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 Filosofia del diritto avanzata (LS) Metodologia e logica giuridica (LM) A.A. 2007/2008 1 1

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Filosofia del diritto avanzata (LS)

Metodologia e logica giuridica (LM)

A.A. 2007/2008

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Capitolo 2 “Una definizione di interpretazione”

1. Interpretazione e interpretazione giuridica

Interpretare significa attribuire un significato a qualcosa: si tratta di un’operazione di analisi e di

critica di parole, comportamenti e fenomeni atta a favorirne la comprensione (interpretazione:operazioni intellettuali di apprendimento, di critica, e insieme di selezione e di giudizio, volte a

chiarire contenuti espressi nel linguaggio e ad attribuire significati ad enunciati linguisitici; attività

che coglie e attribuisce significati a partire da determinati segni.). Etimologicamente è possibile

riscontrare nella parola “interpretazione” due prefissi: uno, di origine latina, inter (preposizione), e

l’altro, di origine sanscrita,  pret . Entrambi si riferiscono allo stare nel mezzo (attività mediatrice):

ciò che, appunto, fa l’interprete, che si pone tra l’oggetto della sua attenzione e il significato di

quest’ultimo; il discorso interpretativo si pone fra il parlante e l'oggetto.

 Nell’attività interpretativa riconosciamo, così, almeno tre elementi: uno, di natura oggettiva e due,

di natura soggettiva. Da un lato, infatti, vi è ciò che viene interpretato; dall’altro rimane colui che

interpreta e colui che pose in essere l’oggetto dell’attività interpretativa. Le dottrine ermeneutiche

del ventesimo secolo (ma non quelle del diciannovesimo!) fondano le proprie analisi sul

 presupposto che una corretta attività interpretativa – e, quindi, di comprensione di qualsivoglia

fenomeno – deve sapere combinare insieme i tre elementi di cui si è appena parlato: solo prestando

adeguatamente attenzione tanto al testo (più in generale, all’oggetto dell’interpretazione), quanto

all’intenzione di colui che lo ha posto in essere e al contesto di riferimento, chi interpreta potrà

attribuire significato a ciò cui rivolge la propria attenzione. Bene riassume quanto detto una

metafora impiegata da uno dei padri dell’ermeneutica novecentesca, Gadamer, che parla di

interpretazione come di “fusione di orizzonti”. Interpretare significa fondere l’orizzonte di chi

opera nel tentativo di attribuire significato a un fenomeno con quello di chi pose in essere l’oggetto

dell’attività interpretativa. Questi ragionamenti si pongono perfettamente in sintonia con l’assunto

di Wittgenstein per cui l’interpretazione non è sostituzione di segni ad altri segni. Concepire

l’attività interpretativa in tal maniera significherebbe, difatti, privarla di significato: sostituire a un

segno un altro segno implica l’imposizione del punto di vista di colui che interpreta sull’oggetto

dell’interpretazione, cancellando, così, la prospettiva di colui che pose in essere detto oggetto.

Si cercherà di applicare questi parametri di riferimento all’interpretazione giuridica. Ciò, tenendo in

considerazione la definizione che Dilthey dà al fenomeno giuridico: secondo questo autore le

scienze giuridiche si pongono quale ponte tra le scienze umane e le scienze di organizzazione

sociale. Il fine di chi pratica il diritto è quello di dare ordine laddove esso non sussiste nell’ambito

della società. Per espletare tale funzione occorre operare nell’esaltazione dell’essere umano a

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valore, come a dire che senza inquadrare l’individuo singolo al centro della società è impensabile

un’opera di organizzazione della stessa. Ecco perché il diritto deve tenere in conto contestualmente

sia della dimensione individuale del singolo, sia di quella collettiva, della società. Da un punto di

vista pratico, non può pensarsi di dare organizzazione alla società senza un’attività di decisione.

Ecco, allora, che è possibile individuare un primo elemento dell’attività svolta da chi opera nel

diritto: il fine decisorio. A differenza di chi opera in altri ambiti (si pensi alla critica letteraria o a

quella artistica), chi gestisce il diritto è chiamato a prendere decisioni.

2. Comprendere, spiegare, decidere

L’attività degli operatori del diritto è finalizzata alla decisione. Si tratta, precisamente, di un’attività

di analisi e di critica della realtà volta a una decisione finalizzata a dare ordine alla società. Detta

attività di analisi e di critica altro non è che interpretazione. L’ermeneutica novecentesca ritiene che

il diritto sia per intero interpretazione, in quanto attraverso di essa si dà un’organizzazione alla

società, riportando ordine laddove esso non sussisteva (ciò, si badi, senza implicazioni

giusnaturaliste, posto che gli ermeneutici non fanno riferimento all’esistenza di uno stato di natura

 preesistente rispetto all’ordine sociale). Giovanni Tarello ha distinto, in questo ambito, due diverse

nozioni di interpretazione: da un lato, l’interpretazione-attività , ossia l’insieme di atti finalizzato

all’attribuzione di significato a un fenomeno, dall’altro, l’interpretazione-prodotto , cioè quel che

deriva dall’attività posta in essere dall’interprete e, quindi, l’attribuzione di significato a quel

fenomeno. In ambito giuridico, l’interpretazione-attività permette il passaggio dalla disposizione

alla norma: altrimenti detto, l’interprete dà significato alle parole poste su carta dal legislatore (= la

disposizione), ricavandone, quindi, un senso (= la norma).

L’interpretazione-attività, in via generale, può consistere in uno  spiegare: ciò accade nelle scienze

naturali. Spiegare significa descrivere i lineamenti di un fenomeno che rimane sempre uguale a se

stesso. La spiegazione è, dunque, metastorica, non riferendosi al contesto ma a ciò che permane

senza mutamenti. L’interpretazione-attività, però, può sostanziarsi in un comprendere: ciò accade

nelle scienze umane. Comprendere significa descrivere i lineamenti di un fenomeno collegandolo al

suo contesto storico, culturale, politico, economico, sociale di riferimento. La comprensione è,

dunque, storica, riferendosi soprattutto (e, forse, solo) al contesto. Nel diritto, secondo

l’ermeneutica novecentesca, la dimensione dello spiegare si fonda con quella del comprendere

(rapporto dialettico e complementarità fra le due dimensioni)), visto che l’interprete deve prestare

attenzione tanto all’oggettività del testo (che, rimanendo tale, non muta nel corso del tempo,

 prestandosi a una spiegazione più che a una comprensione), quanto alla mutevolezza del contesto(ciò che caratterizza la comprensione e non la spiegazione). A questo si aggiunga il nostro assunto

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iniziale: l’interpretazione giuridica è finalizzata alla decisione. In sintesi estrema, quindi, potremmo

affermare che l’interprete giuridico analizza la realtà, fondendo in questa analisi la dimensione dello

spiegare e quella del comprendere, e poi decide, non potendosi distinguere, nell’attività

interpretativa del diritto, la componente di analisi, critica e rielaborazione della norma da quella

decisoria. Sono tali due componenti l’una posta in funzione dell’altra: un’analisi della norma senza

decisione si ridurrebbe a mero esercizio di stile chiuso in se stesso; una decisione sprovvista

dell’analisi della norma non sarebbe in grado di assolvere a quel ruolo di organizzazione sociale che

