, occorre evitare che la comunicazione non verbale contraddica quella verbale creando conflitti nella codifica di ciò che si vuole trasmettere all'altro: molti dei problemi di comunicazione interpersonale, con conseguenti 'incomprensioni' e conflitti dipendono proprio dalla non corrispondenza - in alcuni casi dalla aperta contraddizione - tra canali verbali e non verbali. Così un genitore, o un insegnante, che comunica a parole al bambino una grande disponibilità e contraddice questo messaggio con una postura e una mimica che esprimono invece disinteresse e scarso coinvolgimento - se non addirittura rifiuto emotivo - crea un conflitto di interpretazione della propria comunicazione che può pregiudicare irreparabilmente il rapporto. Considerando nel complesso le abilità di espressione linguistica verbali e non verbali a scopo di comunicazione, capacità essenziali da acquisire nel corso dello sviluppo sono l'emissione di messaggi non ambigui ma adeguati al fine della comunicazione, nonché la corretta decodifica dei messaggi degli altri: si tratta di pre-requisiti indispensabili per il comportamento relazionale e sociale (§ 3.15). F. Area espressiva pratica. 3.10 Abilità componenti la funzione di espressione pittorico-plastica.

Il linguaggio non è la sola forma di espressione, dato che quest’ultima può assumere forme molteplici e multifunzionali. La produzione pittorica, è, fra le forme di espressione simbolica, la più precoce ad affermarsi nella infanzia mediante il disegno: esso si evolve dai primi scarabocchi che costituiscono fondamentalmente un esercizio motorio non finalizzato alla rappresentazione simbolica, alla raffigurazione di elementi della realtà puramente imitativa o reinterpretata secondo un 'modello interno', fino alla rappresentazione di una realtà simbolico-astratta creata dal soggetto. La tassonomia delle capacità indispensabili per l'affermarsi della produzione pittorica riprende e integra in gran parte quelle considerate nelle funzioni recettive, creative e motorie. 3.10.1 - Organizzazione delle forme e delle dimensioni: le abilità percettive e spaziali (recettive) e quelle grafo-motorie di riproduzione delle forme vengono qui tradotte in azione espressiva di tipo plastico-pittorico, per esempio nella strutturazione degli elementi rappresentati nel disegno. 3.10.2 - Organizzazione dei colori: la scelta e la armonizzazione dei diversi colori è aspetto essenziale della espressione simbolica e della produzione creativa. Il soggetto può riprodurre esattamente i colori della realtà oppure reinterpretarli secondo la sua partecipazione fantastica. 3.10.3 - Organizzazione della prospettiva: capacità acquisita dal bambino durante lo sviluppo cognitivo, che gli consente la collocazione su piani diversi di figure ed oggetti raffigurati nella sua espressione pittorica. 3.10.4 - Capacità di reperire strumenti e materiali idonei a perseguire l'espressione pittorica o plastica: si tratta di una abilità 'tecnica' senza la quale nessuna espressione artistica sarebbe possibile. 3.10.5 - Comprensione del legame tra volontà espressiva, tecnica usata e risultato conseguito: capacità che viene acquisita sia mediante la espressione personale che la lettura critica di opere d'arte, ed è pertanto essenziale oggetto della educazione artistica.

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3.11 Abilità componenti la funzione di espressione musicale.

L’espressione musicale - solo di recente rivalutata nella programmazione educativa - richiede abilità che sono il presupposto non solo per la produzione ma per la comprensione del messaggio espresso attraverso significati attribuiti ai suoni. 3.11.1 - Riconoscimento di toni e intensità dei suoni: capacità di discriminare, a partire dalla percezione uditiva analitica, tra suoni alti-bassi, forti-deboli, ecc. 3.11.2 - Riconoscimento dei timbri: differenziazione delle qualità diverse del suono emesso da diversi strumenti o da particolari registri vocali. 3.11.3 - Riconoscimento dei motivi: consonanze/dissonanze, melodie, messaggi musicali vengono recepiti e discriminati correttamente. 3.11.4 - Consapevolezza e uso del ritmo: capacità di adeguarsi ad un ritmo musicale, o di riprodurlo correttamente. 3.11.5 - Capacità di collegare i mezzi per la produzione del suono (voce, strumento musicale) e l'obiettivo: consonanza, melodia, messaggio musicale. Come si è detto per l'espressione pittorica (§ 3.10.4) si tratta di una capacità 'tecnica' che è il presupposto per saper suonare uno strumento, ma anche per comprendere e apprezzare meglio il messaggio musicale. 3.12 Abilità componenti la funzione di espressione corporea. 3.12.1 - Acquisizione dello schema corporeo: Fondamento della espressione corporea è la capacità di mettere correttamente in relazione il vissuto del proprio corpo con la idea generale del corpo umano, che viene acquisita fin dai primi anni. Il bambino si mette in contatto con il mondo esterno - e dunque è in grado di esprimere se stesso come corporeità immersa nel mondo - a partire da questo vissuto elementare che viene via via arricchito dei continui feedbacks che il mondo esterno gli rimanda. Lo schema corporeo, cioé l'organizzazione delle percezioni e dei vissuti relativi al fisico, si evolve parallelamente alla maturazione neurologica e muscolare ed alle esperienze che hanno nel corpo il centro essenziale; la tappa conclusiva di questa evoluzione implica la capacità di rappresentare mentalmente il movimento del corpo nello spazio, che può essere anche riprodotto con linguaggi formalizzati come la verbalizzazione o il disegno (Wallon, 1947). 3.12.2 - Presentazione di sé attraverso il corpo: capacità di trasmettere informazioni mediante aspetti esteriori del proprio fisico: cura della pelle, acconciatura dei capelli, trucco del viso, abbigliamento, uso di profumo, ecc. Attraverso questa capacità di 'auto-presentazione' il soggetto fornisce agli altri una precisa immagine di sé, che dovrebbe essere non artificiosa ma rispondente alla effettiva realtà della propria personalità. 3.12.3 - Uso del corpo per stabilire rapporti interpersonali gratificanti: si pensi alla calda intimità nel rapporto tra la madre e il neonato che si realizza attraverso il contatto corporeo, il dare e ricevere carezze, ecc. e che è il fondamento per un adeguato sviluppo affettivo del bambino. Una adeguata e serena espressione corporea è essenziale per la completezza della comunicazione interpersonale e per il benessere psicofisico della persona. 3.13 Abilità componenti le funzioni motorie. Collegata alla espressione corporea come espressione simbolica, la motricità è la essenziale funzione che consente all'individuo di esprimersi proiettando attivamente il proprio corpo nello spazio circostante. Diversi autori - tra gli altri, notissimi sono i lavori di Wallon, Vayer, Le Boulch - hanno studiato accuratamente le tappe dello sviluppo motorio, mettendo in evidenza le diverse abilità necessarie per un armonioso procedere di questo sviluppo. 3.13.1 - Motricità oculare: insieme con i movimenti di suzione, è la prima abilità motoria a organizzarsi, già nel lattante. Nei primi tre mesi di vita il bambino acquisisce la capacità di controllare i piccoli muscoli che muovono l'occhio, e questa abilità si affina progressivamente fino a diventare essenziale per abilità complesse come la lettura. 3.13.2 - Equilibrio statico: reggersi diritti, mantenere l'equilibrio con o senza appoggi sono abilità che il bambino acquisisce, ancora instabilmente, intorno alla fine del primo anno e che tendono a stabilizzarsi nel corso del secondo anno. 3.13.3 - Equilibrio dinamico: il bambino è capace di muoversi con sicurezza senza cadere, di spostarsi con rapidità nello spazio. Già nel secondo anno cammina, corre; durante il terzo anno, perfeziona la deambulazione, anche sulle punte dei piedi, salta, sale e scende le scale. 3.13.4 - Rapidità e coordinazione manuale: a partire dalla elementare capacità di prensione, che è presente già nei primissimi periodi dello sviluppo, si passa alla abilità di uso coordinato delle due mani (avvolgere un filo in un rocchetto, formare una collana di graffette, ecc.)

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3.13.5 - Motricità fine, stile motorio: modo in cui viene programmato ed attuato il movimento fine, ad esempio, quello relativo a manipolare e costruire, ritagliare con cura, collocare con precisione dei puntini in un foglio quadrettato. Come ricordava Zazzo, occorre che lo stile motorio non sia rigido ed eccessivamente controllato, né al contrario frettoloso, impulsivo, instabile. 3.13.6 - Articolazione e coordinamento dei muscoli adeguati per il movimento da compiere: capacità di attivare nel movimento tutti e solo i muscoli impegnati nel movimento richiesto. Il gesto motorio può essere ripetuto e automatizzato senza perdita di precisione. Si tratta di una abilità molto delicata che va sviluppata adeguatamente con l'educazione motoria; essa è fondamentale per la corretta esecuzione di attività sportive. 3.13.7 - Coordinazione di rapidità e precisione nel movimento. I movimenti possono essere corretti ma lenti e impacciati, oppure veloci ma goffi e scoordinati; la capacità di coordinazione evita questi inconvenienti e rende il movimento fluido, preciso, finalizzato. 3.13.8 - Ritmo motorio: capacità di organizzare armonicamente il movimento in sequenze temporali oltre che spaziali. L'importanza di questa acquisizione - che parte dal controllo del ritmo della respirazione - è evidente se finalizzata alla attività sportiva o alla danza, ma è estensibile alla riabilitazione dei soggetti con disabilità psico-motorie. 3.13.9 - Forza nel movimento: dipende dalla energia complessiva del soggetto e dalla capacità di indirizzarla nel fascio muscolare adatto al movimento da compiere. 3.13.10 - Resistenza nello sforzo motorio: al pari della precedente, è una abilità che si acquisisce tramite appositi addestramenti ed è indispensabile per lo svolgimento di attività sportive. Un pre-requisito generale della attività motoria è la corretta lateralizzazione, ossia l'uso prevalente - senza eccessivi conflitti o incertezze - di uno dei due lati del corpo (occhio, braccio e mano, gamba e piede) per attivare il movimento, in corrispondenza alla dominanza emisferica cerebrale. E' noto che danni, anche gravi, alla adeguata strutturazione della attività motoria nonché interferenze sulla organizzazione psicologica complessiva possono essere arrecati da una lateralizzazione forzata (mancinismo contrastato) nelle prime fasi dello sviluppo.

3.14 Abilità componenti la funzione ludica. Il gioco infantile è stato definito da Piaget come una attività con una forte componente immaginativa di tipo fantastico e al tempo stesso un più o meno accentuato distacco dalla realtà oggettiva. In una primissima fase, fino ai due anni circa, esso è fine a se stesso, cioè serve al perfezionamento delle capacità motorie (gioco funzionale); quindi subentra una fase di gioco simbolico, in cui prevale la componente immaginativa (nel gioco un oggetto o un azione 'sta per...', ossia simbolizza qualcos'altro); infine si sviluppa il gioco con regole, in cui i partecipanti stessi concordano delle norme di funzionamento il cui mancato rispetto comporta sanzioni e penalizzazioni. Mentre i primi due tipi di gioco possono essere condotti anche da soli, il gioco con regole di solito implica la cooperazione fra diversi soggetti, siano essi bambini che concordano le regole di un semplice girotondo, oppure adolescenti o adulti che giocano un torneo di sport agonistico. Da quanto detto, si deduce che la attività ludica comporta la esistenza e la messa in atto di diverse tra le abilità che fanno parte di altre funzioni, quali: 3.14.1 - Abilità motorie (§ 3.13); 3.14.2 - Capacità di immaginazione ed elaborazione fantastica (§ 3.6) e di simbolizzazione; 3.14.3 - Capacità di cooperazione (che prenderemo in esame nel § 3.15.9)

3.15 Abilità componenti le funzioni relazionali e sociali. Un adeguato comportamento relazionale e socializzante viene acquisito nel corso dello sviluppo al pari dei comportamenti cognitivi (e in stretta relazione con essi). Anche il comportamento sociale richiede lo stabilizzarsi di capacità e pre-requisiti della massima importanza per l'adattamento sociale del soggetto. 3.15.1 - Capacità di confrontare la percezione di sé con l'ideale di sé: condizione essenziale per la vita relazionale e sociale, in quanto nel caso in cui sé reale e sé ideale sono ritenuti sufficientemente congruenti determina la auto-stima e fiducia in sé indispensabili per un positivo relazionarsi con l'ambiente; comporta altresì la capacità di auto-critica per quegli aspetti in cui la percezione è di discrepanza. E' importante che il bambino impari ad usare la auto-stima come mezzo per ottenere sicurezza per svolgere specifiche attività (senso di ‘auto-efficacia’ secondo la definizione di Bandura), senza tramutarla in esagerato narcisismo (investimento sul sé senza tener conto degli altri). Parimenti è utile che apprenda a servirsi della auto-critica come strumento di miglioramento e crescita personale, senza farla sfociare in atteggiamento depressivo. 3.15.2 - Capacità di accettare critiche: è legata alla sicurezza derivante da una sufficiente fiducia in sé, che non scade però in sicumera e accetta dagli altri feedbacks di critica.

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3.15.3 - Capacità di prendere decisioni: anche questa abilità è legata ad alla sicurezza derivante da sufficiente fiducia in sé, che consente di tollerare il rischio di eventuali errori o possibili conseguenze negative della decisione presa. Il processo decisionale è legato alle capacità di problem-solving (§ 3.4), che permettono di scegliere e mettere in atto la soluzione ritenuta più efficace in relazione alla situazione. 3.15.4 - Capacità di affermare le proprie esigenze, idee e principi, ottenendo nelle relazioni interpersonali e sociali effetti desiderabili ed evitando gli effetti indesiderabili. Questa capacità viene definita - traducendo letteralmente il termine inglese 'assertiveness' - assertività). 3.15.5 - Capacità di dare e accettare richieste e istruzioni: specifiche abilità sociali che consentono l'applicazione, nella relazione interpersonale, della comunicazione pragmatica (§ 3.8.7). 3.15.6 - Capacità di emettere, in maniera adeguata, feedbacks sia positivi (complimenti, lodi) sia negativi (critiche, rimproveri) ai comportamenti degli altri. 3.15.7 - Capacità di decentramento: percepire correttamente il punto di vista dell'altro, il suo modo di pensare, i suoi sentimenti, assumendo una prospettiva diversa da quella propria, e superando dunque l'egocentrismo cognitivo e sociale. 3.15.8 - Capacità di ascoltare: evitare pregiudizi e preclusioni circa il messaggio che si decodifica, discriminare gli elementi essenziali da quelli secondari del messaggio, individuare i nessi tra le idee che l'interlocutore intende comunicare, distinguere tra componenti razionali e componenti emotive del messaggio. 3.15.9 - Capacità di riconoscere e discriminare correttamente le emozioni, in se stessi e negli altri (Izard, 1971). E' la condizione essenziale perché le emozioni e i sentimenti possano essere espressi (e resi 'trasparenti' agli altri) e percepiti (negli altri), determinando la condizione di sincera apertura e partecipazione interpersonale che viene definita empatia. 3.15.10 - Capacità, e disponibilità, alla apertura del sé ('self-disclosure'): rivelare ad altre persone - di cui si ha fiducia - informazioni sulle proprie esperienze ed i propri stati d'animo, sia positivi che negativi. Occorre che questa apertura confidenziale o 'trasparenza' del sé non sia indiscriminata, e avvenga con le persone e nei momenti adatti in modo da evitare feedbacks negativi. 3.15.11 - Capacità di conversazione: nello scambio di comunicazioni con un interlocutore, occorre saper essere chiari, sinceri, pertinenti all'argomento, sufficientemente informativi. Altre abilità importanti consistono nel saper iniziare una conversazione anche con persone sconosciute, saperla continuare trovando gli opportuni argomenti di interesse comune (evitando di parlare solo di ciò che ci interessa), saper rispettare i 'turni' nella conversazione, evitando monopolizzazioni. 3.15.12 - Capacità di cooperazione: comportamento pro-sociale finalizzato al raggiungimento di uno scopo che è condiviso da altre persone, e che quindi comporta il conseguimento di un benessere che è insieme proprio e di altri. Il beneficio della cooperazione può essere di tipo strumentale (eseguire bene un compito o un gioco, realizzare un certo prodotto), oppure di tipo relazionale ('stare bene insieme'). Una forma parti-colare di cooperazione è il comportamento di aiuto, in cui lo scopo è specifico della persona che viene aiutata e non necessariamente è condiviso dalla persona che aiuta, la quale offre soltanto dei costi personali (tempo, energie, ecc.). Un comportamento che comporta un sacrificio personale da parte della persona che offre l'aiuto, senza l'anticipazione calcolata di alcun beneficio, viene definito altruismo. 3.15.13 - Capacità di autonomia: saper contare sulle proprie risorse nella gestione dei problemi cognitivi e interpersonali, utilizzare proficuamente il sostegno degli altri (adulti, coetanei) ma senza eccessiva dipendenza da essi. La persona che nel corso dello sviluppo acquisice in modo adeguato le abilità sociali (social skills) fin qui citate diviene 'socialmente competente': è in grado cioè di perseguire i propri obiettivi utilizzando mezzi che non infliggono sofferenza agli altri, non elicitano rivalse o rifiuti, e non comportano livelli disturbanti di conflittualità. Queste abilità vanno pertanto valutate nel modo più accurato possibile durante l’età prescolare e scolare, in modo da mettere in atto, se necessario, specifici training che incrementino le capacità di adattamento sociale. 3.16 Abilità componenti la funzione di produttività lavorativa. La espressione di sé nella produzione lavorativa comporta l'acquisizione di alcune capacità specifiche: 3.16.1 - Programmazione del lavoro: capacità di pianificare le diverse fasi successive del lavoro da svolgere, avendo presente il fine ed essendo capace di anticiparlo mentalmente (specie se si tratta di produzione di oggetti). Se il lavoro deve essere svolto in cooperazione con altri, prevedere i ruoli e le mansioni di ognuno in relazione al fine da raggiungere.

