quando tutto sembrava perduto

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Domitilla Renoir, sentimentale

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Domitilla Renoir

QUANDO TUTTO SEMBRAVA PERDUTO

 

 

 

 

 

 

 

 

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QUANDO TUTTO SEMBRAVA PERDUTO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-294-5 In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Aprile 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Alle mie bambine Martine, Charlotte e Anne Karol

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Prologo Venticinque anni prima Mancavano quindici minuti alle undici. Christine guardò ancora una volta l’orologio poi riprese a sorseggiare nervosamente la sua bibita. Di lì a poco suo padre sarebbe arrivato per riportarla a casa e guai se non si fosse fatta trovare pronta. Era già tanto che lui le avesse concesso di partecipare al ballo di fine anno e di restare sveglia fino a quell’ora. Le suore della Scott Maxwell School, uno dei più prestigiosi collegi di Gi-nevra, erano famose per il loro rigore, ma il padre di Christine, il Co-lonnello Hubbert, lo era ancora di più. Non gli era bastato sapere che la direttrice in persona avrebbe presenziato alla festa, aveva chiesto di prendervi parte egli stesso, per vigilare meglio sulla condotta di sua fi-glia. Per fortuna, Suor Margaret, l’organizzatrice della serata, si era det-ta contraria alla presenza di qualunque genitore: la festa era per i ragaz-zi e gli adulti avrebbero dovuto mettersi da parte, per una volta. Non senza una punta di livore aveva poi lasciato intendere al Colonnello che la sua richiesta le era sembrata un’offesa nei riguardi della scuola in quanto metteva in dubbio, a suo dire, la capacità delle suore di tenere a bada delle giovani collegiali. “Sorella”, aveva prontamente ribadito l’uomo, “quando si mettono in-sieme cinquanta ragazzine di dieci anni e altrettanti maschietti, peraltro provenienti da una scuola pubblica, la situazione può sfuggire di mano a chiunque.” A Suor Margaret non era sfuggita una certa nota di disprezzo nel modo in cui il suo interlocutore aveva pronunciato la parola pubblica, ma ciò che la lasciava più sbalordita era quell’atteggiamento così retrogrado, persino per una donna religiosa e conservatrice come lei. Atteggiamen-to del resto, del tutto ingiustificato data l’indole mansueta della piccola Christine. Alla fine il Colonnello si era arreso, riuscendo però a porre un ferreo limite sull’orario di ritorno a casa: alle undici avrebbe atteso sua figlia

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in auto di fronte al giardino dell’antico edificio settecentesco in cui era alloggiato il collegio. Christine non aveva voglia di andare via. Da mesi attendeva quella se-rata come l’occasione giusta per stringersi a Samuel in un ballo roman-tico e sentire il suo cuore battere contro il suo. Sentiva che quel ragaz-zino dai capelli neri, che tante volte aveva visto giocare nel cortile della scuola pubblica, durante le passeggiate lungo il fiume in compagnia delle compagne e delle immancabili suore, era l’uomo cui avrebbe de-dicato tutto il suo amore. Lo credeva davvero, dal profondo di quella meravigliosa ingenuità e di quella purezza senza compromessi che solo una bambina di dieci anni sa avere. Da quando le suore avevano annun-ciato che alla festa di fine anno sarebbero stati invitati anche gli alunni della scuola pubblica Christine non era riuscita a pensare ad altro che a quel grande evento. Le sembrava un miracolo. Forse la risposta alle sue preghiere. Fino allora la fine dell’anno scolastico era sempre stata festeggiata con un’escursione alle rocce di Pierres du Niton. Le collegiali, pero, erano solite partecipare senza troppo entusiasmo a quell’immancabile appun-tamento, anche perché per tutto il giorno Suor Margaret non faceva al-tro che parlare della bellezza della baia e della sua importanza per il tu-rismo svizzero. Quell’anno, per la prima volta, la direttrice si era decisa a offrire alle ragazze un’occasione di meritato svago e di reale divertimento. La noti-zia del ballo aveva reso tutte euforiche e i lunghi preparativi avevano trasformato i mesi primaverili in una continua festa. Christine, durante le passeggiate pomeridiane, non aveva mancato occasione di rivolgere a Samuel sguardi civettuoli che lui presto aveva iniziato a ricambiare. E dopo lo scambio di sguardi era iniziato quello dei bigliettini, attraverso i quali, a poco a poco, erano arrivati a dichiararsi reciprocamente il loro amore. Eppure la lunga attesa di quel momento speciale non era stata ripagata nel modo giusto. Durante la prima parte della festa avevano ballato sempre insieme, senza mai separarsi l’uno dall’altra, sussurrandosi all’orecchio parole dolci e a lei tutto era sembrato perfetto, esattamente come l’aveva sognato. Le cose erano cambiate quando Samuel aveva manifestato il bisogno di allontanarsi un attimo per ragioni personali. Quell’attimo si era trasformato in una lunghissima mezz’ora durante la quale Christine l’aveva cercato in ogni angolo della grande hall del pa-lazzo, adibita a sala da ballo.

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Guardò ancora una volta l’orologio dando un ultimo sorso alla sua bibi-ta. Cinque minuti alle undici, aveva appena il tempo di raccogliere le sue cose e avviarsi verso il giardino, dove suo padre di certo la stava già aspettando. Fu allora che una sua compagna la raggiunse. “Christine, sei riuscita a trovarlo?” “Macché, Isabelle, niente da fare. E purtroppo devo correre via, mio padre si arrabbia se lo faccio aspettare.” Isabelle bevve senza troppa voglia un po’ della bibita che aveva con sé, poi ribatté con sincero dispiacere. “Mi dispiace che la serata sia finita così. Ti accompagno alla macchina, ti va?” Le due ragazze si avviarono verso l’uscita, ma a metà del cammino che conduceva verso il cancello, si arrestarono di colpo. Seduto su una delle panchine di marmo che circondavano un’enorme fontana, c’era Samuel. E non era solo. Una ragazza dell’ultimo corso, più grande di Christine di tre anni, gli sedeva accanto e lui le accarezzava dolcemente la mano. I due davano le spalle al sentiero che Christine e Isabelle stavano attra-versando sicché non si accorsero della loro presenza. Le due ragazze rimasero per qualche secondo impietrite, poi fu Isabelle a prendere in mano la situazione. “Che mascalzone! Lo sentivo che non c’era da fidarsi.” “Andiamo via Isabelle, non voglio che mi veda.” Isabelle guardò Christine negli occhi poi le appoggiò una mano sulla spalla. “Eh no, cara, non puoi andare via così! Se lo fai, per i prossimi giorni non farai altro che pensare a lui. No! Non devi!” “E cosa dovrei fare allora?” “Prendi la mia bibita, vai lì e rovesciagliela in faccia.” Christine si rifiutò con tutte le sue forze. “Non posso,” disse “e poi non servirebbe a niente.” “Certo che servirebbe.” La redarguì Isabelle. “Se non lo fai, te ne penti-rai per sempre e non avrai un’altra occasione per dargli quello che si merita. Non cambierai le cose, è vero! Lui non tornerà da te, ma almeno ti sarai tolta una soddisfazione e forse stanotte dormirai un po’ più tran-quilla.” Le ragioni di Isabelle non le sembrarono per nulla convincenti, tuttavia Christine prese il bicchiere e silenziosamente, controllando con atten-zione ogni singolo passo, s’incamminò verso la panchina. Isabelle rimase a osservarla da lontano, orgogliosa del coraggio che la sua amica stava dimostrando e incitandola in cuor suo.

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“Vai Christine, fagliela vedere!” Mancavano ormai pochi passi perché la ragazza raggiungesse Samuel, che senza essersi accorto di nulla continuava a chiacchierare con la sua nuova amica. Christine avrebbe potuto già a quella distanza rovesciargli addosso la bibita, ma non trovò il coraggio di farlo. Da lontano Isabelle la vide esitare per un attimo con il bicchiere a mezz’aria, poi voltarsi indietro all’improvviso e fuggire via in lacrime gettandolo nell’erba. Samuel e la ragazza si voltarono di scatto, giusto in tempo per vederla correre via, ma con qualche piccola risata di scherno tornarono a pren-dersi per mano e chiacchierare tra loro. Christine, pensò in quel momento Isabelle, non imparerai mai!