è tipico della scienza giuridica. L’analisi viene svolta mediante un ragionamento: il ragionamento

 giuridico. Rovesciando i termini della questione, può dirsi che è definibile il ragionamento giuridico

come quell’insieme di operazioni logiche che permettono all’operatore del diritto di assumere una

decisione. Dette operazioni logiche seguono dei ben precisi criteri di individuazione, di

applicazione e di collocazione della regola giuridica nel sistema. Criteri, questi, sui quali verte il

consenso della maggior parte o della totalità degli operatori del diritto: ciò che riassume in una sola

 parola, metodo. Ecco allora che è possibile individuare il collegamento tra la metodologia e la

logica giuridica, essendo l’una servente rispetto all’altra, fornendo la prima i criteri di applicazione

della regola giuridica in riferimento ai quali la seconda fornisce le direttive per la costruzione del

ragionamento giuridico. Esistono due tipi di metodologia: la metodologia descrittiva, che spiega

come gli operatori del diritto operano nell’individuazione dei criteri di applicazione della regola; la

metodologia  prescrittiva, che spiega quali criteri gli operatori del diritto debbono scegliere per 

l’applicazione della regola. Come il giurista opera interessa poco; in questa sede ci si occuperà dei

criteri cui l’operatore giuridico si affida per addivenire a una buona interpretazione.

Gettate tali premesse, sembra opportuno confutare fin da subito una teoria, che nella prima metà del

 Novecento aveva preso piede negli ambienti della filosofia giuridica, e che sembra semplificare

eccessivamente la funzione del diritto: la teoria imperativista di Austin. Secondo l’imperativismo

austiniano il diritto è comando che si rivolge dall’alto verso il basso. La regola di diritto, dunque, è

volontà del soggetto che detiene il comando e null’altro. L’imperativismo, criticato da più parti per 

la sua ingenuità, pecca nell’esaltare l’elemento dell’intenzione di chi pone la regola di diritto: uno

dei difetti di questa teoria è quello di svilire la funzione organizzativa della scienza giuridica,

escludendo dall’espletamento della stessa gli operatori del diritto (dottrina, legislatore e giudici),

riducendo il tutto alla mera espressione del capriccio del sovrano, cioè dell’unico soggetto in grado

di vincolare i soggetti, tutti gli altri suoi consociati, che si pongano rispetto a lui in un rapporto di

subordinazione. Nell’imperativismo non c’è spazio per l’interpretazione della regola di diritto; o,

meglio, non c’è spazio per alcuna altra interpretazione della regola di diritto che non coincida con

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l’esaltazione dell’intenzione del sovrano. Ciò che le premesse dei nostri ragionamenti hanno

ampiamente smentito.

3. Alcune fondamentali caratteristiche dell’interpretazione giuridica

L’interpretazione giuridica è attività volta all’attribuzione di significato a una disposizione e

finalizzata all’assunzione di una decisione. Questo, in estrema sintesi, il ragionamento di cui si è

reso conto nei paragrafi precedenti. È, dunque, opportuno, prima di proseguire, comprendere, alla

luce di ciò, il significato di una massima latina: in claris non fit interpretatio. Interpretata alla

lettera, significa che a fronte di casi facili non occorre interpretare. Stando a questa accezione

esisterebbero situazioni – i casi “facili” – nelle quali interpretare sarebbe inutile. Facile il caso,

immediata l’attribuzione di significato. L’ermeneutica, fondando la propria nozione di “diritto”

sull’interpretazione, ritiene quello dell’ in claris non fit interpretatio un mito, un retaggio

  positivista. È utile ricordare che, nel corso del primo Ottocento, si diffuse, figlia degli ideali

illuministi e rivoluzionari, l’idea che la legge, fonte privilegiata del diritto, fosse interpretabile in

uno e in un sol modo: il giudice, bocca della legge, avrebbe dovuto compiere un’operazione

matematica al fine di attribuire significato alla legge. È il positivismo francese che innova rispetto al

diritto comune per almeno due ragioni: da un lato, la forza precettiva del codice va a escludere

qualsivoglia altra fonte produttiva di diritto (ivi compresa la dottrina, ossia il sapere dei dottori, che

viene posta in secondo piano), imponendo la legge al vertice della gerarchia delle fonti; d’altra parte

 – ma questo è connesso a quanto si è appena detto – il legislatore viene esaltato a scapito del

giudice, che assume un ruolo ancillare. Il legislatore pone la regola di diritto; pone, più

 precisamente, una regola chiara, lampante, della quale il giudice non può che prendere atto,

rispettando i rigorosi passaggi di quell’algoritmo che gli permette di estrapolare dalla parola scritta

il significato intrinseco della disposizione. Tutta questa costruzione è, per gli ermeneutici,

un’utopia. Non esistono disposizioni, per utilizzare la tassonomia di Tarello, dotate di un significato

intrinseco. L’attività interpretativa è fondamentale per comprendere la regola di diritto; tanto che

l’interprete, per comprendere se un caso sia o meno “facile”, deve prendere contatto con la

disposizione, assumerne contezza e, dunque, interpretarla. Senza un’adeguata attività di analisi e di

critica, l’interprete non può capire se si tratti di un caso “facile” o “difficile”. Ecco, allora, che di

fronte ai claris, alle situazioni chiare, appunto, “facili”, occorre l’interpretazione, essendo essa

l’unico strumento in grado di colmare la distanza tra caso e norma e di permettere all’interprete

quale regola di diritto applicare a fronte di quella situazione concreta e particolare.

Da quanto si è detto sin qui emerge un contrasto netto tra due posizioni: quella positivista e quellaermeneutica. Il positivismo impone una visione  formalista del rapporto tra disposizione e norma,

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credendo nella sussistenza di una relazione univoca tra tali due entità: per ciascuna disposizione,

infatti, esisterebbe una e una sola norma, ossia uno e un solo modo di darle significato. Altrimenti

detto, il formalismo giuridico ritiene che ciascuna disposizione abbia in sé un significato intrinseco,

quello stabilito dal legislatore, e che compito dell’interprete sia estrapolarlo. È chiaro che,

nell’ipotesi in cui l’interprete attribuisca a quella disposizione un significato diverso da quello

voluto dal legislatore, egli compie un errore. L’ermeneutica, d’altra parte, ritiene che sia possibile

dare più di una interpretazione della regola posta dal legislatore: il problema si pone nel

comprendere quale o quali, tra le interpretazioni possibili, possa o possano andare bene. Qual è la

 buona interpretazione? L’ermeneutica rifiuta le posizioni nichiliste di quanti, a partire da Nietzche,

affermano che ‹‹ non esistono i testi, ma solo le interpretazioni ››. Il nichilismo (accolto dalle teorie

 scettiche dell’interpretazione giuridica) abbatte la dimensione oggettiva del testo giuridico,

attribuendo significato solo ed esclusivamente alla posizione di chi interpreta, al suo punto di vista,

alle sue aspirazioni. Così, secondo queste tesi, il testo assume significato solo in relazione al suo

interprete; rovesciando i termini della questione, un medesimo testo assume tanti significati quanti

sono gli interpreti. Bene dicono Guastini e Tarello quando affermano che per ogni regola ci sono

 più interpretazioni possibili (Guastini e Tarello fanno parte della Scuola genovese. Essi propugnano

una concezione analitico-realistica dell’interpretazione. Analitica perché ritengono che il

linguaggio giuridico sia indeterminato, esattamente come la lingua parlata, visto che il diritto si

serve di essa; realistica perché riconoscono in capo all’interprete un margine di libertà che fa sì che

la sua attività possa dirsi creativa); male pensa chi asserisce che non esistono limiti a tali

interpretazioni possibili. L’ermeneutica ritiene che il limite all’infinitezza delle possibili

interpretazioni sia il testo stesso: l’elemento oggettivo dell’interpretazione, ossia ciò che si

interpreta, costituisce un importante limite per l’attività dell’interprete che deve sapere rimanervi

fedele.