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3.16.2 - Organizzazione del lavoro: capacità di gestire in modo autonomo le diverse fasi programmate (lavorare con metodo), o di eseguire correttamente quanto previsto nella propria mansione, oppure - se richiesto dalle circostanze - di cooperare con altri nella esecuzione del lavoro. 3.16.3 - Perseverazione nel lavoro: capacità di portare a termine il lavoro iniziato, accettando la fatica e senza essere distolti da essa o da eventuali insuccessi. 3.16.4 - Finalizzazione del lavoro: capacità di percepire gli scopi cui il proprio lavoro mira, e della utilità che il prodotto del lavoro (intellettuale, materiale, servizi, ecc.) può avere nei confronti della comunità sociale. La finalizzazione del lavoro è tanto più importante se il lavoro è parcellizzato, e il soggetto svolge una mansione che è solo una parte del lavoro complessivo. 3.16.5 - Coinvolgimento nel lavoro ('Work Involvement'): capacità di investire psicologicamente nel lavoro, identificandosi con esso e ritenendolo importante nel determinare la propria immagine del Sé e la propria identità. Questa capacità costituisce un antidoto per il rischio di alienazione nel lavoro, sottolineato da diversi sociologi; essa deve però essere contenuta entro limiti adeguati, in quanto un eccessivo coinvolgimento e il far dipendere totalmente dal lavoro la definizione della propria identità può condurre a ripercussioni negative sull'equilibrio complessivo della persona. 3.16.6 - Soddisfazione nel lavoro: capacità di trovare piacere nello svolgimento del lavoro e/o nel vedere il prodotto del lavoro stesso. Importante è a tal fine il contesto (ambito fisico, relazioni interpersonali) in cui il lavoro è svolto, che spesso contribuisce in modo determinante a connotarne positivamente l'esperienza. La 'professionalità lavorativa', che caratterizza la persona positivamente e soddisfacentemente inserita nel lavoro, deriva dalle capacità elencate ma anche dalla integrazione di esse con particolari aspetti caratterologici: una positiva percezione di sé e delle proprie capacità; la capacità di accettare i rischi e le incertezze insiti nelle fasi iniziali della attività lavorativa; l'interesse verso il lavoro che si svolge (fattore molto importante già nella scelta professionale); la disponibilità ad investire nel lavoro il proprio potenziale intellettivo e creativo; le capacità di comunicazione e - se richiesto - di lavoro in gruppo. Le abilità relative alla produttività lavorativa hanno il loro momento critico nella fase pre- o post-adolescenziale, in coincidenza con l'uscita del giovane dalla scuola e con l'inserimento (o i tentativi di inserimento, purtroppo spesso frustrati) nel mondo del lavoro. Ma già in fasi evolutive precedenti i ragazzi possono sviluppare abilità relative al lavoro, intendendo come tale lo studio: programmazione, organizzazione, perseverazione, finalizzazione, coinvolgimento, soddisfazione nello studio sono i prodromi di capacità che, se adeguatamente sviluppate, possono poi essere trasferite nel lavoro. Una ulteriore considerazione riguarda l'immissione precoce di molti ragazzi nel mondo del lavoro, in contemporanea o in alternativa alla scuola dell'obbligo: i fenomeni del lavoro 'nero' minorile e dell'evasione scolastica sono purtroppo diffusi in certi contesti sociali deprivati. L'immissione al lavoro senza che le relative abilità sopra delineate siano adeguatamente sviluppate comporta un lavoro in cui il soggetto non è positivamente coinvolto, di cui non è percepito il fine, che non è soddisfacente e che non potrà mai essere vissuto nella sua dimensione di valore fondante della persona umana. 3.17 Nota conclusiva: integrazione tra abilità cognitive e psicomotorie, aspetti emozionali e motivazione

nella unità della persona.

Aver presentato separatamente le molteplici abilità che compongono ognuna delle funzioni cognitive può dare l'idea, evidentemente errata, di una eccessiva frammentazione del funzionamento della mente umana. Questo funzionamento è invece assolutamente unitario ed 'olistico', per quanto estremamente complesso. Scindere questa complessità, come avviene peraltro in tutte le tassonomie, ha soltanto fini espositivi e pratici: proporre agli insegnanti e agli educatori le molteplici sfaccettature ed i numerosi fattori di cui occorre tenere conto nel processo di istruzione / educazione. Nel paragrafo seguente verrà presentato un esempio di integrazione delle abilità in un processo - quello di lettura - tra i più importanti dell'apprendimento nella scuola primaria. Inoltre, la complessità del funzionamento mentale non può prescindere da variabili emozionali, affettive e motivazionali che interagiscono continuamente con quelle cognitive secondo un principio che Bandura ha definito del 'determinismo reciproco': ciascun aspetto (cognizioni, emozioni, motivazioni) può essere, di volta in volta, causa o effetto nei confronti dell'altro. Secondo questo principio di causalità reciproca, gli aspetti cognitivi (conoscenze: percezioni, pensieri, memorie; e valutazioni di significati: atteggiamenti, opinioni, valori) influenzano le emozioni (negative: rabbia, invidia, paura, ansia, vergogna, colpa, tristezza, e positive: gioia, gratitudine, amore) e ne sono a loro volta influenzati. Ad esempio, nell'ansia legata ad una prestazione (come l'ansia che un soggetto prova al momento di essere sottoposto ad un esame), gli aspetti cognitivi sono costituiti dalle preoccupazioni ('worries') legate

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alla scarsa auto-stima, alla percezione di non essere sufficientemente preparati, alla valutazione della importanza dell'esame e delle risonanze che esso potrà avere sui rapporti con i compagni e con la famiglia, ecc. Queste preoccupazioni accrescono il livello di ansia dell'esaminando, mentre la attivazione emozionale (sudore, tremore, agitazione interna, ecc.) a sua volta influenza negativamente il funzionamento cognitivo, abbassando il rendimento percettivo e mnestico e innescando così un circolo di interferenze che rende sempre più pesante il 'blocco' emozionale del soggetto. Sia le cognizioni che le emozioni influenzano le motivazioni del soggetto: interessi, intenzioni, anticipazioni di scopi e programmazione di strategie, che costituiscono la premessa e la 'spinta' (drive) all'azione. Anche il rapporto tra motivazioni e cognizioni è biunivoco: da un lato gli apprendimenti cognitivi sono stimolati dalle motivazioni (si può parlare a questo riguardo di 'cognizioni motivate'), dall'altro le cono-scenze progettano e chiarificano le motivazioni. La motivazione a viaggiare induce ad approfondire le conoscenze delle lingue straniere; reciprocamente, le conoscenze circa le caratteristiche di una certa professione motivano il giovane ad intraprendere il corso di studi che conduce alla professione favorita. Parallelamente, emozioni e motivazioni sono pure legate in modo biunivoco: il prevalere di una emozione negativa come la paura del buio motiva il bambino a mettere in atto strategie di evitamento della situazione temuta; reciprocamente, la frustrazione di un bisogno al cui appagamento si è molto motivati induce stati emozionali di rabbia. Le cognizioni, le emozioni (e i loro derivati 'stabili', meglio definiti affetti), le motivazioni e i comportamenti funzionano sempre come un tutt'uno integrato. Nulla accade che implichi uno degli aspetti isolatamente; ed il funzionamento dei quattro aspetti, che solo artificiosamente possono essere separati nell'unità della persona umana, avviene sempre in un rapporto di interazione, coinvolgendo cioé altre persone che si scambiano reciproci feedbacks in un ben definito contesto culturale e sociale. 4. Un esempio di integrazione fra molteplici abilità di base: l'apprendimento della lettura. Leggere implica un complesso processo di decodificazione dei segni linguistici scritti in una certa lingua e di comprensione del significato di ciò che l'autore del testo ha voluto in esso comunicare. Le capacità richieste ad un buon lettore sono, come è noto, almeno quattro: leggere rapidamente, senza errori, con comprensione del significato e ritenendo almeno la struttura essenziale di ciò che si legge. Queste capacità richiedono la integrazione di diverse abilità di base, che devono essere presenti e utilizzabili contemporaneamente nel repertorio del soggetto: abilità attentive (focalizzazione, mantenimento, cambiamento); visuo-percettive (analitiche e globali, percezione spaziale, figura-sfondo, costanza percettiva), coordinamento visivo-motorio, integrazione uditivo-visiva, attivazione semantica, competenze grammaticali-sintattiche, memoria visiva e semantica. E' discutibile se queste abilità possano essere considerate, come alcuni autori ritengono, dei 'pre-requisiti' nel senso che il bambino deve possederle stabilmente prima di imparare a leggere: si può pensare piuttosto che alcune di esse vengano acquisite parallelamente all'apprendimento della lettura. E' però indubbio che un certo livello minimo di queste abilità debba essere presente già all'inizio dell'apprendimento: si può intendere così il concetto - diffuso nella letteratura anglosassone - di 'reading readiness'. In questa prospettiva un accertamento analitico e differenziato delle capacità possedute dal bambino prima dell'inizio dell'apprendimento appare indispensabile; lo stesso discorso può farsi per tutte le altre abilità coinvolte in diversi processi di apprendimento scolastico (per esempio, dell'aritmetica).

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3. INDICAZIONE PER LA VALUTAZIONE DELLE FUNZIONI E DELLE SPECIFICHE ABILITÀ,

ARTICOLATA PER LIVELLI DI ETÀ E CON LE FONTI PER GLI STRUMENTI DI ASSESSMENT

La tassonomia delle abilità riportata in precedenza trova concreta applicazione, sul piano

diagnostico, in specifici strumenti di assessment che saranno sinteticamente indicati nello schema seguente. Per ciascuna area funzionale riportata nella tassonomia viene indicato, mediante una sigla, per quale

livello di età essa è pertinente e quali prove o schede - ne sono state scelte alcune tra le tante disponibili - sono utilizzabili per quel livello di età. Sono state scelte per lo più prove criteriali in modo da consentire una valutazione da parte degli insegnanti specializzati, che possono così integrare - abbreviando i tempi - l’assessment diagnostico compiuto dall’équipe multidisciplinare avvalendosi anche di prove psicometriche (qui non citate). Per ogni sigla, alla fine vengono riportate le indicazioni bibliografiche complete. Per alcune funzioni vengono riportate più di una sigla; gli insegnanti possono valutare quale è preferibile in base alle specifiche esigenze. Se il tempo a disposizione è ridotto, può essere utilizzata proficuamente anche solo una parte delle batterie di prove previste, purché quella parte dia luogo ad un punteggio parziale (subscore) utilizzabile per l’assessment. Vengono indicate con asterisco ed evidenziate (*) le età per le quali, in caso di rilevante ritardo o deficit, possono essere usate le prove segnalate per le età inferiori. Ovviamente, non tutte le funzioni vanno valutate per ciascun soggetto, ma solo quelle che all’osservazione preliminare appaiono carenti e richiedono pertanto un assessment specifico. Se tutte le aree sono compromesse - come nel caso di gravi disabilità o vero e proprio handicap - si può ricorrere a specifici volumi, pure riportati in bibliografia. Le valutazioni possono essere ripetute alla fine dell’anno per verificare i cambiamenti conseguenti al trattamento programmato e verificarne l’efficacia.

Per rispondere ad esigenze pratiche, le aree sono state poste nell’ordine previsto dal DPR 24/2/1994, anche se la sequenza suggerita nella tassonomia originale appare più congruente allo sviluppo del bambino e alla crescente complessità delle funzioni, e può quindi essere seguita da quanti intendono non attenersi strettamente all’elenco ministeriale.

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ETA’ / LIVELLO SCOLARE AREE

E Materna Elementare Media Superiore

FUNZIONI e 1° ciclo El. 2° ciclo

_____________________________________________________________________________

AREA COGNITIVA

Nozioni spaziali e temporali MS, TCR MS, TCR * * Nozioni dimensionali “ “ “ “ Nozioni di quantità e numero “ “ “ “ Seriazione “ “ “ “ Corrispondenza “ “ “ “ Conservazione del peso, della quantità “ “ “ “ Classificazione BL BL BL BL Problem-solving - AC1 AC2 *

Creatività Fluidità, Flessibilità, Originalità - TCD TCD TCD Immaginazione e fantasia

Uso di immagini mentali BA, IM BA, IM BA * Visualizzazione di movimenti di oggetti nello spazio BA BA BA * Concettualizzazioni astratte in modalità visive - - BA BA

AREA AFFETTIVO-RELAZIONALE

Ansia, depressione - TAD TAD TAD Auto-stima - TMA TMA TMA Aggressività, impulsività IA IA IA, TRI IA, TRI Iperattività IA, KG IA, KG IA, KG IA, KG Problemi comportamentali ed emotivi SEDS SEDS, K-SADS SEDS, K-SADS SEDS Comportamenti autistici AG AG AG AG AREA DELLA COMUNICAZIONE: v. AUTONOMIA E COMUNICAZIONE

AREA LINGUISTICA

Competenze fonatorie e articolatorie BJ BJ * * Competenze grammaticali morfologiche ITPA, DA ITPA, DA * * Competenze sintattiche TVL TVL * * Competenze semantiche TVL TVL TS * Comprensione linguistica RD RD * * Competenze meta-fonologiche CMF CMF * *

AREA SENSORIALE-PERCETTIVA

Analisi percettiva MT-II MT-II * *

Sintesi percettiva MT-VII MT-VII * *

Percezione spaziale FM, TPV FM, TPV TPV * Costanza percettiva FM, TPV FM, TPV TPV *

Percezione figura-sfondo FM, TPV FM, TPV TPV *

De-contestualizzazione CEFT CEFT EFT EFT Discriminazione uditiva MT-IV MT-IV * * Fusione visivo-uditiva MT-VI MT-VI * *

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ETA’ / LIVELLO SCOLARE

AREE

E Materna Elementare Media Superiore

FUNZIONI e 1° ciclo El. 2° ciclo

_____________________________________________________________________________

AREA MOTORIO-PRASSICA

Rapidità e coordinazione manuale EPM, MO,Z EPM, MO, Z EPM, MO, Z EPM, MO, Z Motricità fine, stile motorio “ “ “ “ Coordinazione di rapidità e precisione motoria “ “ “ “ Equilibrio statico e dinamico “ “ “ “ Ritmo motorio “ “ “ “ Resistenza nello sforzo motorio “ “ “ “