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1 L’aereo atterrerà tra pochi minuti, i signori passeggeri sono pregati di restare seduti ai propri posti e di allacciare le cinture di sicurezze… La voce femminile risuonò con dolcezza attraverso gli altoparlanti. La maggior parte dei viaggiatori, costituita da comitive di giovani e fami-glie con bambini, iniziò a ricomporsi e a prepararsi per l’atterraggio. Le risate dei ragazzi, le chiacchiere continue delle ragazze e i pianti di al-cuni neonati avevano reso quel breve volo da Stoccolma a Ginevra e-stremamente pesante per le hostess e per le poche persone che alla par-tenza si erano illuse di potersi riposare un po’ durante il viaggio. Erano le otto del mattino quando dai finestrini s’intravide il paesaggio svizze-ro. Tutti i passeggeri erano già pronti e attendevano con ansia di tornare con i piedi per terra, tutti tranne Christine. Nonostante il tramestio dei giovani viaggiatori e il brusio di voci intorno a lei si era addormentata pochi minuti dopo il decollo e quando l’hostess le si avvicinò per chie-derle di allacciare la cintura di sicurezza stava ancora dormendo pro-fondamente. La giovane donna in divisa aveva dovuto richiamarla più volte perché si svegliasse. Da molto tempo non dormiva così bene eppure non era mai riuscita ad addormentarsi durante un viaggio in aereo. E non solo aveva dormito, aveva persino sognato, benché non fosse in grado di ricordare esatta-mente che cosa. “Che strano!” Pensò. “Per un attimo credo di aver rivi-sto me stessa da bambina, nel giardino della Scott Maxwell School”. Non riusciva a ricordare altro. Gli ultimi giorni erano stati molto burrascosi. Organizzare quella par-tenza non era stato semplice, stava lasciando Stoccolma per sempre e in pochi mesi aveva dovuto riorganizzare le proprie energie per affrontare una pagina totalmente nuova della sua vita.

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Con calma ripose nella borsa le poche cose che aveva tirato fuori prima del decollo: una rivista, un piccolo libro di fiabe e l’ultima lettera di sua figlia Blenda. Prima di metterla via l’aprì per l’ennesima volta e per l’ennesima volta rilesse l’ultima riga: “Non preoccuparti per me, mamma. Io sarò sempre qui e so che presto verrai a prendermi per te-nermi con te”. Ormai conosceva quella frase a memoria, ma ogni volta, inevitabilmen-te, qualche lacrima si affacciava sul davanzale dei suoi grandi occhi az-zurri. Blenda aveva dimostrato negli ultimi tempi una maturità e un senso pratico raramente riscontrabili in una ragazzina di tredici anni. Christi-ne si era sentita molto orgogliosa di lei in numerose occasioni. Soprat-tutto durante le liti con Mikael. Per quanto Christine avesse cercato di tenerla il più possibile lontana dalle tensioni con il suo ex marito, non erano mancate occasioni in cui la ragazzina si era trovata nel bel mezzo di una vera e propria bufera. Con grande discrezione si era sempre al-lontanata, evitando di schierarsi con uno dei due genitori. “So che tra di voi ci sono dei problemi” aveva detto una volta a sua madre, “e la cosa mi fa soffrire enormemente. Ma la cosa che desidero di più è la vostra felicità. Sentitevi liberi di scegliere la vita migliore per voi, senza pre-occuparvi di me.” Da quel giorno erano passati molti mesi e per tutto quel tempo Blenda aveva dimostrato tutto il suo affetto e tutta la sua comprensione tanto a sua madre quanto a suo padre. Una sola volta il suo ammirevole equilibrio era vacillato: quando sua madre le aveva annunciato che sarebbe tornata a vivere in Svizzera e che probabilmente per molto tempo non si sarebbero viste. Non si era abbandonata a scene troppo eclatanti, detestava le debolezze degli altri ma ancora di più le sue, e non si sarebbe mai mostrata sconfitta davanti a nessuno. “Mamma, a volte tu sembri più infantile di me.” Le aveva detto riden-do, un giorno che l’aveva sorpresa in lacrime. E Christine si era sentita terribilmente imbarazzata di fronte all’atteggiamento canzonatorio di sua figlia. Una ragazzina di tredici anni che forse incarnava perfetta-mente il mondo moderno, quel mondo al quale probabilmente lei non apparteneva del tutto e in cui anche a quell’età una donna poteva con orgoglio nascondere il proprio sconforto e mostrarsi pronta a lottare. Sì, non c’era dubbio! Blenda era diversa da lei e per quanto la amasse non poteva fare a meno di notare in lei un po’ di cinismo, talvolta persino un atteggiamento arrogante, che di certo aveva ereditato da suo padre.

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Tuttavia, da quel momento Blenda aveva ridotto drasticamente ogni forma di comunicazione con tutte le persone che la circondavano e ave-va iniziato a comunicare con sua madre solo attraverso una serie di ac-corate lettere che le lasciava ovunque. Christine non poteva fare a meno di sentirsi in colpa, per quanto la stes-sa Blenda non avesse fatto altro che rimproverarle quell’eccessivo au-tobiasimo. L’aereo iniziò la fase di atterraggio. Dal finestrino s’intravide l’aeroporto di Ginevra e in lontananza le dolci colline e la folta vegeta-zione che circondava la città. Per un attimo un’immensa gioia le riempì il cuore. La città in cui era nata e in cui aveva vissuto la sua giovinezza era ancora lì, pronta ad accoglierla con la sua bellezza dopo tanti anni. Non riusciva a contenere l’emozione. Fu una delle ultime a scendere dall’aereo e l’attesa di mettere i piedi a terra le sembrò interminabile. Il corridoio che dal Gate conduceva alla sala per il ritiro dei bagagli era molto affollato. Ma il caos dei passeggeri intorno a lei non la disturbava minimamente, la sua mente era già altrove e il suo sguardo si perdeva di tanto in tanto oltre le enormi vetrate che costeggiavano quel lungo passaggio, si posava sull’ambiente esterno, sugli alberi e sui minuti an-goli di cielo azzurro che affioravano oltre le piste di atterraggio. Poi, quando riconobbe la grande entrata principale dell’aeroporto, osservò con emozione i gruppi di persone che attendevano i propri cari di ritor-no da qualche viaggio, e a ogni angolo si abbracciavano e si scambia-vano baci sorridendo. Per un attimo si ricordò che nessuno avrebbe at-teso lei e in un secondo un’incredibile tristezza la avvolse facendole sentire un incontenibile tuffo al cuore. “Non importa” disse a se stessa scacciando con foga quel pensiero, “devo essere forte!” Poi con grande slancio imboccò l’ultimo tratto di corridoio salendo su un nastro trasportatore. La folla che l’aveva preceduto era già giunta alla sala del ritiro bagagli, da lontano Christine vide la folla dei suoi compagni di viaggio che si accalcava per prendere in fretta le proprie valige e andar via. La scena richiamò a tal punto la sua attenzione che nell’osservarla Christine non si accorse che il nastro stava giungendo ormai al termine. Se ne rese conto solo quando i suoi piedi si scontrarono di botto con la pedana metallica posta alla fine del percorso e le sue scarpe si arenaro-no sulla superficie screziata del pavimento. Sentì la terra mancarle sotto i piedi ma con qualche saltello riuscì a non cadere in avanti. Quando le sembrava già di aver evitato il peggio però fu un tacco della scarpa a tradirla. Forse per l’eccessivo colpo, o forse solo per un dispetto del de-

