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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 16 marzo 2016 SOMMARIO Sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi campeggia la seguente riflessione di Claudio Magris: “Può ogni desiderio (escludendo beninteso quelli criminosi) costituire un diritto? Una delle pochissime persone che hanno affrontato questa domanda con rigore, chiarezza e umanità è stato Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci. Come Vacca, pure Mario Tronti, senatore del Pd e, cosa ben più importante, leader e forte testa pensante dell’operaismo italiano degli anni Settanta, riconoscendo tutti i diritti alle coppie omosessuali (assistenza, eredità, convertibilità delle pensioni e così via), ha espresso forti riserve sulle adozioni gay, tanto da sottoscrivere il documento contrario a quest’ultime. Non è un caso che tali chiare e sofferte prese di posizione vengano da figure di rilievo della cultura marxista, formate da un pensiero forte capace di affrontare la drammaticità del reale e la difficoltà e necessità delle scelte. L’odierna e dominante «società liquida» (come l’ha chiamata Bauman) miscela invece ogni problema e ogni presa di posizione in una melassa sdolcinata e tirannica, in un conformismo che ammette tutto e il contrario di tutto. Tranne ciò che contesta il suo nichilismo giulivo e totalitario. Il diritto - ricordava di recente sul Piccolo un autorevole costituzionalista, Sergio Bartole - tutela l’individuo ma anche la società e non può disinteressarsi delle ricadute di una legge sull’antropologia civile ossia sui fondamenti che tengono insieme una comunità e una società. Uno dei primissimi a capire la trasformazione delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto titillamento pulsionale è stato Pasolini, quando scriveva sull’aborto o quando diceva che il voto per il divorzio era un voto giusto - anche lui aveva votato a favore del divorzio - che tuttavia molti avevano dato per ragioni sbagliate. La maggioranza aveva votato come lui, ma egli non poteva riconoscersi in essa, perché lui aveva votato per il divorzio quale rimedio a situazioni dolorose e bloccate, quale possibilità di ricomporre esistenze inceppate. Rimedio ovvero eccezione che non negava i valori e sentimenti della famiglia né la funzione formatrice della sua unità. Quella maggioranza che aveva votato come lui gli riusciva odiosa, espressione di un relativismo nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e di pensiero. Lo si constata sempre più in ogni settore, dalla politica alla cultura alla vita privata. È il trionfo del consumo, denunciato da Pasolini; del consumo che esorbita dal suo ambito — il consumo e la possibilità di accedervi sono ovviamente una fondamentale condizione di vita dignitosa e godibile - per inglobare ogni aspetto della realtà e dell’esistenza. «Il riconoscimento per legge del desiderio individuale quale fonte della libertà e del diritto» - ha detto Giuseppe Vacca - crea inevitabilmente frammentazione e atomizzazione in ogni campo. Non a caso nascono molte nuove e spesso effimere formazioni politiche sorte dall’impulso a scindersi, alla prima divergenza, da una precedente aggregazione con la cui linea prevalente non si concorda. Molti anni fa, in uno dei suoi geniali saggi, Lealtà, defezione e protesta, Albert Hirschman analizzava le diverse possibilità, reazioni e soluzioni che possono verificarsi quando all’interno di una compagine (collettiva o personale, partito politico, chiesa, matrimonio o unione di fatto) sorgono delle controversie. Se i contrasti, anche chiariti duramente e mai del tutto superati, risultano compatibili, l’unione persiste: i coniugi non divorziano, i compagni non si lasciano, i dissidenti non escono dal partito o dalla chiesa. Se i contrasti si rivelano - per ragioni oggettive o per la psicologia dei contendenti - inconciliabili, l’unità viene intaccata: secessione dal partito, microscisma della chiesa quello di Lefebvre, separazione dei partner. Il distacco può avvenire nel rispetto e nella persistenza di un legame affettivo oppure nello scontro violento, in cui l’originario legame si trasforma in feroce avversione. Se quel legame, di qualsiasi genere, era stato autentico, la sua rottura non dovrebbe avvenire senza responsabili tentativi di sanare le ferite. Si assiste invece a una continua accelerazione dei processi dissolutivi, uscite, rientri e

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 16 marzo 2016

SOMMARIO

Sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi campeggia la seguente riflessione di Claudio Magris: “Può ogni desiderio (escludendo beninteso quelli criminosi) costituire un diritto? Una delle pochissime persone che hanno affrontato questa domanda con rigore, chiarezza e umanità è stato Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci. Come Vacca, pure Mario Tronti, senatore del Pd e, cosa ben più importante, leader e forte testa pensante dell’operaismo italiano degli anni Settanta, riconoscendo tutti i diritti alle coppie omosessuali (assistenza, eredità, convertibilità delle pensioni e così via), ha espresso forti riserve sulle adozioni gay, tanto da sottoscrivere il documento contrario a quest’ultime. Non è un caso che tali chiare e sofferte prese di posizione

vengano da figure di rilievo della cultura marxista, formate da un pensiero forte capace di affrontare la drammaticità del reale e la difficoltà e necessità delle scelte. L’odierna e dominante «società liquida» (come l’ha chiamata Bauman) miscela invece ogni problema e ogni presa di posizione in una melassa sdolcinata e tirannica, in un

conformismo che ammette tutto e il contrario di tutto. Tranne ciò che contesta il suo nichilismo giulivo e totalitario. Il diritto - ricordava di recente sul Piccolo un

autorevole costituzionalista, Sergio Bartole - tutela l’individuo ma anche la società e non può disinteressarsi delle ricadute di una legge sull’antropologia civile ossia sui fondamenti che tengono insieme una comunità e una società. Uno dei primissimi a

capire la trasformazione delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto titillamento pulsionale è stato Pasolini, quando scriveva sull’aborto o quando diceva

che il voto per il divorzio era un voto giusto - anche lui aveva votato a favore del divorzio - che tuttavia molti avevano dato per ragioni sbagliate. La maggioranza aveva votato come lui, ma egli non poteva riconoscersi in essa, perché lui aveva votato per il divorzio quale rimedio a situazioni dolorose e bloccate, quale possibilità di ricomporre esistenze inceppate. Rimedio ovvero eccezione che non negava i valori e sentimenti

della famiglia né la funzione formatrice della sua unità. Quella maggioranza che aveva votato come lui gli riusciva odiosa, espressione di un relativismo nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e di pensiero. Lo si constata sempre più in ogni settore, dalla politica alla cultura alla vita privata. È il trionfo del consumo, denunciato da Pasolini;

del consumo che esorbita dal suo ambito — il consumo e la possibilità di accedervi sono ovviamente una fondamentale condizione di vita dignitosa e godibile - per

inglobare ogni aspetto della realtà e dell’esistenza. «Il riconoscimento per legge del desiderio individuale quale fonte della libertà e del diritto» - ha detto Giuseppe Vacca

- crea inevitabilmente frammentazione e atomizzazione in ogni campo. Non a caso nascono molte nuove e spesso effimere formazioni politiche sorte dall’impulso a scindersi, alla prima divergenza, da una precedente aggregazione con la cui linea

prevalente non si concorda. Molti anni fa, in uno dei suoi geniali saggi, Lealtà, defezione e protesta, Albert Hirschman analizzava le diverse possibilità, reazioni e soluzioni che possono verificarsi quando all’interno di una compagine (collettiva o

personale, partito politico, chiesa, matrimonio o unione di fatto) sorgono delle controversie. Se i contrasti, anche chiariti duramente e mai del tutto superati,

risultano compatibili, l’unione persiste: i coniugi non divorziano, i compagni non si lasciano, i dissidenti non escono dal partito o dalla chiesa. Se i contrasti si rivelano - per ragioni oggettive o per la psicologia dei contendenti - inconciliabili, l’unità viene

intaccata: secessione dal partito, microscisma della chiesa quello di Lefebvre, separazione dei partner. Il distacco può avvenire nel rispetto e nella persistenza di un legame affettivo oppure nello scontro violento, in cui l’originario legame si trasforma in feroce avversione. Se quel legame, di qualsiasi genere, era stato autentico, la sua

rottura non dovrebbe avvenire senza responsabili tentativi di sanare le ferite. Si assiste invece a una continua accelerazione dei processi dissolutivi, uscite, rientri e

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nuove uscite da gruppi politici e proliferazione di questi ultimi, tempi sempre più abbreviati per lo scioglimento delle unità famigliari e affettive, eterno amore che

finisce alla prima lite per la scelta delle vacanze. Se acquisto uno shampoo e non ne sono soddisfatto, posso sostituirlo immediatamente, ma dovrebbe essere diverso se il distacco avviene da una persona un tempo cara, da un partito o da una chiesa in cui ci

si era riconosciuti. Invece la velocità delle conversioni o delle apostasie è invece sempre più alta, non si riesce più a seguire chi ha fondato un nuovo partito o una

nuova corrente perché questi sono già riconfluiti in un altro alveo, così come non si riesce a star dietro a chi si separa da chi per mettersi con chi nelle riviste illustrate che si leggono dal parrucchiere. Diritti e desideri. Ogni desiderio, se è forte, chiede,

esige di essere appagato, e in questa tensione, qualsiasi sia il desiderio, c’è uno struggimento, una nostalgia dolorosa che sono parte essenziale della nostra persona.

Possono tutti essere riconosciuti per legge? Anche l’incesto può essere brutale violenza ma anche passione umana, come ci hanno raccontato tante umanissime

storie di vita vissuta e tanta grande letteratura. In Svezia, anni fa, un fratello e una sorella avevano chiesto di sposarsi, cosa che non fu loro concessa e non credo solo per timori eugenetici, che potrebbero comunque venire in vari modi aggirati. Freud (per

tali ragioni pure duramente attaccato) ci ha insegnato che con la sublimazione di certi desideri, a esempio ma non solo quelli edipici, con la loro trasformazione in un’altra forma di amore, ha inizio la civiltà. È una sciagura sublimare troppo, ma lo è anche non sublimare nulla. Si è visto nella famiglia tradizionale un nucleo dell’antropologia

civile. La famiglia tradizionale può essere e molte volte è stata anche violenta, soffocante e nemica del libero sviluppo della persona. È ovvio che persone capaci di

intelligente e attento amore possano far crescere un bambino meglio di genitori carnali incoscienti e snaturati o anche solo ottusamente incapaci di intelligente

amore. L’amore omosessuale può essere elevato o turpe al pari di quello eterosessuale. Basta aver letto Il Grande Sertão di João Guimarães Rosa per sapere e

capire che ci si innamora non di un sesso, ma di una persona. Ma gli antichi Greci celebravano l’amore omosessuale per il suo rapporto anche spiritualmente diverso

con la generazione, con la radice duale dell’umanità. Ho conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio - avuto da una donna, non da un utero affittato. In ogni caso, il protagonista non è il desiderio della coppia né omo né

eterosessuale, bensì il bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna e la cui maturazione è verosimilmente arricchita dalla crescita non necessariamente con i genitori naturali ma con un uomo e una donna, espressione per eccellenza di quella diversità (culturale, nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di per sé

più creativa e formativa di ogni identità a senso unico. Il bambino, ha scritto su Facebook Vannino Chiti, «è soggetto di diritti, non un mero oggetto di desideri»”

(a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 25 Incontro con padre Zanotelli Via Aleardi Pag 26 La Passione secondo la Sindone Vicolo della Pineta 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Il cammino verso l’unità dei cristiani è il segno atteso della Pasqua insieme (lettere al giornale) Pag 4 Madre Teresa santa il 4 settembre di Giacomo Gambassi, Laura Badaracchi e Nello Scavo

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“Era molto materna e concreta, attenta anche alle piccole cose”. Il rito in Piazza S. Pietro. Dall’Europa all’India, la gioia degli ultimi Pag 17 Barbarin: non ho mai coperto il minimo atto di pedofilia di Andrea Galli Il cardinale arcivescovo di Lione risponde alle accuse Pagg 22 – 23 Benedetto XVI: “Facciamoci plasmare da Cristo” di Jacques Servais Pag 22 Convergenze sulla misericordia di Filippo Rizzi Pag 23 Come la locanda del samaritano di Elio Guerriero CORRIERE DELLA SERA Pag 20 Il sostegno a sorpresa del Papa emerito alla linea indicata da Francesco di Luigi Accattoli La vicinanza tra i due Pontefici. In un libro le parole di Ratzinger sulla centralità dell’idea di misericordia Pag 20 Madre Teresa proclamata santa il 4 settembre di Gian Guido Vecchi LA REPUBBLICA Pag 19 Valls attacca la Chiesa: “Non può coprire il prete pedofilo dello scandalo” di Anais Ginori LA NUOVA Pag 10 Abusi del sacerdote, paga la diocesi A Vicenza processo per don Baccega: se colpevole, danni a carico della Curia 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il virus dei prezzi calanti di Federico Fubini Deflazione e timori 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III L’eroina dei ragazzini: numeri da allarme rosso di Maurizio Dianese Mestre crocevia del mercato degli stupefacenti del Nordest. Sta prendendo sempre più piedi il rito della fumata collettiva Pag II Mensa dei Cappuccini, nuovi problemi di Filomena Spolaor Convivenza difficile Pag VIII Tempio Votivo, progetto ancora in bilico di L.M. LA NUOVA Pag 18 Brugnaro, 294 delibere in otto mesi di Enrico Tantucci Le più importanti su bilancio, vigili e deleghe alle Municipalità. Il commissario Zappalorto in 11 mesi ne aveva approvate 596 Pag 19 “Noi islamici solidali con la comunità ebraica” di Marta Artico Dopo l’attacco hacker 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 3 Profughi, in ritardo i soldi per l’accoglienza. La Chiesa: “Rischi di ordine pubblico” di Sara D’Ascenzo

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Mancano all’appello decine di milioni di euro. Don Dino Pistolato: “Situazione drammatica” Pag 5 “Ferro, imprenditore di carità. Custodiamo ciò che ha seminato” di Giovanni Viafora Ieri il saluto “privato” officiato dal cardinal Caffarra. Oggi funerali in Duomo Pag 17 I deboli, l’editto di Bitonci e il muro solidale del vescovo di Umberto Curi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non è giusto trasformare ogni desiderio in diritto di Claudio Magris Pag 8 Le due destre destinate a un ruolo gregario di Massimo Franco Pag 23 La prima volta delle donne di Gian Antonio Stella I 70 anni del voto femminile LA STAMPA Perché la Lega abbandona l’ex Cavaliere di Giovanni Orsina AVVENIRE Pag 1 Cambio di copione di Fulvio Scaglione Le scelte di Putin per la Siria Pag 3 Cresce il “no” all’utero in affitto di Assuntina Morresi Dopo il voto in sede di Consiglio d’Europa Pag 3 Migranti, l’Europa spaccata come nella crisi degli spread di Diego Motta Nord contro Sud, torna il rischio delle due velocità IL GAZZETTINO Pag 1 Nazionalismo, il vento tedesco scuote la Ue di Giulio Sapelli Pag 19 La politica dei muri tradisce la vocazione di solidarietà dell’Europa di Ennio Fortuna LA NUOVA Pag 1 Rischio turco per Merkel di Maurizio Mistri Pag 5 Il bottino di guerra dello zar di Renzo Guolo

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 25 Incontro con padre Zanotelli Via Aleardi Oggi alle 20.30 nella chiesa del Sacro Cuore in via Aleardi 61 si discuterà sull'enciclica di Papa Francesco “Laudato sì”, ovvero sulla salvaguardia e salvezza del creato. A dialogare di cura del creato ed ecologia integrale saranno sul palco Alex Zanotelli, padre comboniano della comunità "Crescere insieme" del rione sanità di Napoli, e padre Adriano Stella, della rete interdiocesana “Nuovi stili di vita”. Evento a ingresso libero in collaborazione con il Centro culturale Kolbe di Mestre.

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Pag 26 La Passione secondo la Sindone Vicolo della Pineta Venerdì 18 marzo alle 20.30 nella chiesa di S. Maria Goretti, in vicolo della Pineta, il professor Giulio Fanti, docente dell’Università di Padova ed esperto di studi sindonici, torna, dopo il seguitissimo incontro dello scorso maggio, per approfondire i segni della Passione di Gesù Cristo che sono impressi sulla Sindone, il telo che nella tradizione cristiana si ritiene abbia avvolto il corpo di Gesù Cristo. In sala sarà presente una riproduzione in scala 1:1 della Sindone e un ingrandimento del particolare del volto. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Il cammino verso l’unità dei cristiani è il segno atteso della Pasqua insieme (lettere al giornale) Caro direttore, il Medio Oriente, che il Signore ha scelto per incarnarsi sulla Terra, è martoriato da odio e distruzione. Nel luogo in cui è sorta la fiamma della fede cristiana, la gente piange e soffre. I cristiani rimasti in queste terre vengono perseguitati, uccisi e costretti a emigrare. Quello che ci addolora ancora di più è che, in seno alla stessa comunità cristiana, crescono le divisioni tra cattolici e ortodossi, tanto che quest’anno 34 giorni separano la celebrazione della Pasqua influendo negativamente sulla vita della comunità cristiana. Prima di lasciare i suoi discepoli, Gesù pregò :«Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Come possiamo provare al mondo che siamo suoi discepoli se siamo così divisi? Come possiamo testimoniare che siamo la luce del mondo e il sale della terra? Non è un caso che il Signore ci abbia dato l’onore di nascere in Medio Oriente. Ma il peso del messaggio a noi richiesto è molto grande e non si può realizzare senza la nostra unità. Perciò l’incontro tra il papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill, che ha fatto seguito a quelli tra il Santo Padre e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, è stato molto significativo per noi tutti. Ci ha rallegrati e incoraggiati a sperare nell’unificazione della data di Pasqua, come primo passo verso l’unificazione completa tra le nostre Chiese. Che il Signore benedica i loro sforzi! Sarei felice se il Papa potesse leggere questa mia lettera. Cordiali saluti (Randa Kallas Maalouf - Fraternità di Maria Auxiliadora Rayak - Beqaa, Libano) Quello della data unica per celebrare insieme la Pasqua, è un problema antico come il cammino ecumenico, gentile Randa. O, meglio ancora, come le Chiese cristiane. Fu infatti il Concilio di Nicea, nel 325 a stabilire che la Risurrezione di Cristo venisse festeggiata la domenica successiva alla prima luna piena di primavera. Il che oggi comporta date differenti a seconda che si segua il calendario riformato gregoriano oppure, come nel caso delle Chiese ortodosse, quello giuliano. Per esempio nel 2016, come lei giustamente sottolinea, la “Pasqua cattolica” cadrà il 27 marzo, quella ortodossa addirittura il 1° maggio. Si dirà che, non investendo questioni teologiche, trovare una soluzione al problema non dovrebbe essere difficile. In realtà le tradizioni, specie quelle più radicate nel vissuto dei fedeli, sono durissime da scalfire. E dire che interventi e prese di posizione non sono mancate. Nel passato e, soprattutto, in questi ultimi mesi. Il Papa durante il III raduno mondiale dei sacerdoti, nel giugno scorso, sottolineò che «la Chiesa cattolica è disponibile a rinunciare alla data determinata per la domenica di Pasqua dal primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera». Siamo disposti – ha aggiunto – sin dai tempi di Paolo VI, sottolineando di aver rilanciato la proposta al patriarca di Mosca Kirill e a quello di Costantinopoli Bartolomeo I che dal canto suo, ha autorizzato la piccola comunità ortodossa finlandese a celebrare la Pasqua lo stesso giorno dei luterani. Possibilista, anzi più che disponibile, il primate anglicano, l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby secondo il quale l’unificazione della data potrà, però, avvenire solo in un periodo compreso tra i 5 e i 10 anni. «Non prima – ha aggiunto di recente tra il serio e il faceto – perché molti hanno già stampato i calendari». Interessante e significativo sull’argomento è il documento del 1997 “Verso una data