Se per l’ermeneutica il testo assume la funzione di limite alla creatività dell’interprete, uno studioso

tedesco, Mǘller, afferma che il testo è un dato di ingresso. Concependo quello interpretativo come

un procedimento, condizione di procedibilità diventa l’esistenza del testo. Senza il testo non c’è

interpretazione; il testo è il necessario punto di partenza dell’attività di colui che interpreta. La

costruzione di Mǘller appare di indiscutibile interesse: essa, però, deve essere concepita tenendo in

considerazione quanto affermato da Wittgenstein: interpretare non significa sostituire un segno a un

altro segno. Al fine di evitare eccessi nichilisti, quindi, occorre intendere il testo come dato di

ingresso del procedimento interpretativo, rimanendo, però, esso un limite fondamentale all’attività

creativa dell’interprete che, perdendo il punto di riferimento testuale, giungerebbe a dareun’arbitraria lettura alla regola. Rendendo, peraltro, impossibile l’espletamento della funzione

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 precipua della scienza giuridica, quella organizzativa. Non è possibile organizzare una società in

una prospettiva decisionista: Louis Carrol, nello scrivere   Alice nello specchio, esemplifica il

decisionismo nel personaggio di Humpty Dumpty. Questo essere a forma di uovo decide di

attribuire alle parole il significato che più gli aggrada; quando Alice gli domanda per quale motivo

egli non condivida il senso comune dei termini utilizzati nei suoi discorsi, Humpty Dumpty

risponde che avrebbe potuto fare ciò che avrebbe voluto con le parole, anche dare loro un

significato completamente differente rispetto a quello condiviso dai più. È vero: chiunque può

utilizzare la parola “ombrello” in luogo della parola “guerra”. Non è vietato: il risultato, però, è una

non comprensione del contenuto dei discorsi da parte di chi con noi interloquisce. L’interpretazione

è anche, e soprattutto, condivisione di significato. Non è un fatto privato. Occorre, quindi, evitare

gli eccessi decisionisti cui si addiverrebbe accogliendo prospettive di nichilismo interpretativo. Del

resto, al fine di dare contenuto alla funzione organizzativa espletata dal diritto, occorre che tutti i

consociati, cui è diretto questo compito di organizzazione sociale, siano consapevoli di essere

coinvolti in un progetto di ordine e, quindi, comprendano il modo in cui esso viene portato avanti.

Veniamo così a individuare il limite fondamentale dell’affermazione di Kelsen secondo il quale

l’interprete, in particolare il giudice, espleta attività creativa. La creatività del giudice è mediata da

un necessario riferimento alla regola posta in essere dal legislatore: ciò che porta alcuni studiosi, in

 particolare Haeck, a parlare, nei riguardi del giudice, di obbedienza pensante rispetto a chi pone la

regola di diritto.

4. Il compito dell’interprete di diritto: identificazione del diritto esistente o creazione di nuovo

diritto?

Kelsen parla di creatività dell’interprete. Il che fa riferimento al fatto che l’interprete è un essere

 pensante (un animale razionale – Aristotele) e, in quanto tale, è portato a soggettivizzare i fenomeni

che lo circondano e con i quali entra in contatto. Il soggettivismo è un dato insopprimibile di chi si

approccia a un fenomeno: questo vale in generale, a fortiori vale per l’attività degli operatori del

diritto. Certo, limitandosi a una concezione formalista, il giudice non svolge attività creativa,

limitandosi a identificare il diritto che già esiste, estrapolando dalla disposizione il significato che

 per essa ha prescelto il legislatore. Già si è visto quanto è criticabile la posizione formalista. Il

giudice, ma più in generale, l’interprete svolge attività necessariamente creativa, essendo tale

creatività limitata dal dato testuale: un’obbedienza pensante, come si ricordava in chiusura del

 precedente paragrafo. Ecco, allora, che da parte di alcuni ermeneutici si è parlato, in riferimento

all’interprete, di creatività derivata. Esisterebbero due livelli di creatività: da un lato, la creativitàoriginaria di chi pone in essere la regola di diritto dal nulla, dando vita a qualcosa di

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 precedentemente inesistente; dall’altro, la creatività derivata di chi assume coscienza della norma e

la fa propria, soggettivizzandola, ma senza tradire la fedeltà al dato testuale. Si parla di creatività

derivata, sussistendo sempre e comunque un legame (che, quindi, viene a essere inscindibile) tra

colui che pone in essere la regola e colui che la interpreta. Dato il principio della fedeltà testuale,

non sarebbe possibile ipotizzare l’attività interpretativa senza che qualcuno, prima, abbia posto in

essere la regola, creandola dal niente.

5. Centralità dell’interpretazione nel fenomeno giuridico

Tiriamo le somme di questa prima introduzione alla teoria generale dell’interpretazione. Il diritto,

secondo l’ermeneutica novecentesca, è interpretazione: occorre, nello svolgimento dell’attività di

analisi e di critica del fenomeno giuridico, dare contenuto alla regola di diritto tenendo conto di tre

elementi: l’intenzione di chi pose in essere la regola, quanto è ricavabile dalla lettera del testo e il

contesto nel quale il testo si sviluppa. L’attività interpretativa è comprensione e spiegazione

finalizzate alla decisione. L’ermeneutica, fissando tali punti fermi, rifiuta l’eccesso formalista, che

esalta l’elemento oggettivo dell’interpretazione, e l’eccesso nichilista, che esalta l’elemento

soggettivo dell’interpretazione. Sotto questo ultimo profilo, delle teorie, cioè, che esaltano

eccessivamente l’elemento soggettivo dell’interpretazione si distingue a) l’intenzionalismo, che

eccede nell’attribuire significato all’intenzione di chi pose la regola di diritto; b) il  soggettivismo

che eccede nell’attribuire significato al punto di vista di chi interpreta. Il nichilismo

nell’interpretazione giuridica così come – vedremo – il decostruttivismo di Fish rientrano nelle tesi

soggettiviste. L’imperativismo austiniano, riducendo la regola di diritto a volontà del sovrano,

 pecca di eccessivo intenzionalismo.