AREA NEURO-PSICOLOGICA

Lateralizzazione Z Z * * Attenzione e concentrazione

Attenzione selettiva e divisa DS DS * * Resistenza alla distrazione e shifting attentivo - - DS DS Batteria neuropsicologica BINV BINV * *

AREA DELL’AUTONOMIA E DELLA COMUNICAZIONE

Affermatività, comunicazione, competenza sociale R, NS R, NS R, NS R, NS, SIB Autonomia - ABI ABI ABI, SIB Autoefficacia - AF AF AF

Motivazione ad apprendere - AMOS AMOS * Relazioni interpersonali - - TRI TRI, SIB

AREA DELL’APPRENDIMENTO

Registro sensoriale (‘span’) TEMA, DS TEMA, DS TEMA TEMA Memoria a breve e lungo termine TEMA TEMA TEMA TEMA Memoria visiva e uditiva MT MT * *

‘Metamemoria’ - ID ID ID

School readiness IPDA, SR, PCB PCB, VATA VATA * Lettura MTL MTL, SJT MTL, SJT *

Scrittura PC PC, SJT, VAL SJT, (VAL) * Calcolo e logica-matematica EM+ VAM, AC1, EM+ ABCA, VAM, AC2 * ______________________________________________________________________________

Per l’handicap medio-grave: BAB, LAP BAB, LAP BAB, LAP BAB, LAP

Per soggetti afasici, non udenti

(per cui non è possibile somministrazione verbale): - TINV TINV TINV

Per la formulazione del PEI: PEI, VIA PEI, VIA PEI, VIA PEI, VIA

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SIGLE - RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (cfr. anche i siti www.erickson.it, www.osnet.it) ABCA Lucangeli D. e al. Test ABCA - Abilità di calcolo aritmetico 8-11 anni, Erickson. ABI Brown L., Leigh J., Test ABI - Valutazione del comportamento adattivo, tr. it. Erickson. AC1 Cornoldi C. e al., Test di valutazione delle abilità di calcolo AC-MT 6-11, Erickson. AC2 Cornoldi C., Cazzola C., Test di valutazione delle abilità di calcolo AC-MT 11-14, Erickson. AF Caprara G.V. La valutazione dell’autoefficacia, Erickson. AG Aarons M., Gittens T. – E’ autismo? Test di valutazione psicopedagogica, Erickson AMOS Cornoldi C., De Beni R. e al., Test AMOS 8-15, Erickson. BA Benedan S., Antonietti, A. Pensare le immagini, Erickson. BAB Kiernan C., Jones M., Test BAB - Valutazione per l’handicappato grave, tr. it. Erickson. BINV Bisiacchi P. e al., BINV 5-11 Batteria di valutazione neuropsicologica per l’età evolutiva, Erickson. BJ Bickel J., Il bambino con problemi di linguaggio, tr. it. Omega. BL Dienes Z.P., Blocchi logici, ed. La Scuola. CEFT, EFT Witkin H. e al., Embedded Figures Test, tr. it. O.S. CMF Marotta L., Trisciani M., Vicari S., Test CMF competenze metafonologiche, Erickson. DA De Filippis A., Test per la valutazione del linguaggio, Omega. DS Di Nuovo S., Attenzione e concentrazione (con CD-ROM), Erickson. EM+ Soresi S. e gruppo Emmepiù, Prove oggettive per la matematica nella scuola elementare, O.S. EPM Vayer P. Educazione psicomotoria - I: nell’età prescolastica; II: nell’età scolastica; tr. it. Armando. FM Frostig M., Test di percezione visiva, tr. it. Omega. (con programma di recupero) IA Cornoldi C., Impulsività e autocontrollo, Erickson. IM D’Amato e Florian, Intelligenza in azione - 3: Immagini mentali, Omega. ID Ianes D., Metacognizione e insegnamento, Erickson. IPDA Terreni A. e al., Test IPDA per l’identificazione precoce delle difficoltà di apprendimento, Erickson ITPA Kirk S.A. e al., Test di abilità psicolinguistiche Illinois, tr. it. Omega. KG Kirby E, Grimley L., Disturbi dell’attenzione e iperattività, Erickson. K-SADS Kaufman J. e al. Test K-SADS-PL, Intervista per la valutazione dei disturbi psicopatologici, Erickson. LAP Sanford A., Zelman J. Test LAP - Diagnosi di sviluppo, Erickson. MO Cottini L., MO.VI.T Movimento, valutazione, training, Tecnoscuola. MS Vianello R., Dal pensiero intuitivo al pensiero operatorio, Junior. MT Cornoldi C. e gruppo MT, Prove di prerequisito per la diagnosi delle difficoltà di lettura e scrittura, O.S. MTL Cornoldi C. e gruppo MT, Prove di lettura, O.S. NS Nota L., Soresi S., I comportamenti sociali: dall’osservazione all’intervento. Erip. PC Pascoletti C., La scrittura, Tecnoscuola, Gorizia PCB Meazzini P. Test PCB – Processi cognitivi di base, O.S. PEI Ianes D., Cramerotti S. Il Piano Educativo Individualizzato, con CD-ROM, Erickson. R Ricci C. e al. Promuovere l’intelligenza interpersonale, Erickson. RD Rustioni D., Prove di valutazione della comprensione linguistica, O.S. VAS Giovanardi Rossi P., Malaguti T., Valutazione delle abilità di scrittura, Erickson. VAM Giovanardi Rossi P., Malaguti T., Valutazione delle abilità matematiche, Erickson. SEDS Hutton J., Roberts T.G. Test SEDS valutazione dei problemi comportamentali ed emozionali, Erickson. SIB Arrindell W. e al. Test SIB – comportamento interpersonale e assertivo, Erickson. SJT Sartori G., Job R., Tressoldi P., Batteria per la valutazione della dislessia e disortografia evolutiva, O.S. SPM Lucangeli D. e al., Test SPM - soluzione di problemi matematici 8-14 anni, Erickson. SR Zanetti M.A., Miazza D. SR 4-5 School Readiness, Erickson. TAD Newcomer P. e al., Test TAD - Ansia e depressione nell’infanzia e adolescenza, tr. it. Erickson. TCD Williams F., Test TCD - Creatività e pensiero divergente, tr. it. Erickson. TCR Edmonston N., Thane N., Test TCR - Concetti di relazione spaziale temporale, tr. it. Erickson. TEMA Reynolds C., Bigler E., Test TE.M.A. - Memoria e apprendimento, tr. it. Erickson. TINV Hammill D.D., Pearson N.A., Wiederholt J.L., Test d’intelligenza non verbale, tr. it. Erickson. TMA Bracken B.A., Test TMA - Valutazione multidimensionale dell’autostima, tr. it. Erickson. TPV Hammill D., Test TPV - Percezione visiva e integrazione visuo-motoria, tr. it. Erickson. TRI Bracken B.A., Test TRI - Relazioni interpersonali, tr. it. Erickson. TS Doplicher R., Gardin A., Prove TS Logico-linguistiche, Tecnoscuola. TVL Cianchetti C., S. Fancello G., Test TVL - Valutazione del linguaggio, Erickson. VATA De Beni R. e gruppo MT, Batterie per la valutazione delle abilità trasversali all’apprendimento, O.S. VIA Ianes D., Valutazione iniziale delle abilità nell’handicappato, Erickson. Z Zazzo R. e al. Manuale per l’esame psicologico del bambino, tr. it. Ed. Riuniti, Roma (le prove, e in

particolare quella sulla lateralità, sono pubblicate separatamente da O.S.)

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4. IL DEFICIT DI ATTENZIONE CON IPERATTIVITA’3

Il Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività: definizione clinica. Secondo i criteri del Manuale Diagnostico Statistico DSM, il Disturbo da Deficit Attentivo con

Iperattività (DDAI in italiano, ADHD, dall’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è caratterizzato da due gruppi di sintomi o dimensioni psicopatologiche definibili come inattenzione e impulsività/ iperattività.

L’inattenzione (o facile distraibilità) si manifesta soprattutto come scarsa cura per i dettagli ed incapacità a portare a termine le azioni intraprese: i bambini appaiono costantemente distratti come se avessero sempre altro in mente, evitano di svolgere attività che richiedano attenzione per i particolari o abilità organizzative, perdono frequentemente oggetti significativi o dimenticano attività importanti.

L’impulsività si manifesta come difficoltà, ad organizzare azioni complesse, con tendenza al cambiamento rapido da un’attività ad un’altra e difficoltà ad aspettare il proprio turno in situazioni di gioco e/o di gruppo. Tale impulsività è generalmente associata ad iperattività: questi bambini vengono riferiti "come mossi da un motorino", hanno difficoltà a rispettare le regole, i tempi e gli spazi dei coetanei, a scuola trovano spesso difficile anche rimanere seduti. Tutti questi sintomi non sono causati da deficit cognitivo (ritardo mentale) ma da difficoltà oggettive nell'autocontrollo e nella capacità di pianificazione. Secondo il DSM-IV per fare diagnosi di ADHD occorre che siano osservabili almeno sei dei nove sintomi di inattenzione e/o iperattività riportati in tabella 1, che i sintomi sopra descritti esordiscano prima dei sette anni d’età, durino da più di sei mesi, siano evidenti in almeno due diversi contesti della vita del bambino (casa, scuola, ambienti di gioco) e, soprattutto, causino una significativa compromissione del funzionamento globale del bambino (APA 1994).

Tutti i bambini possono presentare, in determinate situazioni, uno o più dei comportamenti sopra descritti. Qualsiasi bambino (e la gran parte degli adulti) tende a distrarsi ed a commettere errori durante attività prolungate e ripetitive. La ricerca delle novità e la capacità di esplorare rapidamente l’ambiente devono essere considerati comportamenti positivi dal punto di vista evolutivo e come tale stimolati e favoriti. Quando tali modalità di comportamento sono persistenti in tutti i contesti (casa, scuola, ambienti di gioco) e nella gran parte delle situazioni (lezione, compiti a casa, gioco con i genitori e con i coetanei, a tavola, davanti al televisore, etc.) e costituiscono la caratteristica costante del bambino, esse possono compromettere le capacità di pianificazione ed esecuzione di procedure complesse (le cosiddette funzioni esecutive).

Secondo i criteri del DSM possono essere distinti tre tipi di ADHD: uno prevalentemente inattentivo, uno prevalentemente iperattivo /impulsivo ed uno combinato. I bambini con ADHD mostrano, soprattutto in assenza di un supervisore adulto, un rapido raggiungimento di un elevato livello di "stanchezza" e di “noia” che si evidenzia con frequenti spostamenti da un'attività, non completata, ad un'altra, perdita di concentrazione e incapacità di portare a termine qualsiasi attività protratta nel tempo. Nella gran parte delle situazioni, questi bambini hanno difficoltà a controllare i propri impulsi ed a posticipare una gratificazione: non riescono a riflettere prima di agire, ad aspettare il proprio turno, a lavorare per un premio lontano nel tempo anche se consistente. Quando confrontati con i coetanei, questi bambini mostrano una eccessiva attività motoria (come muovere continuamente le gambe anche da seduti, giocherellare o lanciare oggetti, spostarsi da una posizione all'altra). L’iperattività compromette l’adeguata esecuzione dei compiti richiesti. Questi bambini sono visti, nella gran parte dei contesti ambientali, come agitati, irrequieti, incapaci di stare fermi, e sempre sul punto di partire. Un adulto può avere l’impressione che il bambino abbia difficoltà a comprendere le istruzioni e faccia un uso improprio delle abilità di memoria.

L’incapacità a rimanere attenti ed a controllare gli impulsi fa si che, spesso, i bambini con ADHD abbiano una minore resa scolastica e sviluppino con maggiore difficoltà le proprie abilità cognitive. Frequentemente questi bambini mostrano scarse abilità nell’utilizzazione delle norme di convivenza sociale, in particolare in quelle capacità che consistono nel cogliere quegli indici sociali non verbali che modulano le relazioni interpersonali. Questo determina una significativa interferenza nella qualità delle relazioni tra questi bambini ed il mondo che li circonda. Il difficoltoso rapporto con gli altri, le difficoltà scolastiche, i continui rimproveri da parte delle figure di autorità, il senso di inadeguatezza a contrastare tutto ciò con le proprie capacità fanno sì che questi bambini sviluppino un senso di demoralizzazione e di ansia, che accentua ulteriormente le loro difficoltà. Mentre la normale iperattività, impulsività e instabilità attentiva non

3 Tratto dalle “Linee-guida per la diagnosi e la terapia farmacologica del Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività

(ADHD) in età evolutiva” (a cura della Società di NeuroPsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza)

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determinano significative conseguenze funzionali, il vero ADHD determina conseguenze negative a breve e lungo termine.

Quando si sospetta che un bambino possa essere considerato come affetto da disturbo da deficit attentivo con iperattività occorre: 1. Raccogliere informazioni da fonti multiple (genitori insegnanti, educatori) utilizzando interviste semistrutturate e/o questionari standardizzati sui diversi aspetti del comportamento e del funzionamento sociale del bambino. 2. Un colloquio (esame psichico) col bambino per verificare la presenza di altri disturbi associati; anche in questo caso, le scale standardizzate di autovalutazione del bambino (ansia, depressione etc.) possono essere utili. 3. Valutare le capacità cognitive e l'apprendimento scolastico; valutare in maniera oggettiva le capacità attentive, di pianificazione delle attività e di autocontrollo. Talvolta può essere utile valutare la possibile presenza di disturbi del linguaggio. 4. Effettuare l'esame medico e neurologico, valutando la presenza di eventuali patologie associate e gli effetti di eventuali altre terapie in atto.

I bambini con ADHD possono essere aiutati strutturando ed organizzando l'ambiente in cui vivono. Genitori e insegnanti possono anticipare gli eventi al posto loro, scomponendo i compiti futuri in azioni semplici ed offrendo piccoli premi ed incentivi. È importante che genitori ed insegnanti siano (o divengano) dei buoni osservatori: devono imparare ad analizzare ciò che accade intorno al bambino prima, durante e dopo il loro comportamento inadeguato o disturbante e a rendere comprensibili al bambino il tempo, le regole e le conseguenze delle azioni. Tutto ciò al fine di permettere ai bambini iperattivi di ampliare il proprio repertorio interno di informazioni, regole e motivazioni.

Per aiutare un bambino con ADHD genitori ed insegnanti dovrebbero acquisire le seguenti abilità: 1. Potenziare il numero di interazioni positive col bambino. 2. Dispensare rinforzi sociali o materiali in risposta a comportamenti positivi del bambino. 3. Ignorare i comportamenti lievemente negativi. 4. Aumentare la collaborazione dei figli usando comandi più diretti, precisi e semplici. 5. Prendere provvedimenti coerenti e costanti per i comportamenti inappropriati del bambino. In generale gli interventi psicoeducativi diretti sul bambino/adolescente basati su tecniche cognitive e meta-cognitive tarate per età e focalizzate su: • Problem solving: riconoscere il problema, generare soluzioni alternative, pianificare la procedura per risolvere il problema, ecc., • Autoistruzioni verbali al fine di acquisire un dialogo interno che guidi alla soluzione delle situazioni problematiche, • Stress inoculation training: indurre il bambino/adolescente ad auto-osservare le proprie esperienze e le proprie emozioni, soprattutto in coincidenza di eventi stressanti e, successivamente, aiutarlo ad esprimere una serie di risposte alternative adeguate al contesto. La acquisizione di queste risposte alternative dovrà sostituire gli atteggiamenti impulsivi e aggressivi.

Parent Training e consulenza per gli insegnanti

Il Parent Training è inizialmente composto da 8-12 sessioni settimanali di un gruppo di genitori con un terapista specificamente formato. Il programma delle sessioni è focalizzato al miglioramento della comprensione da parte dei genitori delle caratteristiche del bambino con ADHD e nell’insegnamento di abilità che permettano di gestire e migliorare le difficoltà che tali caratteristiche comportano. I programmi offrono tecniche specifiche per guidare il bambino, rinforzare i comportamenti sociali positivi e diminuire o eliminare quelli inappropriati; nell’ambito di tale training vengono pianificate anche le attività di mantenimento dei risultati acquisite di prevenzione delle ricadute.