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comune per la Pasqua – Dichiarazione di Aleppo” frutto della consultazione promossa dal Consiglio ecumenico della Chiese e dalle Chiese del Medio Oriente con la partecipazione di esponenti del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, della Comunione anglicana, degli Avventisti del Settimo giorno. Un testo in cui si indicano i motivi che dovrebbero spingere i cristiani a superare le divisioni sulla definizione della data e seguito, l’anno successivo, dalla risposta della Consulta teologica ortodosso-cattolica. Documento, quest’ultimo, che denuncia come «celebrando la Pasqua in domeniche diverse dell’anno, le Chiese danno una testimonianza divisa a questo mistero, compromettendo la loro credibilità e la loro efficacia nel portare il Vangelo al mondo». Premesse, si può notare tutte orientate nella stessa direzione, ma che finora non si sono tradotte in risultati concreti. La speranza è che il 2017, quando per il gioco dei calendari la data del 16 aprile sarà comune, apra una stagione nuova, in virtù anche del dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, rafforzato sia dagli incontri tra Francesco e Bartolomeo sia dall’incontro di Cuba tra il Papa e Kirill. Così da mandare per sempre in archivio l’amara barzelletta raccontata da papa Francesco, in cui si immagina che un cristiano chieda a un altro: «Quando resuscita il tuo Cristo? Il mio oggi, il tuo la settimana prossima?». (Riccardo Maccioni) Pag 4 Madre Teresa santa il 4 settembre di Giacomo Gambassi, Laura Badaracchi e Nello Scavo “Era molto materna e concreta, attenta anche alle piccole cose”. Il rito in Piazza S. Pietro. Dall’Europa all’India, la gioia degli ultimi Chiamiamola pure “profeta” della misericordia. Perché, con le sue intuizioni, la sua vita, le sue parole, ha annunciato quell’abbraccio del Padre che Cristo narra nella parabola del “figliol prodigo”. Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) è uno dei testimoni dell’Anno Santo voluto da papa Francesco. E ieri il Pontefice ha annunciato un altro grande “regalo” del Giubileo: la «piccola matita » nelle mani di Dio – come lei stessa si definiva – sarà proclamata santa domenica 4 settembre, nel giorno in cui viene celebrato il Giubileo degli operatori e dei volontari della misericordia. Con la fondatrice delle Missionarie della carità saranno canonizzati nei prossimi mesi altri quattro beati (ne parliamo a pagina 16): domenica 5 giugno Stanislaw di Gesù Maria e Maria Elisabetta Hesselblad; domenica 16 ottobre José Sánchez del Río e José Gabriel del Rosario Brochero. Lo prevede il decreto firmato da Francesco durante il Concistoro ordinario che si è tenuto nel Palazzo Apostolico in Vaticano. All’ordine del giorno proprio le cinque cause di canonizzazione. La data scelta per Madre Teresa non è casuale. Il 4 settembre è la vigilia della memoria liturgica della religiosa. Ed è l’anniversario della morta avvenuta nel 1997 a Calcutta, la città scelta dalla consacrata di origine albanese – al secolo Anjëzë Gonxhe Bojaxhiu – per vivere il Vangelo accanto agli emarginati dell’India. Il rito si terrà in piazza San Pietro. Nei giorni scorsi la Conferenza episcopale indiana aveva «chiesto a papa Francesco che la suora dei poveri» venisse «proclamata santa nella città dove ha vissuto la sua missione », Calcutta. Invece la Sala Stampa vaticana ha confermato che «tutti e cinque» i futuri santi «saranno canonizzati a Roma». La notizia ha fatto il giro del mondo e ha riempito di gioia sia l’Albania, sia l’India. In festa la Congregazione fondata da Madre Teresa nel 1950 che oggi conta 6mila religiose presenti in circa 140 Paesi e che in questi giorni è piegata dal lutto per l’uccisione di quattro suore durante un attacco terroristico nello Yemen. «Dio ama ancora il mondo e manda me e te affinché siamo il suo amore e la sua compassione verso i poveri», scriveva la Madre – premio Nobel per la pace nel 1979 – che ogni mattina iniziava la giornata davanti all’Eucaristia e usciva con la corona del Rosario tra le mani per cercare e servire il Signore in coloro che sono «non voluti, non amati, non curati». Testimone della gioia di amare, è stata beatificata in tempi record nell’ottobre 2003 da Giovanni Paolo II – che la chiamò la «serva degli ultimi» – senza attendere i cinque anni per l’apertura del processo canonico. Lo scorso 17 dicembre, nel giorno del suo 79° compleanno, il Papa aveva autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto sul miracolo attribuito all’intercessione della beata. La guarigione inspiegabile è avvenuta nel 2008 a Santos, in Brasile, e ha avuto per protagonista un uomo ridotto in fin di vita per un’infezione virale al cervello. Un caso clinico risolto in modo completo grazie alle preghiere della moglie e della parrocchia.

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Dal prossimo 4 settembre «ogni fedele potrà chiedere l’intercessione di madre Teresa: verrà proclamata santa e così potrà essere venerata pubblicamente in tutta la Chiesa», ricorda padre Brian Kolodiejchuk, missionario della carità e postulatore della causa di beatificazione e canonizzazione della “matita di Dio”, come amava definirsi Agnese Gonxha Bojaxhiu, fondatrice delle Missionarie e dei Missionari della carità. «La Madre», come la chiamano i suoi figli spirituali, nacque il 26 agosto 1910 a Skopje, in Macedonia, e si spense a Calcutta il 5 settembre 1997. San Giovanni Paolo II la beatificò il 19 ottobre 2003, mentre lo scorso 17 dicembre papa Francesco ha riconosciuto un miracolo attribuito alla sua intercessione, fino ad annunciarne ieri mattina la data di canonizzazione durante il Concistoro. «In realtà il miracolo è successo nel 2008 a Santos, in Brasile, però la postulazione ne è stata informata alla fine del 2013. Il tempo di raccogliere le informazioni e le testimonianze, e dopo il riconoscimento della guarigione scientificamente inspiegabile di un uomo con una infezione virale del cervello che ha prodotto più ascessi con idrocefalo triventricolare, attendevamo il momento in cui madre Teresa sarebbe stata proclamata santa. E, per un disegno della Provvidenza, avverrà durante il Giubileo della misericordia », sottolinea padre Brian. Una felice coincidenza, per una religiosa che «ha fondato la sua spiritualità proprio sulle opere di misericordia spirituali e corporali. Personalmente non voleva stare al centro dell’attenzione, farà ancora questo sacrificio il prossimo 4 settembre per la gloria di Dio e il bene della gente», scherza il postulatore di origine canadese, e si abbandona a qualche ricordo personalissimo. «Ho conosciuto madre Teresa nel 1977 a Roma: ero venuto a Roma con i miei genitori per l’ingresso in noviziato di mia sorella Shardel. Le suore portano la croce sulla spalla, i missionari della carità sul petto. Lei mi disse: “Vorrei mettere anche a te una croce sul cuore”. È stato uno choc per me e il giorno dopo sono andato a chiederle cosa volesse dirmi. Avevo capito bene: qualche mese dopo sono entrato nella congregazione maschile e nel 1983 ero nel quartiere del Bronx, a New York, con il primo gruppo dei Missionari della carità nella “Grande Mela”. Due fratelli, tutti e due suoi discepoli». La nuova santa, chiosa padre Brian, invita a imitarla. «Era molto materna e concreta, con i piedi per terra. Alcuni pensano che i santi abbiano la testa fra le nuvole, ma non è così: la Madre osservava tutto, metteva molta attenzione nelle piccole cose, dal servire il caffè a capire di cosa aveva bisogno chi le stava davanti. Ci diceva sempre di fare le cose ordinarie con amore straordinario. Ed era umanissima: le piacevano tanto la cioccolata e il gelato! Al tempo stesso sappiamo dai suoi scritti che ha vissuto una fede eroica, attraversando una lunga fase di oscurità». «Per noi la Madre è già santa, ma a settembre ci sarà il riconoscimento ufficiale», dice suor Cyrene, superiora provinciale per l’Italia delle Missionarie della carità, circa 6mila nel mondo, mentre sono nel nostro Paese 129 in 18 comunità (di cui 5 a Roma). «Viviamo questa gioia normalmente, continuando a seguire i nostri poveri, grate al Signore per questo dono alla Chiesa universale. L’eredità che ci ha lasciato la fondatrice? Essere fedeli giorno dopo giorno al nostro carisma, toccare i più poveri e riconoscere in loro lo sguardo di Gesù affamato, assetato». Nel convento di San Gregorio al Celio, a due passi dal Circo Massimo, «abbiamo lasciato la sua camera così com’era e molte persone vengono per vederla e pregare », racconta. E chiede di pregare per loro, le figlie spirituali di Madre Teresa, in questo periodo sotto i riflettori che non amano, perché «possiamo fare la volontà di Dio, il servizio e la missione che ci ha affidato: portare l’amore di Cristo. Come hanno fatto le nostre suore ad Aden, nello Yemen, condividendo le gioie, i timori e la morte. Ecco, vogliamo essere strumenti docili nelle mani del Signore per diventare la sua compassione, la sua misericordia, rendendoci conto delle nostre debolezze e fragilità». «La santa macedone», «la samaritana», «la ragazza pazza d’amore». L’enfasi sulla stampa di Albania, Kosovo e Macedonia è più che comprensibile. Di nuovo c’è chi, tra i commentatori, arriva a sostenere che la nascita «in pace» della nuova Macedonia durante la guerra della ex Jugoslavia sia uno dei miracoli di «Majka Tereza». Non l’unico. Nelle settimane scorse soprattutto nella terra che fu di Alessandro Magno, la politica si era espressa con prudenza a proposito dell’imminente canonizzazione. Forse temendo di dispiacere alla comunità ortodossa e alla vasta minoranza islamica. Anche la Chiesa cattolica macedone ha sempre voluto evitare toni trionfalistici. Ma proprio nelle ultime

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settimane è stato chiaro che la suora partita dai Balcani è più di un simbolo condiviso. Madre Teresa, al secolo Agnese Gonxha Bojaxhiu, era nata a Skopje, in Macedonia, da famiglia albanese, così che i macedoni se la contendono con gli albanesi: questi rilevano che nel 1910 la Macedonia non era indipendente, ciò che conta sarebbe l’etnia, e quindi madre Teresa è albanese. Al contrario i macedoni ribadiscono che ciò che conta è la città che le ha dato i natali. E se il governo di Tirana non si risparmia parole di gioia e promesse di grandi eventi per la «suora albanese», a Skopje la prudenza è evaporata per merito proprio della popolazione. Nel quartiere islamico della capitale, sono apparse immagini inneggianti alla santa. Basta girare per i quartieri a maggioranza musulmana per capire quanto le cautele fossero infondate. All’ingresso della città vecchia i visitatori vengono accolti da una gigantografia di Madre Teresa con intorno immagini di altre celebrità locali. Le foto di queste ultime vengono regolarmente e oscenamente imbrattate. «Ma da quando è qui – assicura il commerciante di anticaglie che sorveglia l’ingresso nel quartiere dei muezzin – nessuno si è mai sognato di toccare Maika Teresa». Lo spirito della suora santa rivive anche nelle iniziative per i bambini di ogni estrazione sociale e religiosa. Un modello per tutti. «Quello che noi cerchiamo di offrire ai visitatori non è solo un’occasione per conoscere una santa – spiega Cvetanka Vuchkoska, curatrice e guida nella casa memoriale –, ma una esperienza spirituale. Non è proselitismo, e nessuno è obbligato a concludere la visita entrando nella cappella». Neanche i kosovari hanno voluto essere da meno e dopo ripetuti interventi, è pronta la cattedrale di Pristina. Neanche il tempo di inaugurarla che già si dovrà correggere l’intitolazione. Era dedicata alla «Beata Madre Teresa», dal 4 settembre sarà la prima chiesa di «Santa Madre Teresa». È la più imponente cattedrale di tutti i Balcani: lunga 77 metri e larga 42, accoglie i fedeli con due statue in bronzo. A sinistra Madre Teresa, a destra il compianto Ibrahim Rugova, poeta che guidò il Kosovo verso l’indipendenza e la transizione democratica. All’interno le prime opere d’arte al mondo nelle quali si vedono insieme, dipinti sulle vetrate, Benedetto XVI e Francesco e con loro la suorina dal sari bianco orlato d’azzurro. Considerata la reazione favorevole di tutte le minoranze religiose, il governo di Skopje ha deciso di finanziare la pubblicazione di un libro illustrato, il primo del genere in lingua macedone. Scritto da Cvetanka Vuckovska e illustrato da Julija Nikovska-Pesevska, è stato finanziato dal ministero della Cultura. «Crediamo che possa essere utile a tutti i bambini macedoni – ha detto il ministro della Cultura, Elizabeta Kanceska-Milevska –. Un testo che contribuirà alla loro formazione, allo sviluppo della personalità e la percezione dei valori autentici della vita, che devono essere rispettati e nutriti». Un esempio su cui formare le nuove generazioni in una regione in cerca d’identità. Ma anche una provocazione per quanti, a poche decine di chilometri di distanza, respingono quei profughi che certo Madre Teresa non avrebbe scacciato. Pag 17 Barbarin: non ho mai coperto il minimo atto di pedofilia di Andrea Galli Il cardinale arcivescovo di Lione risponde alle accuse Diventa anche un affaire politico quello dell’arcidiocesi di Lione e del suo pastore e primate delle Gallie, il cardinale Philippe Barbarin, nei cui confronti la procura di Lione ha aperto a febbraio un’indagine preliminare per «omessa denuncia» e «messa in pericolo della vita altrui», riguardo al caso di un sacerdote pedofilo. Dopo diversi articoli di stampa, è stato il premier francese Manuel Valls a intervenire ieri mattina durante una trasmissione radiofonica, dicendosi «colpito e sconvolto» per le testimonianze delle vittime di «questi atti abominevoli» e aggiungendo: «Se questo dibattito riguardasse il preside di una scuola... che cosa avremmo detto? Saremmo stati implacabili», per cui Barbarin deve «assumersi le proprie responsabilità, parlare e agire». Parole che sono sembrate una replica a quelle dette giovedì scorso da Georges Pointier, arcivescovo di Marsiglia e presidente della Conferenza episcopale francese, che aveva stigmatizzato il clamore mediatico sulla vicenda di Lione, assai minore invece quando abusi sessuali si registrano in realtà laiche o istituzionali. All’uscita di Valls ha replicato duramente l’avvocato di Barbarin – «Non ha altro da fare che pronunciarsi su un dossier che non conosce» – mentre lo stesso cardinale, a margine dei lavori dell’Assemblea dei vescovi francesi a Lourdes, ha detto in riferimento alla richiesta di presa di responsabilità: «Gli prometto (a Valls ndr) che me le prenderò e mi sembra che quello che vado dicendo lo

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provi». Ma mettendo un punto fermo: «Voglio dire con la più grande forza che non ho mai, mai, mai coperto il minimo atto di pedofilia». Il caso che ha innescato la bufera è quello del sacerdote di Lione Bernard Preynat, 71 anni, che ha ammesso di aver abusato sessualmente di alcuni scout tra il 1986 e il 1991. Barbarin è alla guida dell’arcidiocesi transalpina solo dal 2002, ma l’accusa è di aver rimosso Preynat solo nel 2015. La difesa del cardinale è di aver appreso degli abusi nel 2007, da una fonte non coinvolta direttamente in quelle vicende, e di essersi fidato del giudizio dei suoi predecessori su Preynat, anche in mancanza di segni di recidiva da parte sua. Solo nel 2014 sarebbe stato avvicinato personalmente da una delle vittime: avrebbe quindi chiesto consulenza a Roma e deciso di sospendere il sacerdote. Preynat sostiene invece non solo che l’arcidiocesi fosse ben a conoscenza dei suoi misfatti quando fu rimosso da assistente degli scout nel 1991, ma che delle sue inclinazioni pedofile fossero al corrente anche i suoi formatori negli anni del Seminario. La situazione sembra diventare sempre più complessa con il passare dei giorni. Lunedì è stato Le Figaro a riportare la testimonianza di un «alto funzionario del ministero degli Interni», abusato da maggiorenne da un altro sacerdote di Lione, padre Billoud, tra il 1990 e il 1993, e che ha a sua volta denunciato Barbarin per «omessa denuncia» e «messa in pericolo della vita altrui». Una denuncia di cui l’avvocato del cardinale dice di essere all’oscuro, mentre in un comunicato l’arcidiocesi parla della «tristezza» e della «costernazione» di Barbarin per un dramma di cui non si ritiene in alcun modo responsabile (nel 2009 la vittima incontrò il cardinale, poi sporse denuncia contro il sacerdote, ma il caso fu archiviato perché caduto in prescrizione). «Il cardinale Barbarin ha espresso chiaramente il suo impegno e quello della diocesi a lavorare lealmente con la giustizia. Tengo ad assicurargli le nostre preghiere e la nostra amicizia» ha detto ieri a Lourdes l’arcivescovo Pontier, a nome della Conferenza episcopale. Intanto le vittime di Preynat, riunite nell’associazione “La parole liberée”, hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo di essere ricevute dal Papa. Il “portavoce” vaticano padre Federico Lombardi, commentando questa richiesta in una dichiarazione pubblicata sul sito in francese della Radio Vaticana – «ci sia permesso osservare che di solito un’udienza privata del Papa non viene chiesta tramite una pubblicazione ovviamente mirata ad esercitare una forte pressione mediatica» – ha affermato che «qualunque siano gli esiti» del procedimento di indagine della procura di Lione «è tuttavia lecito manifestare rispetto e stima per il cardinale Barbarin e per il suo senso di responsabilità: ciò non può essere considerato offensivo nei confronti di nessuno». Pagg 22 – 23 Benedetto XVI: “Facciamoci plasmare da Cristo” di Jacques Servais Santità, la questione posta quest’anno nel quadro delle giornate di studio (8-10 ottobre 2015) promosse dalla Rettoria del Gesù a Roma è quella della giustificazione per la fede. L’ultimo volume della Sua Opera omnia (GS IV) mette in evidenza la Sua affermazione risoluta: «La fede cristiana non è un’idea, ma una vita». Commentando la celebre affermazione paolina (Rm 3,28), Lei ha parlato, a questo proposito, di una duplice trascendenza: «La fede è un dono ai credenti comunicato attraverso la Comunità, la quale da parte sua è frutto del dono di Dio» («Glaube ist Gabe durch die Gemeinschaft, die sich selbst gegeben wird», GS TV; 512). Potrebbe spiegare che cosa ha inteso con quell’affermazione, tenendo conto naturalmente del fatto che l’obiettivo di queste giornate è chiarire la teologia pastorale e vivificare l’esperienza spirituale dei fedeli? «Si tratta della questione: cosa sia la fede e come si arrivi a credere. Per un verso la fede è un contatto profondamente personale con Dio, che mi tocca nel mio tessuto più intimo e mi mette di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che io possa parlargli, amarlo ed entrare in comunione con lui. Ma al tempo stesso questa realtà massimamente personale ha inseparabilmente a che fare con la comunità: fa parte dell’essenza della fede il fatto di introdurmi nel noi dei figli di Dio, nella comunità peregrinante dei fratelli e delle sorelle. La fede deriva dall’ascolto (fides ex auditu), ci insegna san Paolo. L’ascolto a sua volta implica sempre un partner. La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio