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stino, si spezzo scollandosi dalla tomaia. Questa volta Christine non riuscì a mantenere l’equilibrio e ruzzolò su un lato piegandosi sulle gi-nocchia. Si sentì terribilmente in imbarazzo e goffamente cercò di rial-zarsi il prima possibile, ma il colpo non era stato del tutto innocuo e una delle caviglie le si era storta durante la caduta. Molti viaggiatori le pas-sarono accanto con indifferenza e alcuni ragazzini che avevano osserva-to la scena da lontano non esitarono a ridere tra di loro additandola. “Non esistono più le buone maniere a questo mondo.” Una voce maschile dietro di lei pronunciò quella fase con un certo sde-gno. Christine non fece in tempo a voltarsi che due braccia la afferrarono da dietro e la tirarono su con un misto di forza e dolcezza. “Si è fatta male? Riesce a stare in piedi?” Christine non riusciva a parlare. In totale stato confusionale farfugliò qualche parola priva di senso. “Sì… no… non lo so.” Poi si accorse che lui stava provando a lasciarla in piedi da sola. “Va meglio?” Le chiese. Ma appena le sue braccia mollarono del tutto la presa e Christine provò a muovere qualche passo da sola la situazio-ne rischiò di tornare al punto di partenza: una delle caviglie non ne vo-leva sapere di tenerla su. “Non si preoccupi, si appoggi a me. Vedrà che non è niente, tra un po’ le passerà tutto.” Lui la sorresse con forza e quasi tenendola in braccio la portò con sé verso una panchina della sala d’entrata. Christine si sedette e solo allora si voltò e incrociò finalmente lo sguardo dell’uomo che con tanta genti-lezza l’aveva soccorsa. Sin dal primo momento non poté fare a meno di perdersi nel verde di quegli occhi così profondi. Lui la guardava con atteggiamento interrogativo, stupito forse dallo smarrimento che chia-ramente si leggeva sul volto di lei. “Allora, vuole rispondermi o no?” L’uomo scosse leggermente Christine tenendola per entrambe le spalle e lei si ridestò, come risvegliata all’improvviso da un sogno. “Mi scusi… sto bene, grazie… penso di non essermi fatta niente. La ringrazio tanto.” Non riuscì a dire altro. “Non deve ringraziarmi. Aiutare una donna in difficoltà dovrebbe esse-re un dovere per qualunque uomo. Ma a quanto pare la galanteria non è più tanto di moda al giorno d’oggi.” Solo in quel momento Christine si accorse che lo sconosciuto indossava una divisa bianca. Non aveva molta dimestichezza con il mondo

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dell’aviazione ma le sembrò di riconoscere sulle spalline della camicia tre o quattro bande dorate come quelle che di solito contraddistinguono i piloti. Non sapeva cosa pensare, mille pensieri le attraversavano la mente, in quel momento, ma nessuno riusciva ad assumere una forma riconosci-bile. Ma soprattutto non sapeva cosa dire. Per fortuna lui prese di nuovo la parola traendola d’impaccio. “Coraggio, provi di nuovo a tirarsi su.” Questa volta Christine si accorse che avrebbe potuto farcela anche da sola a stare in piedi, non si era fatta nulla e il dolore che aveva fatto se-guito alla caduta stava già sparendo. “Mi sembra che le cose vadano meglio, o sbaglio?” Chiese lui. “Adesso riesce a stare in piedi anche da sola.” Aggiunse, mostrando un sorriso così bello e sincero che avrebbe conquistato chiunque. “Sì, ha ragione. Il dolore è sopportabile.” “Immagino che dovrà ritirare la sua valigia. Mi permetta di accompa-gnarla.” “La ringrazio di cuore, ma non è necessario che si disturbi.” In realtà Christine non desiderava altro che restare ancora un po’ in compagnia di quell’uomo sconosciuto, che sin dal primo sguardo l’aveva conquistata con la sua gentilezza e con la bellezza dei suoi oc-chi. Sin da quando era bambina, però, le era stato insegnato a non ap-profittarsi troppo della cordialità altrui, soprattutto se questa veniva da uomini di cui non si sapeva nulla. Suo padre e sua zia Prudence, una donna inacidita dal celibato, con la quale era cresciuta dopo la morte di sua madre, l’avevano educata in modo molto rigido, trasmettendole un forte senso di diffidenza verso il prossimo. Non doveva fidarsi di nessuno, le dicevano sempre, perché le persone cattive sono sempre quelle che al principio ci appaiono più buone. Col passare degli anni, per fortuna Christine si era liberata di certe costri-zioni mentali che per tanto tempo avevano condizionato i suoi rapporti sociali. Tuttavia le era rimasta dentro una traccia indelebile e in parte inconscia di quell’educazione, e anche adesso che era ormai una donna matura si chiudeva spesso nel suo guscio impedendo a chiunque di pe-netrarvi. L’uomo stava ribadendo la propria disponibilità ad aiutarla, stando ben attento a non risultare molesto o eccessivamente insistente e Christine apprezzò molto quel modo di fare. “Voglio solo essere sicuro che lei stia bene e che non avrà problemi a recuperare le sue cose e a tornare a casa sana e salva.” Le stava dicendo

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con voce tenue. Christine dovette riconoscere con se stessa che l’uomo era evidentemente una persona per bene, senza nessun altro fine se non quello di aiutare una donna in difficoltà. Sorrise a quel pensiero e si di-spose ad accettare l’aiuto che lui le aveva offerto. Mentre stava per tra-durlo in parole, però, fu interrotta dall’arrivo di un uomo alle sue spalle che urlava qualcosa. “Ah, sei qui! Ti stavo cercando ovunque”. Christine si voltò di scatto. Era un uomo di circa trent’anni, anch’egli in divisa, che si rivolgeva al suo soccorritore. “Il taxi ci sta aspettando da un bel pezzo. Ma si può sapere dove ti eri cacciato?” L’uomo fu colto di sorpresa dall’arrivo del suo collega e si affrettò a spiegare la situazione. Christine da parte sua respinse immediatamente l’idea di lasciarsi accompagnare alla sala di recupero dei bagagli, non voleva prolungare oltre il fastidio che aveva procurato allo sconosciuto. “La ringrazio di cuore per il suo aiuto, ma credo proprio di star meglio. Vada pure. Ha già fatto tanto per me.” Lui la guardò titubante, era evidente che avrebbe desiderato dare un se-guito a quel fortuito incontro. E qualcosa gli diceva che in fondo nem-meno a lei sarebbe dispiaciuto: glielo leggeva nello sguardo. “Andiamo, Miguel, datti una mossa!” Riprese il nuovo arrivato. “Gli altri ci staranno già aspettando e dobbiamo ancora cambiarci.” Miguel, che bel nome, pensò Christine. Adesso so anche come si chia-ma, peccato che non mi servirà a nulla conoscere il suo nome. Lui ades-so se ne andrà e non ci vedremo mai più. Che strani pensieri le frulla-vano per la testa. Non le era mai capitato di sentirsi attratta da un uomo appena conosciuto e non avrebbe mai pensato di poter accogliere quella strana sensazione con tanta serenità. “Devo andare.” Disse Miguel con un pizzico di rammarico. “Le auguro buon ritorno a casa.” “Anche a lei. E ancora grazie.” Lui le rivolse un ultimo sorriso, poi si voltò e attraversò la sala in com-pagnia del suo amico in direzione dell’uscita. Christine rimase un attimo a guardarli. I due chiacchieravano e lei im-maginò che Miguel stesse raccontando al suo collega l’accaduto. Quan-do li vide sparire nella luce oltre la vetrata d’ingresso dell’aeroporto, e poi trasformarsi in due ombre evanescenti, pensò che fosse proprio giunto il momento di recuperare la sua valigia e andare incontro alla città. Senza esitare oltre, si avviò alla sala per il ritiro dei bagagli, don-dolandosi goffamente sulla sua scarpa senza tacco.