Anche gli interventi di consulenza per gli insegnanti sono focalizzati sul comportamento del bambino e possono essere sia integrati nelle routine scolastiche per i tutti gli alunni che focalizzati sui singoli bambini. La gestione delle attività che coinvolgono tutta la classe iniziano con la definizione e progressivo incremento di attività strutturate che includano modalità sistematiche di ricompensa per le attività /comportamenti desiderati (rinforzo positivo), diminuzione dei privilegi o delle ricompense (costo della

risposta) fino al blocco di ogni rinforzo positivo (time-out) per comportamenti non desiderati o problematici; la combinazione di rinforzi positivi e costo della risposta (es; il bambino guadagna ricompense e privilegi per

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comportamenti desiderati e le perde per comportamenti indesiderati, token economy) risulta in genere particolarmente efficace. La frequente (spesso giornaliera) comunicazione scritta con i genitori riguardo agli obiettivi ed ai risultati dell’allievo, permette ai genitori di confermare premi e punizioni anche a casa. Sia il Parent training che l’intervento a scuola permette in genere di migliorare significativamente il comportamento del bambino anche se non necessariamente riesce a rendere da solo il comportamento del bambino con ADHD simile a quello dei suoi coetanei.

La diversa percezione del tempo, l’incapacità a frenare le proprie reazioni immediate, la difficoltà a pianificare e controllare i propri comportamenti fanno si che i bambini con ADHD manchino di quel “savoir

faire sociale” che consente di cogliere stimoli sociali, modulare le relazioni interpersonali, ricevere gratificazioni sociali ed integrarsi socialmente con i coetanei e gli adulti. Ciò causa frequentemente senso di inadeguatezza, bassa autostima, bassa soglia alle frustrazioni. Tali "sensazioni" rendono più difficile inibire la propria impulsività, pianificare i propri comportamenti e stabilire relazioni sociali gratificanti. Il ruolo dei genitori nella gestione di tali sintomi è cruciale: la ripetizione nel tempo di attività piacevoli di collaborazione genitore-figlio può essere un valido mezzo a disposizione dell'adulto per poter condividere alcuni interessi del bambino, e per quest'ultimo per poter sperimentare un rilassante clima di interazioni positive, utile anche per cancellare il segno dei conflitti trascorsi.

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SCHEDA PER LA RILEVAZIONE DEI DISTURBI DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

Nome............................................................................... Scuola..............................................................................

Disturbo da Deficit di attenzione Affinché si possa diagnosticare un disturbo dell’attenzione, è necessario che sei (o più) dei seguenti sintomi sono persistiti per almeno sei mesi con un’intensità che provoca disadattamento e che contrasta con il livello di sviluppo. Disattenzione

1) Spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette gravi errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro , o in altre attività SI NO 2) Spesso ha difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco SI NO 3) Spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente (e quindi non ascolta quanto gli viene detto) SI NO 4) Spesso non segue le istruzioni (ricevute da altri) e non porta a termine i compiti scolastici, le incombenze, o i doveri sul posto di lavoro (non a causa di comportamento oppositivo o di incapacità di capire le istruzioni). SI NO 5) Spesso ha difficoltà a organizzarsi nei compiti e nelle attività SI NO 6) Spesso evita, prova avversione, o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale protratto (come compiti a scuola o a casa ). SI NO 7) Spesso perde gli oggetti necessari per i compiti o le attività di scuola (per es. giocattoli, compiti di scuola, matite, libri, o strumenti). SI NO 8) Spesso è facilmente distratto da stimoli estranei (esterni). SI NO 9) Spesso è sbadato nelle attività quotidiane SI NO Nota: I sintomi compromettono il funzionamento - sociale

- scolastico

si manifestano in due o più contesti (es. sia a casa sia a scuola)

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Nome...............................................................................

Scuola..............................................................................

Disturbo da comportamento iperattivo e impulsivo Affinché si possa diagnosticare un disturbo di iperattività - impulsività è necessario che sei (o più) dei seguenti sintomi sono persistiti per almeno sei mesi con una intensità che provoca disadattamento e che contrasta con il livello di sviluppo. Iperattività

1) Spesso muove con irrequietezza mani o piedi o si dimena (si agita) sulla sedia. SI NO 2) Spesso lascia il proprio posto a sedere in classe o in altre situazioni in cui ci si aspetti che resti seduto. SI NO 3) Spesso scorrazza e salta dovunque in modo eccessivo in situazioni in cui ciò è fuori luogo (negli adolescenti o negli adulti, ciò può limitarsi a sentimenti soggettivi di irrequietezza). SI NO 4) Spesso ha difficoltà a giocare o a dedicarsi a divertimenti in modo tranquillo SI NO 5) E’ spesso “sotto pressione” o agisce come un “motorino”. SI NO 6) Spesso parla troppo. SI NO Impulsività

1) Spesso “spara” le risposte prima che le domande siano state completate SI NO 2) Spesso ha difficoltà ad attendere il proprio turno. SI NO 3) Spesso interrompe gli altri oppure è invadente nei loro confronti (per es. si intromette nelle conversazioni o nei giochi). SI NO Nota: I sintomi compromettono il funzionamento - sociale

- scolastico

si manifestano in due o più contesti (es. sia a casa sia a scuola)

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IPERATTIVITA’: DIAGNOSI E INTERVENTO4

Sin dalla scuola materna Paolo manifesta un bisogno irrefrenabile di muoversi, è sempre inquieto, non si ferma sullo stesso gioco un tempo sufficiente per apprendere le regole, non riesce ad imparare le strategie per affrontare problemi complessi. Gli insegnanti lo riprendono, a volte lo sgridano, qualche volta perdono la pazienza e gli danno anche delle punizioni. Eppure lui sente di non riuscire a fare diversamente, è come se il suo motorino interno non si fermasse mai, non è in grado di riflettere su quello che deve fare. Anche con i compagni non va meglio: non accetta le regole dettate dagli altri e vuole fare sempre a modo suo. Gli oggetti circostanti, soprattutto se nuovi o colorati, gli sembrano molto interessanti ed eccitanti, e lui vorrebbe prenderli tutti insieme per esplorarli. Ma dopo averci giocato un po’ si l’eccitazione iniziale svanisce e cerca qualcos’altro per ritrovare di nuovo quella sensazione. Purtroppo però non può fare come vorrebbe. Deve rispettare delle regole e soprattutto deve rispettare dei tempi: la fila per andare in bagno o a pranzo, il momento dell’uscita in cortile, la fine della scuola. L’attesa è qualcosa di molto sgradevole perchè lui vorrebbe tutto e subito. Con l’ingresso alla scuola elementare la situazione tende a peggiorare. Paolo sperava che il nuovo ambiente fosse più divertente, che essere più grande fosse una bella esperienza. Invece le regole sono aumentate e i momenti per giocare sono diminuiti. Gli viene richiesta l’esecuzione di tanti compiti, sia in classe che a casa. Gli insegnanti iniziano soprattutto a lamentare i problemi di attenzione, oltre che di comportamento: l’inerzia ad iniziare i compiti, la pessima scrittura, i numerosi errori. Con i compagni all’inizio dell’anno scolastico va abbastanza bene, perchè la sua esuberanza e disinibizione lo rendono simpatico e divertente. Dopo un po’ di tempo però anche i compagni non sopportano il fatto che non conclude mai i giochi e che non rispetta le regole, e per questi motivi iniziano ad allontanarlo. Più va avanti negli anni, più la situazione per Paolo si complica. A scuola bisogna svolgere sempre più compiti, per di più lunghi e noiosi. Alle scuole medie i professori non tollereranno i compiti incompleti, le frequenti dimenticanze, i comportamenti “infantili”. Anche il profitto inizia a segnare il passo: la qualità e la quantità dei prodotti sono molto scadenti e soprattutto irregolari. Gli insegnanti sono sconcertati perchè non si evidenziano problemi sul piano intellettivo, per cui attribuiscono la causa alla scarsa motivazione: “è solo svogliato”, “non è interessato alle cose che fa”. Oppure cercano di trovare altre spiegazioni al comportamento di questo alunno che non riescono a gestire: “è colpa dei genitori che non sanno controllarlo”, “avrebbe bisogno di maggior disciplina”, “lo fa per attirare l’attenzione”, “si diverte a disturbare e a prendere tutti in giro”. Interpretazioni non certo utili per aiutare i ragazzi come Paolo, e che non aiutano a stabilire un buon rapporto tra scuola e famiglia, a scapito di tutti, primo fra tutti dello stesso ragazzo. Il senso di isolamento, di frustrazione e di impotenza di fronte ai fallimenti aumenteranno soprattutto durante l’adolescenza, ed è elevato il rischio di accentuare la fragilità psicologica e di sviluppare altri disturbi evolutivi.

Verso una definizione clinica del DDAI

Sino a poco più di una decina d’anni fa manifestazioni come quelle descritte venivano scambiate per un disturbo di personalità. Da allora la ricerca scientifica ha fatto notevoli progressi e al giorno d’oggi la diagnosi sarebbe chiara: ‘Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività’, conosciuto con l’acronimo DDAI, che corrisponde all’inglese ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder). In questi ultimi anni forse stiamo assistendo al fenomeno opposto, che comporta il rischio di abusare di questa etichetta diagnostica, per cui risulta essenziale fornire un quadro preciso del disturbo, e i ricercatori stanno compiendo progressi continui in tal senso.

La prima descrizione scientifica dell’iperattività ha già oltre un secolo di vita (George Still la pubblicò sulla rivista Lancet nel 1902) ma solo dal 1980 esiste l’etichetta diagnostica Disturbo di Attenzione,

con o senza Iperattività, che successivamente ha ricevuto alcune revisioni per definire meglio il quadro diagnostico. La più recente versione del Manuale Statistico Diagnostico DSM prevede l’esistenza di due principali categorie di sintomi, dei quali nove descrivono le caratteristiche di disattenzione, altri nove le caratteristiche di iperattività-impulsività: 4 Tratto dall’articolo Disattenti, svogliati, iperattivi… quali diagnosi? quali interventi? di Gian Marco Marzocchi e Santo Di Nuovo, pubblicato su Psicologia Contemporanea, 2007, n. 207, pp. 26-35. All’articolo originale si rinvia per le citazioni bibliografiche.

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CRITERI PER LA DIAGNOSI DDAI Difficoltà di attenzione

1. Incontra difficoltà a dirigere l'attenzione sui dettagli o compie errori di negligenza 2. Viene facilmente distratto da stimoli esterni 3. Quando gli si parla sembra non ascoltare 4. Pur avendo capito le istruzioni e non avendo intenzioni ostili, non esegue le istruzioni o fatica a portarle a compimento 5. Incontra difficoltà nel mantenere l'attenzione nei compiti o nei giochi in cui è impegnato 6. Spesso perde oggetti o materiale necessari per le proprie attività (per es., giocattoli, libri, quaderni, penne) 7. Evita o è poco disposto ad impegnarsi in attività che richiedono uno sforzo mentale prolungato 8. Ha difficoltà nell'organizzare le proprie attività e compiti 9. Spesso dimentica di fare i propri compiti Iperattività e Impulsività

10. Non riesce a stare in silenzio; parla eccessivamente 11. Spesso si agita con le mani o i piedi, o si dimena sulla sedia 12. Ha difficoltà ad impegnarsi in giochi o attività tranquilli 13. Non riesce a stare seduto in classe o in altre situazioni in cui è richiesto 14. In continuo movimento come se avesse “l’argento vivo” addosso 15. Corre e si arrampica ovunque in situazioni in cui ciò non è appropriato (in età adolescenziale o adulta si manifesta con un'irrequietudine interna) 16. Ha difficoltà ad aspettare il proprio turno 17. Spesso interrompe o si comporta in modo invadente con altre persone 18. Spesso risponde prima ancora che la domanda sia stata completata Se un bambino di oltre 7 anni presenta, per almeno 6 mesi prima dell’ingresso nella scuola elementare, 6 dei 9

sintomi di una delle due aree (disattenzione o iperattività-impulsività) si può porre diagnosi di Disturbo di Attenzione/Iperattività. Partendo da questi presupposti è possibile ottenere tre diversi sottotipi di Disturbo da Deficit di Attenzione / Iperattività: se prevalgono i sintomi di difficoltà di attenzione si tratta del sottotipo disattento, se si evidenziano prevalentemente quelli dell’altro gruppo il sottotipo viene definito iperattivo-impulsivo, se entrambe le problematiche sono presenti si parla di sottotipo combinato o misto. Esistono specifici strumenti per l’individuazione dell’iperattività in base all’osservazione del comportamento: citiamo la scala SDAI per insegnanti e operatori, SDAG nella versione per genitori; o i questionari di Conners di recente tradotti in italiano, dei quali pure esistono versioni per insegnanti, genitori e self-report per età superiori ad 11 anni. Questi strumenti consentono di porre una diagnosi attendibile, quantificando mediante l’osservazione di insegnanti e/o genitori i diversi indicatori del disturbo, e discriminandoli da quelli presenti in altre sindromi. Va ricordato che i criteri diagnostici proposti nel DSM-IV-TR sono attualmente in corso di revisione in base ai risultati delle recenti ricerche, di cui si terrà conto nella 5a edizione del manuale in corso di preparazione, tentando di uniformare i criteri con quelli dell’ICD-10 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, di cui è in corso la 11a revisione.

Senza semplificare troppo la complessità di una sindrome in realtà molto eterogenea, i disturbi possono essere ricondotti essenzialmente all’incapacità a mantenere l’attenzione e la concentrazione prolungata, e alla carenza di autoregolazione sia cognitiva che motoria, spesso congiunte con difficoltà a pianificare delle strategie di comportamento. Quanti sono i ragazzi con DDAI? Se ci si basasse solo sulla sintomatologia riportata dai manuali, la prevalenza del disturbo sembrerebbe molto elevata (probabilmente tra il 15% e il 20% della popolazione scolastica) in quanto i sintomi non sono altro che caratteristiche comportamentali molto frequenti tra i bambini, soprattutto se maschi nella fascia di età 8-10 anni. Secondo il manuale diagnostico DSM-IV-TR la percentuale si aggira tra il 3% e il 7%, pertanto il rischio più frequente, da un punto di vista dell’errore diagnostico, è la presenza di numerosi potenziali falsi positivi: ragazzi che sembrano DDAI, ma in realtà non hanno tutte le caratteristiche per essere considerati tali. Il clinico per formulare diagnosi di DDAI deve tenere conto di numerose condizioni che potrebbero escludere questa diagnosi, tra cui i disturbi dell’area psicotica e l’autismo, e altre rilevanti sindromi basate su