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e me lo rendono accessibile. La Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui. Ciò trova la sua espressione nei sacramenti, innanzitutto in quello del battesimo: io entro nella Chiesa non già con un atto burocratico, ma mediante il sacramento. E ciò equivale a dire che io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé e che si proietta al di là di se stessa. La pastorale che intende formare l’esperienza spirituale dei fedeli deve procedere da questi dati fondamentali. È necessario che essa abbandoni l’idea di una Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo. Essa deve introdurre all’incontro con Gesù Cristo e portare alla Sua presenza nel sacramento». Quando Lei era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando la Dichiarazione congiunta della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999, ha messo in evidenza una differenza di mentalità in rapporto a Lutero e alla questione della salvezza e della beatitudine così come egli la poneva. L’esperienza religiosa di Lutero era dominata dal terrore davanti alla collera di Dio, sentimento piuttosto estraneo all’uomo moderno, marcato piuttosto dall’assenza di Dio (basti rileggere il suo articolo scritto per la rivista Communionel 2000). La dottrina di Paolo della giustificazione per la fede, in questo nuovo contesto, può raggiungere l’esperienza “religiosa” o almeno l’esperienza “elementare” dei nostri contemporanei? «Innanzitutto tengo a sottolineare ancora una volta quello che scrivevo su Communio 2000 in merito alla problematica della giustificazione. Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura diretto e formale tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi avrebbe per così dire cancellato le colpe di Dio. Anche per ora la maggior parte dei cristiani non condivide un così drastico capovolgimento della nostra fede, si può dire che tutto ciò fa emergere una tendenza di fondo del nostro tempo. Quando Johann Baptist Metz sostiene che la teologia di oggi deve essere «sensibile alla teodicea» (theodizeeempfindlich), ciò mette in risalto lo stesso problema in modo positivo. Anche a prescindere da una tanto radicale contestazione della visione ecclesiale del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa. Tuttavia, a mio parere, continua ad esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante – a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo

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veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò piace all’uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza». Negli Esercizi Spirituali, Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di vendetta, al contrario di Paolo (come si evince nella seconda lettera ai Tessalonicesi); ciò non di meno egli invita a contemplare come gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all’inferno» e a considerare l’esempio dagli «innumerevoli altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io». È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione eterna quanti più «infedeli» possibile. Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto? «Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i Padri e i teologi del medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del nuovo mondo all’inizio dell’era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive. Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana. Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto, e ciò spiega il loro impegno missionario, nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata. Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto- base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo. Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione. Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de

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Lubac e con lui alcuni altri teologi che hanno fatto forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la proesistenza di Cristo sarebbe espressione della figura fondamentale dell’esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problema non è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l’intuizione essenziale che così tocca l’esistenza del singolo cristiano. Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti e i cristiani, che nella grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale essere-per. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo. È chiaro che dobbiamo riflettere sull’intera questione». Pag 22 Convergenze sulla misericordia di Filippo Rizzi L’intervista al papa emerito Joseph Ratzinger-Benedetto XVI di cui pubblichiamo ampi stralci curata e realizzata dal gesuita belga e discepolo di Hans Urs Von Balthasar il teologo Jacques Servais è stata presentata nel contesto del Convegno dal titolo: “Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione degli Esercizi Spirituali” promosso dalla Rettoria del Gesù a Roma tra l’8 e il 10 ottobre 2015. L’intervista scritta e rilasciata nella lingua madre del Pontefice, il tedesco, fu letta, nell’ambito del convegno romano, dal prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare di Benedetto XVI, l’arcivescovo Georg Gänswein. Il testo è stato tradotto dallo stesso Jacques Servais e rivisto dall’intervistato. In questo intervento papa Ratzinger torna con la mente agli studi universitari e alla sua ricerca teologica, ma soprattutto agli anni trascorsi come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Benedetto XVI rievoca l’importanza della Dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999, (quando proprio Ratzinger era allora cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede). Nell’intervista a Benedetto XVI sono tanti anche gli accenni al periodo del suo magistero come Pontefice: vengono citati, tra gli altri documenti, l’enciclica Spe Salvi e i tre volumi su Gesù di Nazaret. Di grande interesse sono anche i richiami ad Anselmo da Aosta e Lutero come pure ai teologi contemporanei Henri de Lubac e Karl Rahner e alla sua tesi sul «cristianesimo anonimo» e a questioni tipicamente teologiche nello stile del “Ratzinger professore”: se la salvezza eterna possa raggiungere ed estendersi anche a coloro che non sono stati battezzati. Di grande interesse, alla luce anche di questo Anno santo, è poi la lettura sul tema della misericordia che papa Benedetto affronta, mettendo in luce i grandi punti di convergenza tra il magistero di Giovanni Paolo II, il suo e quello di Francesco. Altro aspetto di stringente attualità della riflessione, nel solco del magistero di papa Bergoglio, è l’importanza che Benedetto indica per la vita di ogni cristiano quella di praticare il Sacramento della Penitenza (la Confessione) per farci «plasmare e trasformare da Cristo». Il testo che qui viene presentato ha un grande valore simbolico alla luce delle imminenti celebrazioni per i cinquecento anni (1517-2017) delle tesi sulla giustificazione della fede di Martin Lutero. Il testo fa parte ora di un libro, curato dal rettore della Chiesa del Gesù, il gesuita ferrarese Daniele Libanori, appena uscito per la San Paolo (pagine 200, euro 20), che contiene gli atti del convegno e ne riprende il titolo: Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali; vi sono riportati i contributi dei relatori: il lazzarista Nicola Albanesi, docente all’Università cattolica ('Il cur Deus homo di Sant’Anselmo. La dottrina della giustificazione'), il gesuita Roberto Del Riccio, docente alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, sezione San Luigi a Napoli ('Giustificazione del peccatore e immagine di Dio'), il biblista padre Salvatore Maurizio Sessa, docente al Claretianum di Roma ('La giustificazione nell’antico testamento per un primo orientamento a partire dal libro di Geremia'), monsignor Romano Penna già docente di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense ('La giustificazione del peccatore secondo Paolo'), il gesuita Giovanni Cucci, docente alla Gregoriana e scrittore

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de La Civiltà Cattolica ('Aspetti antropologici dell’esperienza di Dio: tra paura e fiducia') e Anton Witwer, anch’egli gesuita e preside dell’Istituto di Spiritualità alla Pontificia Università Gregoriana ('L’immagine di Dio salvatore negli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola'). Pag 23 Come la locanda del samaritano di Elio Guerriero Vi sono continuità e comunione profonda tra i papi Benedetto e Francesco sul tema della misericordia. Lo ha lasciato capire papa Francesco citando solennemente, a conclusione del Sinodo dei vescovi, un celebre testo del suo predecessore sulla misericordia. Lo ribadisce il Pontefice emerito in una lunga intervista che sta per giungere in libreria in questi giorni, inserita nel volume Per mezzo della fede. Dice Benedetto XVI: «La pratica pastorale di papa Francesco si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio». Quindi prosegue: «Per me è un 'segno dei tempi' il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante» nella vita della Chiesa. Benedetto ripercorre poi la via per la quale l’esperienza della misericordia è divenuta così importante nella vita cristiana e nella cultura contemporanea. A suo avviso, questo nuovo sentire epocale prese l’avvio in Europa nei decenni tra le due guerre del secolo scorso di fronte alle forme inaudite di violenza e alla diffusione di un odio di cui non si riusciva a percepire la ragione. In questo contesto in Polonia, uno dei Paesi che maggiormente ebbe a soffrire per le atrocità dei due conflitti mondiali, prese forma l’idea che la misericordia rispecchia il vero volto di Dio. A un’umile suora, santa Faustina Kowalska, Dio chiedeva di annunciare l’immensità della sua misericordia e di far istituire una festa per evidenziare questa verità di fede. Sembrava un’idea disperata, ma un giovane sacerdote di nome Karol Wojtyla prese molto sul serio l’annuncio, cercò di vivere questa realtà nella sua vita e, divenuto Papa, istituì la festa della Divina misericordia. «Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito». Discretamente papa Benedetto non parla del suo contributo, ma esso è ben presente nella sua prima lettera enciclica, quando scrive: «Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte, e in questo modo riconcilia giustizia e amore»; e poi quando nel suo libro su Gesù interpreta alcune parabole evangeliche proprio nel senso della misericordia: Gesù è il figlio prodigo che in pieno accordo con il Padre abbandona la sua casa (la divinità) per venire nel mondo e riaprire agli uomini la strada che riporta al Padre misericordioso. Egli è il buon samaritano che soccorre l’uomo aggredito, versa olio sulle sue ferite, si prende cura di lui e lo affida alla locanda, la sua Chiesa. Del resto l’idea della misericordia risponde pienamente alla sensibilità contemporanea secondo la quale non è tanto l’uomo che ha bisogno di giustificazione, ma al contrario sarebbe Dio stesso a doversi scusare a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Benedetto non trova del tutto errata questa sensibilità, anzi, afferma che essa ha finito per rendere più credibile l’immagine stessa di Dio. Superando alcune posizioni medievali che distinguevano tra la giustizia del Padre e la misericordia del Figlio, si riscopre il vero volto dell’unico Dio. Egli è il Creatore dell’universo, il Padre, sovrabbondante in longanimità, pazienza e misericordia ed è il Figlio che viene nel mondo dove passa attraverso una passione d’amore che è evento storico, ma ha radici nell’amore eterno dello Spirito Santo. «Così in modo grandioso e puro si percepisce cosa significano la misericordia di Dio e la partecipazione di Dio alla sofferenza dell’uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero, intimo superamento del male che in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore». Questa nuova immagine di Dio porta con sé anche una nuova visione di Chiesa. «Cristiani non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa un biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire insieme il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo». CORRIERE DELLA SERA

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Pag 20 Il sostegno a sorpresa del Papa emerito alla linea indicata da Francesco di Luigi Accattoli La vicinanza tra i due Pontefici. In un libro le parole di Ratzinger sulla centralità dell’idea di misericordia Arriva in libreria un testo di Benedetto che parla di Francesco. Arriva senza clamori ma è una prima assoluta: mai il Papa emerito aveva parlato del successore entrando nel merito della sua predicazione, stavolta invece lo fa. E lo fa in appoggio alla linea di Francesco, lodandone l’impegno sul tema della «misericordia». Le parole sul successore sono poche, quattro righe, ma sono in un contesto impegnativo, che tratta della centralità del tema della misericordia nell’attuale stagione della storia cristiana e costituiscono un inquadramento in positivo di quanto il Papa argentino viene proponendo su questo fronte e che non sempre incontra il gradimento degli addetti ai lavori. «Papa Francesco - afferma Benedetto nel testo che appare ora - si trova del tutto in accordo con questa linea (che pone la misericordia al centro del messaggio cristiano). La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio». Queste parole si trovano in un volume della San Paolo che pubblica gli atti di un convegno teologico che si è tenuto lo scorso ottobre a Roma, nella casa dei gesuiti di via degli Astalli. In quel convegno fu letto dall’arcivescovo Georg Gänswein il testo di un’intervista a Ratzinger sul tema della «giustificazione per fede», che è l’affermazione centrale della Riforma luterana: il 31 ottobre Papa Bergoglio andrà a Lund, in Svezia, a celebrare con i luterani i 500 anni della Riforma. Il volume con il testo di Benedetto è curato dal gesuita Daniele Libanori ed è intitolato «Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa» (San Paolo editore, pp. 199, euro 20). L’anonimo intervistatore sollecita Ratzinger a svolgere un raffronto tra il sentimento religioso dell’umanità contemporanea a Lutero, segnato dall’idea del peccato e dal bisogno della «giustificazione», e il nostro attuale. Ratzinger sviluppando affermazioni già proposte da cardinale riconosce che oggi non avvertiamo più quel bisogno di scampare alla «collera divina» mossa dal nostro peccato, ma avvertiamo comunque il «bisogno della grazia e del perdono». «Per me - dice il Papa emerito - è un segno dei tempi il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante». A illustrazione di tale progressiva centralità Ratzinger cita la santa polacca Faustina Kowalska (1905-1938), le cui «visioni» (era una mistica e ha lasciato un diario) riflettono «il desiderio della bontà divina che è proprio dell’uomo d’oggi»; e cita il Papa polacco, che canonizzò la connazionale e pubblicò un enciclica sul tema: «Dio ricco di misericordia» (1980). È a questo punto che Ratzinger nomina Francesco, affermando che si trova «in accordo con questa linea». Non dice nulla di sé, il buon Benedetto maestro di discrezione, ma sarebbe facile aggiungere che al tema della misericordia va ricondotta la sua prima enciclica intitolata «Dio è amore» (2006) e che è sua, presa da un discorso del 30 marzo 2008, l’affermazione che «il nome di Dio è Misericordia», posta da Francesco a titolo del libro intervista con Andrea Tornielli (Piemme 2016). Conclusione di Ratzinger nell’intervista: «Gli uomini d’oggi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede». Non sono affermazioni scontate. Non mancano cattolici che accusano Francesco di operare uno sbilanciamento buonista della predicazione della Chiesa dimenticando la «giustizia divina», la necessità della penitenza, il rischio della «perdizione eterna». In un momento nel quale quelle critiche vanno accentuandosi, l’appoggio che gli viene da Benedetto può risultare prezioso. Erano già una decina i testi di Benedetto pubblicati dopo la rinuncia al Papato, ma questo è il più importante. Ci dice che la mente teologica del Papa emerito continua a tessere la sua tela. Un tempo l’imbastiva in aiuto al missionario del mondo che fu Papa Wojtyla e ora non disdegna di farlo, dal suo ritiro, ad accompagnamento della predicazione del Papa che propone una «riforma della Chiesa in uscita missionaria». Pag 20 Madre Teresa proclamata santa il 4 settembre di Gian Guido Vecchi

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Madre Teresa di Calcutta sarà proclamata santa da Francesco il 4 settembre. Ieri il Papa ha approvato la canonizzazione della fondatrice delle Missionarie della carità. I vescovi indiani speravano avvenisse a Calcutta ma la cerimonia è prevista a Roma, in piazza San Pietro: la figura della suora è universale, sarà uno dei momenti culminanti del Giubileo della Misericordia. Madre Teresa, al secolo Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, albanese, è nata a Skopje nel 1910 e morta a Calcutta il 5 settembre 1997. Giovanni Paolo II l’aveva proclamata beata il 19 ottobre 2003. Per la proclamazione a santa, è stata scelta la domenica più vicina (il 5 settembre sarà un lunedì) al «dies natalis», il giorno della morte che per i cristiani è di nascita alla vita eterna. Il 17 dicembre, Francesco aveva approvato il decreto che riconosceva l’intercessione della suora nella guarigione «straordinaria e immediata» di un brasiliano oggi quarantaduenne in fin di vita per un tumore al cervello, il miracolo necessario per la canonizzazione. Il medico che doveva operarlo lo trovò senza sintomi nella sala operatoria dove era entrato in coma. LA REPUBBLICA Pag 19 Valls attacca la Chiesa: “Non può coprire il prete pedofilo dello scandalo” di Anais Ginori Parigi. «Sei il mio preferito, questo è il nostro segreto». L'appuntamento era al primo piano di una chiesa in cemento nella banlieue di Lione. Ogni sabato pomeriggio, quando le attività del gruppo di scout erano finite, padre Bernard convocava uno a uno i suoi "preferiti" nell'ufficio. «Una stanza piccola, buia», ricorda Alexandre che sente ancora i rantoli del prete mentre lo abbraccia, toccando le sue parti intime, baciandolo prima sulle guance poi sulla bocca. «Ti amo, e tu?». Alexandre aveva 10 anni, ora ne ha 44 e vuole la verità. Non solo sui crimini di padre Bernard, che ha ammesso i fatti e la sua "debolezza", ma sulla Chiesa e il suo silenzio. Uno scandalo che emerge dal passato e rischia di travolgere uno dei cardinali francesi più in vista, monsignor Barbarin, accusato di avere coperto un prete pedofilo. Il primo ministro Manuel Valls ha addirittura chiesto ieri a Barbarin di «prendersi le sue responsabilità». «Se questo dibattito riguardasse il preside di una scuola - ha ragionato Valls - che cosa avremmo detto? Saremmo stati implacabili». L'affondo del capo del governo è arrivato mentre si riuniva a Lourdes la conferenza episcopale dei vescovi dov' è stata improvvisata una conferenza stampa. «Mai, e poi mai ho coperto un qualsiasi atto di pedofilia», ha assicurato Barbarin davanti al muro di telecamere. «Le vittime - ha continuato - sanno che prima di tutto penso a loro». Quanto a Valls, ha aggiunto il cardinale, «conosce certamente la presunzione di innocenza». È stato proprio Alexandre, ora padre di famiglia con cinque figli, a riaprire il caso che fa tremare la Chiesa francese. All'epoca, i suoi genitori avevano avvertito la diocesi, così come altre famiglie. Le molestie di padre Bernard negli anni Ottanta erano note. Non ha mai avuto bisogno di nascondersi troppo. L'associazione delle vittime ha diverse lettere in cui il prete si scusa con genitori per le "tenerezze" fatte ai bambini e promette di astenersi in futuro. All'epoca le famiglie non hanno voluto denunciare una figura carismatica della chiesa locale anche perché nel 1991 padre Bernard abbandona frettolosamente la parrocchia. Tutti pensano che sia finalmente stato sospeso. E invece è stato solo trasferito in un'altra regione, cambiando nome: si fa chiamare padre Preynat. Nel frattempo, Alexandre tenta di cancellare i ricordi. È solo per caso che due anni fa scopre che il suo molestatore è ancora in attività e ha un incarico nella regione. Alexandre scrive all'arcivescovo di Lione. Barbarin risponde, propone un incontro pacificatore. Alexandre vede che però il prete rimane al suo posto, scrive al Vaticano, e alla fine si rivolge alla magistratura nel giugno 2015. Due mesi dopo Preynat viene sospeso. Sul sito dell'associazione delle vittime, Parole libérée, sono raccolte decine di testimonianze agghiaccianti come quelle di Bertrand, Christophe, Didier. Tutti bambini intorno ai 10 anni, anche più piccoli. Le aggressioni avvenivano nell'attività della parrocchia oppure durante i viaggi organizzati. «Eravamo una tribù, ammiravamo padre Bernard», racconta François Devaux, fondatore di Parole libérée. È grazie ai suoi genitori che il prete pedofilo è stato trasferito nel 1991. «Avevano minacciato un'azione giudiziaria», ricorda Devaux, architetto. Convocato a gennaio davanti ai magistrati, Bernard Preynat ha ammesso le aggressioni sessuali. Per molte vittime i fatti sono prescritti. Barbarin, diventato arcivescovo di Lione nel 2002, non era nella diocesi di Lione all'epoca dei fatti e sostiene di aver scoperto le accuse a Preynat solo nel 2007. La