Un dato della prassi odierna che può forse indurre nell’errore di accettare tesi ispirate al formalismo

è dato dalla tipicità dei fenomeni giuridici. Chi oggi pone la regola di diritto è portato,

 probabilmente in maniera eccessiva, a esprimersi per schemi fissi, quasi a volere ricondurre casi

molto simili tra loro all’interno di paradigmi sempre identici, sì che per ciascuno di essi il rapporto

“causa – conseguenza” sia sempre lo stesso. Un eccesso, questo, che nasce dalla necessità di

salvaguardare quella che è l’esigenza fondamentale di qualsiasi ordinamento contemporaneo: la

certezza del diritto. Dati determinati comportamenti, è certo che a essi seguano determinati

accadimenti. Tutto questo è riconducibile all’atavico principio del “tratta i casi uguali in modo

uguale, e i casi diversi in modo diverso”. È l’interprete, però, a valutare quali casi siano “uguali” tra

loro e quali, invece, diversi. Di fronte a casi ritenuti diversi, in riferimento non tanto alla

riconduzione da parte del legislatore a un medesimo tipo ma alla situazione concreta e al contesto incui essa si è sviluppata, l’interprete dovrà applicare regole diverse. Ecco, allora, che la tipicità non

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deve indurre nell’errore di ritenere quella di individuazione dell’eguaglianza o della diversità tra le

situazioni un’operazione svolta in via astratta e aprioristica dal legislatore: così ragionando, si

andrebbe ad avallare l’utopia positivista del rapporto univoco tra disposizione e norma. La tipicità è

un ausilio per il giudice cui, comunque, spetta l’ultima parola circa la scelta della norma applicabile

e dell’interpretazione della medesima.

6. Diversi soggetti, diverse interpretazioni

Sin qui si è genericamente parlato di “interpreti”. A quali soggetti l’ordinamento attribuisce il

compito di interpretare la regola di diritto? Negli ordinamenti contemporanei possiamo

sostanzialmente individuare tre figure: il giudice, il legislatore e lo scienziato del diritto. In

relazione a tali tre figure, quattro tipologie di interpretazioni:

1. l’interpretazione  giudiziaria: il giudice si trova di fronte a un caso necessariamente

 particolare e concreto; egli deve applicare la regola di diritto, inevitabilmente generale e

astratta, alla situazione che si trova ad analizzare. Quella giudiziaria è un’interpretazione

connotata di forte pragmatismo, non rispondendo il giudice a una domanda teorica, bensì

inquadrando la propria decisione alla luce di un fatto realmente accaduto. Giurisdizione

significa questo: riconduzione del fatto alla norma, tenendo in considerazione – ed è sul

 punto che divergono ermeneutica e formalismo – il contesto di riferimento nel quale il fatto

si è verificato e al quale la norma deve essere ricondotta;

2. l’interpretazione dottrinale: lo scienziato del diritto elabora dei casi di scuola. Si tratta di

casi teorici che gli permettono di meglio comprendere la regola di diritto e di inquadrare

definizioni, istituti o letture particolari di istituti già esistenti. Quello del diritto è due volte

scienziato: una prima volta, infatti, crea l’istituto, estrapolandolo dalla lettera della norma

giuridica, una seconda volta è chiamato a classificarlo, attribuendogli un nome e

inquadrando la disciplina nel rispetto del dato testuale. Nella prassi vi sono stati casi nei

quali una branca giuridica è stata elaborata prima dalla dottrina, accogliendo, in un secondo

tempo, la giurisprudenza la scelta degli scienziati del diritto e, in ultimo, traducendosi la

  posizione dei giudici nella regola di diritto fissata dal legislatore. È il caso del diritto

sindacale italiano che si è venuto sviluppando proprio nel nome di questo rapporto tra

dottrina, giudice e legislatore;

3. l’interpretazione ufficiale: accade talora nella prassi che il legislatore fissi, solitamente nei

 primi articoli del testo giuridico, gli obiettivi che intende perseguire ovvero le definizioni

delle parole impiegate nell’attività di normazione. Questa è definibile come interpretazione

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ufficiale: è tale, dunque, l’attività di attribuzione di significati ai testi che viene svolta da

organi istituzionali, espressione della sovranità dello Stato;

4. l’interpretazione autentica: si definisce così l’interpretazione svolta da colui che si fa autore

del testo. Non necessariamente la nozione di interpretazione ufficiale e quella di

interpretazione autentica coincidono: così è, per esempio, quando il legislatore decide, nel

 primo articolo di una legge, di descriverne gli obiettivi e le linee guida che lo hanno portato

a quella attività di normazione. Così non è, però, in un contratto, allorquando le parti

decidono di esplicitare le loro intenzioni nel regolamento contrattuale: in questo caso le parti

sono autori del testo (dunque l’interpretazione è autentica), ma non sono soggetti

istituzionali (dunque l’interpretazione non è ufficiale).

 Nel corso della storia il rapporto tra i tre soggetti tradizionalmente deputati a interpretare è mutato

 più volte. In epoca positivista veniva esaltato il ruolo del legislatore a scapito del giudice che

avrebbe dovuto compiere un’ “interpretazione senza giurisdizione”, limitandosi a estrapolare dalla

lettera della legge l’unico significato in essa intrinseco, senza nulla rielaborare (si chiama esegesi la

convinzione di ridurre l’interpretazione a un procedimento di tipo matematico, attribuendo a

ciascuna parola l’unico significato possibile e dando al testo il suo significato attraverso la

sommatoria delle diverse accezioni delle parole in esso impiegate). La Scuola storica (Germania,

seconda metà dell’Ottocento) esaltava, invece, la figura della dottrina, essendo lo scienziato del

diritto l’unico soggetto in grado di imprimere nella norma giuridica lo spirito del popolo germanico

che avrebbe dovuto essere perennemente esaltato nell’attività di normazione giuridica, favorendo la

creazione di norme sempre uguali a se stesse e sempre applicabili. Nei sistemi di common law,

invece, si tende a esaltare il ruolo della giurisprudenza attraverso la vincolatività del precedente.

Ciò, però, con alcuni correttivi: da un lato, a partire dagli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso,

sono stati elaborati degli espedienti giurisprudenziali per aggirare l’ostacolo del precedente. Il che

significa che il giudice torna a essere libero di interpretare la norma come preferisce, dovendo

rendere conto solo al legislatore nei limiti di quello che è il principio di fedeltà testuale. E questo,

esattamente come accade nei sistemi di civil law. Non solo: nei sistemi di civil law l’esaltazione

della funzione nomofilattica degli organi più elevati della giurisdizione (nel nostro ordinamento, la

Corte di Cassazione, ex art. 65, r.d. 12/1941) ha fatto sì che fossero i giudici a individuare modelli

interpretativi della regola di diritto che potessero indirizzare la giurisprudenza successiva,

divenendo così il precedente, in questi sistemi, non vincolante ex lege ma per imposizione della

  prassi. Si è verificato, così, nella seconda metà del Novecento un notevole avvicinamento tra

sistemi di civil law e sistemi di common law, individuandosi un comune modo di concepire ilrapporto tra giudice e legislatore.

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7. Aspetti ermeneutici comuni nel lavoro dei giuristi

Le premesse gettate sin qui ci permettono di comprendere i ragionamenti della filosofia ermeneutica

circa il rapporto tra giudice e legislatore. In premessa, però, occorre ricordare sempre

l’insegnamento dell’eremenutica novecentesca, e cioè la necessità di inquadrare l’attività di

interpretazione nella sintesi tra elementi oggettivi ed elementi soggettivi, tra il dato testuale,

l’intenzione di chi pose la norma e il contesto. E questo trova etimologicamente conferma nella

 parola “ermeneutica”. Ermeneutica, da Hermes, il messaggero degli dei, che porta messaggi da un

luogo a un altro, da un Dio a un altro, rimanendo nel mezzo. Occorre, quindi, leggere quanto si dirà

in seguito considerando che, secondo le teorie ermeneutiche, l’interprete è colui che sta nel mezzo,

tra testo e autore.