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disturbi ansiosi o dell’umore. Le diagnosi differenziali (distinguere il DDAI da un disturbo diverso) o associate (evidenziare un altro disturbo presente, oltre al DDAI) si complicano inoltre per le frequenti possibilità di sovrapposizione con i disturbi di tipo oppositivo o con quelli pervasivi dello sviluppo, ma soprattutto con quelli dell’area cognitiva o linguistica (Pennington, 2006). Alla scuola materna numerosi bambini con disturbi specifici di linguaggio manifestano anche comportamenti che possono essere facilmente scambiati con quelli tipici del DDAI, come la scarsa autoregolazione. In questo caso è necessario monitorare l’evoluzione dell’apprendimento linguistico per osservare un’eventuale remissione dell’iperattività. Se questo non si verifica allora si potrebbe essere di fronte ad un caso con una diagnosi associata di DDAI e Disturbo del Linguaggio. Un secondo caso di sovrapposizione tra i sintomi DDAI e altri disturbi cognitivi è la presenza di Ritardo Mentale: secondo il DSM una diagnosi associata di DDAI e Ritardo Mentale si può porre ponderando la gravità dei sintomi rispetto all’età mentale. Per cui, se un bambino ha un’età mentale di 7 anni, ed età cronologica di 11, bisogna considerare come disturbante un livello clinico di disattenzione e iperattività non adeguato per un bambino di 7 anni (anche se in realtà ne ha 11). Infine la terza condizione di sovrapposizione tra DDAI e disturbi cognitivi riguarda le difficoltà specifiche di apprendimento scolastico. In questo caso è molto importante ricostruire la storia clinica del bambino e accertarsi dell’apprendimento della lingua scritta in prima e in seconda elementare: se queste ha avuto delle difficoltà sin dall’inizio allora probabilmente si tratta di una diagnosi associata di DDAI e dislessia, se invece le prime tappe dell’apprendimento sono state regolari, ma poi si è verificato un rallentamento allora si tratta di una frequente difficoltà di apprendimento di tipo secondario, dipendente dalle caratteristiche cognitive del DDAI. Alla ricerca delle cause Numerosissime pubblicazioni (in media oltre 500 l’anno) ci stanno aiutando a trovare varie conferme circa i meccanismi etiologici del DDAI. Le neuroscienze stanno cercando di costruire un puzzle capace di dare risposte in merito all’insorgenza dei sintomi del DDAI collegando i fattori genetici con quelli neurobiologici, neuroanatomici e comportamentali. Sino alla fine del secolo scorso si cercava una singola causa del disturbo, sperando magari di riuscire ad individuare un gene alla base di tutto. Con il nuovo millennio l’impostazione della ricerca sul DDAI ha visto un’importante virata verso il tentativo di definire molteplici cause, o meglio fattori di rischio. In un articolo pubblicato nel 2002 sulla prestigiosa rivista Nature Neuroscience Review, Castellanos e Tannock abbozzarono un modello basato sugli “endofenotipi” secondo il quale esistono diverse tipologie di fattori di rischio. Ovvero si ritiene che esistano diverse “strade” che portano alla possibilità di presentare il DDAI: dal punto di vista neuropsicologico questi bambini presentano una difficoltà di coordinazione dei vari stati mentali funzionali al raggiungimento di obiettivi. L’insieme integrato di comportamenti finalizzati ad uno scopo viene chiamato dai neuropsicologi “Funzioni Esecutive”. Alcuni ricercatori paragonano queste funzioni al direttore d’orchestra il quale coordina le produzioni dei vari musicisti, che, secondo la metafora, rappresentano i processi cognitivi più “semplici” (percezione, motricità, memoria, attenzione). In presenza dell’ipotetico substrato neurologico connesso ad un’alterazione delle Funzioni Esecutive si possono inserire una serie di esperienze negative da parte del bambino, durante la crescita, che possono determinare l’insorgenza del DDAI. In particolare, la presenza di un ambiente poco routinario, imprevedibile o poco strutturato non aiuta il bambino ad apprendere un comportamento autoregolato. Atteggiamenti di scarso accudimento, o di eccessivo contenimento da parte dei genitori, o ancora uno stile di vita frettoloso, che non dà al bambino occasioni per riflettere, attendere e inibire risposte impulsive, sono tutte condizioni di rischio per l’insorgenza del DDAI. Le condizioni psicologiche sfavorevoli ma isolate non sono in grado di determinare la presenza del disturbo, che si manifesterà quando i fattori di rischio convergono e si accompagnano ad una compromissione a livello neuropsicologico e neurobiologico. Si è detto che ai modelli etiologici monofattoriali stanno subentrando approcci multifattoriali, che consentono di delineare specifici sotto-insiemi di soggetti con disturbi, e fattori causali, diversi (Nigg e al., 2005; Sonuga-Barke, 2005). Al congresso dell’Associazione Italiana Disturbi di Attenzione e Iperattività, tenuto ad Assisi nel maggio 2007, è stato fatto il punto sulle recenti acquisizioni della ricerca scientifica. I già citati deficit delle “funzioni esecutive” (flessibilità attentiva, memoria di lavoro, programmazione) che implicano disturbi di auto-regolazione e di mantenimento dell’attenzione e producono difficoltà di controllo e di inibizione degli stimoli non pertinenti, si trovano non solo nei bambini con DDAI ma anche in altri disturbi, ad esempio oppositivi. Al contrario esistono forme di DDAI senza rilevanti problemi nelle funzioni esecutive, ma con deficit riconducibili alla sfera della motivazione: incapacità a dilazionare nel tempo la risposta ad uno stimolo, scarsa o eccessiva sensibilità ai rinforzi, preferendo ricompense piccole ma

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immediate ad altre più rilevanti ma ritardate nel tempo (Luman e al., 2005). Da questi deficit motivazionali deriverebbero le difficoltà a rinviare il comportamento immediato e quindi un decision-making impulsivo e inefficace (Toplak e al., 2005). Un altro fattore etiologico proposto riguarda la velocità di elaborazione. Sonuga-Barke (2005) parla di difficoltà del bambino con DDAI nel “sincronizzare il tempo delle sue azioni”, che comporta un deficit di integrazione senso-motoria e temporale. Come si fa la diagnosi La diagnosi di DDAI è essenzialmente clinica, ovvero non esiste alcun test o esame ‘obiettivo’ che da solo permetta l’accertamento sicuro della presenza del disturbo. È il clinico che, prima di poter decidere se si tratta di DDAI o meno, deve ponderare le varie manifestazioni: gli aspetti cognitivi e comportamentali, mediante schede di osservazione, e le prestazioni ad alcuni test cognitivi. Le informazioni sulla storia dei sintomi si ottengono tramite i colloqui con i genitori, gli insegnanti e il bambino stesso. Gli insegnanti hanno un ruolo molto importante nell’inquadramento diagnostico perchè stanno con il bambino la maggior parte del tempo, lo vedono in quelle situazioni in cui si evidenziano maggiormente le sue difficoltà: in cui è richiesto sforzo cognitivo, organizzazione del proprio lavoro, riflessività e capacità di stare fermo a lungo. Non è un caso che i livelli di disattenzione e iperattività riportati dagli insegnanti siano più elevati rispetto a quelli riportati dai genitori. I test più adatti per delineare il profilo cognitivo e neuropsicologico del bambino sono quelli che forniscono delle indicazioni riguardanti le abilità visuo-spaziali, le funzioni prassiche, l’apprendimento scolastico, la memoria, l’attenzione e le funzioni esecutive. Per quest’ultimo aspetto sono utili test come la “Torre di Londra” messo a punto da Tim Shallice, o il test “Junior Hayling” ideato dallo stesso autore, in cui il soggetto deve completare alcune frasi con parole non collegate sul piano semantico con la frase pronunciata dall’esaminatore, inibendo così la risposta immediatamente più accessibile. Altre prove utili riguardano lo sforzo attentivo, altre ancora la capacità di dilazionare nel tempo la risposta o la ricompensa: ad esempio, scegliere un rinforzo più forte ma posticipato. Sebbene i test neuropsicologici ambiscano a discriminare i DDAI dai controlli, in realtà forniscono un quadro di funzionamento cognitivo del bambino, ma non una diagnosi certa a causa della multifattorialità della sindrome cui si è accennato in precedenza. Il percorso terapeutico Completata la valutazione diagnostica, è necessario programmare il tipo di intervento appropriato per il bambino iperattivo. Intervento che, pur con le differenze connesse allo specifico tipo di DDAI diagnosticato, consiste soprattutto – come ha sottolineato Cornoldi (1998) – nell’incrementare le capacità di auto-regolazione, cioè di controllo autonomo dei comportamenti e della loro pianificazione. Non si può negare a questo scopo l’utilità di un intervento farmacologico, purché mirato e controllato. Il metilfenidato (il principio attivo del farmaco più usato), stimolando la regolazione della dopamina, fornisce al cervello le risorse per poter coordinare le proprie potenzialità attentive. Questo farmaco risulta efficace nei soggetti che non hanno un’adeguata autoregolazione dopaminergica (come una parte dei soggetti con DDAI), ma risulta inutile o dannoso se utilizzato in modo improprio, ad esempio in casi in cui l’origine etiologica è diversa e coinvolge altre strutture neurobiologiche. Si stanno affermando farmaci ad effetto non immediato ma prolungato nel tempo, come l’atomoxetina che non è uno psicostimolante come il metilfenidato, ma un inibitore selettivo della ricaptazione della noradrenalina. La decisione su quale farmaco usare e in quale dose va commisurata al tipo di soggetto, alla compresenza di altri disturbi, al rischio di abuso, alla disponibilità del contesto familiare. La letteratura scientifica sull’argomento indica che la “presa in carico” della famiglia e la consulenza sistematica alla scuola sono variabili che influenzano i risultati positivi a lungo termine della cura farmacologica. I primi risultati di uno studio americano (MTA Cooperative Group, 1999), enfatizzarono il ruolo cruciale del trattamento farmacologico per la riduzione dei sintomi del DDAI, in presenza o meno di terapie psicologiche associate. Ad un’analisi più approfondita però è emerso che per i bambini che usufruivano della terapia sia farmacologica che psicologica era sufficiente una dose inferiore di farmaci. Considerando altre misurazioni oltre quelle relative ai sintomi, per esempio le relazioni con i coetanei e con i genitori, nonchè il mantenimento dei benefici a lungo termine, i bambini che avevano usufruito anche della terapia psicologica dimostrarono maggiori vantaggi rispetto a quelli trattati con soli farmaci. Quali sono i trattamenti psicologici più efficaci per i bambini con DDAI? Dipende dal tipo di deficit che la diagnosi avrà evidenziato come predominante: il trattamento sarà prevalentemente cognitivo quando è necessario migliorare l’attenzione e le funzioni esecutive; più comportamentale se vanno potenziati il

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controllo e l’autoregolazione. In ogni caso è essenziale la modificazione dell’ambiente familiare e scolastico e degli stimoli in esso presenti, per cui in conclusione ci soffermeremo sul lavoro integrato che coinvolge sia genitori che insegnanti. Il lavoro con i genitori E’ importante aiutare i genitori a prendere consapevolezza dell’immagine che hanno del bambino e di se stessi, ad esempio pensare che il bambino “si comporta male apposta” oppure che non è più possibile avere il controllo della situazione, per cui appare inutile impegnarsi assiduamente nell’insegnamento delle regole. Per i genitori la proposta più utile è un percorso semi-strutturato: da un lato lavorare su qualcosa di sistematico, dall’altro adattare e variare il percorso in modo da cogliere i problemi concreti cercando di affrontarli insieme.

Analizzando più in dettaglio questo percorso semi-strutturato, osserviamo che la prima sezione prevede la comprensione del problema DDAI e la preparazione al cambiamento tramite l’analisi di pensieri e comportamenti disfunzionali. Durante gli incontri mirati alla comprensione del problema vengono fornite delle informazioni corrette sul disturbo del figlio, si creano delle aspettative realistiche riguardo all’intervento, si raccolgono delle informazioni dai genitori rispetto all’attuale situazione e si danno informazioni sul training. Ai genitori viene insegnato un metodo per analizzare le situazioni, allo scopo di identificare i fattori che favoriscono l’instabilità del bambino: gli antecedenti (eventi che favoriscono l’insorgere di comportamenti negativi), i comportamenti-problema (analisi precisa di quello che il bambino compie) e le conseguenze (cosa succede dopo che il bambino ha manifestato un comportamento problematico).

La seconda fase serve ad introdurre alcune tecniche educative per individuare e gestire i comportamenti ‘negativi’ del bambino. Durante questi incontri viene fornito un aiuto ai genitori per strutturare la vita familiare in modo da aiutare il bambino a prevedere ciò che accadrà in famiglia, tramite la creazione di abitudini, routine, regole, e soprattutto fornendo delle informazioni di ritorno su come il bambino si sta comportando. Con l’aiuto di un consulente, i genitori possono auto-osservarsi su come si propongono ai loro figli di fronte alle situazioni complesse e come applicano le strategie di soluzione dei problemi.

Negli ultimi incontri i genitori dovrebbero imparare anche a riconoscere gli eventi “premonitori” dei comportamenti problematici del bambino per riuscire ad agire con un certo anticipo ed evitare i “soliti inconvenienti”. E’ importante che i genitori comprendano quanta influenza possono avere nell’orientare il comportamento del figlio, e che attraverso una maggiore coerenza, costanza e consapevolezza sono in grado di ottenere risultati positivi.

Il lavoro con la scuola

Il coinvolgimento degli insegnanti fa parte integrante di un percorso terapeutico - oltre che diagnostico - per il trattamento del bambino con DDAI. La procedura di consulenza sistematica prevede incontri regolari durante tutto l’anno scolastico, con una frequenza quindicinale per i primi tre mesi e mensile nel periodo successivo. A questi incontri sarebbe auspicabile partecipasse l’intero team di insegnanti, per quanto riguarda le scuole elementari, e i docenti col maggior numero di ore settimanali, nel caso delle scuole medie inferiori.

I principali obiettivi della consulenza agli insegnanti che hanno in classe bambini iperattivi sono: � informare sulle caratteristiche del DDAI e sul trattamento che viene proposto; � fornire appositi strumenti di valutazione (questionari e schede di osservazione) per cooperare alla

diagnosi; � mettere il docente nella condizione di potenziare le proprie risorse emotive e migliorare la relazione

con l’alunno; � spiegare come utilizzare specifiche procedure di modificazione del comportamento all’interno della

classe; � informare su come strutturare l’ambiente-classe in base ai bisogni e alle caratteristiche dell’alunno

con DDAI; � suggerire particolari strategie didattiche, per facilitare l’apprendimento dell’alunno con DDAI; � spiegare come lavorare, all’interno della classe, per migliorare la relazione tra il bambino con DDAI

e i compagni.

Da un punto di vista metacognitivo, prima di pensare a cosa fare di diverso per favorire l’attenzione

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dei bambini che faticano a controllarla, è necessario riflettere su cosa fanno già gli insegnanti per gestire l’attenzione dei propri alunni. Alcune domande-guida per la riflessione potrebbero essere utili, ad esempio: che strategie metto in atto per suscitare interesse verso la materia? e per evitare una frequente

disattenzione? cosa faccio per semplificare un argomento complesso? una volta formulata la domanda come

sollecito la risposta? come faccio a capire i livelli di attenzione degli alunni? come ripristino l’attenzione

degli alunni nel caso in cui sia diminuita?

Il consulente deve osservare come le strategie vengono applicate, verificare quali rinforzi sono veramente utili e gratificanti per ciascun ragazzo, evitando di promettere gratificazioni eccessive o troppo ridotte senza tener conto degli sforzi effettivi che deve fare il bambino per raggiungere un obiettivo.

Quale futuro per gli iperattivi?

Cosa ci possiamo attendere dai ragazzi con DDAI quando crescono? Sicuramente la prognosi di un ragazzo che viene seguito in modo specialistico è in generale migliore rispetto ad uno che non viene seguito o che assume solo farmaci. In età adolescenziale ciò che preoccupa di più sono i rapporti con i coetanei, i quali faticano a tollerare certi atteggiamenti non coerenti o impulsivi dei ragazzi con DDAI. La gestione del lavoro scolastico è molto difficoltosa e spesso questi ragazzi richiedono una continua supervisione per l’esecuzione dei compiti. Se il ragazzo si trova in una situazione scolastica e in un ambiente familiare capace di tollerare certi atteggiamenti negativi e saprà valorizzare i suoi lati positivi, molto probabilmente conserverà solo i tratti positivi del DDAI: il bisogno di novità e di cambiamento, valorizzando certi “talenti” poco evidenti, quali la molteplicità di interessi, l’estro, il pensiero divergente, la fantasia che potrebbero aiutarlo a costruirsi un futuro su misura per lui.

Da questo punto di vista può essere confortante sapere che diversi illustri personaggi dell’arte e della cultura erano iperattivi da bambini, e devono proprio a questa caratteristica del comportamento il loro successo artistico e professionale. Ma non bisogna neppure illudersi che questo ‘miracolo’ avvenga spontaneamente e in ogni caso. Il lavoro con gli iperattivi richiede molto tempo e sforzo anzitutto da parte degli adulti, se vogliamo che anche il bambino impari a sforzarsi per migliorare. Serve tempo per definire delle modalità condivise di interpretazione dei fenomeni, per applicare osservazioni sistematiche, per intervenire con metodiche che cerchino di rompere gli schemi comportamentali negativi. Non esistono strade brevi e sarebbe illusorio pensare che i farmaci, per quanto utili, possano assicurare effetti stabili senza un adeguato lavoro psicologico mirato al mantenimento dei miglioramenti ottenuti.