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magistratura di Lione il 4 marzo ha aperto un fascicolo per "mancata denuncia di reato" contro Barbarin che ieri ha deciso di sospendere un altro prete di Lione accusato di atti pedofili. «Vogliamo capire se c'è omertà dentro alla Chiesa e con quali complicità» spiega Devaux. Parole libérée ha scritto al Papa per chiedere un incontro. La lettera è stata pubblicizzata dai media francesi. Ieri padre Lombardi, ha precisato che «la richiesta di un' udienza privata con il Papa non passa attraverso la stampa». Il portavoce vaticano ha ribadito la fiducia al cardinale Barbarin, confermando di voler «attendere i risultati dell'inchiesta giudiziaria». LA NUOVA Pag 10 Abusi del sacerdote, paga la diocesi A Vicenza processo per don Baccega: se colpevole, danni a carico della Curia Vicenza. Se un sacerdote si macchia di una violenza sessuale, a pagare i danni alle vittime deve pensarci il vescovo. È la decisione - in penale, sarebbe la prima in Italia - presa dal tribunale di Vicenza, che l’altra mattina ha sciolto le riserve ed ha accolto la richiesta degli avvocati di due ragazzine e della loro mamma, che sostengono di essere state molestate sessualmente da un ex parroco. Il collegio presieduto da De Stefano (giudici Garbo e Velo) ha quindi ritenuto che possa essere chiamata al processo come responsabile civile la Diocesi. In tribunale a Vicenza, davanti al collegio e al pm Floris, è in corso il processo a carico di don Giovanni Baccega, 81 anni, originario di Fontaniva, che oggi vive a Crespano del Grappa. Secondo l’accusa, fra il 2007 e il 2008 avrebbe allungato le mani su due sorelle, di 13 e 15 anni, figlie di un vecchio amico, mentre era amministratore parrocchiale a Sant’Antonio del Pasubio. Don Gianni ha sempre respinto le accuse. Le due ragazze e la mamma si sono costituite parte civile con l’avv. Antonella Bonazzo e due legali veronesi chiedendo più di 100 mila euro di danni. Poiché verosimilmente quella somma non è nella disponibilità del sacerdote, hanno chiesto la responsabilità della Diocesi di Vicenza. E venerdì il tribunale ha accolto la richiesta. Negli Stati Uniti la norma sul punto è chiara: a pagare deve essere la Curia, tanto è vero che la Diocesi di Boston, proprio per queste ragioni, è in serie difficoltà economiche. La decisione del collegio fa infatti tornare alla mente “Il caso Spotlight”, l’inchiesta sui casi di pedofilia nella Chiesa di Boston realizzata dal Boston Globe e raccontata nel film (che porta il nome del pool d’indagine giornalistica) recente vincitore del premio Oscar. Il dibattimento entrerà nel vivo alla prossima udienza, fissata in ottobre. Saranno ascoltati i primi testimoni e quindi toccherà alle due ragazze, oggi diventate maggiorenni, raccontare la loro versione. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il virus dei prezzi calanti di Federico Fubini Deflazione e timori Sembra un secolo fa quando l’allora premier spagnolo José Luis Zapatero festeggiava il «sorpasso» sull’Italia. Sembra un secolo, ma sono meno di nove anni. Allora la posta in gioco era un parametro un po’ astruso come il reddito per abitante stimato in proporzione al costo della vita. Pareva proprio che gli spagnoli stessero superando gli italiani, prima che entrambi i Paesi fossero colpiti da uno tsunami finanziario che nessuno dei due aveva visto arrivare. Oggi che non è più tempo di retorica dei sorpassi (ben nota anche da noi) la domanda che conta per gli italiani come per gli spagnoli è un’altra: è ancora possibile modernizzare un’economia mentre i prezzi continuano a cedere? Che sia fin troppo attuale lo si è visto ieri, quando l’Istat ha fatto sapere che in febbraio l’inflazione è stata ancora una volta negativa. I beni di consumo costano 0,3% meno di un anno fa, perché i produttori ormai cercano di intercettare i consumatori letteralmente a tutti i costi. La deflazione è un virus diabolico, perché riesce a dividere un Paese in ceti trasversali. Può piacere a chi vive di rendite o entrate certe, come i pensionati o i dipendenti pubblici: i ricavi restano uguali a prima, ma adesso comprano più beni e servizi proprio perché i prezzi sono scesi. La stessa dose di deflazione invece

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agisce come una tossina per chi vive sul mercato, poco importa se da imprenditore, lavoratore autonomo o dipendente. I consumatori rinviano gli acquisti, in attesa che un mobile o un software costino meno. I fatturati ristagnano. Le imprese rinviano gli investimenti, temendo che fra un anno i prezzi (scontati) dei loro prodotti non coprano le spese affrontate oggi. La deflazione in realtà lacera un Paese anche in modo più insidioso: fa orrore ai debitori perché i loro ricavi in euro scendono, mentre gli interessi da pagare restano uguali; non dispiace ai creditori per motivi uguali e contrari. In Italia per proseguire nelle riforme su uno sfondo del genere bisogna guardare alla Spagna, che in questo il sorpasso lo ha fatto davvero. Madrid ha risposto alla crisi tagliando gli stipendi pubblici del 5% e portando la contrattazione direttamente dentro le aziende. Turni, orari e soprattutto salari si determinano in base alle condizioni di ogni territorio e di ogni impresa. In meglio o in peggio rispetto alle medie nazionali, si decide tutto secondo la capacità di ogni azienda di produrre e stare sul mercato. Naturalmente il risultato è stato (anche) un aumento della deflazione, perché nelle province il costo del lavoro si è subito aggiustato al ribasso. Anche se la Spagna cresce quattro volte più dell’Italia e il suo tasso di occupazione è più alto (57,8% contro 56,6%), i prezzi lì scendono molto più che da noi. Questa è una spia che la deflazione e i timori che essa incute possono anche paralizzare un governo riformista. Più si aspetta, più sale il costo di ogni sua decisione. Magari Matteo Renzi vorrebbe portare la contrattazione in azienda, però non osa perché teme un avvitamento dei prezzi? Cedere a queste paure sarebbe un errore. La vera lezione iberica è che nessuna riforma basta da sola e ciascuna richiede la prossima, per poter funzionare. La Spagna ha contrastato l’impatto della deflazione attirando dall’estero molti più investimenti produttivi dell’Italia. Lo ha fatto perché il sistema burocratico e giudiziario iberico non scoraggia chi vuole aprire una fabbrica di auto, o un laboratorio farmaceutico. Completare la riforma del lavoro implica dunque affrontare subito anche le prossime, per spostare l’intero Paese verso un nuovo equilibrio più sostenibile. Stare fermi non è più un’opzione: non mette in cassaforte il consenso in un Paese colpito dal virus divisivo della deflazione. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III L’eroina dei ragazzini: numeri da allarme rosso di Maurizio Dianese Mestre crocevia del mercato degli stupefacenti del Nordest. Sta prendendo sempre più piedi il rito della fumata collettiva Mestre - L’eroina è tornata. E “si attacca” sempre più ai giovanissimi. Si inizia infatti a “fumarse ea stagna” già a 14 anni, in compagnia, come si fa con gli spinelli, come niente fosse. Gli spacciatori la vendono a pochissimo e spesso la regalano perché un consumatore di eroina è un cliente per sempre e se il cliente è un giovanissimo, il business è assicurato. Che l’eroina avesse iniziato ad invadere il mercato degli stupefacenti era una voce che si rincorreva da un paio di anni, ma gli unici dati certi erano quelli del Serd, il servizio dell’Ulss per le tossicomanie, che intercetta i giovani quando ormai sono prigionieri della droga. E non erano numeri da allarme rosso. Proprio per capirne di più. Prima che fosse troppo tardi, il Servizio Riduzione del danno del Comune aveva chiesto a Veritas di prestare attenzione alle “stagnole” e di iniziare a contarle. L’eroina infatti si fuma scaldandola dentro un pezzo di stagnola e aspirando il fumo. Gli operatori di Veritas hanno contato in città 5 mila pezzi di stagnola nel 2014 e 12 mila nel 2015. Non è un conto preciso al millesimo, ovviamente, ma serve a dare un’idea a chi in Comune da anni studia i fenomeni delle tossicomanie legate ai consumi giovanili. In effetti gli operatori negli ultimi due anni trovavano sempre più spesso ragazzini che confessavano tranquillamente di “fumarse ea stagna”. Che però le “stagne” diventassero quasi il triplo da un anno all’altro non l’aveva messo in conto nessuno. E invece il dato è stato reso pubblico proprio da Veritas in una riunione delle Commissioni congiunte parchi e servizi sociali. E il dato è decisamente allarmante. Anche se si sapeva che gli spacciatori – il mercato è al 100 per cento nelle mani dei tunisini per lo spaccio al dettaglio e degli albanesi/italiani per il commercio all’ingrosso – era da un bel po’ che spingevano sull’eroina proprio perché dà dipendenza immediata. I ragazzini

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non si rendono conto del pericolo e quando vengono accompagnati al Serd dai genitori protestano perché “io non sono un tossico”. Tossico lo è solo chi si buca, per loro, non chi fuma. E se negli anni ’80 l’eroina era il “buco” della ribellione, di chi voleva distinguersi, oggi l’eroina fumata è lo stupefacente dell’inclusione, di chi vuole essere "normale". Del resto si tratta di uno stupefacente che per qualche ora toglie di mezzo ansie e preoccupazioni, e se non lo buchi, non sballa al punto da farti riconoscere subito come un tossico. Ecco perché i ragazzi sottovalutano il pericolo della droga più pericolosa, quella che dà assuefazione molto rapidamente e ti distrugge la vita. Del resto fumarla è semplice ed è un rito, collettivo, che si consuma ovunque. Nei parchi e nei garages, nelle case private e al cinema. Tant’è che il maggior numero di “stagne” Veritas le ha contate nei paraggi dell’Uci cinemas di Marghera, una delle tante mega strutture che resta vuota tante ore al giorno e quindi offre spazi infiniti per il rito della fumata. I ragazzini vanno a comprarla al parco Emmer e poi si allontanano quei 300 metri che servono per evitare guai. Tra l’altro, a differenza dell’eroina bucata, quella fumata non richiede grandi preparazioni. Basta un pezzo di stagnola e un accendino. Non è come per l’eroina bucata, che richiede cucchiaino, accendino, filtro, acqua e siringa. La si fuma in un attimo, si butta la carta stagnola e le tracce spariscono – ma se vostro figlio torna sempre a casa con le dita nere di fuliggine, è meglio prestare attenzione. Nel corso degli anni, proprio perché in tutte le metropoli stava aumentando il rischio eroina – sparita letteralmente dalla circolazione negli ultimi 15 anni – il Comune di Venezia aveva messo in campo due equipes che uscivano in strada con due camper. Uno per intercettare i tossicomani vecchio stampo – e vecchi anche dal punto di vista anagrafico – e un altro per intercettare i giovanissimi. Ebbene, di due camper adesso ne è rimasto uno solo perché uno era troppo vecchio e costava troppo rimetterlo in sesto. Ma anche l’altro, quello colorato, immediatamente identificabile e proprio per questo riconosciuto dai giovanissimi, non solo è stato pitturato di bianco, spendendo di soldi che potevano essere impiegati per mettere a posto l’altro, ma è praticamente fermo da quando ci sono stati i tagli al welfare. Gli spacciatori, si sa, lavorano sempre, mentre gli operatori del Comune staccano alle cinque del pomeriggio. Il risultato è che gli unici in grado di intercettare i giovanissimi oggi sono i pusher. Gli albanesi sono alle "cascate". I tunisini invece alle "piramidi". Sono sempre lì, dalla mattina alla sera. Gli albanesi hanno una vedetta che fa il giro del parco della Bissuola in bicicletta. Gira e gira e gira in continuazione, neanche si stesse allenando per il Giro d'Italia. E' lui che lancia il primo allarme appena vede apparire una macchina della polizia. O dei carabinieri. O dei vigili urbani. O della Finanza. Perché qui non passa giorno senza una retata. Del resto al parco della Bissuola basta stendere la rete e qualche pesce resta impigliato. Ma si tratta di piccoli spacciatori. Piccolissimi. I capi, quelli che maneggiano dal chilo in su, alla Bissuola non si fanno nemmeno vedere. Fanno import- export di marijuana dall'Albania e scaricano qui i chili di droga che arriva in un paio di case dalle parti di Carpenedo, di proprietà di italiani, in joint venture con gli albanesi. Dai garage di Carpenedo, la droga - soprattutto marijuana, ma non solo - prende la strada che la porta al parco della Bissuola e al Piraghetto, ma anche a Marghera, al parco Emmer e nelle mille stazioncine dello spaccio al minuto che si trovano in città, da Corso del popolo a via Piave, passando per via Cappuccina. Lo spaccio è affidato in larga parte ai tunisini, sono loro quelli che sanno stare meglio in strada. Hanno il loro giro, i loro spazi. E li difendono. Come fanno al parco della Bissuola. Sono nella zona del grande vascone e lì restano fissi. A turno uno di loro sta in piedi, tipo piccola vedetta lombarda. Vengono arrestati un giorno sì e l’altro pure, ma per ogni spacciatore arrestato ci sono almeno venti ragazzini che finiscono nei guai, segnalati come consumatori. Li rovina il fatto di essere totalmente sprovveduti, ingenui. Si fanno fregare due volte, dagli spacciatori, che vendono loro erba di campo e dal posto, che è uno dei più controllati di Mestre. Ma ormai, siccome dopo un po’ anche il più tonto capisce, ecco che il parco della Bissuola si sta svuotando di giovani "normali", quelli che andavano a giocare a calcio o solo a chiacchierare. I genitori hanno imparato a tener sotto controllo i figli piccoli e vietano loro di frequentare la Bissuola, mentre quelli più grandi non hanno nemmeno bisogno di sentirselo raccomandare e da soli hanno deciso di abbandonare il parco. «Perché non basta la repressione. La repressione è indispensabile – dice Amadour Diarre, che gestisce il BarAtto, l'unico baluardo contro lo

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spaccio che sia rimasto al parco della Bissuola –. Il Comune e le Forze dell’ordine hanno fatto bene. Anzi, molto bene. Il parco è abbastanza ripulito, a parte un paio di zone, ma con la repressione se n’è andata anche la gente normale. E invece bisogna trovare il modo di riempire il parco di gente bella». Fino a qualche anno fa Amadou Diarre e Stefano Pesce del Vapore organizzavano concerti e la domenica del baratto, banchetti per lo scambio di roba varia, adesso Amadou ha proposto alla Municipalità di rifare la settimana del baratto. «Basta mettere i banchetti e via». Il Comune ha chiesto che paghi l’occupazione di spazio pubblico e così la burocrazia si mangia la possibilità di richiamare la gente normale al parco. L’agenzia Onu per il contrasto delle droghe e del crimine organizzato (Unodc) aveva messo in guardia il mondo intero un paio di anni fa avvertendo che la produzione di oppio aveva raggiunto i 200 mila ettari, una estensione mai raggiunta finora, nemmeno nel 2007 che era stato il momento di massima produzione dei papaveri da oppio. E se la produzione aumenta – avvertiva l’Onu - è perché il mercato tira. Il mercato americano assorbe moltissimo e vede un aumento stimato in +80 per cento negli ultimi anni. Ma l’Europa è il mercato che assorbe più di tutti. Italia compresa. La novità, per Mestre, è che la nostra piazza è diventata punto di riferimento anche di chi prima si riforniva a Padova. Adesso dal Veneto Orientale al Friuli vengono a Mestre a rifornirsi di qualsiasi tipo di stupefacente e qui il mercato offre tutto e di più. Pag II Mensa dei Cappuccini, nuovi problemi di Filomena Spolaor Convivenza difficile Dopo la richiesta di aiuto del Comitato di via Querini sul problema di Cà Letizia, si apre l'asse anti-degrado dei commercianti e residenti di via Costa e via Cà Savorgnan sulla mensa dei Frati Cappuccini. Ogni mattina, a partire dalle 10, una fila di persone, soprattutto straniere, che aspetta di entrare in mensa per mangiare, sosta davanti alle vetrine dei negozi e nell'androne del condominio al civico 13 di via Costa. «Arrivano anche con i borsoni e si siedono per ore. Abbandonano per terra bottiglie e lattine, litigano. Ci sono state molte risse. Se piove, poi, si riparano tutti sotto il mio negozio. Sono entrati più volte all'interno» racconta un esercente del vicinato. Sono impauriti soprattutto per la sicurezza degli anziani e dei bambini anche i residenti del condominio di fronte alla mensa. «Si mettono davanti alla porta senza alcuna remora, ostacolando il passaggio. Ma è possibile che io debba chiedere il permesso di accedere al portone di casa mia? Questa mensa si è trasformata in un ristorante per signori non abbienti» commenta un residente. «Dopo il pranzo si fermano a parlare, a bere, e a dormire. Fanno anche i bisogni davanti al mio negozio» rincara la dose un commerciante. Il cancello della mensa dei Cappuccini apre alle 11. E tutti si chiedono perché i frati non possano aprire prima, almeno alle 10.30. «In passato aprivamo prima, ma dopo l'accoltellamento avvenuto l`anno scorso, per ragioni di sicurezza, abbiamo deciso di permettere l`ingresso solo al momento di mangiare» spiega però frate Leopoldo. «Una volta la mensa era frequentata da 300 ospiti, e ora variano dai 100 ai 150. Ci sono drogati, persone senza lavoro, alcolisti, barboni, un po’di tutto. Questo è un servizio caritativo, e non possiamo dire "tu no". Alle persone chiedo di arrivare al momento dell'apertura e di non sostare fuori, ma sembra tempo perso. Ci vorrebbero delle guardie appostate fuori» spiega frate Leopoldo. I vigili armati ci sono, e passano regolarmente, alle 11, il martedì e il giovedì, per controllare i presenti. Lo conferma Stefano Giannolla, commissario dei vigili, che spiega: «Non ci sono articoli che sanzionino il fatto di sostare davanti a una vetrina o di non lavarsi». «L’unica soluzione è spostarle in periferia» chiedono in molti. Pag VIII Tempio Votivo, progetto ancora in bilico di L.M. Una proroga per poter presentare il progetto di restauro del Tempio Votivo entro il 30 giugno. Altrimenti il Lido rischia di perdere un finanziamento di 1,6 milioni di euro, già deliberato dalla Regione, per il restauro del Sacrario in riviera Santa Maria Elisabetta. La Regione ha già decurtato del 2 per cento l'importo che era già stato accantonato, dai fondi comunitari, in quanto è scattata la penale visto che il progetto non è stato