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2 Seduta nel taxi, Christine guardava le strade alberate della sua città con il cuore colmo di emozione. Il taxista, un uomo sulla sessantina grasso e calvo, la stava guardando divertito attraverso lo specchietto retroviso-re mentre con un certo imbarazzo lei tirava fuori da una grossa borsa di pelle un paio di scarpette basse e le indossava rimettendo al loro posto quelle con le quali aveva viaggiato. “Mi scusi” esordì sentendosi in obbligo di fornire una spiegazione, “mi si è rotto un tacco della scarpa in aeroporto.” “Sono cose che capitano.” Ribatté lui. “Faccio questo lavoro da più di trent’anni e le posso garantire che nel mio taxi ho visto ben di peggio di una bella signorina che si cambia le scarpe. Pensi che una volta…” L’uomo iniziò a raccontare una serie di episodi che Christine non si sforzò nemmeno di ascoltare. Sorrideva e annuiva periodicamente per non essere sgarbata, ma il suo pensiero era altrove. Con che piacevole sorpresa era iniziato il suo ritorno in Svizzera! Quell’uomo, Miguel - ripeté varie volte quel nome in mente sua. Gli piaceva come suonava, Miguel, uno spagnolo forse… Con la mente iniziò a percorrere molti più chilometri di quelli che stava divorando l’auto sull’ampio viale che dall’aeroporto la stava conducendo al centro della città. Iniziò a chiedersi molte cose: quanti anni avrà? è così gentile con tutte? o ha notato in me qualcosa di particolare? chissà se mi ricapiterà mai più di rivederlo? Per un attimo si vergognò di se stessa, poi pensò che probabilmente il fatto di essere tornata nella città in cui era nata e cre-sciuta avesse giocato un curioso scherzo alla sua mente. Si sentì sciocca e mise subito da parte quei pensieri: come aveva potuto credere, anche solo per un momento, che ci potesse essere un secondo incontro con quell’uomo? “Andiamo, Christine” disse a se stessa, “sii seria e non perdere di vista la vera ragione per cui sei tornata in Svizzera.” Già, la vera ragione. Quello sì che era un tema sul quale avrebbe dovuto inizia-

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re a porsi delle domande. Per un attimo ebbe una vertigine. Non sareb-be stato facile trovare un lavoro e reinventarsi una vita tutta daccapo, alla sua età. Eppure non c’erano alternative. In qualche modo avrebbe dovuto farcela! Sì, avrebbe lottato con tutta se stessa per ricostruire la sua esistenza e non l’avrebbe fatto solo per riappropriarsi della sua di-gnità di donna. A spingerla in quella nuova avventura era soprattutto il pensiero di Blenda. Se non avesse trovato un lavoro, la sentenza sull’affidamento non sarebbe cambiata e la sua bambina sarebbe rima-sta con suo padre ancora per cinque anni. Non poteva accettarlo! Il suo orgoglio e il suo amore di madre non le avrebbero permesso di arren-dersi in nessuna situazione. Non voleva perdere gli anni più belli di sua figlia. Lei l’avrebbe seguita con tutto il suo amore nel cammino dall’adolescenza all’età adulta. Sarebbe stata per lei un appoggio solido e sicuro nei momenti difficili. Quell’appoggio che a lei era sempre mancato, tutta la vita. Pensò per un attimo a suo padre, alle incredibili distanze che li separavano, anche quando erano uno accanto all’altro, alla morte di lui quando lei non era che un’adolescente sola e incapace di capire cosa stesse accadendo alla sua vita. E poi non poté fare a me-no di pensare a zia Prudence, la sorella di sua madre. Non era stato faci-le avere lei come unico modello femminile: una donna fredda, priva di slanci di affetto verso chiunque. Nessuno l’aveva fatta soffrire di più al mondo, nemmeno il suo ex marito. Per un attimo si rivide bambina, in un angolo del salone, tra la porta e il camino. Zia Prudence in piedi da-vanti a lei, la bocca deformata in un ghigno spaventoso e un dito che la puntava inquisitorio. Le rivolgeva parole terribili, eppure per quanto quel ricordo fosse nitido nella sua memoria, le urla di sua zia continua-vano a essere mute. Aveva ripensato a quel momento più e più volte ma per quanti sforzi facesse non riusciva a ricordare cosa le stesse gridando contro. No, non doveva più pensarci. Non sarebbe servito a niente ri-cordare di cosa l’accusasse sua zia. Meglio dimenticare per sempre ogni cosa. Ora più che mai. Finalmente il caldo abbraccio della primavera di Ginevra la strinse per darle il benvenuto. Le strade del centro erano affollate di gente: madri che portavano a spasso i propri bambini nelle carrozzine, donne che si recavano al mercato o che ne tornavano con i sacchetti colmi di frutta, giovani studentesse che sulle panchine dei giardini chiacchieravano tra di loro, sghignazzando di tanto in tanto, o camminavano in direzione dell’università con le braccia piene di libri. Christine guardò ancora una volta la cartina. La casa che aveva preso in affitto era in centro, ma in una stradina secondaria della cui esistenza

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inizialmente non si ricordava. Quando finalmente la trovò, si accorse di averla già attraversata varie volte, molti anni prima. Era una strada oc-cupata quasi per intero da una lunga scalinata che conduceva a una ter-razza alberata, da cui si poteva osservare il fiume Rodano. Da ragazza aveva trascorso spesso la domenica mattina su quella terrazza in com-pagnia delle amiche. Quel posto le piaceva e si complimentò con se stessa per aver trovato una sistemazione proprio in quella zona. Quando raggiunse il portone che stava cercando, si accorse che una donna anziana e decisamente in carne la stava già aspettando con aria imbronciata. “Finalmente!” Disse, senza preoccuparsi di nascondere la propria insof-ferenza. “Sa che ora è? È in ritardo di ben quindici minuti.” “Mi dispiace.” Balbettò Christine. “Non si dispiaccia, ormai è fatta! Ho sprecato quindici minuti per aspet-tarla e nessuno me li restituirà.” La donna parlava in modo incredibilmente veloce in un francese che Christine faceva fatica a comprendere. “Il tempo è danaro, signorina! Non gliel’ha mai detto nessuno?” Oh, certo! Pensò Christine. Zia Prudence non faceva che ripetermelo, e proprio con quello stesso odioso tono. “E adesso se vogliamo andare su. Ho altre faccende da sbrigare io!” La donna fece strada attraverso una stretta scala. La mansarda era all’ultimo piano e lo stabile non aveva ascensore. Per di più, Christine si era portata via da Stoccolma moltissime cose pensando che non vi avrebbe fatto ritorno per un bel po’ di tempo e si trascinava dietro una valigia di notevoli dimensioni. Dopo aver salito la prima rampa di sca-le, fu quasi sul punto di chiedere una mano alla padrona di casa, ma non ne ebbe il coraggio. La donna, del resto, era già su in casa e stava spa-lancando le finestre per arieggiare l’abitazione. Quando finalmente giunse in casa, Christine si lasciò cadere su un pic-colo divano. La donna, che si presentò come Madame Cadit, iniziò a farle tantissime domande alle quali Christine non riusciva a rispondere a causa del fiatone. Seguirono poi le istruzioni sul modo in cui avrebbe dovuto prendersi cura della casa, sulle chiavi da usare per il portone e le varie stanze, sull’uso dei contatori, dell’accensione del gas e mille altre cose che Christine riuscì a stento a capire. Quando sembrò che avesse terminato la lista delle sue istruzioni la guardò con fare arcigno e con-cluse dicendo: “E si ricordi che può rimanere solo per dieci giorni. Do-podiché dovrà liberare la casa e riconsegnarmi le chiavi. Intesi? Niente deroghe.”

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Christine pensò che l’ottimo prezzo al quale era riuscita ad affittare quella mansarda compensasse pienamente il cattivo carattere della pro-prietaria e l’inconveniente di poterne usufruire solo per un periodo così breve. Pazienza! Non era riuscita a trovare di meglio nel breve tempo che aveva avuto a disposizione per organizzare la sua partenza. Dopo aver dato una rapida occhiata alle due stanze che componevano l’appartamento, Christine si lasciò andare di peso sul letto. La visuale dalla finestra era per la maggior parte occupata dalla parete giallo ocra dell’edificio di fronte, s’intravedeva tuttavia uno sprazzo di cielo azzur-ro e una piccola porzione del fiume di là dai viali. Rimase a osservare quell’insolito paesaggio, incorniciato tra i lembi di due tendine verdi, restando stesa sul letto. Aveva bisogno di riposare, ma non riusciva a smettere di predisporre le sue idee sulla base degli impegni che sareb-bero seguiti nei giorni a venire. Pensò a tutte le cose che avrebbe dovuto fare, ripassò con la mente i nomi delle agenzie di lavoro di cui aveva trascritto gli indirizzi, poi si ricordò che non aveva ancora fatto delle copie del suo curriculum vitae e infine calcolò approssimativamente per quanto tempo sarebbe riuscita a sopravvivere con i soldi che aveva a disposizione. Ci rifletté un po’, poi giunse alla conclusione che non sarebbe andata oltre i dieci giorni. Esattamente quanti ne aveva a disposizione prima di ritrovarsi senza un tetto. “Ecco un’altra cosa da fare subito.” Si disse. “Anzi, prima di qualunque altra: trovare una nuova sistemazione!” Pensò, che nella peggiore delle ipotesi, sarebbe andata a cercare ospita-lità in un ostello o in un convento di suore e che se non avesse trovato subito un impiego decente, si sarebbe arrangiata per i primi tempi fa-cendo qualunque lavoro. Era determinata ad andare in fondo. Lasciare la Svezia non era stata una scelta facile, tuttavia le era sembrata l’unica alternativa possibile. E adesso che i suoi pensieri e i suoi progetti si sta-vano concretizzando non poteva e non doveva smettere di credere in se stessa. Il sole era già molto alto e accarezzava le tendine verdi proiettando nel-la stanza morbidi fasci di luce. Tutte le cose all’interno della stanza, i pochi mobili, i quadri sulle pareti e il letto, ne erano avvolti. Christine, rimase ancora un po’ a guardare la finestra, poi si abbandonò a quella luce dolcemente soffusa e alla stanchezza del viaggio e prima che se ne rendesse conto sprofondò in un sonno profondo.