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5. L’INTEGRAZIONE E’ POSSIBILE?5

5.1 I DATI DELL’INTEGRAZIONE

Il report dello studio condotto nel 2006/’07 sul territorio regionale siciliano, per conto dell’IRRE Sicilia, sull’integrazione degli alunni disabili e sulla ‘risposta’ data nella scuola, non può che iniziare con una riflessione sui dati più aggiornati disponibili riguardo a: a) numero di allievi disabili inseriti nei diversi livelli scolastici, a livello nazionale prima e a livello

regionale poi (tab. 1 e 2); b) numero di insegnanti specializzati per il ‘sostegno’ cui i disabili sono affidati, anche in questo caso

prima a livello nazionale (tab. 1) poi a livello regionale (tab. 3).6

Tab. 1 - Dati relativi all’anno scolastico 2005/’06 (fonte: Ministero Istruzione) Totale alunni disabili inseriti nel sistema scolastico 178.220 Incremento rispetto all’anno precedente +6,2% Incremento rispetto a 10 anni prima +54% Quota di disabili sul totale degli alunni 2,2% (dato complessivo)

scuola dell’infanzia 1,1% scuola primaria 2,4% scuola media inferiore 3,1% scuola superiore 1,4%

Totale docenti di sostegno (dato nazionale) 83.761 Quota sul totale dei docenti 10% Incremento rispetto a cinque anni prima +27,6%

nel Meridione d’Italia: 2% superiore rispetto alle regioni del Nord e del Centro. Quota di alunni disabili per docente di sostegno

dato nazionale 2,0 nel Meridione 1,8

Tab. 2 - Dati, disaggregati per province della regione siciliana, sugli alunni disabili inseriti nei diversi

gradi scolastici. Anno scolastico 2005/’06 (fonte: Ministero Istruzione)

Numero di alunni disabili Province Sc. infanzia Primaria Media Superiore TOTALE AGRIGENTO 96 473 418 406 1393

CALTANISSETTA 88 477 408 275 1248

CATANIA 324 1794 1467 977 4562

ENNA 52 298 271 160 781

MESSINA 169 897 830 584 2480

PALERMO 409 1402 1382 1043 4236

RAGUSA 74 326 237 222 859

SIRACUSA 84 572 496 361 1513

TRAPANI 134 753 748 491 2126 Totale SICILIA 1430 6992 6257 4519 19198

Totale ITALIA 12009 61662 53256 34415 161342* * incluse le scuole non statali: 178220

5 Tratto da “L'integrazione possibile: Una ricerca sull’inserimento scolastico dei disabili nel territorio siciliano”, a cura di S. Di Nuovo, ricerca promossa e pubblicata dall’IRRE Sicilia (2007). 6 I dati regionali sono stati riportati, per maggiore facilità di lettura, in grafici riepilogativi. Si veda per il testo completo il sito http://www.irresicilia.it/ricerca/IRRE_ricerca_disabilit_DiNuovo.pdf

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% alunni disabili sul totale alunni Province Sc. infanzia Primaria Media Superiore TOTALE AGRIGENTO 0,74 1,90 2,51 1,62 1,75

CALTANISSETTA 1,08 3,00 3,57 1,77 2,45

CATANIA 1,23 3,09 3,46 1,63 2,44

ENNA 1,05 3,13 4,13 1,70 2,56

MESSINA 1,27 3,09 3,94 1,77 2,57

PALERMO 1,73 2,09 2,80 1,66 2,09

RAGUSA 0,89 2,00 2,10 1,39 1,66

SIRACUSA 0,84 2,84 3,52 1,67 2,30

TRAPANI 1,31 3,21 4,72 2,12 2,92 Totale SICILIA 1,21 2,64 3,32 1,70 2,29

Totale ITALIA 1,23 2,42 3,19 1,36 2,09

Tab. 3 - Dati, disaggregati per province della regione siciliana, sugli insegnanti di sostegno a tempo

indeterminato nei diversi gradi scolastici. Anno scolastico 2005/’06 (fonte: Ministero Istruzione)

Numero di docenti di sostegno (a tempo indeterminato)

Province Sc. infanzia Primaria Media Superiore TOTALE AGRIGENTO 39 201 172 62 474

CALTANISSETTA 44 188 133 53 418

CATANIA 55 504 434 125 1118

ENNA 15 121 84 40 260

MESSINA 79 445 429 83 1036

PALERMO 85 459 460 125 1129

RAGUSA 21 88 122 61 292

SIRACUSA 37 213 183 106 539

TRAPANI 42 217 369 95 723 Totale SICILIA 417 2436 2386 750 5989

Totale ITALIA 3413 17065 16291 7280 44049* * inclusi docenti a tempo determinato: 83761 (10% del totale docenti)

Se, sul piano puramente quantitativo, i dati sembrano fornire indicazioni positive sul tasso di

‘inserimento’ dei disabili, resta incerto su quali tipologie di allievi sono destinatarie di questo sostegno complessivamente in aumento, e quali altre tipologie potrebbero usufruirne e continuano a restarne invece escluse. “I dati disaggregati per tipologia di handicap non permettono un’analisi molto precisa in quanto la classificazione adottata, di tipo amministrativo, è legata ai requisiti richiesti al docente di sostegno più che alla descrizione dell’handicap dell’alunno. Per questo motivo sotto la voce ‘psicofisico’ è ricondotta un’ampia varietà di deficit sia di tipo fisico che mentale. Gli handicap sensoriali, visivo ed uditivo, costituiscono una minima parte (lo 0,10%) dell’1,68% di presenze complessive nelle scuole.” (Rapporto Miur-EDS).

Dati più analitici raccolti nella provincia di Catania in una ricerca sulle certificazioni (Aa. Vv., 1999) quantificavano nel 13,51% del totale delle categorie diagnostiche la presenza di deficit fisici, sensoriali o

genetici (tra le diagnosi più citate: 4,20% sindrome di Down, 3,90% ipoacusia o sordità, 1,20% cecità); il 7,81% delle diagnosi includevano deficit neurologici (epilessie, paresi spastiche, cerebropatie); il 48,94% ritardi evolutivi (solo il ‘ritardo mentale’, nei suoi diversi livelli, incide per il 42,3%).

Le diagnosi aggiuntive al deficit principale (quello per cui il sostegno veniva assegnato) comprendevano deficit di apprendimento (14,41%), disturbi del comportamento (3,30%), disturbi di

personalità (11,41%). Queste classificazioni diagnostiche non consentono da sole la proposta di sostegno, richiedendo l’associazione con una delle prime tre categorie citate.

Indagini meno estensive di quella citata, ma più recenti e condotti anche in contesti siciliani diversi, confermano sostanzialmente questi dati, che lasciano molto perplessi: quasi metà delle diagnosi per la certificazione di disabilità ai fini del sostegno siano attribuite a ‘ritardi’, spesso non meglio precisati: una quota che può apparire eccessiva e che con molta probabilità maschera, o ‘copre’, altri deficit di natura diversa, legittimando l’attribuzione dell’insegnante specializzato.

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I problemi riguardano pertanto criteri e modalità in base ai quali avviene l’attestazione di disabilità e la proposta di ‘sostegno’.

5.2 L’INTERVENTO DI ‘SOSTEGNO’, NORMATIVE E CRITERI SCIENTIFICI

La normativa per l’attribuzione del ‘sostegno’ Sul piano legislativo, dopo anni di attesa, il regolamento per la certificazione dell’handicap ai

fini dell'inserimento scolastico è diventato norma (D.p.c.m. n. 185 del 23 febbraio 2006). Per trarre alcuni spunti utili alla riflessione su cosa è disabilità e su quale integrazione è possibile

nella scuola di oggi, esaminiamo i passi fondamentali della nuova disciplina. Ai fini della individuazione dell’alunno come “soggetto in situazione di handicap”, le Aziende

Sanitarie dispongono appositi accertamenti collegiali, su richiesta documentata dei genitori o degli esercenti la potestà parentale o la tutela dell'alunno medesimo (art. 2 comma 1).

Gli accertamenti, da effettuarsi in tempi utili rispetto all'inizio dell'anno scolastico e comunque non oltre trenta giorni dalla ricezione della richiesta, sono documentati attraverso la redazione di un verbale di individuazione dell'alunno come soggetto in situazione di handicap ai sensi della legge 104/’92, e successive modificazioni. Il verbale, sottoscritto dai componenti il collegio, reca l'indicazione della patologia

stabilizzata o progressiva accertata con riferimento alle classificazioni internazionali dell'Organizzazione

Mondiale della Sanità nonché la specificazione dell'eventuale carattere di particolare gravità della medesima, in presenza dei presupposti previsti dalla citata legge 104. Al fine di garantire la congruenza degli interventi cui gli accertamenti sono preordinati, il verbale indica l'eventuale termine di rivedibilità dell'accertamento effettuato (art. 2 comma 2).

Gli accertamenti sono propedeutici alla redazione della diagnosi funzionale dell'alunno, cui provvede l'unità multidisciplinare, anche secondo i criteri di classificazione di disabilità e salute previsti

dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il verbale di accertamento, con l'eventuale termine di rivedibilità, ed il documento relativo alla diagnosi funzionale, sono trasmessi ai genitori o agli esercenti la potestà parentale o la tutela dell'alunno, e da questi all'istituzione scolastica presso cui l'alunno va iscritto, ai fini della tempestiva adozione dei provvedimenti conseguenti. (art. 2 comma 3).

Fa seguito la redazione del profilo dinamico funzionale e del piano educativo individualizzato previsti dalla legge 104. In sede di formulazione del piano educativo individualizzato, i soggetti previsti dalla legge 24 febbraio 1994, elaborano proposte relative alla individuazione delle risorse necessarie, compresa l'indicazione del numero delle ore di sostegno (art. 3 commi 1 e 2).

Gli Enti locali, gli Uffici Scolastici Regionali e le Direzioni Sanitarie delle Aziende Sanitarie, nel quadro delle finalità della legislazione nazionale e regionale vigente in materia, adottano accordi finalizzati

al coordinamento degli interventi di rispettiva competenza per garantire il rispetto dei tempi previsti per la definizione dei provvedimenti relativi al funzionamento delle classi. Gli accordi sono finalizzati anche all'organizzazione di sistematiche verifiche in ordine agli interventi realizzati ed alla influenza esercitata dall'ambiente scolastico sull'alunno in situazione di handicap (art. 3 comma 3).

L'autorizzazione all'attivazione di posti di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni, come previsto dalla legge 289/’2002, è disposta dal dirigente preposto all'Ufficio Scolastico Regionale sulla base della certificazione attestante la particolare gravità (art. 4).

Prima di diventare operativo, il regolamento necessita di una complessa serie di precisazioni e di accordi preliminari tra le istituzioni coinvolte. Sull’applicazione delle classificazioni internazionali dell'O.M.S., in base al quale il verbale di accertamento va fatto, non c’è univocità di posizione, per cui il riferimento ad esse non è affatto automatico e immediato. Le difficoltà hanno portato a slittamenti dell’attuazione del regolamento, ed all’esigenza che si definiscano intese e modalità comuni di azione non facili e non immediate7.

7 L’Assessorato alla Sanità della Regione Sicilia ha recepito la norma con Direttiva del 7 febbraio 2007. La diagnosi è attribuita, come in precedenza, alle Unità distrettuali di neuropsichiatria infantile, con la presenza anche dallo psicologo e del medico specialista nella patologia segnalata, previa richiesta documentata dei genitori o degli esercenti la potestà parentale o la tutela dell'alunno. Tali accertamenti dovranno in ogni caso essere effettuati entro il termine di 30 giorni dalla ricezione delle richieste (si ricorda che il 30 luglio è il termine individuato dalla L. 333 del 2001 per la definizione delle risorse strutturali e umane necessarie per l’anno scolastico successivo). Come codice di classificazione va usato l’ICD10, ed è proposto uno schema-tipo di verbale che va consegnato alla famiglia insieme alla diagnosi funzionale redatta ai sensi del DPR 24.2.1994. Viene precisato che l’accertamento di disabilità ai fini dell’integrazione scolastica prescinde dall’eventuale riconoscimento della condizione di disabilità ai

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In vista di queste definizioni, e del necessario confronto fra le istituzioni che devono attuare le norme e certificare l’handicap in situazione scolastica, non è pleonastico ripercorrere brevemente la storia (recente) della classificazione internazionale delle disabilità richiamata dal regolamento, per chiarire alcuni concetti fondamentali. Le classificazioni internazionali Nel 1980, superate le vecchie concezioni dell’handicap fino ad allora vigenti, la International

Classification of Impairment, Disabilities and Handicaps (ICIDH) dell’O.M.S. definiva l’handicap come condizione di svantaggio, conseguente a una menomazione o a una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socio-culturali. Quasi venti anni dopo, una revisione di questa classificazione, la International Classification of

Impairments, Activities, and Participation (ICIDH-2, O.M.S., 1997) ha ridefinito ulteriormente dimensioni e criteri per la diagnosi di disabilità. Infine, sempre dall’O.M.S. nel 2001 è stato messo a punto l’I.C.F. (International Classification of Functioning, Disability and Health) nel quale proprio l’introduzione dei termini ‘funzionamento’ e ‘salute’ segna la discriminante fondamentale rispetto alle precedenti concezioni. L’ICF non è più una classificazione delle “conseguenze delle malattie” – come sono il D.S.M. dell’American Psychiatric Association e l’I.C.D. (International Classification of Diseases) della stessa O.M.S.8, e come era stato concepito lo stesso ICIDH del 1980 - ma piuttosto delle “componenti della salute”, che ne identificano gli elementi e gli ambiti costitutivi, mentre le “conseguenze” si focalizzano sull’impatto delle malattie. In termini generali, la disabilità viene definita come “la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo”. In realtà questo è un termine “ombrello” che indica menomazioni, limitazioni dell’attività e restrizioni della partecipazione, aspetti negativi dell’interazioni tra un individuo (con una peculiare condizione di salute) e i fattori contestuali dell’ambiente in cui vive (Buono e Zagaria, 2003). Le diverse articolazioni descrivono gli ambiti della salute, dal punto di vista corporeo, individuale e sociale, che possono subire alterazioni (per i dettagli, cfr. Ianes 2004).

� Le “Strutture Corporee” (parti anatomiche del corpo, organi, arti e i loro componenti) e le “Funzioni Corporee” (funzioni fisiologiche o psicologiche dei sistemi corporei) possono comportare alterazioni e perdite significative strutturali e/o funzionali, definite condizioni di menomazione (impairment).

� Le “Attività Personali”, compiti e azioni che una persona compie a qualsiasi livello di complessità, possono subire limitazioni inerenti la natura, la durata e la qualità.

� Infine, la “Partecipazione Sociale”, intesa come coinvolgimento in una situazione vitale, riguarda l’interazione tra le funzioni, le attività e i fattori contestuali in tutte le aree e gli aspetti della vita umana; essa può subire restrizioni riguardo la natura, la durata e la qualità.

Grande importanza in questo modello assumono i fattori ambientali, estrinseci alla persona e includono elementi dell’ambiente naturale (tempo o spazio), ambienti costruiti dall’uomo (strutture, arredamenti, ecc...), gli atteggiamenti, i costumi, le regole e istituzioni, e gli altri individui.

Altrettanto importanti, i fattori personali includono genere, età, forma fisica, stile di vita, abitudini, educazione, istruzione, professione, esperienze presenti e passate, modalità comportamentali, carattere, stato psicologico e tutte le altre caratteristiche che possono intervenire nella condizione di compromissione, anche se a causa della loro grande variabilità non sono analiticamente classificati.