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presentato entro la prima scadenza. L'ultimo treno utile passerà il 30 giugno. Altrimenti salta tutto e non si potrà mettere più mano a un restauro atteso da decenni. In queste settimane qualcosa, finalmente, si è mosso: è stata raggiunto un accordo tra Patriarcato e Onor Caduti di Roma per stipulare una convenzione. LA NUOVA Pag 18 Brugnaro, 294 delibere in otto mesi di Enrico Tantucci Le più importanti su bilancio, vigili e deleghe alle Municipalità. Il commissario Zappalorto in 11 mesi ne aveva approvate 596 Più “produttiva” per la città, sulla base dei numeri, la giunta commissariale di Vittorio Zappalorto che quella politica e regolarmente eletta di Luigi Brugnaro, almeno per il momento. È un semplice riscontro numerico - e non quindi un giudizio di merito - che scaturisce però confrontando al momento attuale le delibere di Giunta approvate durante la gestione commissariale di Zappalorto e quelle licenziate invece con il governo del nuovo sindaco. Sulla base infatti delle delibere di giunta - gli atti veramente rappresentativi di un’Amministrazione, perché le determine dirigenziali sono invece provvedimenti, pur esecutivi, che riguardano però i dirigenti - “caricate” fino ad oggi dall’Archivio informatico del Comune, il confronto è nettamente favorevole al periodo commissariale. In undici mesi di governo, la Giunta Zappalorto ha infatti approvato 596 delibere. In un periodo leggermente più breve, di soli otto mesi, la Giunta Brugnaro ne ha invece approvate 294, circa la metà. Guardando alla media mensile, nel periodo Zappalorto si “sfornavano” 54 delibere contro le 37 dell’attuale gestione Brugnaro. E ogni settimana - visto che la Giunta si riunisce in genere settimanalmente - sono state oltre 13 le delibere approvate nel periodo commissariale e circa 9 invece con la Giunta del nuovo sindaco. Una differenza numerica che non può essere imputata alla gestione più verticistica, e quindi teoricamente più rapida nelle decisioni, del periodo del commissario, perché anche la Giunta Brugnaro è assolutamente compatta e le delibere “viaggiano” praticamente tutte sull’onda dell’unanimità. C’è poi un discorso che riguarda il “peso specifico” delle delibere di Giunta e cioè la loro incidenza diretta nella vita dei cittadini, al di là che essi le critichino o le condividano. Ma anche sotto questo profilo la gestione commissariale di Vittorio Zappalorto - sulla carta destinata solo ad approvare il bilancio e i provvedimenti di ordinaria amministrazione - si è rivelata tutt’altro che burocratica. Tra le delibere significative approvate, quella sul nuovo regolamento edilizio, quella sui criteri per il riconoscimento del beneficio pubblico negli accordi che il Comune stipulerà con i privati per interventi che comportino varianti urbanistiche, il protocollo d'intesa a tutela del decoro della città firmato con la Soprintendenza per l'utilizzo commerciale del suolo pubblico. E, ancora, il nuovo regolamento sulle emissioni rumorose, la cessione alla Biennale delle aree dell'Arsenale sud con apposita convenzione, l'unificazione tariffaria e di linee Actv, l'adozione del piano del traffico acqueo, il protocollo s'intesa per l'uso di pali e bricole in plastica. Più “smilzo” da questo punto di vista per ora il bilancio della giunta Brugnaro che vanta, giustamente, l’approvazione entro dicembre 2015 del bilancio di previsione di quest’anno, ma che tra i provvedimenti di peso può vantare quello per l’armamento dei vigili urbani, quelli collegati alle sottrazioni di deleghe alle Municipalità, la parziale attuazione del piano di riorganizzazione delle società partecipate varato dallo stesso Zappalorto. E, proprio di questi giorni, l’abolizione del Parco della laguna. Si è ancora in attesa delle delibere di sistema annunciate, a cominciare da quella della riorganizzazione della “macchina” comunale, di cui sono stati approvati, per ora, solo i principi generali. Ma c’è, naturalmente, tempo per recuperare. «È difficile fare un confronto tra due Amministrazioni solo sulla base del numero di delibere di giunta approvate e dunque non sono in grado di commentare la differenza numerica tra quelle approvate con la gestione commissariale di Zappalorto e la nostra. Quello che posso invece dire con certezza è che stiamo lavorando a pieno ritmo e rispettando in pieno i programmi che ci siamo fissati». L’assessore al Bilancio e alle Aziende Michele Zuin - sicuramente il più impegnato in questa fase della Giunta Brugnaro, anche per la messa in sicurezza del bilancio complicato di Ca’ Farsetti e ora per la delicata partita dell’annullamento delle penalizzazioni del Patto di Stabilità di cui

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riferiamo a parte – commenta così i dati numerici che vedono la Giunta Zappalorto più produttiva dell’attuale. «Si lavora a pieno ritmo, in piena armonia tra assessori e sindaco e con un ottimo rapporto con i dirigenti - spiega ancora - e ci sembra che i cittadini se ne stiamo accorgendo». Diversa l’analisi del capogruppo del Pd a Ca’ Farsetti Andrea Ferrazzi, il primo a sollevare già mesi fa il problema della scarsa “produttività” della nuova giunta. «La conferma del dato numerico con la gestione Zappalorto, avvantaggiata anche da aver trovato molte delibere già pronte, non mi stupisce» commenta Ferrazzi «e l’esiguo numero di delibere della Giunta Brugnaro si spiega anche con il protagonismo del sindaco, che tutto vuole vedere, senza lasciare alcuna autonomia a assessori e dirigenti e così la “macchina” comunale si ferma. Se a questo aggiungiamo la volontà di apparire “nuovi” a tutti i costi, il risultato è quello di bloccare provvedimenti già pronti elaborati dalla Giunta precedente. È ferma così la revisione del regolamento edilizio, nonostante l’importanza del provvedimento. È stato congelato l’importante accordo di programma per la stazione di Mestre. È ferma tutta la pianificazione urbanistica, a cominciare dai piani attuativi del Pat. Si procede solo per “sottrazione”, con le delibere che hanno sottratto funzioni le Municipalità o adesso con quella che ha abolito il Parco della laguna. Ma che cosa si voglia poi fare in positivo è ancora un mistero». Pag 19 “Noi islamici solidali con la comunità ebraica” di Marta Artico Dopo l’attacco hacker «Siamo solidali con la comunità ebraica, parte integrante della città». Mohamed Amin Al Ahdab, presidente della Comunità islamica di Venezia e provincia, accetta la richiesta di presa di posizione islamica avanzata dal rabbino capo Scialom Bahbout dopo l’attacco hacker al sito della biblioteca della Comunità ebraica, con la pagina sostituita per qualche ora da un sito inneggiante agli attacchi islamisti in Tunisia e proclamante la lotta per la liberazione della Palestina. «Dire che ci dispiace è un'ovvietà» interviene Amin «quello che ci rattrista, oggi come ieri, è che vengano prese di mira comunità religiose, questa volta quella ebraica, ma anche noi veniamo messi sotto accusa per cose che non abbiamo commesso, fatti che non abbiamo compiuto e dai quali dobbiamo prendere le distanze. Chi attacca la comunità ebraica attacca anche noi, perché loro come noi sono cittadini di questa città, ingiustamente e gratuitamente presi di mira da chi cerca una passerella non si sa bene per quale motivo e con quale scopo». E ancora: «Sicuramente chiunque abbia agito, non lo ha fatto in nome dell'Islam, che ancora una volta non c'entra nulla. Lo sappiamo noi come lo sa la comunità, come è palese a chiunque. Chi compie gesti come questo si fa scudo con la religione, ma il suo obiettivo è ben lontano dalla religione ed è politico». La degenerazione dell'odio e della violenza, ripete la comunità, non appartiene alla comunità musulmana né ai suo leader, a cominciare dagli imam. E aggiunge: «L'ideologia politica viaggia sul web, è virale, la religione è solo un pretesto, così come è già accaduto con altre fedi in ogni epoca, ma la religione è estranea a tutto ciò. Noi siamo da sempre contrari ad ogni comportamento terrorista che devia il senso dell'Islam a piacimento e usa la massa». Per questo in più di un'occasione il presidente della comunità ha spiegato che per lui si tratta solo di terrorismo e di terroristi. Prosegue: «La comunità islamica, come quella ebraica, come ogni altra comunità che insiste in questo territorio, vive in pace e dialoga in maniera civile, soprattutto a Venezia». Da qui l'importanza di restare uniti e non farsi dividere. «Gli occhi del mondo sono puntati su di noi, il pericolo è quello dei mitomani e dell'emulazione». Sdegno per l'attacco hacker di ispirazione islamica è stato espresso anche dal presidente della Regione Luca Zaia. Il Governatore manifestando la sua solidarietà, ha sottolineato l'intensa collaborazione che c'è sempre stata con la comunità ebraica e che ora si rinnova per le celebrazioni per i 500 anni del Ghetto. «Un appuntamento importante che pone la comunità al centro dell'attenzione internazionale», conclude Zaia, «ma che probabilmente per questo è nel mirino di questi inneggiatori di un terrorismo che utilizza anche i moderni strumenti tecnologici, a partire dal web, per lanciare i suoi deliranti messaggi». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST

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CORRIERE DEL VENETO Pag 3 Profughi, in ritardo i soldi per l’accoglienza. La Chiesa: “Rischi di ordine pubblico” di Sara D’Ascenzo Mancano all’appello decine di milioni di euro. Don Dino Pistolato: “Situazione drammatica” Venezia. I conti non tornano. E le parole più pesanti vengono da chi da sempre predica la speranza: «La situazione è drammatica e così si rischia di alimentare turbolenze e violenze». E’ rassegnato don Dino Pistolato, vicario episcopale per i Servizi Generali e gli Affari Economici della Curia veneziana, ma per anni direttore della Caritas veneziana e ancora oggi il punto di riferimento nella questione migranti e profughi. Il problema dei soldi che mancano all’appello nelle casse di cooperative e associazioni che hanno vinto il bando per gestire l’emergenza profughi, sollevato ieri dal Corriere del Veneto dopo una rivolta dei profughi nel b&b «Le Magnolie» di Mogliano Veneto, è ben presente in chi di arrivi di migranti si occupa da anni. Il coro delle lamentele è unanime: solo per l’ultimo trimestre 2015 mancherebbero all’appello circa 23 milioni di euro, cifra venuta fuori moltiplicando i 7.500 profughi accolti dal Veneto per 90 giorni (gli ultimi tre mesi del 2015 che non sono stati liquidati) per 34 euro, che è la cifra corrisposta per ciascun profugo, comprensiva di pocket money (i 2,5 euro al giorno che spettano a chi arriva), vitto, alloggio, cibo, spese vive e stipendi della cooperativa. Sperando che per i primi tre mesi del 2016 lo Stato paghi nei tempi, cioè a fine marzo o al massimo ad aprile. «Purtroppo non è un problema di oggi, era emerso anche con l’ondata migratoria del 2011 – spiega don Dino -. Lo Stato ci chiede di rispettare il pocket money, di far mangiare gli ospiti, di vestirli, ma le risorse non ci sono. Le cooperative che partecipano ai bandi devono fare una fideiussione in banca per poter partecipare, con una solvibilità a 50 giorni. Ma quando i tempi per la restituzione si allungano non ci stanno più dentro. E così le cooperative rischiano di non avere più soldi per né per gli operatori, né per il pocket money». E se don Dino dice che così si alimenta la tensione sociale non parla dei massimi sistemi: «Alcune nostre cooperative hanno dovuto ritardare di pagare gli stipendi e quando abbiamo ritardato il pocket money i migranti sono venuti a protestare nei nostri uffici. Per fortuna c’erano gli ispettori della Prefettura e si sono resi conto con i loro occhi di cosa sta succedendo». Convinta della pericolosità sociale della situazione anche Maria Rosa Pavanello, sindaco di Mirano e presidente di Anci Veneto: «Questi ritardi scoraggiano chi si occupa della gestione e questo può avere anche un riflesso su tutta la situazione sociale e sulle comunità». Ma perché il meccanismo s’inceppa? Per Loris Cervato, responsabile del settore sociale di Legacoop Veneto, «il ritardo nei pagamenti è un vizio tipicamente italiano, il governo sta dimostrando di non essere migliore di tante Usl o Regioni. C’è sicuramente una sottostima da parte del ministero dell’Economia, e non ci si può trincerare dietro l’emergenza, perché ormai è emergenza da 7-8 anni. Noi abbiamo circa 10-12 cooperative in Veneto che si occupano di accoglienza ai migranti. E con 4,5, ma anche 6 mesi di ritardo le difficoltà cominciano a essere notevoli, sto ricevendo allarmi rossi. Ora le Prefetture ci hanno assicurato che entro fine marzo pagheranno i primi mesi del 2016, ma degli ultimi tre mesi del 2015 non sappiamo nulla». Cervato è «desolato», perché «i problemi maggiori sono con le banche: loro ci anticipano quello che serve alle cooperative per fare accoglienza, ma poi lo rivogliono con gli interessi. Se ci prestano 1 milione di euro, 40-50mila euro dobbiamo darli alla banca d’interesse invece di investirli in nuove attività nel campo del sociale». «Il problema - spiega don Dino - è la lunga permanenza di questi soggetti. Un fatto è accogliere persone per un mese o due, un altro è accoglierle per anni. Perché oltre a pagare per i nuovi continuiamo a pagare per i richiedenti asilo che stanno aspettando l’esito del ricorso. Dovrei mettere un tetto alla durata, ma a livello governativo nessuno decide niente, è tutto fermo». Pag 5 “Ferro, imprenditore di carità. Custodiamo ciò che ha seminato” di Giovanni Viafora Ieri il saluto “privato” officiato dal cardinal Caffarra. Oggi funerali in Duomo Padova. Senza altre parole ci si potrebbe limitare a quelle dell’Evangelo, e nello specifico a quelle del passo scelto per la celebrazione di ieri, il saluto «privato» ad Angelo Ferro,

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tenutasi all’interno del Civitas Vitae della Mandria (la casa di riposo della Fondazione Oic, di cui Ferro era fondatore e presidente) . Sono le parole di Giovanni (12,24): «Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto». D’altronde gli stessi collaboratori del professore, dal giorno della sua scomparsa, domenica scorsa all’età di 78 anni, continuano a ripetere che «solo con quello che aveva progettato lui, si potrebbe andare avanti dieci anni senza fare nulla». Così in attesa del funerale che si terrà oggi alle 15 in Duomo a Padova, che sarà celebrato dal vescovo Claudio Cipolla, ieri in circa seicento tra ospiti della struttura, dipendenti e amici intimi si sono stretti nella cappella della casa di cura per salutare il fondatore. E il tema è stato proprio quello del lascito del professore: in termini di valori, di idee e di innovazione. La funzione è stata aperta da un breve messaggio del direttore della struttura, il dottor Ernesto Burattin, che ha detto: «Il professore era un uomo che sapeva far accadere le cose, riusciva a fare rendere concreto quello che ancora non vedevi ancora. Gli bastavano pochi nanosecondi per capire. E quando si realizzava qualcosa alzava gli occhi, era un uomo di profonda fede. L’augurio è quello di far germogliare i semi che lui ha saputo disseminare nella sua vita». «Privata», per altro, la cerimonia è rimasta solo sulla carta. Della tanta gente presente si è detto (in prima fila, davanti all’altare circondato da cesti di rose bianche, anche una rappresentanza dei bimbi della squadra di basket, che si allenano nel palazzetto del Civitas Vitae: un’altra delle trovate di Ferro, basata sull’integrazione inter-generazionale); ma va raccontato anche dei tredici sacerdoti celebranti e dell’officiante, il cardinale Carlo Caffarra, vescovo emerito di Bologna, nonché amico del professor Ferro. Il porporato ha ripreso proprio la lettera di Giovanni. «Si è verificato quello che c’e scritto nel Vangelo - ha affermato nell’omelia -. Siamo qui per ringraziare il Signore di un frutto particolare che ha prodotto in questa città di Padova, un uomo che ha donato se stesso agli altri». Caffarra è sceso poi nel privato: «Rimasi profondamente colpito da ciò che esprimeva - ha ricordato -, la gloria della donazione di sé agli altri; questo lo si respirava, era la sua carità, che aveva alcune caratteristiche fondamentali, come il senso della persona, cioè la percezione viva luminosa del valore di ogni persona umana. Ferro - ha proseguito - mi spiegò la lotta con la burocrazia pubblica, perche nei protocolli sanitari la dizione “stato vegetativo” non c’era e lui invece voleva che la si riconoscesse. Per le persone». Alla fine toccanti le testimonianze di chi conosceva il professore. Come Suor Suzette, una religiosa nigeriana dell’ordine di Maria Immacolata, che dal pulpito è scoppiata a piangere: «Ciao Professore, bye bye , le vogliamo bene». Intanto da tutto il Veneto proseguono le attestazioni di cordoglio per la morte di Ferro. Così Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Veneto: «Angelo Ferro - ha scritto - era una personalità di straordinario rilievo e ricchezza per il nostro territorio. È stato un importante imprenditore, che ha sempre saputo coniugare il fare impresa con la sua attività di studio e di docenza. Lo stimavo molto, per la bontà delle sue idee e la passione con cui riusciva a tradurle in opere concrete e utili per la comunità. Ci mancherà quale esempio illustre di imprenditore fortemente impegnato nei diversi ambiti della nostra vita economica, sociale e culturale». Pag 17 I deboli, l’editto di Bitonci e il muro solidale del vescovo di Umberto Curi Nei giorni scorsi per iniziativa del sindaco di Padova Massimo Bitonci, una decina di agenti della Polizia municipale si sono presentati alle Cucine Popolari gestite da Suor Lia. L’ordinanza del primo cittadino prevedeva la verifica dei documenti, onde accertare il possesso di requisiti idonei ad accedere al servizio delle Cucine. In realtà, l’ingente spiegamento di forze, proseguito per più giorni, si è tradotto in una sorta di «schedatura» ufficiosa delle persone presenti. In uno dei giorni in cui si è svolto il blitz, alle Cucine è giunto anche don Claudio Cipolla, vescovo di Padova. Poche parole per spiegare i motivi di questa visita inattesa: «sono venuto a pranzare con amici; qui mi sento in famiglia». Comunque la si pensi, l’episodio ora descritto ha un indubbio significato emblematico, il cui rilievo va dunque ben oltre la vicenda strettamente padovana. Da un lato, come ammirevole coerenza, il sindaco ha ribadito quale sia la linea alla quale si sta costantemente attenendo: rendere la vita difficile a tutti coloro che, per ragioni diverse, si trovino in una condizione di emarginazione: accattoni, migranti, profughi, nomadi. Dopo le ordinanze con le quali, nel recente passato, aveva