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3 I dieci giorni trascorsero in fretta, tra lunghe attese in uffici polverosi, colloqui di lavoro e visite a piccole stanze da prendere in affitto. Di ra-do Christine si concesse momenti di tregua, qualche volta si lasciò an-dare a brevi passeggiate nelle strade della città alla ricerca dei luoghi perduti della memoria, ma la cosa alla quale non poté rinunciare furono le lunghe telefonate a Blenda. Christine sapeva bene che al telefono sua figlia non riusciva a lasciarsi andare come quando le scriveva delle let-tere, per questo motivo le chiese di scriverle presto e spesso, tuttavia sentire la sua voce era un piacere impagabile. Purtroppo le lunghe ricerche non diedero i risultati sperati. Per quanto potesse contare su una laurea conseguita a pieni voti, Christine non a-veva esperienze di lavoro significative. Dopo qualche giorno ebbe addi-rittura l’impressione che avere un titolo universitario fosse, in realtà, un inconveniente. Decise quindi di depennarlo dal suo Curriculum Vitae con il risultato di ottenere subito un lavoro part-time come tuttofare in un negozio di fiori. Sulle prime Christine non ne fu di certo entusiasta. L’idea di lavorare come fiorista, dopo tutti i sacrifici che aveva fatto per conseguire la laurea, non le sembrava il massimo, ma data la situazione si adattò presto all’idea e riuscì a trovare in quel lavoro persino un lato poetico. Ciò che non era ancora riuscita a trovare, invece, era una nuova siste-mazione. Le case in affitto si erano rivelate eccessivamente care e gli annunci per le stanze singole indicavano chiaramente che esse erano destinate solo a studentesse, con limiti di età che Christine superava ab-bondantemente. L’ultimo giorno giunse con un’inesorabile rapidità. Il mattino seguente, un lunedì, avrebbe dovuto lasciare la mansarda di Madame Cadit. Non aveva altra scelta, quindi, se non quella di bussare alla porta

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dell’anziana zia e chiedere il suo aiuto. Non conosceva nessun altro a Ginevra, le sue più care amiche erano andate tutte ad abitare all’estero dopo la laurea e non aveva altri parenti. I soldi che le restavano sareb-bero stati sufficienti sì e no per sopravvivere nell’attesa di ricevere il primo stipendio e l’idea di chiedere un prestito dovette scartarla sin da subito in quanto nelle sue condizioni nessuno glielo avrebbe concesso. E nemmeno poteva contare sull’aiuto di Mikael; il loro rapporto era fi-nito in modo molto burrascoso e grazie a un cavillo legale lui era riusci-to persino a sfuggire all’obbligo di versarle un sussidio per gli alimenti. Con una certa tristezza nel cuore, ma anche con tanto coraggio, Christi-ne raccolse le sue cose nella valigia e s’incamminò a piedi verso il quartiere in cui aveva vissuto tanti anni, prima da bambina e poi da adolescente. Rinunciò persino al taxi, per risparmiare e trascinandosi dietro il suo enorme bagaglio attraversò il ponte che collegava le due sponde del Rodano. Che cosa avrebbe detto a sua zia? E come avrebbe reagito lei vedendola lì, alla sua porta dopo tanti anni? Imbastì a mente una serie di piccoli discorsi, ma nessuno la convinceva pienamente. In qualunque caso, sua zia avrebbe reagito male. La conosceva bene e sapeva che l’anziana donna aveva vissuto come un vero e proprio abbandono la sua decisio-ne di andare a vivere in Svezia, un affronto che non le aveva mai voluto perdonare. In tutti quegli anni, in cui non si erano né viste né sentite, non poteva essere cambiata più di tanto ed era certa che non avrebbe esitato a cogliere quell’occasione per mettere in atto la sua vendetta. Christine avrebbe dovuto dal canto suo sopportarne di nuovo le anghe-rie, quelle innumerevoli incomprensioni che in passato avevano reso il loro rapporto teso ai limiti del tollerabile. Tuttavia, avrebbe accettato qualunque compromesso pur di andare avanti con la sua nuova vita. Sa-rebbero arrivati momenti migliori, ne era certa, e in fondo zia Prudence era pur sempre la sorella della sua povera mamma. L’unica parente che le fosse rimasta. Forse con il tempo e la lunga lontananza qualcosa in lei era cambiato davvero, chissà? Magari le cose sarebbero andate me-glio del previsto. Stava affrontando un rischio e per quanto ciò le procu-rasse un’insopportabile ansia, non poteva tirarsi indietro. Christine era quasi giunta alla fine del ponte, la casa di sua zia distava ancora una ventina di minuti, ma lei camminava con lentezza come se inconsciamente volesse ritardare il più possibile il momento dell’incontro.

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Proprio mentre si accingeva a tornare sulla strada principale, udì lo stri-dere acuto delle ruote di una bicicletta e una voce femminile che urlava a squarciagola dietro di lei: “Pistaaaa!!!” Christine fece appena in tempo a girarsi che una spericolata ciclista le era già finita dritta addosso. Le due donne si ritrovarono gambe all’aria in un frastuono metallico di manubrio e ruote. Per fortuna nessuna delle due sembrò essersi ferita. “Accidenti, ma perché non sta più attenta? Potevamo farci molto male.” Brontolò Christine cercando di rimettersi in piedi. “Mi dispiace tantissimo, è tutta colpa dei freni.” Cercò di giustificarsi l’altra. “Si è fatta male?” “No, niente, almeno credo. E lei?” La giovane ciclista si tirò su in un attimo. “Ma si figuri! Cado almeno un paio di volte al giorno. È tutta colpa di questi maledetti freni, gliel’ho detto, si rifiutano di funzionare.” Dalla rapidità con cui si era rimessa in piedi sembrava davvero che non si fosse fatta nulla. “Coraggio, la aiuto io!” Disse poi a Christine, che cercava ancora di ri-prendersi dallo spavento e goffamente si muoveva tra le ruote della bici e la valigia che le era cascata addosso. La donna le tese la mano e Christine gliela strinse con forza tirandosi su a fatica. Fu allora che una strana luce nel volto della sconosciuta le ri-velò qualcosa di familiare. Quel sorriso, quel nasino all’insù punteggia-to di lentiggini e quegli occhi color nocciola. No, non poteva sbagliarsi. Erano passati venticinque anni dal loro ultimo incontro, il destino aveva voluto che perdessero le tracce l’una dell’altra per tutto quel tempo, ep-pure Christine l’aveva riconosciuta. “Isabelle! Non posso crederci. Sei tu?” “Come fa a conoscere il mio nome?” Un lungo silenzio incorniciò i loro sguardi incrociati. Christine era certa di non essersi sbagliata e l’altra donna la osservava con attenzione cer-cando nella sua memoria l’immagine del volto che aveva dinanzi a sé. Non tardò molto a riconoscere Christine, e quando il ricordo della sua amica riaffiorò nella sua memoria, l’emozione di quel ricordo le strinse il cuore impedendole di dire qualunque parola. I suoi occhi però non poterono contenere l’emozione e si riempirono di lacrime. Fu allora che Christine ebbe la certezza di non essersi sbagliata. Isabelle ha sempre fatto di tutto per sembrare una tipa dura, pensò sor-ridendo, ma io ho sempre saputo che dentro di lei c’era una grande te-nerezza.