Il modello quindi: - parte da una specifica condizione di salute (la sua compromissione comporta un disturbo o una

malattia); - rileva le menomazioni nel funzionamento fisico e/o mentale; - evidenzia le limitazioni e le difficoltà che un individuo può trovare nello svolgimento delle attività e

le restrizioni alla partecipazione alla vita di relazione; - mette in costante relazione questi aspetti con i fattori personali ed ambientali che possono assumere

un ruolo di barriera o facilitazione.

sensi dell’art. 4 della legge 104/92 effettuato dalla Commissione medica e non è subordinata ad una sua ratifica, essendo finalizzato a garantire il diritto all'istruzione scolastica dell'alunno in situazione di handicap. 8 La decima versione dell'ICD è stata pubblicata in Italia nel 1992. Per una rassegna completa dei sistemi di classificazione O.M.S., e per i costanti aggiornamenti, si veda il sito della World Health Organization: http://www.who.int /classifications/en/

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Al di là della validità teorica del modello, e della sua utilità di applicazione a settori della disabilità adulta o subentrata a seguito di lesioni o incidenti nell’arco di vita, non pochi dubbi pone la sua utilizzazione ai fini della “indicazione della patologia stabilizzata o progressiva accertata” dell’allievo nella scuola, secondo quanto previsto dal citato Decreto 185/’06. Sia la definizione generale di disabilità, che le articolazioni sopra descritta della salute e delle sue alterazioni, trovano aree di rilevante incertezza diagnostica. Una di esse ad esempio è legata al fatto che nel manuale, tra le classificazioni relative all’attività e partecipazione (che fanno parte integrante, come si è visto, delle codifiche da cui si ricava, in negativo, la diagnosi di disabilità) si trovano tutti gli “Apprendimenti e applicazione delle conoscenze” (classificazioni d110 e seguenti), tra cui: d130 Copiare d135 Ripetere d140 Imparare a leggere d145 Imparare a scrivere d150 Imparare a calcolare d155 Acquisizione di abilità d159 Apprendimento di base, specificato e non specificato d160 Focalizzare l'attenzione d163 Pensiero d166 Lettura d170 Scrittura d172 Calcolo d175 Risoluzione di problemi d177 Prendere decisioni d179-199 Applicazione delle conoscenze. Se si accede alla interpretazione che comunque occorre un accertamento di menomazione (deficit strutturale o funzionale) per definire una certificazione di disabilità che richiede sostegno, si lascia alla diagnosi medica – non di rado diagnosi strumentale, prima ancora che clinica – l’ultima parola sulla decisione conseguente all’accertamento medesimo. E invece sappiamo bene che diversi mancati apprendimenti (dislessia e disgrafia inclusi) non hanno chiari segni di deficit documentabile ai fini della certificazione. La conclusione è che includere i disturbi gravi dell’apprendimento, magari congiunti a rilevanti turbe dell’emotività (quei casi, per intenderci, che provocano una grave limitazione delle attività e della partecipazione del soggetto alla vita scolastica) è possibile solo se una équipe compiacente decide di ‘forzare’ la diagnosi includendo la fatidica menomazione, o spingendo la classificazione sino al ritardo

cognitivo (disabilità conclamata) così da assicurare la possibilità di assegnazione del sostegno. Altrimenti il caso – per quanto grave e spesso ‘disperato’ e ‘disperante’ per la scuola, va affidato in toto agli insegnanti curriculari, con quali risultati è facile immaginare, specie se l’insegnante in questione ha due-tre casi del genere oltre al resto della classe da seguire. In definitiva, il problema che si pone – al momento della diagnosi per l’accertamento in base al Decreto 185/’06 – è la sovrapposizione frequente tra i concetti di menomazione, disabilità ed handicap, cui si aggiunge quello di svantaggio che, se riconducibile solo a condizioni di deprivazione culturale e sociale o alla condizione di minore immigrato, non rientra nei criteri elencati dall’O.M.S., ma comporta spesso un danneggiamento delle funzioni cognitive, dell’apprendimento e della vita di relazione, non inferiore a quello del deficit vero e proprio. Per non parlare dei casi di turbe gravi dell’emotività, dell’adattamento e del comportamento che implicano deficit dell’attività personale e della partecipazione sociale, ma senza evidente menomazione di organi o funzioni specifiche. Inquadrare nelle categorie I.C.F. fenomeni complessi e multidimensionali quali sindrome ADHD, autolesionismo, depressione infantile, autismo, Funzionamento Intellettivo Limite, ma anche i più generali e diffusi disturbi di apprendimento, diventa spesso un problema. Così può succedere che in alcuni contesti – dando per accertata una menomazione magari discutibile sul piano scientifico – il sostegno venga assegnato in modo generalizzato (da questa tendenza deriva probabilmente il tasso più elevato di certificazioni in alcune zone d’Italia); mentre in altri casi una interpretazione restrittiva può limitare il sostegno a casi evidenti di deficit sensoriali o motori (magari recuperabili con un supporto protesico) o a casi conclamati di ritardo mentale (spesso difficilissimi da gestire all’interno della scuola), lasciando senza supporto altri casi

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che del sostegno beneficerebbero moltissimo, ma che non rientrano nei criteri I.C.F. restrittivamente interpretati. In conclusione, risulta davvero difficile – e certamente confusivo per quanti sono preposti all’assegnazione del ‘sostegno’ - far coincidere le necessità di una ‘patologia stabilizzata o progressiva’, richiesta dalla 185/’06, con il riferimento a classificazioni internazionali O.M.S. che definiscono la disabilità in termini centrati invece sugli aspetti positivi del funzionamento e della salute, ben altro criterio rispetto all’handicap tradizionalmente inteso in base alla legge 104 del 1992. Il fatto che nella versione finale della 185/’06 manchi l’esplicita citazione dell’I.C.F. come criterio standard di classificazione O.M.S. potrebbe essere frutto proprio delle perplessità, a livello sia scientifico che tecnico, alle quali si è accennato in precedenza, e che secondo alcuni studiosi renderebbe preferibile utilizzare i criteri dell’I.C.D. (manuale delle patologie) peraltro messo a punto dalla stessa O.M.S.9

A tale riguardo, se esaminiamo attentamente il testo della normativa nei due passi in cui fa riferimento ai criteri internazionali, e consideriamo non casuali le differenze lessicali in essi contenute, rileviamo che si parla genericamente di “riferimento alle classificazioni internazionali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità” per il verbale di accertamento della patologia stabilizzata o progressiva e per la definizione della gravità, mentre per la diagnosi funzionale, preliminare al piano individualizzato, il riferimento è “anche” ai “criteri di classificazione di disabilità e salute”. Non è escluso pertanto che si finisca col far riferimento a due diverse classificazioni, nel primo caso a quella più direttamente connessa alla patologia (l’I.C.D. nella sua ultima decima revisione), nel secondo all’I.C.F. più legata ai criteri di ‘salute’ cui tendere per la diagnosi finalizzata alla ri-abilitazione. Si creerebbe così non solo ulteriore confusione nella già complessa procedura diagnostica, ma una ripresa del criterio di “chiara ed evidente patologia” per l’accertamento preliminare, esattamente il contrario rispetto a quanto l’O.M.S. (e il buon senso) vorrebbero proporre. Criteri per l’accertamento della ‘disabilità’

In realtà, i criteri per l’individuazione del disabile da ‘certificare’ prima e da ‘sostenere’ poi – a prescindere dal ‘manuale’ di classificazione internazionale che si prende a supporto - dovrebbero essere molteplici e concorrenti tra loro:

- implicazioni dei diversi gradi di compromissione del funzionamento e della salute della persona; - età di insorgenza della compromissione e sue conseguenze sullo stato presente; - relazione fra prestazioni intellettive e adattive; - relazione tra fattori biologici / cognitivi / comportamentali / adattivi; - punti di forza che consentono una prognosi; - elementi utili per la programmazione di un intervento realizzabile nello specifico contesto. Ai fini della riduzione del disagio è essenziale la distinzione tra: - diagnosi ai fini dell’inquadramento nosografico, utile per la certificazione e l’individuazione del tipo,

della quantità e della qualità del supporto; - accertamento (assessment) delle condizioni del soggetto, che comporta un’analisi funzionale delle

abilità, delle competenze e dei pre-requisiti posseduti in quello specifico momento e in quello

specifico contesto: processo finalizzato alla determinazione di obiettivi ri-abilitativi. La diagnosi deve fare riferimento a categorie generali (nomotetiche: criteri tradotti in codici e riferiti alla

patologia) mentre l’assessment fa riferimento alle caratteristiche peculiari della singola persona, considerata in modo olistico e idiografico e mirata ai punti di forza e al ‘funzionamento’ da recuperare per quanto possibile.

Questi due momenti devono essere però strettamente connessi tra loro, per evitare che il primo (la diagnosi per la certificazione) diventi un ostacolo insormontabile che preclude il secondo, oppure – nell’alternativa oggi molto praticata – un escamotage per assegnare il sostegno a chi davvero ne ha bisogno, previa forzatura (in negativo) della diagnosi iniziale.

La regola imprescindibile nel collegamento far le due fasi è che nel processo di ‘integrazione’ sociale va evitata la ‘dis-integrazione’ della persona, e va perseguito nel modo migliore l’interesse complessivo della persona considerata come tale e non come ‘caso’.

A monte di questa regola generale bisogna ribadire le differenze tra i possibili approcci al soggetto in situazione di diversità e di dis-agio:

9 Come detto, l’applicazione della norma fatta dall’Assessorato regionale siciliano con la direttiva del 7 febbraio 2007 fa appunto esplicito riferimento all’I.C.D. anziché all’I.C.F.

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- riabilitazione / assimilazione: inserimento del diverso (‘aggiustato’ il meglio possibile ‘tecnicamente’) in un sistema che non si modifica;

- integrazione: inserimento del diverso (di cui vengono abilitate tutte le potenzialità) in un sistema che si modifica, perché ognuno combini le proprie capacità con quelle dei diversi, e tutti producano un insieme qualitativamente migliore.

Il primo approccio quantifica la patologia invalidante della persona e gli assegna un supporto tecnico per recuperarla quanto possibile; il secondo accerta le condizioni di carenza o deficit rispetto al modello di salute e benessere, e organizza il contesto dell’intera organizzazione scolastica per diminuire – anche con un intervento tecnico-riabilitativo, ma non solo – le condizioni di svantaggio di alcuni e incrementare il benessere di tutti.

5.3 IL PROBLEMI DEL ‘SOSTEGNO’

I problemi concreti con cui si scontra il ‘sostegno’ nella scuola di oggi sono diversi. Ne elenchiamo alcuni, emersi e sottolineati da un ampio campione di insegnanti curriculari e di sostegno intervistati nell’ambito di una precedente ricerca promossa dal GLIP di Catania in collaborazione con l’Università, parallelamente alla ricerca sulle certificazioni di disabilità nell’ambito provinciale. a. Presenza di disturbi del comportamento

I disturbi del comportamento, associati ad altri deficit di apprendimento o anche da soli, sono molto frequenti: alcune scuole indicano tra 5 e 10 casi ‘problema’ per plesso scolastico; complessivamente i disturbi comportamentali risultano assenti solo nel 18% delle certificazioni esaminate. Tra i disturbi più segnalati dagli insegnanti: inibizione, non assertività, aggressività, iperattività. In qualche scuola gli insegnanti riferiscono di bambini con problemi emotivi e comportamentali molto gravi, ma che non risultano segnalati per ragioni familiari (v. il successivo punto c). La sensibilizzazione delle famiglie a questi problemi è ancora carente, mentre diffusi sono ancora tabù sociali e diffidenze verso gli operatori della sanità mentale. I disturbi del comportamento hanno in genere una notevole incidenza sulla gestione della classe, nel senso che producono effetti dirompenti anche sugli altri allievi. Spesso non vengono attuate strategie specifiche per fronteggiare questi problemi, proprio perché – come già segnalato – è difficile ‘certificare’ allievi che abbiano solo questo tipo di deficit, e quindi non è attuabile un trattamento specializzato. b. I ‘gravi’

Un problema di difficilissima soluzione è la presenza di rilevanti disabilità (autismo, ritardo mentale medio-grave), che gli insegnanti ritengono impossibile trattare sempre e comunque nella scuola. Qualche intervistato ha parlato di “ideologia dell’integrazione a tutti i costi”, ed in effetti risulta fuorviante pensare che gli incrementi della socializzazione (come recitano molti piani individualizzati per questi casi) bastino a configurare un adeguato processo riabilitativo integrale che richiederebbe strutture - e in certi casi anche tecnologie – specializzate e non acquisibili dalla singola scuola. Non si ritiene sufficiente la deroga al criterio quantitativo di assegnazione del sostegno per garantirne la reale efficacia in casi così difficili. Occorrerebbe (come già ricordava Gardner, tr. it. 1985) una programmazione comune e un coordinamento tra le strutture specializzate e la scuola, che resterebbe comunque responsabile del progetto abilitativo pur se non unica protagonista di esso; ma questa prospettiva di cooperazione ‘a rete’ viene spesso frustrata dalla concreta accessibilità delle strutture esterne, spesso puramente per un problema di organizzazione logistica e dei trasporti. c. I rapporti con le famiglie.

La famiglia è chiamata dalle norme vigenti a cooperare attivamente con la diagnosi e la programmazione del trattamento dei figli disabili. Come si è visto, la richiesta di attribuzione di sostegno deve provenire, o almeno essere avallata col consenso, dai genitori; la programmazione individualizzata è trasmessa ai genitori che dovrebbero partecipare attivamente ad essa. Ma andare oltre la accettazione passiva, qualche volta persino conflittuale, della certificazione e oltre la delega alla scuola del processo riabilitativo è quasi sempre utopico. Dietro questa posizione non esiste solo il disimpegno (in certi casi reale), ma anche il pregiudizio verso il rischio che la certificazione comporti un “marchio indelebile” (anche questo rischio in certi casi è

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reale) e non di rado l’atteggiamento di difesa verso una disabilità del figlio non accettata o non compresa nel

suo vero significato e nelle possibilità di effettiva riabilitazione10. d. L’insegnamento ‘individualizzato’ e la sua concreta realizzazione

La definizione prevalente di ‘insegnamento individualizzato’ riguarda la programmazione di ‘microunità’ per il bambino disabile, in accordo con le attività programmate per la classe (Ianes, Celi e Cramerotti, 2003). In sostanza, il bambino insieme all’insegnante di sostegno può seguire in parallelo le attività della classe utilizzando i suoi sussidi o altri strumenti specifici. Ciò, tuttavia, non sempre è possibile, ad esempio a causa della difficoltà dell’argomento trattato dalla classe; in questi casi il bambino segue un argomento collaterale insieme all’insegnante di sostegno. Il rischio che questa prassi di insegnamento specializzato – adeguata in certi casi – si trasformi in una ‘scuola speciale’, con l’isolamento anche fisico dal contesto complessivo, è sempre presente. In ogni caso, le micro-unità dovrebbero prevedere l’uso di obiettivi e curriculi semplificati, così come la metodologia e i sussidi utilizzati; ad esempio - per usare i termini riferiti dagli insegnanti nelle interviste - “rinforzi continui”, “valutazione trasparente” cioè comunicata periodicamente al ragazzo e alla sua famiglia. e. “Classe aperta” e “microgruppi” all’interno o all’esterno della classe

Un problema è mantenere l’equilibrio tra attività all’interno e/o all’esterno della classe. In alcune scuole le attività di sostegno si svolgono sempre o prevalentemente all’interno della classe. Spesso vengono svolte separatamente le attività di psicomotricità (le attività motorie sono prevalenti specie nelle elementari), e quelle apprendimento delle abilità sociali (orientamento stradale, uso dei mezzi pubblici, uso del denaro). La differenziazione è finalizzata soprattutto: - alla maggiore semplificazione dei contenuti e dei metodi (disegno, attività fisica, relazione uno-a-uno con l’insegnante); - alla diversificazione dei sussidi adoperati; - allo sviluppo e potenziamento degli aspetti motivazionali. In alcune scuole gli insegnanti intervistati hanno puntualizzato come l’intervento in piccolo gruppo serve da mediazione tra l’intervento individualizzato e quello nel grande gruppo-classe, che necessariamente comporta contenuti semplificati. Tutto ciò, per non scadere in una emarginazione strisciante o in una ‘delega’ all’insegnante di sostegno, richiede un costante coordinamento e una accurata programmazione complessiva, che è oggetto del punto successivo. f. Coordinamento all’interno della scuola e tra scuola e istituzioni esterne

La programmazione / verifica comune degli obiettivi è indispensabile per garantire una reale gestione del ‘caso’ di disabilità da parte di tutta la comunità scolastica. Le schede previste dalla prassi della diagnosi funzionale e del piano educativo personalizzato non possono ridursi – come spesso purtroppo accade, e la nostra ricerca lo ha confermato – a pura routine ripetitiva e stereotipata, ma devono essere il mezzo mediante il quale la programmazione e la verifica si concretizzano come luogo di collaborazione fra tutte le componenti della comunità che attua la riabilitazione e la integrazione dell’alunno ‘diverso’. Esiste inoltre il problema dei tempi, spesso strettissimi, per consentire all’allievo in difficoltà di poter entrare al più presto nel programma riabilitativo senza far passare, nell’inattività in attesa di conclusione delle procedure, tempo prezioso che rischia di aggravare la situazione di partenza. Gli insegnanti segnalano inoltre il problema dei casi più ‘urgenti’: non potendo effettuare, per oggettivi impegni dell’équipe multidisciplinare, tutte in contemporanea le diagnosi dei diversi alunni segnalati vanno programmati interventi sia diagnostici che riabilitativi a partire dagli alunni che ne hanno bisogno più urgentemente. Spesso però questa urgenza non è nota a priori e va inferita dall’osservazione che gli insegnanti stessi devono fare, senza averne in certi casi la formazione adeguata e gli strumenti a disposizione. Si rischia così di dichiarare più ‘urgenti’ casi che presentano disturbi appariscenti ed eclatanti più che effettivamente gravi, mentre l’urgenza non viene segnalata per casi che solo in seguito risultano averne maggiore bisogno. Ultimo problema, ma non per ordine di importanza nelle segnalazioni degli insegnanti, quello dei rapporti con l’ASL e con gli specialisti, troppo sporadici e saltuari, senza una vera collaborazione che vada oltre la compilazione della scheda per diventare consulenza stabile alla scuola e ai casi difficili. Casi che la stessa

10 Per i problemi legati alla accettazione dell’handicap da parte delle famiglie ed ai possibili interventi di coinvolgimento, si veda il volume curato da Di Nuovo e Buono (2004).