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colpito le fasce più deboli ed esposte, cancellando i mediatori culturali, chiudendo gli uffici preposti all’aiuto degli immigrati, sanzionando i kebab, scoraggiando la concessione di locali in affitto per i richiedenti asilo, quest’ultima iniziativa colma in qualche modo la misura, togliendo letteralmente il pane dalla bocca di centinaia di disperati. Dall’altra parte, un pastore, animato semplicemente dalla volontà di rendere concreta testimonianza al messaggio evangelico, e dunque sollecito della sorte dei deboli e degli umili, ai quali dichiara di sentirsi unito da un vincolo di «amicizia». Due modi opposti di concepire – e di praticare – il legame sociale. Ma la vicenda delle Cucine Popolari, proprio per la nettezza didascalica con la quale si sono comportati i protagonisti, consente di fare un passo avanti, rispetto alle formule abitualmente impiegate in dibattiti di questa natura. Consente, una volta per tutte, di chiarire che il termine «buonismo», abitualmente utilizzato in senso dispregiativo, per censurare e ridicolizzare coloro che avvertono l’imperativo della solidarietà, è una virtù, e non un vizio. Che essere «buoni» non è qualcosa di cui ci si debba vergognare, ma è un modo per stare dentro la società come esseri umani, e non come belve feroci. Che a vergognarsi dovrebbero essere coloro che ritengono giusta una politica di respingimenti e di emarginazioni, nella quale tante persone innocenti, tante donne e tanti bambini, sono quotidianamente coinvolti, a Padova come in tante altre zone della nostra regione. Che non solo la carità cristiana, tante volte ipocritamente evocata da coloro che erigono muri di ogni genere, ma un’elementare sensibilità umana, impongono di non voltarsi dall’altra parte di fronte alle miserie e alle disgrazie altrui. Dovremmo essere tutti grati a suor Lia e a don Cipolla. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non è giusto trasformare ogni desiderio in diritto di Claudio Magris Può ogni desiderio (escludendo beninteso quelli criminosi) costituire un diritto? Una delle pochissime persone che hanno affrontato questa domanda con rigore, chiarezza e umanità è stato Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci. Come Vacca, pure Mario Tronti, senatore del Pd e, cosa ben più importante, leader e forte testa pensante dell’operaismo italiano degli anni Settanta, riconoscendo tutti i diritti alle coppie omosessuali (assistenza, eredità, convertibilità delle pensioni e così via), ha espresso forti riserve sulle adozioni gay, tanto da sottoscrivere il documento contrario a quest’ultime. Non è un caso che tali chiare e sofferte prese di posizione vengano da figure di rilievo della cultura marxista, formate da un pensiero forte capace di affrontare la drammaticità del reale e la difficoltà e necessità delle scelte. L’odierna e dominante «società liquida» (come l’ha chiamata Bauman) miscela invece ogni problema e ogni presa di posizione in una melassa sdolcinata e tirannica, in un conformismo che ammette tutto e il contrario di tutto. Tranne ciò che contesta il suo nichilismo giulivo e totalitario. Il diritto - ricordava di recente sul Piccolo un autorevole costituzionalista, Sergio Bartole - tutela l’individuo ma anche la società e non può disinteressarsi delle ricadute di una legge sull’antropologia civile ossia sui fondamenti che tengono insieme una comunità e una società. Uno dei primissimi a capire la trasformazione delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto titillamento pulsionale è stato Pasolini, quando scriveva sull’aborto o quando diceva che il voto per il divorzio era un voto giusto — anche lui aveva votato a favore del divorzio - che tuttavia molti avevano dato per ragioni sbagliate. La maggioranza aveva votato come lui, ma egli non poteva riconoscersi in essa, perché lui aveva votato per il divorzio quale rimedio a situazioni dolorose e bloccate, quale possibilità di ricomporre esistenze inceppate. Rimedio ovvero eccezione che non negava i valori e sentimenti della famiglia né la funzione formatrice della sua unità. Quella maggioranza che aveva votato come lui gli riusciva odiosa, espressione di un relativismo nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e di pensiero. Lo si constata sempre più in ogni settore, dalla politica alla cultura alla vita privata. È il trionfo del consumo, denunciato da Pasolini; del consumo che esorbita dal suo ambito — il consumo e la possibilità di accedervi sono ovviamente una fondamentale condizione di vita dignitosa e godibile - per inglobare ogni aspetto della realtà e dell’esistenza. «Il

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riconoscimento per legge del desiderio individuale quale fonte della libertà e del diritto» - ha detto Giuseppe Vacca - crea inevitabilmente frammentazione e atomizzazione in ogni campo. Non a caso nascono molte nuove e spesso effimere formazioni politiche sorte dall’impulso a scindersi, alla prima divergenza, da una precedente aggregazione con la cui linea prevalente non si concorda. Molti anni fa, in uno dei suoi geniali saggi, Lealtà, defezione e protesta, Albert Hirschman analizzava le diverse possibilità, reazioni e soluzioni che possono verificarsi quando all’interno di una compagine (collettiva o personale, partito politico, chiesa, matrimonio o unione di fatto) sorgono delle controversie. Se i contrasti, anche chiariti duramente e mai del tutto superati, risultano compatibili, l’unione persiste: i coniugi non divorziano, i compagni non si lasciano, i dissidenti non escono dal partito o dalla chiesa. Se i contrasti si rivelano - per ragioni oggettive o per la psicologia dei contendenti - inconciliabili, l’unità viene intaccata: secessione dal partito, microscisma della chiesa quello di Lefebvre, separazione dei partner. Il distacco può avvenire nel rispetto e nella persistenza di un legame affettivo oppure nello scontro violento, in cui l’originario legame si trasforma in feroce avversione. Se quel legame, di qualsiasi genere, era stato autentico, la sua rottura non dovrebbe avvenire senza responsabili tentativi di sanare le ferite. Si assiste invece a una continua accelerazione dei processi dissolutivi, uscite, rientri e nuove uscite da gruppi politici e proliferazione di questi ultimi, tempi sempre più abbreviati per lo scioglimento delle unità famigliari e affettive, eterno amore che finisce alla prima lite per la scelta delle vacanze. Se acquisto uno shampoo e non ne sono soddisfatto, posso sostituirlo immediatamente, ma dovrebbe essere diverso se il distacco avviene da una persona un tempo cara, da un partito o da una chiesa in cui ci si era riconosciuti. Invece la velocità delle conversioni o delle apostasie è invece sempre più alta, non si riesce più a seguire chi ha fondato un nuovo partito o una nuova corrente perché questi sono già riconfluiti in un altro alveo, così come non si riesce a star dietro a chi si separa da chi per mettersi con chi nelle riviste illustrate che si leggono dal parrucchiere. Diritti e desideri. Ogni desiderio, se è forte, chiede, esige di essere appagato, e in questa tensione, qualsiasi sia il desiderio, c’è uno struggimento, una nostalgia dolorosa che sono parte essenziale della nostra persona. Possono tutti essere riconosciuti per legge? Anche l’incesto può essere brutale violenza ma anche passione umana, come ci hanno raccontato tante umanissime storie di vita vissuta e tanta grande letteratura. In Svezia, anni fa, un fratello e una sorella avevano chiesto di sposarsi, cosa che non fu loro concessa e non credo solo per timori eugenetici, che potrebbero comunque venire in vari modi aggirati. Freud (per tali ragioni pure duramente attaccato) ci ha insegnato che con la sublimazione di certi desideri, a esempio ma non solo quelli edipici, con la loro trasformazione in un’altra forma di amore, ha inizio la civiltà. È una sciagura sublimare troppo, ma lo è anche non sublimare nulla. Si è visto nella famiglia tradizionale un nucleo dell’antropologia civile. La famiglia tradizionale può essere e molte volte è stata anche violenta, soffocante e nemica del libero sviluppo della persona. È ovvio che persone capaci di intelligente e attento amore possano far crescere un bambino meglio di genitori carnali incoscienti e snaturati o anche solo ottusamente incapaci di intelligente amore. L’amore omosessuale può essere elevato o turpe al pari di quello eterosessuale. Basta aver letto Il Grande Sertão di João Guimarães Rosa per sapere e capire che ci si innamora non di un sesso, ma di una persona. Ma gli antichi Greci celebravano l’amore omosessuale per il suo rapporto anche spiritualmente diverso con la generazione, con la radice duale dell’umanità. Ho conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio - avuto da una donna, non da un utero affittato. In ogni caso, il protagonista non è il desiderio della coppia né omo né eterosessuale, bensì il bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna e la cui maturazione è verosimilmente arricchita dalla crescita non necessariamente con i genitori naturali ma con un uomo e una donna, espressione per eccellenza di quella diversità (culturale, nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di per sé più creativa e formativa di ogni identità a senso unico. Il bambino, ha scritto su Facebook Vannino Chiti, «è soggetto di diritti, non un mero oggetto di desideri». Pag 8 Le due destre destinate a un ruolo gregario di Massimo Franco

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La domanda è che cosa succederà «dopo»: dopo la probabile spaccatura tra Forza Italia e Lega. Meglio: tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Nella scalata proibitiva al Campidoglio, si vanno delineando «due destre», non in sintonia ma in rotta di collisione dopo ventidue anni di alleanza. È l’esito finale del declino berlusconiano, dell’incapacità della vecchia leadership di costruire un’eredità politica condivisa e accettata da tutto quel fronte; e del protagonismo «lumbard». Il paradosso è che la frattura si consuma non in Lombardia: il teatro è la capitale. E pensare che Roma, per il Carroccio, è «periferia» odiata e temuta rispetto ai suoi interessi elettorali; e, per FI, serbatoio di consensi marginali rispetto a quelli di An e, adesso, di Fratelli d’Italia. Le candidature per il Campidoglio stanno invece accelerando un’esplosione che è in primo luogo sociale e di identità politica. Il «terreno neutro», nel senso che non c’è una giunta da proteggere ma solo una probabile sconfitta da gestire, fa emergere l’incompatibilità tra due visioni. Il termine «infezione», usato dal berlusconiano Giuseppe Toti, presidente della Liguria, è appropriato. Rende bene l’idea del malessere invisibile che sta svuotando il centrodestra; e che potrebbe propagarsi. Per questo rimbalzano gli appelli a circoscrivere l’epidemia polemica. E si fa presente che gli avversari sono a sinistra, non nel centrodestra: cosa vera, ma solo fino a un certo punto. Perché se la convinzione prevalente è che a Roma non ci siano margini per vincere, il problema non è quello del candidato che sconfigga il M5S e il Pd. Diventa invece come marcare il territorio del centrodestra; e ancora di più come impedire che venga riplasmato da alleati di colpo infidi. La lotta per la leadership tra l’anziano fondatore e il leghista rampante è solo una parte dello scontro. L’altra riguarda le modalità della transizione da una guida berlusconiana a una a trazione leghista; e il tipo di elettorato al quale rivolgersi. Nei toni xenofobi e virulenti di Salvini si avverte la deriva estremista del Carroccio; e, verso Berlusconi, un’operazione che mira a una sorta di rottamazione di destra. Quando il capo leghista dice di avere più voti non chiede un accordo ma una capitolazione.Il partito dell’ex Cavaliere appare troppo debole per sventarla ma anche per accettarla. La diaspora del centrodestra per il Campidoglio sarà inevitabile, a meno di un ripensamento in extremis. Il via libera che il vertice di FdI, il partito di Giorgia Meloni, ha dato alla candidatura, è un «prendere o lasciare» in tandem con la Lega, rivolto ai berlusconiani. Dentro FI si indovina qualche dubbio per il muro contro muro a difesa di Guido Bertolaso. Ma forse anche nel Carroccio la linea liquidatoria di Salvini non incontra grandi entusiasmi. È chiaro solo che l’«infezione» prepara un centrodestra gregario. Pag 23 La prima volta delle donne di Gian Antonio Stella I 70 anni del voto femminile «Stringiamo le schede come biglietti d’amore». Non c’è testimonianza che ricordi cosa fu per le donne italiane il loro primo voto, esattamente settant’anni fa, quanto le parole di Anna Garofalo in L’italiana in Italia scritto per Laterza nel ’56: «Lunghissima attesa davanti ai seggi. Sembra di essere tornati alle code per l’acqua, dei generi razionati. Abbiamo tutte nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore...». Era tantissimo tempo che aspettavano. Molto più delle donne del mondo anglosassone. Nonostante fossero state tante le italiane, da Cristina Trivulzio di Belgiojoso a Rosalia Montmasson, ad aver avuto una parte attiva nel Risorgimento. Nonostante la Petizione delle donne lombarde nel 1861 avesse ammonito che «per rendersi libera» l’Italia doveva puntare sulla «affermazione la più larga possibile dell’emancipazione della donna». Nonostante Mussolini nel 1923 si fosse impegnato «a concedere il voto a parecchie categorie di donne iniziando dal campo amministrativo» per fissare poi paletti assurdi («Siano decorate di medaglia al valor militare o croce di guerra... Siano decorate di medaglia al valor civile... Siano madri di caduti in guerra...») subito saltati con l’abolizione delle elezioni. Niente da fare: donne straordinarie come Grazia Deledda avevano potuto vincere il Nobel: ma non votare. Immaginate dunque l’emozione, per milioni di italiane, chiamate per la prima volta a dire la loro nella tornata di «comunali» dalla seconda domenica di marzo all’ultima di aprile di quel ‘46. E immaginate il loro sconcerto davanti all’accoglienza per questo passaggio storico da parte di una società maschile legata a vecchi proverbi insulsi sulle virtù della femmina: «Che la piasa, che la tasa, che la staga a casa». Certo, il giorno dopo il varo della legge,

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i commenti erano stati positivi. Anche perché era obbligatorio uno scarto col fascismo che fino all’ultimo, mentre tante donne sceglievano la guerra partigiana, aveva visto volontarie accorrere a Salò con lo slogan «La nostra arma non è il cannone ma lo spazzolone». In prima pagina sull’ Unità del 31 gennaio 1945, dominata dai titoli «Le donne voteranno» e «A 116 km da Berlino» sul crollo della Germania nazista, un commento anonimo diceva: «Una ventata di sano buon senso entrerà senza dubbio nella vita politica, e nella vita amministrativa con le donne entrerà un maggior spirito di concretezza ed un maggior senso pratico». Di più: «Una grande elementare onestà». Sbrigata la pratica ineludibile già risolta altrove da decenni, però, rimasero sottopelle tutti i più triti e ritriti pregiudizi. E quando arrivò sul serio «il voto del gentil sesso» entrò nei cinegiornali Luce dell’epoca come una curiosità alla pari con il canguro albino o il matrimonio della capricciosa diva hollywoodiana. Con le immagini della ottantenne spaurita davanti alla novità: «Da oggi le donne possono votare. Dalle più umili donne del popolo alle monache tutte sentiamo questo nuovo dovere che ci fa partecipi della rinata democrazia». Indimenticabile il reportage da Lodi di Egisto Corradi: «Le donne, in quanto mogli, voteranno agli ordini del marito? “No - dice lei - il voto lo do ai preti”. “No - ribatte lui - il voto lo dai al mio partito”. “No, no - insiste la moglie - voto per i preti». «Ed io ti dico di votare per i socialisti. Chi ti mantiene, infine, ti mantengo io o ti mantiene Don Luigi?”». Un capolavoro. Ripreso anni dopo dallo storico Mario Isnenghi in una canzone scritta con Gualtiero Bertelli dove il parroco veneto conclude la predica così: «E perciò scoltème, femene / credo d’avervi dimostrato / che chi non vota scudocrociato / fa un grandissimo pecca’.../ Lo vol Dio, lo vol la Ciesa ...». Finale: «E no stè badarghe ai omeni / sé cristiane, ascoltè me». Non mancarono, avrebbe raccontato Lia Levi nel libro Se il Re se ne va , raccomandazioni eccentriche: «Un avvertimento martellante alle signore rimbalza tra i giornali di tutti gli schieramenti politici: attenzione “all’orma del rouge”! attenzione al rossetto! “Quando la signora o la signorina inumidisce la scheda per sigillarla, potrebbe giocare loro qualche brutto tiro. Potrebbe lasciare un segno rosso, una sbavatura, una macchia tanto insomma quanto basta per annullare la validità del voto”». Perfino sull’organo del Pci nel quale si riconoscevano molte delle donne più combattive, però, la lettura della innovazione epocale non fu poi così diversa. «Oggi, per la prima volta dopo 26 anni, il popolo sarà di nuovo chiamato ad eleggere democraticamente i suoi rappresentanti», spiegava il commento del giorno tanto atteso, «Crollato nella vergogna e nell’ignominia il fascismo, da oggi i liberi Comuni torneranno al popolo...». Non una riga sul primo voto delle donne. Non una, stando al resoconto, nell’ultimo comizio di Palmiro Togliatti. Non una nel reportage da Grosseto intitolato «Pronostici al caffè e comizi sotto la pioggia» dove Marco Cesarini descriveva uno ad uno i manifesti elettorali compreso «quello del prefetto che proibisce per tutta la giornata di domani la vendita di vino e bevande alcooliche: evidentemente democrazia ed enologia non vanno d’accordo». Più divertente, sull’Unità dedicata due giorni dopo ai risultati (accanto a un commento di Mario Alicata con una riga annegata in un diluvio di parole: «Altissima, dappertutto, la percentuale di donne»), il secondo reportage da Grosseto. Titolo: «Le donne escono dalla messa e vanno a votare per i comunisti». Immortale, nelle sue spiritosaggini, l’elzeviro di Marino Moretti («codeste donnette si guardavano bene dal parlare del fatto del giorno, dato che il fatto del giorno non era una somministrazione supplementare o ritardata di pasta o di riso...») che a proposito di quella folla di ragazze, mamme, nonne, operaie, impiegate, suore che finalmente esercitavano il loro diritto, scrisse: « Le donne erano in prevalenza e a me pareva d’essere... il solo gallo in un arruffato pollaio». Ma il senso della giornata, che vide gioire insieme uomini e donne dopo vent’anni di dittatura e dopo la guerra, è ancora nelle parole di Anna Garofalo: «Orgia di cartelli elettorali sui muri, fervore di comizi, discussioni accanite nei locali pubblici, ad ogni cantone, in ogni mercato o piazza. È bello veder riprendere vita a un organo anchilosato: il cervello». LA STAMPA Perché la Lega abbandona l’ex Cavaliere di Giovanni Orsina Non è così sorprendente che nella Capitale la destra sia esplosa. La vera sorpresa, forse, è che riesca a restar unita a Milano. Per quanto il caos romano scaturisca pure dalla rissosità endemica della destra capitolina, oltre che da una quantità notevole di