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L’abbraccio tra le due donne fu lungo e Isabelle iniziò a fare tante do-mande, una dopo l’altra, con tanto entusiasmo che a un certo punto ini-ziò a interrompersi da sola lasciando a metà una domanda per iniziare a formularne una nuova. Christine non faceva in tempo a rispondere, ri-deva di quell’assurdo scherzo del destino e la maggior parte delle sue risposte restava sospesa nell’aria. Pochi minuti dopo, le due donne erano sedute a un bar in una piccola piazza circondata di alberi. Il sole era caldo quel giorno ma un dolce vento rendeva piacevole stare all’aria aperta. Isabelle stava raccontando alcune cose importanti della sua vita e Christine l’ascoltava con atten-zione girando il cucchiaino nella sua tazza di caffè. Non fu facile rias-sumere le loro vite, ma il desiderio di sapere l’una dell’altra era tale che le parole volavano via insieme ai minuti. Rimasero lì a lungo, Christine raccontò dei suoi studi alla Scuola Internazionale per interpreti, degli anni trascorsi in Svezia, del suo matrimonio fallito e, soprattutto, della sua bambina. “Non vedo l’ora di riabbracciarla. Purtroppo, come ti dicevo, ottenere l’affidamento è stato impossibile. Mikael è un uomo molto furbo e con un certo potere. I suoi avvocati sono stati spietati e purtroppo io non po-tevo garantire il mantenimento di mia figlia, non avendo un lavoro.” “Non sai quanto mi dispiace.” “Devo trovare un lavoro al più presto, Isabelle. Un lavoro serio, che mi permetta di riavere mia figlia. Non tutto è perduto. Se riesco a dimo-strare di poterle garantire condizioni di vita dignitose posso ancora pro-vare a ottenere l’affidamento.” “Sono certa che ci riuscirai. Dove hai lavorato sinora? Che esperienze hai?” “È proprio quello il problema. Mi sono laureata, e con il massimo dei voti, ma di fatto ho lavorato pochissimo in questi anni. In tutti i colloqui ai quali mi sono presentata finora il fatto di non avere esperienze di la-voro significative si è dimostrato un inconveniente non da poco.” “Beh, posso immaginarlo. Ma come ti è saltato in mente di andartene a vivere in Svezia?” “Ero giovane e perdutamente innamorata. La Svezia mi sembrava un luogo pieno di fascino e di fatto tuttora credo che sia un paese stupen-do. Ma per me continuare a vivere lì avrebbe significato dovermi abitu-are ad una realtà che negli ultimi anni mi aveva procurato solo dei di-spiaceri. Non sopportavo più niente e nessuno. Riconosco che possa sembrare infantile, ma avevo davvero bisogno di allontanarmene. Mi sono comportata come le adolescenti che scappano di fronte ai proble-

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mi. Ecco, io mi sentivo così. Come una ragazzina che si sente offesa dai propri compagni e corre via per nascondersi e riorganizzare le proprie armi con la speranza di essere più forte al prossimo scontro.” “In fondo credo che tu abbia fatto la cosa giusta. Questa è la città alla quale appartieni e vedrai che le cose non tarderanno a migliorare.” “Lo spero, Isabelle.” Christine tirò un lungo sospiro prima di chiedere: “E tu? Descrivimi meglio il tuo lavoro. Se ho ben capito disegni vestiti.” “No, no, tesoro…” “Come no? Non hai detto che sei una modista?” “Appunto, le modiste non disegnano vestiti bensì cappelli?” “Cappelli? Isabelle, non ti smentisci mai. Le cose più strane le hai sem-pre fatte tu!” Isabelle rise, poi iniziò a raccontare alcune delle sue rocambolesche av-venture. Dopo la scuola superiore era scappata di casa, era stata in giro per un po’ di tempo e poi si era ritrovata a Parigi. Aveva svolto lavori di vario genere prima di imbattersi per puro caso nella grande occasione della sua vita. Aveva sempre avuto la passione della moda, ma non a-veva mai nemmeno pensato alla possibilità di lavorare in quel settore. “Si tratta di una piccola nicchia di mercato” stava spiegando, “ma che può essere molto redditizia se si trovano i clienti giusti. Io sono stata molto fortunata. Iniziai a lavorare anni fa, come inserviente in un ate-lier. Mi occupavo delle mansioni più semplici, tenevo puliti i laboratori ed ero spesso in giro per commissioni di vario genere. Trovavo molto interessante il lavoro delle modiste e a furia di spiare quello che face-vano finii con l’impossessarmi dei loro segreti. Poi un giorno disegnai di nascosto un mio modello e lo mostrai alla direttrice della maison. Fu il mio primo successo.” “E cosa n’è stato del tuo sogno di fare l’attrice di teatro?” Isabelle rise pensando per un attimo alla sua amicizia d’infanzia con Christine, ai sogni, ai desideri e ai segreti che si raccontavano nascoste in bagno o nell’armadio delle scope, mentre le suore del collegio le cer-cavano ovunque infuriate. “È vero. Volevo fare l’attrice. E non solo. Anche la cantante lirica, l’indossatrice, la crocerossina, la scrittrice. E ti dirò di più. Prima che io muoia, non è detto che non riesca a realizzare tutti i miei sogni. Ho solo bisogno di un po’ di tempo.” “Già,” riprese Christine “proprio quello che a me manca.” Le due ami-che si guardarono con complicità. “Il tempo! Se ne avessi avuto un po’ di più a quest’ora non sarei costretta a tornare da zia Prudence.”

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“E allora non tornarci. Non devi fare nulla che tu non abbia voglia di fare.” “Ma non ho una casa e i soldi che mi restano non mi bastano per siste-marmi altrove.” “Christine, te lo chiederò una sola volta…” Isabelle la fissò dritto negli occhi e mentre parlava arricciò il suo nasino lentigginoso, un piccolo vezzo che aveva sempre avuto anche da bambina. “Quando avrò finito, tu mi risponderai di sì senza discutere.” “Non posso accettare!” “Accidenti, ti ho detto che prima devo parlare io e che tu devi accettare e basta! Non mi sembra di aver fatto cenno alla possibilità di un rifiuto. A parte tutto, non sai ancora cosa ti sto per proporre.” Ma Christine sapeva benissimo cosa le stesse offrendo la sua amica, e per quanto un aiuto le sarebbe risultato assolutamente propizio si senti-va troppo imbarazzata per accettare. Isabelle riprese a parlare a voce alta, quando usava quel tono non c’era verso di farle cambiare idea. E infatti non ci fu modo di dissuaderla. “Christine” disse, “non siamo più bambine. Siamo state molto unite in passato e per quanto mi riguarda il fatto che il destino abbia allontanato le nostre strade non vuol dire che il mio affetto per te sia cambiato in qualche modo. Per favore accetta il mio aiuto. Mi piace pensare che se fossi stata io ad averne bisogno tu non avresti esitato a tendermi una mano.” Christine non rispose nulla, ma gli occhi le si riempirono di lacrime. Ricordava la sua amica come una bambina un po’ impertinente e dal carattere forte che tutti temevano e che tante volte l’aveva tirata fuori dai guai o l’aveva difesa dalle piccole angherie delle compagne. Ma a-desso dinanzi a sé aveva una donna. Una donna con la D maiuscola e con un cuore enorme.