8. Differenza tra giudice e legislatore

Partiamo da una questione che la filosofia del diritto si pone tradizionalmente: può il giudice

definirsi un creatore di norme? La risposta che abbiamo dato qualche paragrafo più sopra – e cioè

quella per cui il giudice è creatore mediato di norme – necessita di alcuni chiarimenti.

Il legislatore pone in essere la regola di diritto dal nulla. Egli è vincolato solo da una necessità di

coerenza rispetto all’ordinamento giuridico e ai suoi principi: Dworkin parla di integrità

dell’ordinamento. Secondo la concezione di questo autore l’ordinamento è un tutto unico che si

fonda su principi di moralità politica stabili che ne permettono la sopravvivenza e lo sviluppo; il

legislatore deve operare in ossequio a tali principi. Dworkin ha elaborato, altresì, la metafora della

catena del diritto: possiamo spiegarla facendo riferimento ai cd. racconti a catena. Più autori, e

ciascuno scrive un capitolo del libro: ognuno, però, è tenuto al rispetto di quanto fu da altri scritto

nel capitolo precedente, creandosi primariamente un vincolo tra gli autori e quello che è lo spirito

nel quale il libro fu concepito e venuto in essere. Questa metafora viene applicata, in prima battuta,

all’opera del legislatore che continua la opera del proprio predecessore nel rispetto dei principi sui

quali essa posava. Concludendo, possiamo affermare che il giudice è creatore originario della

norma, imbrigliata essendo la sua attività da nulla se non dall’obbligo di coerenza rispetto

all’ordinamento giuridico e ai suoi principi, di cui si diceva.

Il giudice dà una lettura della regola posta dal legislatore. Si potrebbe addirittura affermare che il

giudice porta avanti l’opera del legislatore nel senso che applica la norma generale e astratta posata

dal legislatore a un caso concreto, espletando quella funzione di organizzazione sociale cui il

legislatore adempie solo e necessariamente in via teorica. L’ermeneutica legge questo rapporto tragiudice e legislatore in ottica circolare (si parla di circolo ermeneutico): il legislatore fissa la regola

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che, senza un’attività di adattamento al caso, non serve a nulla; il giudice adatta la norma al caso

attraverso la presa di coscienza della stessa, la sua rielaborazione e la decisione finale. Il legislatore

e il giudice, quindi, non possono fare a meno l’uno dell’altro. Uno studioso tedesco, von Jhering,

esponente della giurisprudenza degli interessi (corrente che afferma fondarsi l’attività interpretativa

sull’inquadramento degli interessi sottesi all’opera di normazione giuridica; essa si contrappone alla

 giurisprudenza dei concetti, che pone al centro dell’attività interpretativa l’esistenza di concetti

formali), distingue tra  giurisprudenza inferiore e  giurisprudenza superiore: la prima è attività di

riformulazione della norma, la seconda è attività di rielaborazione della norma. È nel passaggio

dalla giurisprudenza inferiore a quella superiore che si compie l’attività decisoria del giudice, che

 prima ripropone la regola di diritto, poi la rielabora e in ultimo decide.

9. Il legislatore ieri e oggi: l’intenzione del legislatore

Analizziamo la prima delle figure di cui si è genericamente reso conto nel paragrafo precedente. Il

legislatore. Già si è detto come egli compia un’attività eminentemente creativa, nel solo rispetto del

vincolo di coerenza. La prima ermeneutica (secolo XIX) affermava la necessità di inquadrare la

creatività del legislatore alla luce della sua intenzione: solo cercando di individuare quale fosse

l’intenzione di chi pose in essere la regola di diritto si sarebbe potuto afferrare il significato

dell’attività propedeutica all’organizzazione della vita associata, svolta appunto dal legislatore e

sostanziantesi nella normazione giuridica. Il problema nell’esaltazione dell’elemento intenzionale è

riconducibile al fatto che, di fronte a un testo, è possibile interrogarci su almeno tre intenzioni

diverse: ciò che significa che esso si fa portatore a) dell’intenzione di chi lo ha posto in essere; b)

dell’intenzione di chi lo legge, attribuendogli costui un significato particolare in relazione alle

 proprie aspettative; c) di un’intenzione fatta propria dal testo stesso che fissa i propri obiettivi in

relazione al proprio contenuto e alla propria struttura. Possiamo bene comprendere questo

ragionamento facendo un esempio: data la lunghezza del procedimento di formazione della legge

negli ordinamenti contemporanei, non sempre (anzi, quasi mai) il legislatore riesce a cogliere in

tempo i mutamenti della società. Così, è possibile trovarci di fronte a una norma molto risalente ma

non ancora abrogata: dinnanzi a un testo siffatto, parlare di intenzione significa interrogarci circa le

aspettative del legislatore storico che molti anni or sono pose in essere la norma, circa le aspettative

di noi, spettatori della norma a molti anni di distanza dalla sua promulgazione, o, ancora, circa il

senso che il testo esprime, proponendosi di soddisfare una qualche esigenza sociale, probabilmente

ancora avvertita dalla società odierna? È bene focalizzare l’attenzione sull’ultimo dei tre aspetti in

argomento: un efficace rimedio all’obsolescenza della legge è l’individuazione della ratio legis,ossia degli obiettivi cui la legge intende assolvere in termini di soddisfacimento delle esigenze

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sociali della popolazione. Leggendo la norma, ancorché molto vecchia, in termini finalistici (e non

limitandoci al suo tenore letterale), è possibile adattarla a contesti anche molto distanti nel tempo. È

questa un’operazione che non può essere svolta che dal giudice, venendo l’interpretazione giuridica

(in particolare quella degli organi giurisdizionali) ad assumere un significato ulteriore: quello di

adattamento delle norme, spesso vecchie e superate nel loro significato letterale, ai contesti di più

recente evoluzione. Alla luce di ciò l’ermeneutica novecentesca propone il contemperamento del

dato intenzionale con la considerazione del tenore oggettivo della norma e del contesto di

riferimento in cui essa viene applicata.

Un problema ulteriore nella considerazione dell’intenzione del legislatore riguarda il fatto che, nelle

società contemporanee, il potere legislativo è esercitato da organismi collettivi. Occorre rifuggire

dalla concezione per cui l’interpretazione è “affare privato”: non bisogna ricondurre

l’interpretazione alla volontà di un singolo. Non è possibile: i parlamenti contano centinaia di

 persone che operano intorno a un progetto di legge. Bisogna, allora, individuare la norma alla luce

dell’intenzione comune, promanante dagli organi collettivi deputati all’elaborazione della legge. E

l’intenzione è comune non in quanto somma delle intenzioni dei singoli componenti dell’organo,

ma in quanto sintesi delle stesse. Solo guardando così al problema sarà possibile parlare di

“intenzione” del legislatore.