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équipe multidisciplinare dell’ASL contribuisce ad individuare, diagnosticare e ‘certificare’: ma – dicono con amarezza molti insegnanti – “poi tutto finisce lì”. La presenza stabile di figure quali lo psicologo scolastico, pur senza cedimenti a processi di ulteriore delega del caso difficile all’esperto, potrebbe fornire continuità alla consulenza diagnostica e riabilitativa, e alla costante verifica empirica dell’efficacia del lavoro svolto.

5.4 CONCLUSIONI

L’integrazione scolastica degli allievi disabili è un’esperienza iniziata ormai tanti anni fa, ma che a lungo si è fondata sull’inclusione, considerata come il processo per cui l’allievo in difficoltà va inserito nel contesto scolastico, ritenuto fondamentalmente omogeneo. Solo di recente è stato affermato il concetto di speciale normalità, per il quale lo studente disabile appartiene ad una categoria più generale in cui rientrano anche tanti altri studenti: quella di essere soggetti con bisogni educativi particolari. Proprio questa peculiarità personale di bisogni apre ad un importante cambiamento di prospettiva, alla possibilità di vedere nel disabile una persona olisticamente considerata nella sua unità psico-fisica e in continua relazione con il gruppo in cui è inserita e con il contesto più ampio che deve prendersene cura in un lavoro di ‘rete’.

Così la famiglia del disabile, ma anche il suo contesto, devono tornare al centro del processo riabilitativo del quale la scuola è il volano e il centro propositivo ed attuativo. Famiglia e contesto sono il luogo in cui si concretizza l’attenzione alla qualità della vita, della formazione di identità e della costruzione di fiducia necessaria per una reale integrazione di chi ha bisogni ‘speciali’. In questa logica complessiva occorre certamente ripensare il ruolo del ‘sostegno’: e i dati raccolti nella nostra ricerca e riportati nelle pagine precedenti ci danno importanti indicazioni al riguardo.

Abbiamo visto come i genitori dei disabili, pur in presenza di casi, relativamente numerosi, di rapporti positivi con i compagni e con i docenti sia curriculari che di sostegno, vivono negativamente l’esperienza - pregressa o attuale - di discontinuità nel supporto o di scarsa attenzione ai reali bisogni del figlio disabile.

Alla luce di questi dati, si può affermare che il ‘sostegno’ non può più consistere nell’assegnazione di un insegnante specializzato alla scuola, che finisce per delegare a lui i casi-problema, ma deve avvalersi di una intera comunità educante che si specializza per migliorare le capacità di apprendimento, di relazione, e la qualità di vita dei disabili.

Riassumendo quanto fin qui detto, quale ruolo può assumere oggi la funzione di ‘sostegno’ dell’insegnamento specializzato? Per definirlo proficuamente, è indispensabile anzitutto passare dalle concezioni di “patologia che richiede terapia” e/o “menomazione che richiede sostegno”, ad una di arricchimento ed empowerment:

� del singolo in condizione di disabilità / svantaggio / handicap; � della intera scuola considerata come risorsa di sviluppo per tutti e quindi di reale integrazione per chi

ha bisogni ‘diversi’. Oltre il supporto che a questo passaggio può dare la ridefinizione dei criteri classificatori

internazionali prima illustrati, è bene ricordare che anche la normativa italiana non è nata con gli scopi che tante volte ad essa sono stati attribuiti da applicazioni attente all’aspetto burocratico più che a quello sostanziale.

La già citata Legge 517 del 1977 istitutiva del ‘sostegno’ recita all’art. 2: “Ferma restando l'unità di

ciascuna classe, al fine di agevolare il diritto allo studio e la promozione della piena formazione della

personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative

organizzate per gruppi di alunni della stessa classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare

interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell'ambito di tale attività la scuola

attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap con la prestazione di insegnanti

specializzati”.

Nella Circolare Ministeriale n. 169 del 1978, applicativa della legge 517, si parlava della costituzione dei gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, finalizzati alla promozione dei processi di apprendimento, “correlata alle esigenze della dinamica interna della scuola”. I gruppi “devono intendersi

come strutture organizzative non rigide, ma flessibili e a carattere temporaneo.”

Nella successiva Circolare Ministeriale n. 178 del 1978 si legge: “per iniziative di sostegno vanno

intese tutte quelle attività che il Collegio dei Docenti, su proposta dei Consigli di Classe e sulla base dei

criteri generali indicati dal Consiglio di Istituto, ritiene necessario adottare al fine di colmare i divari di

partenza fra gli alunni e di superare comunque gli scompensi che si dovessero rilevare nel corso degli studi

sul piano dell'apprendimento. Dette attività si caratterizzano, quindi, per l'adozione di particolari

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accorgimenti metodologici, compresi gli interventi individualizzati, atti a favorire il raggiungimento degli

obbiettivi anzidetti”.

E ancora con la C.M. 199 del 1979 il Ministero precisava: “Si noti che la legge non parla di

insegnanti di sostegno, ma di forme particolari di sostegno, di vario tipo e di diversa competenza, ma la

locuzione insegnanti di sostegno è ormai così nell'uso comune che si può anche accettarla ufficialmente.” Pareva allora scontato che non si dovesse mai delegare al solo insegnante di sostegno la formulazione e l'attuazione del “Progetto Educativo Individualizzato” a sostegno del disabile, poiché – se non c’è una presa in carico da parte di tutti i docenti e dell’intera comunità scolastica - l'alunno sarebbe ulteriormente isolato anziché integrato nel contesto scolastico.

Quando, nel 1986, furono approntati i nuovi programmi dei “corsi biennali di specializzazione” per la formazione degli insegnanti di sostegno, fu esplicitamente ribadito: “Il processo di integrazione

dell'alunno riguarda tutti i docenti e l'insegnante specializzato ha il compito precipuo di far sperimentare al

contesto educativo la dinamica delle esigenze degli alunni portatori di handicap”. Dalla molteplicità delle competenze che i programmi attribuiscono all'insegnante specializzato, si deduce pure che l'attribuzione delle ore di intervento non può essere programmata secondo criteri aritmetici, in quanto l'insegnante ‘di sostegno’ non è assegnato al singolo alunno, ma all'istituzione scolastica in cui l'alunno disabile è presente, mentre il criterio di assegnazione (un insegnante ogni 4 allievi ‘certificati’ come disabili, con eventuali deroghe in base alla gravità) serve solo a regolare la distribuzione sul territorio degli insegnanti specializzati.

La precisazione delle attività dell’insegnante specializzato, indicate nella premessa ai programmi del 1986, fu ribadita anche nei nuovi programmi dei corsi biennali varati nel giugno 1995; in essi veniva precisato che gli scopi dell’integrazione sono ampi e non solo limitati all’apprendimento (il riferimento è anche all’art. 12 della legge 104/’92), mentre l’assegnazione del ‘sostegno’ – inteso come figura docente - al solo disabile certificato, penalizzerebbe una vera integrazione, col rischio di tornare alla ‘scuola speciale’.

L’art. 5 del Decreto Interministeriale 178 del 1997 prevedeva che l’insegnante non fosse più considerato come figura di ‘sostegno’ solo per l’handicap certificato dalle équipes del Servizio Sanitario Nazionale, ma piuttosto per tutte le forme di disabilità che perturbano il normale ciclo evolutivo, e addirittura come supporto all’intera comunità scolastica, “che può destinare le risorse del sostegno anche per progetti

specifici di intervento sul disagio, la dispersione, l’integrazione multiculturale, ecc.”, in una interpretazione invero molto estensiva che si è subito caratterizzata come irrealizzabile per la cronica mancanza di personale e di fondi, ma anche di preparazione e di formazione mentale a questo radicale cambiamento di prospettiva.

Come si vede – al di là di qualche interpretazione utopistica per la scuola italiana - la norma istitutiva del ‘sostegno’, le prime circolari applicative, e i programmi per la formazione dei docenti specializzati, lasciavano ampio spazio per un lavoro rivolto non solo al singolo allievo ‘certificato’, ma a gruppi di allievi con esigenze specifiche, anche di apprendimento e/o adattamento: spazio che troverebbe bene un accordo con le più recenti classificazioni internazionali di cui si è detto in precedenza. Trent’anni dopo, le norme – e la logica che le sostiene – sembrano invece voler tornare al ‘sostegno’ come supporto tecnico al singolo disabile certificato, pur mantenendo il riferimento a classificazioni internazionali di cui il legislatore sembrerebbe ignorare le vere coordinate.

Quindi: sostegno al disabile definito ai sensi dei criteri dell’O.M.S., ma con quale interpretazione di essi? E’ da escludere che un insegnante specializzato si occupi, nell’ambito della programmazione della scuola, dei ragazzi con sindrome ADHD, o di gruppi di dislessici, anche se non certificati come disabili ai sensi dell’accertamento di legge? Oppure bisogna necessariamente qualificarli come disabili (includendo quindi la ‘menomazione’ per rientrare nei criteri della classificazione internazionale) per poterli aiutare con interventi specializzati?

Un ‘funzionamento intellettivo limite’ (quindi senza ritardo mentale vero e proprio, ma con gravi deficit di apprendimento e adattamento) deve essere necessariamente certificato come handicap perché possa trovare l’ausilio senza il quale scivolerebbe inevitabilmente verso il vero ritardo?

Più in generale, l’integrazione dell’allievo con problemi emotivi e comportamentali deve essere legata necessariamente alla certificazione o può essere oggetto di un’azione di integrazione dell’intera comunità scolastica?

Si è già detto che in un’ottica più ampia – peraltro prevista dalla Legge 517 di trent’anni fa - il ‘sostegno’ dovrebbe favorire l’integrazione come intervento di formazione/trasformazione globale nei confronti degli alunni con problemi e disagi, e come progetto di ristrutturazione dell’intera comunità

educativa, di cui l’insegnante specializzato è il promotore e l’animatore. Perché problemi così ‘strutturali’ possano trovare una ragionevole speranza di soluzione, si evidenzia

una doppia esigenza.

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� E’ necessario un riassetto strutturale della destinazione di risorse all’integrazione, che consenta di prevedere una quantità di figure professionali (docenti specializzati, figure di supporto, componenti delle equipe multidisciplinari, psicologi scolastici) adeguata al bisogno del vero ‘sostegno’. Queste risorse sono state finora sempre condizionate dai ‘tagli’ e dai risparmi connessi alla gestione della scuola, senza considerare che la riabilitazione, se non attuata per tempo in modo adeguato, ha poi dei costi ulteriori al di fuori del sistema scolastico, e dunque investire (correttamente) in prevenzione non è mai uno spreco, da sanare con i periodici tagli di personale e di spesa pubblica che ogni legge finanziaria annualmente propina.

� Occorre programmare una formazione specifica del docente specializzato che tenga conto degli aspetti innovativi (psicologia sociale e di comunità, gestione delle relazioni in gruppo e tra gruppi, analisi istituzionale, climi organizzativi) che sono stati finora sottovalutati nei percorsi formativi. La formazione dell’insegnante specializzato non può mirare solo all’acquisizione delle (peraltro necessarie) competenze tecniche per il recupero della specifica disabilità: formazione che andava bene anche per le scuole speciali. La formazione specialistica se, come previsto, deve avvenire a livello universitario, deve tendere a formare un educatore esperto nella comunicazione e nella programmazione, e perciò capace di realizzare i necessari contesti relazionali idonei a favorire lo sviluppo degli alunni più deboli (Albanese, 2006).

Ma, parallelamente alla razionalizzazione degli investimenti sulla riabilitazione, ed al rinnovarsi delle modalità formative dei futuri insegnanti di ‘sostegno’, occorre riconvertire tutta la scuola alla logica stessa del ‘sostegno’, indirizzato come si è detto non più soltanto al singolo ‘portatore di handicap’ ma a tutte le forme di disabilità e di svantaggio, da riabilitare e recuperare mediante specifici progetti che tutta la scuola deve condividere ed attuare. Occorre perciò incrementare le competenze riabilitative di tutti gli insegnanti, anche di quelli curriculari che pure devono essere in condizione di trattare – per la parte di loro competenza - gli allievi ‘difficili’.

Altro aspetto essenziale di una nuova cultura del recupero del disagio e della disabilità è l’incremento e il miglioramento del lavoro ‘di rete’, che vede una collaborazione costante di scuole, famiglie, servizi territoriali sociali e sanitari, strutture riabilitative, università, enti locali, gruppi di volontariato. La definizione dei criteri deducibili dalle classificazioni internazionali, che la legge menziona ma su cui, come si è visto, tanti problemi sussistono, potrebbe essere l’occasione per un primo lavoro comune tra quanti questi criteri sono chiamati ad applicare. E un coordinamento è indispensabile per fornire risposte adeguate ai problemi e alle difficoltà operative che gli insegnanti segnalano; risposte che la scuola, da sola, spesso non può dare.

Solo questo lavoro coordinato, e la partecipazione di tutte le risorse e le strutture disponibili, consentiranno la promozione di una sempre più diffusa “cultura della diversità”, e la reale integrazione nella scuola delle persone con vari tipi di disabilità: persone non ‘diverse’, ma con bisogni ‘speciali’.

BIBLIOGRAFIA PER APPROFONDIMENTI

Albanese O. (2006) Disabilità, integrazione e formazione degli insegnanti. Esperienze e riflessioni. Edizioni Junior, Bergamo.

Canevaro A., Ianes D. (2003). Diversabilità. Storie e dialoghi nell'anno europeo delle persone disabili. Erickson, Trento.

Di Nuovo S., Buono S. (2004) Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento. Città Aperta ed., Troina.

Ianes D, Celi F., Cramerotti S. (2003) Il piano educativo individualizzato. Erickson, Trento. Ianes D. (2004). La diagnosi funzionale secondo l’ICF. Il modello OMS, le aree e gli strumenti. Erickson,

Trento. O.M.S. (1992) ICD-10, Decima revisione della classificazione internazionale delle sindromi e disturbi

psichici e comportamentali. Masson, Milano. O.M.S. (2001) ICF, International Classification of Functioning, Disability and Health. Tr. it. ICF,

Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute. Erickson, Trento 2002. Vianello R. (2008) Disabilità intellettive. Junior, Bergamo. AREA: Associazione regionale amici degli handicappati - http://www.arpnet.it/area/welcome.htm Associazione Centro Documentazione Handicap - http://www.accaparlante.it Handicap Risposte Online - http://www.risposteh.it Sito"Disabilità intellettive e Ritardo mentale" - www.ritardomentale.it