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4 La casa di Isabelle rispecchiava perfettamente il suo carattere. Tutte le stanze erano un’esplosione di colori e ovunque sulle pareti c’erano foto. La maggior parte di esse ritraeva donne con sfarzosi cappelli ed erano state ritagliate da riviste. Osservandole più da vicino, Christine si ac-corse di riconoscere alcune delle donne che li indossavano. “Ma quella non è…?” Si stava apprestando a chiedere. “Sì, è lei! Ha indossato un mio modello in due occasioni.” Le due donne si spostarono in un piccolo studio pieno di cappelli, nastri e arnesi vari per il taglio e cucito. “Questo è il mio rifugio, ma te lo cedo volentieri. Mi chiudo qui quando sono colta dall’estro creativo e non posso aspettare l’indomani per lavo-rare all’atelier. A volte mi alzo dal letto nel cuore della notte e mi metto a lavorare. Ma non temere, finché ci sarai tu a dormire qui non verrò a importunarti.” In un angolo c’era il divano nel quale avrebbe dormito Christine e sulla parete dietro il divano una affiche viola con una scritta bianca che pub-blicizzava la casa di moda di Isabelle. Christine lesse: Maison Audinot – L’art du Chapeau Isabelle, fece strada liberando il divano da cianfrusaglie di ogni tipo. Si scusò più volte per il fatto di non poter offrire alla sua amica qualcosa di meglio. La casa non era grande e le due stanze da letto erano occupa-te da lei e dalla sua coinquilina, Katiuscia. “Prima di mettere su la mia maison ho lavorato per quattro anni per una famosa modista di Ginevra: Sophie Talot.” Spiegò Isabelle mentre di-sponeva il suo studio in modo da poterlo rendere più accogliente. “È la figlia di Emmanuelle Talot, una delle più importanti modiste di questo secolo. Nonché una serpe come ce ne sono poche al mondo.”

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Christine si sedette su uno sgabello di legno accanto al tavolo da dise-gno e si mise un elegante cappello non ancora terminato sulla testa imi-tando i gesti di una diva. “Allora? Come mi sta?” Poi guardò i disegni dei modelli sparsi sul tavolo. “Sono molto belli. Sei brava, davvero.” “Quelli sono alcuni modelli creati per occasioni speciali. Feste, balli, premiazioni… cose del genere. Negli ultimi anni i miei cappelli sono finiti sulle teste di alcune delle donne più ricche e famose d’Europa. Eppure nessuno sa che sono stata io a disegnarli. I meriti sono andati tutti a Sophie. Io disegnavo e lei firmava.” “Ma non è giusto!” “Certo che non è giusto, ma è così che funziona il mondo della moda, tesoro. Anche i più grandi stilisti hanno iniziato disegnando per altri. Però c’è un piccolo dettaglio che bisogna tenere in considerazione. Quando un giovane disegnatore inizia a lavorare per una casa di moda lo fa per fare esperienza e imparare dai grandi maestri. Nel mio caso le cose non sono andate esattamente così. Sophie è un’incapace e non ha nulla da insegnare a nessuno. Ha solo sfruttato il suo cognome, ha potu-to contare su un’azienda già avviata e sul potere che ne consegue. Mol-te persone di talento lavorano per lei perché non hanno altra scelta. E puntualmente lei si prende tutti i meriti senza riconoscere mai quelli al-trui.” “Beh, allora avevi ragione quando dicevi che era una serpe. Hai fatto bene a licenziarti e ad aprire un’attività tutta tua.” “C’è voluto molto coraggio, tesoro. È passato un anno e mezzo da quando ho aperto la mia maison. E purtroppo le cose non vanno per il meglio. Far conoscere il proprio nome è molto difficile e per di più, quando sono andata via, Sophie ha fatto di tutto per fare terra bruciata intorno a me. Ha raccontato di essere stata lei a mandarmi via a causa della mia incapacità. Ovviamente tutti coloro che lavorano in questo settore, in particolari i rivenditori, hanno dato credito alle sue parole.” “Mi dispiace, ti ho scaricato addosso tutte le mie preoccupazioni e non ho pensato che anche per te potesse essere un momento difficile.” “Hey, sciocchina! Guarda che io non sono affatto indifesa. Gliela farò pagare cara a quella vipera. Vedrai!” Isabelle prese a sua volta un cappello a falda larga, decorato con una veletta nera, e lo indossò scimmiottando le movenze di una vamp.

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“Isabelle Audinot non ha paura di nessuno.” Disse con voce sensuale. “Sono una dark lady pericolosa e senza scrupoli, una mangiatrice di uomini e un’assassina di donne cattive… uuuhhh” Christine non riusciva a smettere di ridere, poi prese a sua volta un altro cappello, una bustina rosa fucsia bordata di un nastrino rosa chiaro. “E io sono Sophie Talot.” Disse parlando con la bocca stretta e muo-vendosi goffamente. “La più grande modista nonché la più grande im-postora del mondo.” “Allora io devo ucciderti!” Gridò Isabelle saltandole addosso e trasci-nandola con sé sul divano. Le due amiche ridevano come due bambine e ancora con i cappelli sulla testa si dimenavano, Isabelle fingendo di mangiare Christine e Christine urlando e invocando pietà. In quel mo-mento si udì una voce femminile. “Hey, ma siete impazzite?” Entrambe si voltarono verso la porta. In piedi, sulla soglia c’era una donna in uniforme da Hostess. Era una ragazza alta e robusta, con due grosse gambe che sbucavano dalla gonna corta fasciate da collant bian-chi. “Si può sapere cosa succede?” Isabelle si ricompose ma continuando a sorridere si rivolse alla nuova arrivata. “Katiuscia, questa è Christine, una mia amica d’infanzia. Christine, ti presento Katiuscia.” Quando Isabelle le aveva detto che Katiuscia lavorava come hostess, Christine l’aveva immaginata molto diversa da com’era realmente. Non sapeva spiegarsi il perché, ma aveva sempre immaginato le hostess co-me donne dal fisico slanciato e asciutto. Di fronte alle curve giunoniche di Katiuscia invece si era dovuta ricredere. Le due donne si presentaro-no e Isabelle si affrettò a spiegare la situazione di Christine alla sua coinquilina e il fatto che avesse bisogno di restare da loro per qualche tempo. Katiuscia da parte sua non fece nessuna obiezione. Era una ra-gazza simpatica e socievole. Isabelle la conosceva da cinque anni e non aveva dubbi sul suo buon cuore, sapeva benissimo che avrebbe accolto Christine con lo stesso affetto e con l’amabile bontà con cui lei stessa era stata accolta da Isabelle quando era arrivata a Ginevra per cercare lavoro. “Quando ho iniziato a cercare lavoro come hostess non pensavo nem-meno lontanamente che sarei riuscita a farmi assumere.” Spiegò più tardi.

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Le tre donne erano stese sul letto di Isabelle. Chiacchieravano e sfo-gliavano riviste di moda, lasciando scorrere via quel pomeriggio dome-nicale tra ricordi, progetti e piccole confessioni. Istintivamente sentiva-no il bisogno di conoscersi meglio e familiarizzare il più possibile in vista dell’improvvisata convivenza. Senza dirsi nulla avevano iniziato a parlare della loro vita, soprattutto Katiuscia, che più di tutte avvertiva il bisogno di sentirsi parte di quella piccola famiglia. “Noi ciccione pensiamo sempre di non avere speranze.” “Non dire così! Sei un po’ in sovrappeso ma ciò non toglie che tu sia una donna bella, sexy ed elegante.” Ed era vero. Le parole di Isabelle erano sincere. Pur con i suoi chili di troppo Katiuscia aveva un portamento invidiabile. Per non parlare del suo viso; i suoi occhi chiari e la perfetta armonia dei lineamenti lo ren-devano così aggraziato che risultava impossibile toglierle lo sguardo di dosso. “Sai benissimo che hai più corteggiatori di me,” continuò Isabelle “quindi, non lamentarti!” Katiuscia sorrise e due fila perfettamente allineate di perle bianchissime le illuminarono il viso. “In effetti i corteggiatori non mancano. Peccato però che nessuno abbia voglia di impegnarsi seriamente. Sono stufa! Gli uomini sono come bambini, non sanno mai esattamente quello che vogliono.” “Beh, è quello che ti dico sempre Kati, vedo che finalmente inizi a capi-re.” Isabelle aveva un atteggiamento protettivo nei confronti di Katiuscia, si comportava come una sorella maggiore. “Dovremmo imparare a vivere senza di loro,” intervenne Christine “ma temo sia impossibile.” “Parla per te, tesoro! Io con gli uomini non avrò mai più a che fare!” Isabelle sbottò quelle parole in modo secco e il suo umore sembrò cam-biare all’improvviso. Le altre due percepirono chiaramente il fastidio della loro amica e Katiuscia si affrettò a cambiare subito argomento. “E allora? Hai saputo qualcosa di Parigi? Novità?” “Non ancora, ma ormai dovremmo esserci. Entro questa settimana ci diranno se la nostra maison potrà partecipare.” “Sono certa che vi faranno sfilare e il successo sarà trionfale.” Christine non sapeva nulla di quella storia e Isabelle si affrettò a spie-garle la situazione per non escluderla dalla conversazione. Quell’anno la Maison Audinot aveva chiesto di partecipare alla Settimana della