La prassi, poi, devia rispetto alle esigenze di chiarezza che dovrebbero connotare l’operato del

legislatore. Sempre più spesso ci si trova in presenza di leggi scritte male, contraddittorie e lunghe.

A fronte di queste aumenta l’importanza dell’interprete: il giudice in modo particolare (ma anche la

dottrina) deve sapere interpretare la legge e adattarla al caso pratico. Si sviluppano in relazione alle

tante “brutte leggi” del nostro Paese interventi della giurisprudenza che sempre più spesso è

chiamata a individuare, nel nome di una funzione nomofilattica, un solido basamento di significato

da attribuire alle norme del nostro ordinamento. Chiarendo, così, dubbi circa la loro interpretazione

e applicazione.

In chiusura di paragrafo, un cenno all’originalismo di matrice statunitense. Si sviluppano, accanto

alle teorie ermeneutiche, alcune concezioni che mirano all’esaltazione dell’elemento intenzionale

nell’opera del legislatore. Una di queste è l’originalismo. Essa nasce e fiorisce negli Stati Uniti. Si

  propone un vero e proprio ritorno alle origini a fronte di qualsivoglia prodotto del legislatore

americano, avvertendo la necessità di ricondurre ogni manifestazione normativa al dettato della

Costituzione e, per questa via, alla volontà e alle intenzioni dei Padri Costituenti. L’originalismo,

quindi, identifica l’intenzione nei Padri della Costituzione americana dalle cui regole sarebbe poi

derivato l’ordinamento americano. Ordinamento, quello, che deve dimostrarsi riconoscente neiconfronti delle proprie origini, sapendo ricondurre a esso tutta l’opera di legislatori e giudici.

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10. Il giudice e il vincolo legislativo

Al fine di sintetizzare i ragionamenti svolti sin qui, riprendiamo alcuni concetti fondamentali del

rapporto tra giudice e legislatore: entrambi sono creatori di diritto. L’uno, il legislatore, è creatore

originario, l’altro, il giudice, svolge un’attività di creatività derivata. L’uno, però, non può fare

meno dell’altro: l’attività di normazione giuridica, praticata dal legislatore, è finalizzata alla

decisione, mentre l’attività decisoria, praticata dal giudice, è vincolata all’opera del legislatore,

trovando nel testo il suo limite fondamentale. Questa costruzione, importante per inquadrare il

modo con cui le teorie ermeneutiche ricostruiscono il rapporto tra giudice e legislatore, prende il

nome di circolo ermeneutico.

Se il legislatore è vincolato a un principio di coerenza nel nome di quella che Dworkin definisce

l’integrità dell’ordinamento, il giudice è vincolato al testo della legge, essendo chiamato a

interpretarla al fine di dare una risposta a un’istanza che gode dei caratteri della concretezza e della

  particolarità. L’interpretazione giudiziale è tale da rendere concreto il dettato della disposizione

legislativa, per definizione generale e astratta: in questo senso, abbiamo detto, il giudice porta

avanti l’opera del legislatore. Sotto questo profilo particolare rilevanza assume un aspetto

dell’attività giurisdizionale: l’obbligo di motivazione della sentenza. Il legislatore non è tenuto a

motivare le scelte che va a incarnare nel dettato di una legge; il giudice, invece, deve rendere conto

ai destinatari della decisione dell’iter logico che lo ha portato ad assumere una particolare posizione

a fronte di una certa situazione. Torna così, nella motivazione della sentenza, il rapporto tra logica e

metodologia. Il giudice, presa coscienza della regola di diritto e del fatto, rielaborata la regola alla

luce del fatto e del contesto nella quale essa si colloca, assume una decisione. La decisione si fonda

su un percorso mentale necessariamente logico: date certe premesse, si ottengono talune conclusioni

logicamente connesse ai presupposti del ragionamento giuridico. La logica guida il procedimento

volto a ottenere la decisione finale: ciò che definiamo ragionamento giuridico (lo si è già visto poco

 più sopra), ossia l’insieme degli atti finalizzati all’applicazione della regola di diritto nella realtà

concreta. Nel ragionamento giuridico e, quindi, nell’applicazione pratica della regola di diritto

(Kant parlerebbe di ragion pratica in riferimento a questo tipo di discorso), è fondamentale la scelta

metodologica che il giudice compie nel determinare i criteri di interpretazione e applicazione della

regola di diritto al caso pratico. Logica e metodologia si intrecciano nel definire i presupposti, le

fasi e la conclusione del ragionamento giuridico, qualificandosi come strumenti imprescindibili per 

l’attività giudirisdizionale.

La logica giuridica diverge dalla logica del matematico: essa si fonda non su simboli ma su unacostruzione linguistica che è quella della lingua parlata. Bene affermano gli esponenti della Scuola

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genovese laddove asseriscono che il diritto è linguaggio comune. L’operatore del diritto, difatti,

abbisogna di utilizzare i sintagmi linguistici propri della lingua italiana e di collocarli in un rapporto

tale da creare un ragionamento fondato su solidi presupposti e diretto a realizzare valide

conclusioni, legandosi da nessi di consequenzialità i vari passaggi dello stesso, sì che ciascuno sia la

 premessa di quello successivo.

Il giudice deve rendere conto nella motivazione di questi passaggi logici e metodologici: a dirlo è

una disposizione costituzionale, il settimo comma dell’art. 111, Cost. Nella motivazione si

comprende la relazione tra la decisione del giudice e il testo di legge, riconducendo nella stessa il

giudice il fatto alla norma. E qui l’ermeneutica aggiunge un importante riferimento alla costruzione

sillogistica propria del positivismo francese, del formalismo, della Scuola dell’Esegesi: il contesto.

Il giudice riconduce il fatto, particolare e concreto, alla norma, generale e astratta, alla luce del

contesto in cui il fatto si è sviluppato e la norma necessita di essere applicata. Ecco, allora, che

l’operazione sillogistica cessa di essere un’operazione matematica e assume i connotati di un’analisi

sociale, di un “comprendere” più che di uno “spiegare”, essendo riconducibile la sentenza a un

insieme di circostanze sociali, politiche, culturali, economiche. Quelle circostanze sulle quali riposa

il fatto che il giudice è chiamato ad analizzare.

11. La dogmatica come ‹‹filtro›› tra legislatore e giudice

La dogmatica agisce come strumento di mediazione tra legislatore e giudice. Essa rivolge la propria

attenzione al dogma, all’esplicitazione del significato della regola di diritto non alla luce di un caso

 particolare e concreto, bensì in relazione a un insieme di casi possibili, così da valutare la portata

generale della regola così come predisposta dal legislatore. Nella prassi, poi, la regola di diritto

viene posta in essere spesso e volentieri in maniera scorretta, non del tutto comprensibile. Qui la

dottrina gioca maggiormente il proprio ruolo di filtro, definendo quello che è il significato (ritenuto)

 più plausibile della disposizione e fornendo al giudice una chiave interpretativa della regola di

diritto. Una chiave interpretativa che poi l’organo giurisdizionale potrà utilizzare e adattare al

contesto particolare. Si pensi all’esempio riportato poco più sopra del diritto sindacale: fu la dottrina

a creare gli istituti di questa giovane branca giuridica, offrendo alla giurisprudenza uno strumento

 per risolvere casi pratici aventi oggetto certi diritti dei lavoratori.