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incertezze, ambiguità e voltafaccia, esso è soprattutto figlio di due questioni politiche quanto mai reali. La prima solo italiana: il tramonto della leadership berlusconiana. La seconda visibile in tutto l’Occidente, dalla Francia agli Stati Uniti alla Germania: la crescita prepotente d’una destra anti-establishment che il centrodestra tradizionale non riesce più a marginalizzare né egemonizzare. Il tramonto della leadership berlusconiana s’è ormai prolungato a tal punto che su di esso non è rimasto molto da dire. La destra italiana l’ha creata Berlusconi - una differenza non da poco con Donald Trump, per accennare soltanto un parallelismo che da ultimo viene fatto spesso, non solo in Italia e non sempre a proposito. Fin dal 1994 Berlusconi ha capito che per vincere doveva raccogliere e tenere insieme, dal centro alla destra, quanti più soggetti possibile. E c’è riuscito, malgrado la loro notevole eterogeneità ideologica e geografica, soprattutto grazie a una straordinaria forza mediatica, economica e politica. A destra era di gran lunga il più forte: chi si alleava con lui poteva godere di visibilità e aspirare al potere. Chi restava da solo aveva la certezza dell’irrilevanza. Oggi Berlusconi ha ancora un gruzzolo tutt’altro che disprezzabile di voti. Ma a destra non è il più forte, o quanto meno non al punto da dettar legge. La Lega, che a partire dalle elezioni regionali del 2000 capì di non avere alternative all’alleanza col Cavaliere, se voleva contar qualcosa, oggi al contrario vede con chiarezza da un lato che rischia di non contare nulla nemmeno alleandosi col Cavaliere. E, dall’altro, che un’alternativa ci sarebbe. O magari più d’una. E veniamo così alla seconda questione politica. La Lega è un partito di destra anti-establishment. Già di per sé, questo la colloca in uno spazio politico che gode ovunque di particolare fortuna. Finora, è vero, i partiti che vi si muovono non hanno vinto in nessun Paese. Basta tener presenti però da un lato le questioni ancora aperte - la crisi epocale dei migranti lontanissima dall’esser risolta, la sfida terroristica globale, la mediocre crescita economica -, dall’altro le prossime scadenze elettorali - referendum sulla Brexit a giugno, presidenziali americane a novembre, presidenziali francesi nella primavera e parlamentari tedesche nell’autunno del 2017 -, per vedere quali opportunità straordinarie potrebbero aprirsi ai partiti di destra anti-establishment nel prossimo anno e mezzo. E non solo. Essendo un partito di destra anti-establishment, la Lega può muoversi lungo entrambe le dimensioni che strutturano oggi il sistema politico italiano: l’asse destra/sinistra e l’asse establishment/anti-establishment. Sull’asse destra/sinistra il suo unico alleato possibile è Berlusconi. Ma sull’asse establishment/anti-establishment c’è un’altra forza con la quale la Lega potrebbe dialogare. Una forza che negli ultimi tempi - sulle unioni civili; sull’utero in affitto; nella scelta del candidato sindaco a Roma - ha dimostrato di essersi ben accorta delle vaste praterie elettorali che si stendono a destra del governo Renzi: il Movimento 5 stelle. Dove mai sta scritto infatti che, se e quando mai il sistema politico italiano ritroverà un minimo di stabilità, sarà con un polo destro e un sinistro, e non invece con un polo di establishment e uno anti-establishment? Con tutto ciò non voglio dire che quanto è accaduto a Roma abbia sancito la destrutturazione definitiva della destra italiana. Il colpo, certo, è stato duro - ma da qui alle elezioni politiche, quando mai saranno, sarà ben possibile recuperare. Voglio dire però che il processo di ricostruzione d’uno schieramento di destra competitivo sarà condizionato nei prossimi tempi da eventi globali al momento imprevedibili e incontrollabili, in un contesto politico estremamente cangiante. E che - proprio per l’incertezza del quadro e la radicalità delle sfide - avrebbe poi bisogno di tanta leadership. Ma di questa, al momento, non si vedono davvero le tracce. AVVENIRE Pag 1 Cambio di copione di Fulvio Scaglione Le scelte di Putin per la Siria Sei mesi fa aveva cambiato tutto, intervenendo. Ieri ha di nuovo rovesciato il tavolo, facendo l’esatto opposto: andandosene. Una volta di più Vladimir Putin detta agli altri il ritmo della crisi in Siria annunciando il ritiro unilaterale delle truppe (circa 6mila uomini) e delle forze aeree (tra 100 e 150 cacciabombardieri Su-34 e Su-35) schierate dal settembre scorso a sostegno del presidente Assad e contro le formazioni ribelli più o meno jihadiste. Il Cremlino non ha chiarito la misura e i termini di tale ritiro, ma il colpo di teatro resta. Così come restano la coreografia costruita per soddisfare lo spirito nazionalistico dei russi, con la pignola elencazione dei successi sul campo, il momento

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scelto per stupire il mondo (nel quinto anniversario della guerra civile, all’inizio dei colloqui di pace di Ginevra e nel mezzo della tregua) e il cambio di copione nel Vicino Oriente diventa sempre più sostanziale. La mossa russa, evidentemente concordata con gli alleati di Teheran e di Damasco, affonda le sue radici in una realtà indiscutibile: l’urto dell’aviazione russa ha mutato il corso della guerra. Sei mesi fa il regime di Assad era in forte difficoltà, ora è di nuovo quasi padrone della Siria che più conta, quella disposta lungo la direttrice tra Damasco e Aleppo. E i gruppi islamisti oggi sono assai più deboli. È vero che i russi non sono andati per il sottile nemmeno con i cosiddetti “moderati”, però le truppe governative da loro appoggiate oggi sono in vista di Raqqa e Palmira e vicine a riconquistare Deir Ezzor, capisaldi del Daesh. L’intervento militare russo, inoltre, ha dato impulso a tutta la battaglia contro il jihadismo, come si nota dai progressi fatti anche in Iraq dalla coalizione a guida Usa e dall’avanzata dei curdi (appoggiati dagli americani) nel Nord della Siria. L’altra faccia di questa medaglia è il prezzo terribile chiesto ai siriani. Tutti gli indicatori dicono che il 2015 è stato l’anno peggiore, con più di 50 mila morti sui 250 mila totali, un aumento del 44% rispetto al 2014 degli attacchi contro ospedali e strutture sanitarie, il blocco quasi totale degli aiuti umanitari (dati Save the Children). Sbaglieremmo, però, se pensassimo che Putin voglia, ora, solo certificare una vera o presunta vittoria russa. Questo ritiro non è un bel gesto, ma una mossa da scacchista in una partita lungi dall’essere finita. Ora l’onere della prova è tutto nel campo americano. Barack Obama deve mostrare di voler battere il Dash, che resta tuttora protagonista tra Siria e Iraq. Di saper tenere sotto controllo sia le rabbiose ambizioni territoriali della Turchia sia le nevrosi anti-sciite dell’Arabia Saudita. Di avere un’alternativa politica al mantra “prima di tutto via Assad” da Washington ripetuto per anni e infine reso nullo dalle manovre di Mosca. Non poca cosa per un presidente agli sgoccioli del secondo mandato e poco entusiasta degli alleati, come certe recenti interviste hanno dimostrato. Però ci sono anche indizi positivi. Obama e Putin hanno ripreso a parlarsi. E il telefono rosso ha ricominciato a squillare proprio quando la «terza guerra mondiale a pezzi» sembrava dover deflagrare alla massima potenza, con Turchia e Arabia Saudita pronte a vere spedizioni sul campo. La tregua, come si diceva, funziona meglio del previsto. E anche se Putin fa il furbo e non ha intenzione di mollare davvero la presa, il suo annuncio non può che rinvigorirla. Tenendo poi presente che le potenze hanno interessi e non ideali, è persino possibile che la sua mossa, come tutte quelle dei bravi scacchisti, nasconda altre mosse. Una Siria non più unitaria e centralizzata, ma federale e autonomista, secondo un progetto che tanto piace ai circoli politici americani. E nella parte di Siria “governativa e cara a Mosca magari non più Assad, forse destinato a un esilio dorato sul Mar Nero, ma un personaggio meno compromesso con gli orrori della guerra civile. Gli scacchisti sanno fare sacrifici al momento giusto. Questo consentirebbe anche agli Usa di gridare vittoria e salvare la faccia, e sarebbe un bel risultato. Anche per Mosca. Pag 3 Cresce il “no” all’utero in affitto di Assuntina Morresi Dopo il voto in sede di Consiglio d’Europa Una nuova, piccola ma importante svolta, ieri, il voto con cui la Commissione affari sociali del Consiglio d’Europa ha respinto il Rapporto De Sutter, che apriva alla cosiddetta regolamentazione internazionale dell’utero in affitto e che sembrava cosa fatta. Con un voto di scarto – 16 a 15 – ha prevalso il fronte contrario che, con lo stop definitivo al documento, ha impedito che ne seguissero iniziative politiche a favore della surrogazione nell’ambito dei 47 Paesi membri dell’organismo europeo. Va detto innanzitutto come sia gravissimo che al Consiglio d’Europa sia approdato un documento affidato a una persona in flagrante conflitto di interessi: Petra De Sutter è una deputata e ginecologa che pratica la surrogazione di maternità nella sua clinica in Belgio. È gravissimo che in un’istituzione europea un’iniziativa sull’utero in affitto sia stata affidata a una evidente 'lobbista' di questa pratica, senza che si sia attivato un meccanismo di garanzia per bloccarla. Non ci si può, poi, sorprendere per la compiacenza e l’arrendevolezza delle stesse istituzioni verso le ricche e potenti lobby internazionali dei cosiddetti 'nuovi diritti'. Il documento De Sutter, infatti, era particolarmente insidioso: pur parlando di sfruttamento di donne e bambini, le conclusioni finali sono un capolavoro di ambiguità. Tre le richieste importanti incluse nel testo bocciato ieri. La prima

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consisteva nel proibire la surroga solo di tipo 'for-profit' – cioè quella in cui alla gestante viene pagata una somma aggiuntiva oltre le «ragionevoli spese» sostenute durante la gravidanza – insieme a una messa in guardia contro la surrogazione tradizionale, quando cioè la madre surrogata è anche madre genetica del bambino. La seconda era per una regolamentazione «chiara, robusta e trasparente» nei Paesi in cui l’utero in affitto già si pratica. La terza richiesta – il vero obiettivo di tutta l’operazione – era invece uno strumento internazionalmente condiviso, analogo alla Convenzione internazionale sulle adozioni, che consentisse di regolare l’utero in affitto a livello globale per cercare di evitare o risolvere problemi e contenziosi dei quali sempre più spesso sono chiamati a occuparsi i tribunali di mezzo mondo. Se si escludono le opinioni di minoranze irrilevanti a favore di una esplicita liberalizzazione del commercio di parti del corpo, è proprio quella formulata dal testo De Sutter la strada maestra per l’apertura all’utero in affitto: ipotizzare la possibilità di una surroga 'altruistica', cioè con un’accezione positiva, per poterla rendere accettabile e quindi legalizzarla a livello nazionale e soprattutto globale. In nome, ovviamente, dell’«interesse del minore», per evitare discriminazioni dei bambini nati in questo modo. Ma i diritti di tutti i bambini devono essere sempre rispettati e riconosciuti, indipendentemente da come sono stati concepiti. Questo tuttavia non significa legittimare ogni condizione in cui sono stati generati: portando alle estreme conseguenze il ragionamento, non discriminare i bambini nati da stupri o da incesti è doveroso, ma non può voler dire accettare stupri e incesti come un dato inevitabile, anche se sappiamo che sempre ce ne saranno nonostante sanzioni e proibizioni. Riconoscere la validità di un contratto con cui una donna cede a terzi il bambino appena partorito significa accettare di mercanteggiare con le persone, indipendentemente dalle modalità di pagamento. E per quale altro motivo, se non economico, una donna sarebbe disposta a cedere a estranei il figlio appena partorito? E come lo potrebbe fare, se non con un contratto dettagliato fra chi offre e chi prende? E ancora: una donna incinta che si impegna a cedere a terzi il proprio bambino commette un reato, mentre una donna che si impegna a fare fecondazione assistita e a cedere il neonato con apposito contratto farebbe un 'gesto altruistico'. Perché distinguere i due casi? Se una donna vuole «donare il proprio grembo» ad altri (sic!) e il bambino che vi è cresciuto dentro, perché non può farlo sempre? Contro quella che potremmo chiamare la tratta medicalmente assistita di donne e bambini ha sicuramente pesato nel voto di ieri il movimento di opinione trasversale che vi si oppone, che in questi mesi è cresciuto soprattutto nel nostro continente, e che si è materializzato già 'dall’alto' in una pronuncia dell’Europarlamento e, ieri, 'dal basso' davanti alla sede parigina del Consiglio d’Europa, dove manifestanti di orientamenti politici, religiosi e culturali assai differenti si sono ritrovati uniti nella comune battaglia. Potrebbe essere, e ce lo auguriamo, il segno di un punto di svolta, di un nuovo inizio, di un impegno comune anche nel nostro Paese, a partire da una riflessione intellettualmente onesta e senza legacci di appartenenze politiche, per una riflessione oramai urgente sul significato di essere madri, padri e figli nel nuovo scenario del mercato e dei contratti sull’umano. Pag 3 Migranti, l’Europa spaccata come nella crisi degli spread di Diego Motta Nord contro Sud, torna il rischio delle due velocità La tendenza al rinvio da parte dell’Europa non è certo una novità, ma la scelta di rimandare decisioni-chiave in materia di immigrazione, come è accaduto da ultimo ad esempio con la Turchia, è troppo simile a un film già visto per poter passare inosservata. Cinque anni dopo, dal punto di vista politico, sembra si stia ripetendo nelle cancellerie del Vecchio continente quel che era accaduto ai tempi della crisi dell’euro, con la differenza sostanziale che adesso, vista la portata della crisi umanitaria, il tempo è già ampiamente scaduto. Le analogie sono tante e vale la pena metterle in fila, una ad una. Allora come oggi, la 'tempesta perfetta' rischia di scatenarsi sui Paesi mediterranei per eccellenza, dalla Grecia all’Italia, già sottoposti in questi mesi a grandi sforzi di accoglienza e impegno umanitario. Nel 2011 fu l’abbattersi dello spread attraverso la speculazione finanziaria partita dalla City londinese a isolare i cosiddetti 'Pigs' (oltre a Roma ed Atene c’erano anche Portogallo e Spagna) presi di mira per il mix tra alto indebitamento pubblico e crescita zero. Il risultato fu la crescita del 'gap' sociale, con l’aumento dei nuovi poveri e il costante indebolimento di un ceto medio particolarmente

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provato dagli effetti della crisi, che da finanziaria divenne economica. Adesso, con l’arrivo di centinaia di migliaia di persone sulle nostre coste e sulle coste della penisola ellenica, lo spread tra Paesi accoglienti e Paesi inospitali rischia di allargarsi ulteriormente. Allora come oggi, prende corpo la tentazione di chiudersi a riccio e di immaginare un’Europa a più velocità: Nord da una parte e Sud dall’altra. «Se però con l’offensiva contro la moneta unica, assistemmo al tentativo tedesco di ridurre 'ad unum' l’Europa assoggettandola ai voleri di Berlino - osserva lo storico dell’economia, Giulio Sapelli - adesso è evidente il disegno di dividere il Vecchio continente in tre diverse aree: gli Stati di prima accoglienza, cioè noi e la Grecia, gli Stati di transito, che si trovano sulle vie di passaggio come i Balcani, e infine i Paesi d’approdo, dalla Germania alla Scandinavia, che offrono ancora l’illusione di un lavoro e di un futuro stabile per chi è in fuga dalle guerre». La ricetta dell’austerity imposta a tutti non funzionò, così come ora sembra stucchevole il tira e molla su Schengen, su cui all’inizio Bruxelles ha chiuso un occhio per evitare le proteste dei Paesi più colpiti dai flussi e che adesso si vorrebbe ripristinare 'in toto' entro l’anno, dopo che sono sorti muri e barriere. «L’Europa ha sempre sottovalutato il tema - afferma Guido Bolaffi, già consulente di diversi governi sui temi dell’immigrazione - basti pensare che nel Trattato di Roma la parola immigrazione non venne nemmeno menzionata. Del resto, è sufficiente guardare a come si stanno comportando i Paesi dell’Est, da cui in passato fuggirono milioni di persone. Nel secondo dopoguerra molti di loro trovarono rifugio in Occidente, mentre adesso le persone che premono sui loro confini vengono considerate alla stregua di intrusi in patria, quasi polacchi, ungheresi, bulgari si sentissero etnicamente purificati per sempre dall’esperienza subita negli anni del comunismo». D etto questo, quanto sta accadendo adesso sulla rotta balcanica è «materia cromosomicamente diversa rispetto a quanto avvenne nel 2011: allora almeno eravamo dentro il mercato comune, con delle regole stabilite dai Trattati e una governance condivisa. Con i flussi migratori, invece, non è così. Il punto è che sono esplose improvvisamente tutte le contraddizioni politiche tra chi chiede ulteriori cessioni di sovranità da parte dei diversi Stati e chi avanza perplessità legate a un legittimo interesse nazionale». Unica eccezione, secondo Bolaffi, è proprio la Germania, «che da rigido custode dell’ortodossia monetaria, sul fronte dell’ospitalità ha saputo dare un segnale al resto dell’Europa, anche se adesso i problemi interni di consenso per Angela Merkel cominciano a pesare». Il sovrapporsi di vertici tra i leader, di riunioni formali e informali, di bilaterali tra gli Stati per risolvere il dramma dei profughi alle frontiere conferma comunque l’impressione di una schizofrenia strategica che ricorda gli ultimatum a catena lanciati nelle ultimi estati in vista del possibile collasso di Atene. Si procede di rinvio in rinvio, senza unità di intenti perché il tema è delicato e solletica i peggiori istinti delle opinioni pubbliche locali. «L’Europa è nata per risolvere i suoi problemi interni, ma non ha mai pensato seriamente di dover trovare una soluzione per i problemi alle frontiere esterne - continua Bolaffi -. Adesso però la situazione si è rovesciata. Schengen ha permesso di superare i confini delle nazioni, ma non è bastato. È come se gli inquilini del palazzo avessero iniziato a scambiarsi le chiavi di casa, salvo poi accorgersi che mancava chi doveva restare al portone». Davvero se nessuno saprà imporsi con una visione di lungo periodo, rischiamo l’implosione della costruzione europea, nel momento in cui alla contabilità dei bilanci e alle opzioni fredde dei tecnici (crisi finanziaria) si sostituisce l’incapacità di scegliere quale civile rifugio dare a milioni di profughi che bussano alle nostre porte (crisi umanitaria)? Così la pensa Sapelli, quando ammonisce sul Vecchio continente che «scivola lentamente verso una dissoluzione che sarà lunghissima e dolorosa, tuttavia inevitabile. La ragione è emersa proprio con la crisi delle migrazioni. Un tema eminentemente politico, che solo la politica può risolvere». Verrebbe da immaginare una personalità che potesse fare intorno a questa emergenza quanto è stato capace di fare, sul versante finanziario della Bce, Mario Draghi, o almeno, per dirla con Bolaffi, «qualcuno che abbia l’autorità per intervenire a nome di tutti, con decisioni vincolanti e misurabili nel tempo». Invece si annaspa nella girandola dei rinvii e nelle maratone notturne della Commissione che sembrano non dare esito alcuno. Intanto però la fase dei gesti simbolici e delle sparate propagandistiche si è già abbondantemente conclusa e la calma apparente dei dopo-summit assomiglia tanto alla quiete prima della tempesta. IL GAZZETTINO