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modisteria di Parigi, una delle manifestazioni del settore più importanti al mondo. “Per essere ammessi bisogna rispettare determinati parametri valutativi. Non è facile. E come se non bastasse Sophie Talot ha amicizie molto in alto in questo campo. Temo che possa metterci i bastoni tra le ruote e fare in modo che la nostra maison resti esclusa.” “Ma come fa a sapere che avete chiesto di partecipare?” Chiese Christi-ne. “Non sono sicura che lo sappia. Ma di certo lo immagina. Quando ho creato il mio marchio, Sophie ha mosso mari e monti per ricevere in-formazioni su ciò che stavo facendo. Di certo non avrà perso occasione per aggiornarsi sulle nostre ultime attività.” “Ad ogni modo” intervenne Katiuscia, “se le cose non dovessero andare per il verso giusto pazienza. Ci saranno senz’altro altre occasioni. In-somma, Sophie non è la padrona del mondo. Tu hai talento, Isabelle, e lei non potrà ostacolarti per sempre.” “Non so cosa dire. Noi siamo ancora agli inizi e tutto mi sembra così complicato: ammortamenti, prestiti, contributi, giuro che a volte mi sembra di impazzire. Spesso mi chiedo: e se il marchio non dovesse de-collare? Non voglio nemmeno pensarci. Sarebbe un disastro.” “Non dirlo nemmeno per scherzo, devi avere fiducia in te stessa.” “Forse è proprio quello il problema, Christine. Ho avuto troppa fiducia in me stessa. Se manchiamo questo traguardo, dovremo ricominciare tutto daccapo. Sfilare a Parigi significa entrare in contatto con i più im-portanti compratori del mondo, farsi conoscere dalla stampa specializ-zata. Se vogliamo andare avanti con questa attività, dobbiamo sfilare a ogni costo!” “E sfileremo, Isabelle!” Katiuscia sembrava entusiasta all’idea di vede-re la maison della sua amica a Parigi. Non riusciva a mantenere la cal-ma e parlava ininterrottamente. “Tu diventerai famosa ed io potrò dire a tutti di aver vissuto con la grande Isabelle Audinot, la migliore modista dei nostri tempi. Ah, ci aspettano giorni di gloria, ragazze.” “Vorrei avere il tuo stesso entusiasmo, Kati, ma finché non riceverò la comunicazione non mi sentirò tranquilla.” “E se le cose dovessero andare bene, quando partireste per Parigi?” Chiese Christine. “Le sfilate si tengono tra un mese e mezzo, giusto il tempo per finire la collezione estiva e realizzare i prototipi. Mi tremano i polsi al solo pen-siero.”

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“Tesoro, io ti aiuterò il più possibile. Ho accumulato molte ferie per i prossimi mesi e ti prometto che sarò al tuo fianco in quest’avventura. Purtroppo non so fare granché ma avrete pur bisogno di qualcuno che vi sistemi l’atelier, che infili gli aghi delle macchine per cucire e che vi prepari il pranzo.” Isabelle sorrise, poi ribatté: “Santo cielo, Kati, tutto meno il pranzo. Se cucini tu tra un mese e mezzo avremo come minimo due taglie in più”. “Allora cucinerò io.” Disse Christine. “Domani, inizierò a lavorare al negozio di fiori, ma si tratta solo di un lavoro part-time. Isabelle, per-mettimi di aiutarti in qualunque modo. Purtroppo per il momento non posso pagarti l’affitto come Katiuscia, ma in qualche modo vorrei co-munque sdebitarmi. Non sono un granché come cuoca quindi la nostra linea non sarà messa in pericolo.” Le tre donne risero di gusto, poi Isabelle riprese a parlare. “Vedremo cosa succederà. Nel caso il progetto di sfilare a Parigi doves-se concretizzarsi il vostro aiuto sarà una manna dal cielo.” Poi rifletté un attimo prima di aggiungere. “Ci sono due cose che non vi ho ancora detto. Una delle quali vi riguarda direttamente. Purtroppo per pagare l’affitto dell’atelier ho dovuto ipotecare questa casa. Devo fare in modo che i conti tornino in attivo quanto prima, altrimenti se vorrò andare a-vanti con la mia attività, sarò costretta a vendere l’appartamento e a cercarne un altro in affitto.” “Se ciò dovesse accadere, Isabelle, io vorrò continuare a vivere con te. Se ti fa piacere lo affitteremo insieme.” Katiuscia si strinse alla sua a-mica per tradurre in un gesto d’affetto la sua intenzione di sostenerla in tutti i modi. “Beh, se siete d’accordo e se le cose tra noi dovessero andare bene.” In-tervenne Christine. “Io non cerco altro che delle buone amiche con cui sistemarmi. So già che le convivenze non sono mai semplici, ricordo ancora gli anni difficili dell’università e i litigi con le mie compagne di appartamento, ma noi tre siamo donne adulte e se siamo unite e sincere, qualunque eventuale incomprensione sarà superata facilmente. Che ne dite? Unite come i tre moschettieri?” “Una per tutte e tutte…” Disse Katiuscia tendendo la mano alle sue a-miche. Le altre due tesero il braccio e le tre mani si unirono in un unico pugno. “E tutte per una!” Ripeterono in coro. Poi Isabelle aggiunse. “Questa casa mi fu regalata da mio padre, sarebbe un dispiacere enorme doverla vendere, ma se dovessi essere costretta a farlo sono contenta di sapere che voi due restereste comunque al mio fianco.”

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A quel punto Katiuscia riprese la parola. “Hey, nasino lentigginoso. Qui i conti non tornano. Sbaglio o avevi det-to che c’erano due cose che non ci avevi ancora detto.” “È vero! Non ne ho ancora parlato con i ragazzi che lavorano con me per scaramanzia. Ma a voi posso dirlo. Ormai tra di noi c’è un patto e siamo diventate come una cosa sola. Vedete…” fece una piccola pausa. “Quest’anno alle sfilate di Parigi assisteranno anche i personal shopper di una delle case reali più importanti d’Europa.” “Non mi dire, Isabelle! Ti riferisci proprio a quella a cui sto pensando io?” “Sì, Kati, proprio quella! Sapete quanta importanza si dia in quella fa-miglia ai cappelli vero? E non è solo questo il problema. La Regina e le altre nobildonne influenzano con i loro acquisti anche le altre famiglie nobiliari e le acquirenti del jet set. Per dirla in termini semplici, sono loro a dettare le tendenze di questo settore, almeno per quel che riguar-da la produzione di alta moda. Una scelta della regina o delle altre no-bildonne può fare la fortuna di una maison. Capite perché sono così nervosa? Finora si sono sempre rifornite da artigiani locali, ma io so da fonte certa che hanno chiesto agli organizzatori di riservare svariati po-sti alle sfilate per i loro compratori. Non so per quale motivo ma la tra-dizione quest’anno sarà infranta.” “Forse hanno deciso di rimodernarsi un po’.” “Può essere. Comunque sia l’occasione è davvero molto ghiotta. È per questo che, mai come quest’anno, partecipare sarà particolarmente dif-ficile. Nessuno è disposto a mancare all’appuntamento.” Katiuscia si mise in piedi sospirando. “Ah, anch’io ho un appuntamento al quale non sono disposta a manca-re, ragazze. Quello con la cena! Si sta facendo tardi. Vado a preparare da mangiare. Stasera si fa festa, ok? Voi state pur qui e quando sarà pronto vi chiamerò.” Ciò dicendo si allontanò dalla stanza da letto di Isabelle. “Che te ne pare? Simpatica, no?” “Molto. Ed anche molto carina.”

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