La principale differenza tra dottrina e giurisprudenza risiede nel fatto che, mentre il giudice si trova

dinnanzi soggetti che gli domandano di risolvere un caso pratico, uno specifico, lo scienziato del

diritto inventa uno o più casi di scuola, teorici, e dà una risposta al fine di dare un sostegno alle

 proprie teorie. Le elaborazioni degli scienziati di diritto erano, fino al 1804 (anno in cui entrò invigore il code Napolèon), fonte di diritto: il panorama degli ordinamenti giuridici era allora

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connotato da forte particolarismo giuridico ed era compito dei giuristi (degli intepretes) definire una

regola per ciascun gruppo sociale e per ciascuna esigenza da essi avvertita. Napoleone volle dare

 precettività alle regole del proprio codice e, quindi, creare un sistema unitario che mettesse in

angolo i giuristi. Nel primo Ottocento la fonte privilegiata è la legge e l’operatore giuridico più

importante è il legislatore. Torneranno gli scienziati del diritto ad avere importanza nella Germania

del secondo Ottocento, allorché si trattava di creare norme nelle quali potesse sostanziarsi lo spirito

del popolo tedesco e, per questa via, potessero essere sempre applicabili quale fosse la situazione

 politica, sociale e culturale, sulla convinzione che lo spirito popolare sarebbe sempre rimasto quello.

Oggi, in Italia, la dottrina non è fonte del diritto, tuttavia assume un connotato di grande rilevanza

nei confronti del legislatore in quanto nell’opera dello scienziato del diritto si assiste a una prima

concretizzazione della regola di diritto, sia pure alla luce di casi inventati, teorici e di scuola.

L’opera dello scienziato del diritto offre al giudice un importante punto di partenza per 

l’applicazione della norma al caso pratico: questo perché i casi di scuola elaborati dalla dottrina

fanno riferimento a situazioni plausibili cui il giudice potrà trovarsi davanti e perché la dottrina

esplicita, sicuramente meglio dell’odierno legislatore, il contenuto della regola di diritto alla luce

del compito di organizzazione sociale che la scienza giuridica vuole e deve portare avanti.

12. Cooperazione e conflitto nel diritto

Una definizione molto banale del diritto è questa: il diritto è uno strumento che serve a comporre le

controversie. Per quanto banale, essa ha in sé un nucleo di verità: il diritto nasce come strumento

connotato di una forza organizzatrice a fronte dell’esigenza di portare ordine laddove esso non vi

sia. Il legislatore, attraverso la previsione di una regola, la dottrina, mediando, e il giudice,

applicando al caso pratico la regola alla luce delle costruzioni della dottrina, portano ordine,

dirimono le controversie, organizzano la società. Una metafora di questo ruolo espletato dagli

operatori del diritto risiede nel martelletto in uso ai giudici di alcuni Paesi del mondo, gli Stati Uniti

in primis. Il martelletto è, di per sé, strumento di violenza. Esso viene battuto sul banco a seguito

della decisione assunta dal giudice o per portare decisione in aula. Esso è strumento di ordine

 perché in esso si incarna l’operato del giudice, volto a portare ordine e organizzazione laddove

questi manchino. Sotto un altro profilo si può scorgere nella metafora del martelletto un’ulteriore

aspetto dell’operato del giudice: il martelletto è strumento di violenza attraverso il quale si dà

ordine. Ebbene, è innegabile che il giudice, adottando una decisione, si sostituisce ai privati e, se del

caso, coarta la loro volontà, piegandola alla soluzione da lui adottata. Una inequivocabile forma di

violenza che, però, è istituzionalizzata e necessaria al fine di favorire la cessazione del conflitto

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sociale e di evitare violenze ulteriori, ben più gravi, tra privati, sintomo di disordine sociale e del

fallimento dell’opera organizzatrice del diritto.

Filosofia del diritto avanzata.

“Diritto e interpretazione” – Capitolo 2

Schema dei concetti fondamentali

1. Interpretare è attività di analisi e di critica di una parola, di un comportamento, di un segno.È fusione di orizzonti (Gadamer), ossia del punto di vista di chi produce l’oggettodell’interpretazione e di colui cui esso è destinato. Interpretare non significa, però, sostituirea un segno un altro segno (Wittgenstein).

2. L’interpretazione può intendersi come attività o come prodotto. In diritto il prodottodell’interpretazione è la norma; quello che sussiste a monte dell’attività interpretativa è la

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disposizione (Tarello). L’attività interpretativa può essere riassunta come “spiegare”, nellescienze naturali, o come “comprendere”, nelle scienze sociali. L’interpretazione giuridicafonde in sé spiegare e comprendere, ed è finalizzata sempre al “decidere”. Si rivela, così, unfenomeno molto più complesso di quel rapporto di comando tra sovrano e suddito su cui lateoria imperativista (Austin) fonda la propria concezione del diritto.

3.  Non esistono “casi facili”: l’individuazione di un caso come facile implica già di per sé ilfatto di averlo interpretato. Sotto questo profilo il brocardo in claris non fit interpretatio nonha significato. Naturalmente non esiste una sola possibile interpretazione: affermare ciòsignificherebbe ricadere negli eccessi del formalismo. Ci sono più interpretazioni. Quale è la

  buona interpretazione? Quella rispettosa del dato testuale, che assurge a limite dellacreatività dell’interprete (che non è illimitata, come potrebbe evincersi dalla lettura di alcunetesi di Kelsen). Quanti affermano essere sprovvista di limiti la creatività dell’interpreteesaltano eccessivamente il punto di vista di chi interpreta (soggettivismo: così è per ildecostrutturalismo di Fish) o di chi ha posto in essere il testo (intenzionalismo). Muller: iltesto è dato di ingresso del processo interpretativo. Affermare ciò non deve significare

svilire il contenuto del testo in relazione alla cui oggettività l’interprete deve operare la propria analisi.

4. Chi crea diritto? Il legislatore è creatore originario perché pone in essere dal nulla la regoladi diritto; il giudice è creatore derivato perché svolge una attività senz’altro creativa,dovendo però rispettare un vincolo di fedeltà con il testo. A tal proposito si parla anche di“obbedienza pensante” del giudice rispetto al testo (Haeck).

5. In relazione al fenomeno interpretativo si distinguono: a) teorie formaliste (fondate sulrapporto di univocità tra testo e significato. Una sola interpretazione possibile per ognitesto); b) teorie scettiche (fondate sull’assunto per cui “non esistono testi, ma solointerpretazioni – Nietzche); c) teorie mediane, tra cui le teorie ermeneutiche che voglionocreare un momento di sintesi tra le diverse componenti dell’interpretazione. Componentioggettive (il testo e il contesto) e soggettive (l’intenzione di chi pose in essere il testo e leaspettative di chi lo interpreta).

6. Una pluralità di soggetti sono dall’ordinamento deputati a svolgere attività interpretativadella regola di diritto: il legislatore, il giudice e lo scienziato del diritto. In relazione a talisoggetti distinguiamo: a) l’interpretazione del giudice; b) l’interpretazione dottrinale; c)l’interpretazione ufficiale (degli organi istituzionali dello Stato); d) l’interpretazioneautentica (di chi scrisse il testo).