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Pag 1 Nazionalismo, il vento tedesco scuote la Ue di Giulio Sapelli La sconfitta della cancelliera Angela Merkel nelle recenti elezioni in Germania ha una chiara incidenza su tutto l’equilibrio politico europeo. Essa è l’emergere non tanto di un orientamento populista, come da alcuni viene proposto non senza una buona dose di superficialità; quanto invece di uno spiccato ritorno del nazionalismo, che si è erroneamente ritenuto superato sull’onda di una retorica europea che non ha saputo sostituirsi o amalgamarsi con l’amor di patria e la rivendicazione delle comuni radici dei diversi popoli europei. Il pluralismo dell’Europa è immenso e questo è senza dubbio la sua forza, ma in un certo senso è anche una delle sue debolezze. È un pluralismo linguistico, culturale, economico e sociale e tale pluralismo costituisce i grandi sedimenti, i grandi patrimoni che nel tempo hanno fatto grandi le nazioni del continente più variegato e storicamente diverso del mondo intero, e che proprio per questo non pochi ritenevano ben difficile da ridurre a unità con una sola moneta e una struttura rappresentativa che infatti non ha mai acquistato quella legittimazione necessaria per affrontare gli immensi compiti che l’Europa si è trovata a dover affrontare nel mentre il mondo intero precipitava nella più grave crisi economica. In definitiva, l’idea che la moneta potesse di per sé unificare ciò che era stato secolarmente diviso si sta rivelando il frutto delle illusioni seguite al crollo dell’Unione Sovietica. Secondo questa illusione il mondo sarebbe diventato piatto, senza conflitti perché così voleva la democrazia irreversibilmente vincitrice. Era la visione politica e culturale dei seguaci di Francis Fukuyama (la fine della storia e un avvenire senza attriti e perciò armonioso). Una visione diametralmente opposta a quella proposta da Samuel Philips Huntington (lo scontro di civiltà e un avvenire pieno di conflitti e di tensioni). Inutile a questo punto persistere nelle illusioni: Huntington ha vinto. Le migrazioni altro non fanno che confermare questa tesi perché sono vissute come momento di questo scontro da parte di coloro che sostengono l’indispensabilità del rafforzamento anziché del superamento delle distinte culture europee. La cancelliera Merkel ha lanciato il cuore un po’ troppo oltre l’ostacolo, probabilmente confidando nella sua capacità di esercitare una leadership anche su questo terreno precipuamente culturale, antropologico, sopravvalutando dunque se stessa: talvolta grandi successi conducono a grandi errori. Il punto è che il nazionalismo ha radici fortissime in ogni classe e ceto delle popolazioni tedesche, da nord a sud e da est a ovest, dai cattolici e i protestanti agli agnostici: esso è riemerso con una forza inusitata decretando un inaspettato successo dei partiti anti europeisti. Si devono difendere gli interessi del popolo tedesco e delle sue classi dirigenti, senza più cadere nella trappola di una misericordia che ha ora assunto il volto umanitario di una politica di apertura nei confronti del fenomeno migratorio. Il dilagare del nazionalismo sarà la conseguenza di questa sconfitta nella politica europea e nelle macchine dei sistemi di partito europei. In ogni nazione, senza eccezione alcuna. Un chiaro segnale lo abbiamo già avuto in Francia. Bastava leggere Le Figaro di domenica scorsa per intravedere che quell’insistenza sui dissidi franco-tedeschi era un attacco contro una Merkel che in Europa vuole fare da sola - a partire dalle negoziazioni con la Turchia sul fenomeno migratorio. Un attacco che suona anche come anticipo della musica che si suonerà in occasione delle prossime presidenziali. Ma lo stesso accade se si leggono gli organi di stampa di tutte le altre nazioni europee. Si rafforzeranno a dismisura le ideologie nazionalistiche degli stati ex-comunisti che già si distinguono per la volontà di elevare mura e fili spinati; ma le crepe si allargheranno anche in Spagna, che è sempre più uno Stato con più nazioni dove le nazioni stanno diventando più forti e lo Stato più debole. Lo stesso accade anche nel Regno Unito, che viaggia verso il referendum sulla Brexit o non Brexit ma che di fatto si defila sempre più da un’Europa scossa da traumatici ritorni al passato dei confronti nazionalistici. Può sembrare la solita e trita valutazione figlia del senno di poi, ma a ben pensarci non poteva che finire così: la Merkel si è via via auto-isolata perché ella stessa è stata la prima a peccare di nazionalismo pensando di poter risolvere o affrontare da sola, o con lo spirito di potenza che impone e non condivide, temi cruciali per l’unità europea che invece avrebbero dovuto essere prima discussi collegialmente. Chi di spada ferisce di spada perisce, si potrebbe commentare banalmente. Gli scricchiolii li sentiamo anche laddove non si può far altro che agire uniti, ossia sul fronte monetario. Il presidente della Bce, Mario Draghi, per definizione non può non essere europeista, ma lo è perché una e sola è la moneta. E

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tuttavia dietro quell’unità vive e si sviluppa un mondo pieno di contrasti e di lotte che ancora una volta hanno come epicentro il cuore tedesco di un’Europa che vuole difendere i risparmiatori e non sa scegliere tra benefici possibili futuri di una politica monetaria eterodossa e danni immediati ai risparmi da tale politica provocati. Insomma, inizia con le elezioni regionali tedesche una nuova era politica europea, dove il nazionalismo crescente la farà da padrone: uno spirito folletto e malvagio da cui son scaturiti solo malanni e tristezze in un continente che non merita di rivedere e ripercorrere gli errori del passato. Pag 19 La politica dei muri tradisce la vocazione di solidarietà dell’Europa di Ennio Fortuna Temo molto che i risultati delle recenti elezioni in Germania rechino un ulteriore contributo alla politica di contenimento degli immigrati. Molti, del resto, in Germania, ma non solo in Germania, attribuiscono la sconfitta di Angela Merkel (per fortuna relativa e rimediabile) proprio alla sua politica di apertura, di solidarietà verso gli immigrati, soprattutto dopo lo strazio della morte del bambino sulla costa turca. Non è però durato molto l’atteggiamento di compassione e di solidarietà dell’Europa. L’egoismo ha prevalso dovunque, e dove non ha prevalso ha comunque compiuto notevoli progressi. L’ultima notizia preoccupante, e che ci riguarda direttamente, viene dall’Austria e si concretizza nella decisione di quel paese di chiudere il confine agli immigrati anche alla frontiera italiana. Come è noto, Ungheria, Serbia, Slovenia, Croazia, Montenegro e Macedonia lo hanno già fatto, e sostanzialmente la stessa Francia pratica ormai l’identica politica, come chiunque può constatare con una visita al confine di Ventimiglia. Uno sguardo al villaggio greco di Idomeni al confine con la Macedonia dovrebbe far rabbrividire ogni animo sensibile. Le fotografie sono agghiaccianti, la massa dei profughi è enorme e ormai nessuno sa che cosa farne. Non possono passare in Macedonia (la traversata del fiume in piena ha aggiunto un ulteriore tocco di tragedia di cui si poteva fare a meno) e neppure possono tornare indietro al loro paese(ma quale?) dove del resto verrebbero accolti in modo che è meglio non conoscere. Rimangono la Grecia, l’Italia e la Spagna. Sono migliori e più sensibili delle altre nazioni europee? Così dice Renzi, e mi piacerebbe molto che avesse ragione, che la politica di accoglienza praticata dal nostro paese e dagli altri due ricordati fosse l’effetto spontaneo di una risoluzione umanitaria obiettivamente avvertita e diffusa tra la gente. Temo però che la realtà sia molto diversa. E’ la stessa geografia che ci suggerisce la risposta. La Grecia ha migliaia di isole, non può erigere muri, non è in grado di impedire gli sbarchi e quindi li subisce passivamente, limitandosi a protestare con l’Europa che accusa, giustamente, di disinteresse e di egoismo. Più o meno lo stesso fanno la Spagna e l’Italia che con migliaia di chilometri di coste aperte e decine di isole nel mediterraneo devono per forza di cose assistere impotenti agli sbarchi dei migranti, ed è già molto, e comunque assolutamente meritorio, il comportamento delle nostre forze navali e delle nostre popolazioni (ma anche di quelle degli altri due paesi) che si prodigano quando e dove occorre per mitigare gli effetti dell’immane tragedia. In realtà l’Europa non ha una vera politica dell’immigrazione e ondeggia di volta in volta tra slanci di generosità e purtroppo giri di vite di assoluto egoismo, ormai di gran lunga prevalenti. Gli immigrati non sono cittadini europei e non possono quindi invocare lo statuto dell’Unione che proclama ne delle merci e delle persone all’interno del continente. Ma è certo che con la politica dei muri ormai in atto, l’Europa sta tradendo se stessa e la propria vocazione alla solidarietà. Certo, nessuno rinuncia volentieri alla propria condizione di benessere, o ne accetta la limitazione. Ed è anche vero che probabilmente la possibile soluzione del dramma si rinviene soprattutto nei paesi d’origine degli immigrati. Ed è almeno qui che l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero moltiplicare i propri sforzi. Non tanto e non solo a beneficio diretto dei migranti, ma anche e soprattutto per dare un senso e una risposta non puramente egoistica ad una situazione drammatica che ormai coinvolge ogni persona sensibile ad una tragedia immane di cui non si intravede una pronta e agevole soluzione, e che costringe a riflettere sul modo di rapportarsi con i più sfortunati (ed è verosimilmente una conclusione assai sgradevole). LA NUOVA

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Pag 1 Rischio turco per Merkel di Maurizio Mistri Dopo un poco fruttuoso summit tenutosi a Bruxelles il 7 marzo, domani ci sarà un altro vertice fra i 28, confusi e litigiosi, paesi dell’Unione europea (Ue) e la Turchia. I 28 leader il 7 marzo credevano di aver scritto il copione di una difficile negoziazione, ma non si erano accorti che alle spalle di 27 di loro la cancelliera Angela Merkel si era accordata con Ahmet Davutoglu, capo del governo turco, per scrivere assieme il copione. Un copione dal quale la Merkel rivela una scarsa consapevolezza del rischio politico che l’Ue correrebbe qualora la Turchia ne divenisse un membro effettivo. Già oggi i 28 paesi membri fanno fatica a trovare linee convergenti sui più importanti temi dell’agenda dell’integrazione. La ragione sta nella estrema diversità degli obiettivi che i singoli si ripromettono di raggiungere e, soprattutto, sulla divaricazione esistente tra i modelli di istituzioni, e cioè regole condivise, a cui ogni paese pensa per assicurare la governance dell’uno o dell’altro dominio della economia europea e della società europea. L’ingresso nell’Ue di un grande paese asiatico, come la Turchia, estraneo ai processi culturali che hanno fatto germinare in Europa l’idea di una integrazione che, ancor prima che sulla economia, dovrebbe basarsi sulla condivisione di un comune patrimonio di cultura politica, accrescerebbe le divergenze fra gli obiettivi dei paesi membri dell’Ue, con conseguente paralisi dei processi decisionali e con conseguente implosione dell’Unione stessa. L’attuale Ue ha alcuni membri che sono entrati senza avere tutti i requisiti necessari. Oggi la Turchia non possiede tutti i requisiti per entrarvi, anche se il 7 marzo Davutoglu ha affermato che è pronta al grande passo. Non mi pare che Davutoglu abbia assimilato la lezione dei federalisti europei e non mi pare che la Turchia abbia maturato, non solo a livello di governo, ma anche a livello di comune sentire popolare, un profondo attaccamento ai valori della democrazia e a quelle forme istituzionali, tipiche dell’Europa occidentale, da cui la democrazia è garantita. Nei rapporti tra Ue e Turchia sono molte le questioni in sospeso, dalla libertà di stampa e di pensiero alla tutela effettiva delle minoranze, dalla piena autonomia della magistratura alla lealtà nei rapporti internazionali. Una lealtà che la Turchia non ha manifestato se non altro perché non si è opposta al rafforzamento di quei gruppi che hanno dato vita all’Is, in chiave anti-Assad e, in concomitanza a ciò, in chiave anti-curda. Molti ricorderanno l’inerzia che le forze armate turche hanno mostrato davanti al tentativo dell’Is di annientare i curdi difensori di Kobane. Un paese non entra nell’Ue per diventare, forse, democratico. Un paese vi può entrare se alla prova dei fatti ha dimostrato di essere diventato pienamente democratico. Oggi la Turchia “ricatta” l’Ue mostrando di poter aprire i rubinetti dei flussi migratori verso l’Europa e chiede, in cambio di un controllo di tali flussi, denaro e ingresso nell’Ue. C’è da chiedersi se una organizzazione, come l’Ue, possa accettare come proprio membro un partner che per entrare in essa la ricatta. Fa impressione vedere che la Merkel e il governo tedesco oggi considerino il deficit democratico della Turchia come una quisquilia di cui è bene non parlare per timore che la Turchia non eserciti il ruolo, che la Merkel le ha assegnato senza preventivamente sentire gli altri partner europei, di gendarme di una parte dei confini dell’Ue. Le recenti elezioni amministrative in Germania hanno oggettivamente indebolito la Merkel e non so come potrà andare al prossimo vertice Ue-Turchia. I governi europei sanno che la Merkel è diventata una “anatra zoppa” e che ha perso capacità di leadership in Europa. Si tratta di una constatazione che deriva dalla valutazione delle tendenze politiche in atto nella sgangherata Ue, sulla quale la Germania della Merkel non potrà più esercitare una seria forma di leadership. C’è il rischio che domani la Merkel, politicamente indebolita, finisca ostaggio del presidente Recep Tayyip Erdogan e cerchi di trascinare una riluttante Ue nell’avventura della incondizionata apertura alla Turchia. Così perderebbe ogni credibilità politica e inizierebbe per la Germania un tormentato periodo nel quale il più grande paese europeo dovrebbe cercare un nuovo equilibrio politico senza avere la forza e la credibilità per esercitare una qualche forma di leadership nei riguardi degli altri paesi dell’Ue. Senza una seria leadership della Germania per i paesi dell’Ue sarebbe il “libera tutti” in una cacofonia di comportamenti tra loro difformi. Ad esempio, nel vuoto di leadership la Germania si troverebbe ad assistere alla dissoluzione della politica di rigore finanziario in tutta l’area Ue e i successori della Merkel potrebbero decidere di far uscire la Germania dall’euro.

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Pag 5 Il bottino di guerra dello zar di Renzo Guolo Putin annuncia il ritiro delle truppe russe dalla Siria. Si vedrà presto se quello del Cremlino, che oltre alla storica base navale di Tartus manterrà anche il controllo di quella aerea di nei pressi di Latakia e il dispiegamento del sistema anti-missile S-400, in grado di intercettare ed abbattere velivoli nel raggio di quattrocento chilometri, sarà un ritiro effettivo o di facciata. Certo è che l’operazione russa in Siria, che ha messo nel mirino sia le forze anti-regime sia quelle dell’Is, ha rovesciato le sorti di un conflitto che sembrava segnato per Assad. Non è un caso che le truppe governative, che hanno già riconquistato parte del territorio, siano ora all’offensiva anche a Palmira. In ogni caso la Russia ha ottenuto importanti risultati con la sua azione: ha puntellato un regime alleato, ha rafforzato l’asse sciita composto da Iran, governo siriano e l’Hezbollah libanese, fondamentale per contrastare l’asse sunnita, formalmente schierato a fianco degli Stati Uniti; è tornata in forze ad affacciarsi sul Mediterraneo; ha affrontato militarmente il terrorismo mostrando volontà e muscoli per combatterlo; ha costretto la Turchia, anche flirtando con i curdi di qua e di là del confine, in difensiva. Un successo indubbio per il Cremlino, che ora ritiene vi siano i presupposti per un serio negoziato, con tanto di vincitori e sconfitti tra i contendenti. Naturalmente, il confitto siriano non è finito, regga o meno la tregua a macchia di leopardo in vigore nel paese. Sul campo restano le forze del Partito di Dio libanese, le milizie sciite irachene e quelle hazara afghane, alleati di Teheran, che al fronte ha anche reparti dei Pasdaran. È prevedibile che, come prima della fine della scorsa estate, quando i russi sono intervenuti direttamente, siano le forze dell’asse sciita a reggere il peso di una campagna militare tutt’altro che conclusa. Se non altro perché l’arco sciita teso lungo la linea che va da Teheran alla Beirut di Hezbollah passando per Damasco non è certo gradito a Riad o ad Ankara, potenze sunnite rivali ma unite nella decisione di contrastare l’influenza iraniana nell’area. Difficilmente sauditi e turchi potranno assistere al tramonto di un disegno, quello di una Siria dominata dai sunniti e fuori dall’influenza iraniana, sul quale avevano scommesso a partire dal 2011. È possibile, dunque, che cercheranno di rafforzare l’opposizione al regime, assai insoddisfatta della situazione sul campo e delle annunciate mosse di Assad, che vuole convocare presto nuove elezioni, ma rinfrancata dall’annuncio di Mosca, nel quale vede la possibilità di rianimare uno schieramento tramortito. Gli oppositori sunniti contano, poi, sul disimpegno americano nella regione e sulla transizione alla Casa Bianca. Nella speranza che, tra pochi mesi, nella Sala Ovale sieda un presidente meno riluttante di Obama ad impegnarsi nel conflitto e nel contrastare sia Putin che gli iraniani ormai sdoganati, anche geopoliticamente, dall’accordo sul nucleare. Se le truppe di Assad, appoggiate dai T72 e dai Sukoi russi, entrassero a Palmira, i cui preziosi resti archeologici sono diventati teatro delle macabre esecuzioni pubbliche degli islamisti radicali nerocerchiati, la strada per Raqqa, la capitale siriana del Califfato, sarebbe aperta. Cacciati dalla loro capitale gli jihadisti perderebbero quell’appeal, derivato dal loro “ farsi Stato”, che ha attirato decine di migliaia di foreign fighters, dalla Mezzaluna e dall’Europa. A quel punto il successo, anche di immagine di Putin, sarebbe completo e il trionfo della campagna mesopotamica avrebbe aperto la strada al ritorno in pompa magna della Russia tra le potenze mondiali. Quanto all’Is, che in questi giorni ha perso in Siria anche il suo “ministro della Difesa”, il giorgiano Omar al-Shishani, è probabile che sposti parte dei suoi effettivi, tra i quali molti non più in grado di combattere in reparti organici dopo i pesanti attacchi della “doppia coalizione”, in Libia dove il caos impera e la vicinanza con l’inquieto Sahel consente di fare da calamita per lo jihadismo africano. Torna al sommario