7. Occorre concepire l’ermeneutica come momento di sintesi. L’ermeneutico rimane nel mezzotra soggetto e oggetto (etimologicamente, “ermeneutica” si ricollega a Hermes, messaggerodegli dei).

8. Giudice e legislatore si collocano tra loro in rapporto circolare: è il cd. circolo ermeneutico.Il legislatore pone in essere il testo che rimarrebbe privo di applicazione senza decisione e ilgiudice decide in relazione e in ossequio al testo di legge. Il legislatore è vincolato a un

 principio di coerenza rispetto alla tradizione giuridica cui si ispira l’ordinamento (Dworkin parla di principio di integrità dell’ordinamento). Il giudice è vincolato al testo posto inessere dal legislatore (è la creatività derivata). Nella prassi si assiste alla definizione di unsiffatto rapporto tra giudice e legislatore in quasi tutti i sistemi del mondo. Sia in quelli di

common law, laddove il dettato di legge assume sempre più importanza come parametro diriferimento dell’attività giurisdizionale, posto che i giudici elaborano sempre più spesso

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espedienti per il superamento del precedente. Sia in quelli di civil law, laddove il precedenteassume sempre maggiore importanza alla luce della funzione nomofilattica espletata daimassimi tribunali dello Stato (in Italia, la Cassazione).

9. L’ermeneutica dell’800 esaltava (eccessivamente) l’intenzione del legislatore. Parlando di

“intenzione” occorre ricordare che: a) esercitano potere legislativo negli ordinamenticontemporanei organi collettivi, sì che è impossibile ridurre l’operazione di elaborazionedella legge a un fatto privato. Occorre comprendere l’intenzione in un’ottica collettiva,inquadrandola come sintesi delle intenzioni dei singoli; b) occorre ricordare come illegislatore sia lento ad adattare la propria opera legislativa ai mutamenti del contesto. Aespletare questo compito sarà il giudice attraverso la propria attività decisoria.

10.Il giudice è vincolato al testo e deve dimostrare tale vincolo nella motivazione alla propriadecisione. Lì si dà contezza dell’iter  logico e metodologico seguito dal giudicenell’elaborazione della propria decisione. L’ermeneutica legge il sillogismo giudiziale, ditradizione positivista, non come operazione matematica di ricerca di una corrispondenza tra

il fatto e la norma, ma come operazione di analisi sociale che involge nel contatto tra fatto enorma anche il contesto. Da questo punto di vista von Jhering afferma che l’attività delgiudice è riproposizione della norma (giurisprudenza inferiore) e sua rielaborazione(giurisprudenza superiore). Il tutto finalizzato alla decisione finale.

11. La dottrina media tra legislatore e giudice. Lo scienziato del diritto non produceformalmente diritto (così, nel nostro ordinamento ma non in tutti) ma offre al giudice unalettura del significato della norma senz’altro più agevole di quello che è il dettato dellalegge, spesso molto generico e, nella prassi odierna, confuso.

12. Il diritto dirime le controversie. Il giudice, attraverso la propria pronuncia, pur coartando lavolontà delle parti, offre loro una soluzione al conflitto nel quale sono coinvolti, riportando

  pace e cooperazione laddove esse non erano. Significativa la metafora del martelletto,strumento utilizzato dai giudici americani per ufficializzare la propria decisione (e, quindi, ilfatto di avere portato ordine tra le parti).

Capitolo 3 “Come interpretare? La buona e la cattiva interpretazione”

1. Due modelli teorici dell’interpretazione giuridica

Gli ideali diffusi dalla Rivoluzione francese inquadravano il popolo come soggetto centrale dellafisionomia del nuovo Stato francese e di quanti Stati volessero improntarsi alle idee, illuministe, di

eguaglianza e di libertà. I Parlamenti, in quest’ottica, assumevano un’importanza fondamentale,

essendo essi organi atti a raccogliere i rappresentanti di quel popolo cui avrebbe voluto darsi voce.

Ecco, quindi, che a seguito della Rivoluzione francese il potere legislativo prende sempre più piede,

acquisendo, nell’esperienza giuridica dell’epoca, un ruolo centrale. A scapito, tutto ciò, del potere

giudiziario, che assumeva una funzione ancillare di organo adibito a estrapolare il significato

intrinseco nelle parole del legislatore – significato, quello, coincidente con la volontà del legislatore

e, quindi, del popolo – al fine di risolvere i casi concreti. Si sviluppa, sulla base di questo indirizzo,

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la concezione di un’attività interpretativa volta a intuire dalla parola della legge l’unico significato

 possibile in essa espresso. Si crea, così, un rapporto univoco tra testo giuridico e interpretazione del

medesimo. Questi sono i caratteri essenziali del formalismo giuridico. Alla base di tutto questo vi è

la concezione, tipicamente giuspositivista, secondo la quale il diritto sarebbe assimilabile a un

fenomeno naturale. Di diretta conseguenza, l’approccio che lo scienziato del diritto compirebbe

dinnanzi a un qualunque fenomeno giuridico sarebbe il medesimo compiuto dallo scienziato

naturale a fronte di un fenomeno scientifico. Questo implica l’assunto che il diritto è scienza

avalutativa: chi fa diritto non valuta un fenomeno (per utilizzare una distinzione a noi già nota: non

lo comprende), ma lo descrive (lo spiega). Tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso si

assisterà a un ritorno di questa concezione del fenomeno giuridico da parte della cd. dottrina pura

del diritto. Ritorno a cui fermamente si oppone Bobbio, affermando che l’operatore del diritto,

chiunque egli sia, opera una valutazione dei contesti nel quale si sviluppa il fenomeno giuridico,

assumendo la parola del legislatore un significato radicalmente diverso a seconda del momento

storico, delle idee politiche, delle concezioni culturali in relazione alle quali essa si sviluppa e/o

viene appresa dal suo uditorio. Si possono, così, tra Ottocento e Novecento, distinguere due opposte

concezioni della scienza giuridica: da un lato, chi la concepisce come scienza avalutativa, dall’altra,

chi la intende come scienza di sola valutazione. In mezzo, la posizione mediana di chi, come Hart,

afferma avere ciascuna norma una struttura aperta, essendo riconoscibile nel suo significato una

componente che non abbisogna di valutazione perché chiara e una componente, oscura, che richiede

un operato creativo da parte dell’interprete. In ogni norma sarebbe, quindi, riconoscibile una zona

d’ombra che ne renderebbe non facile la comprensione. Quel che è contestabile nella tesi di Hart è

che l’individuazione del confine di tale zona d’ombra è individuabile solo dall’interprete che,

quindi, è chiamato a decidere ove si trovi la zona di luce e dove quella d’ombra. È lo stesso

 problema che già incontrammo nell’affrontare il brocardo “in claris non fit interpretatio”: non è

 possibile stabilire che un caso sia facile se non a seguito di un’opera interpretativa.

  Nell’alveo delle teorie positiviste, nell’Ottocento, si svilupparono le teorie della Scuola della

Pandettistica: se il positivismo francese vedeva l’interpretazione come esegesi, cioè come

estrapolazione dalla norma del solo suo significato possibile, la Pandettistica aspirava a creare un

sistema giuridico fondato sull’esaltazione dello spirito del popolo tedesco, cosicché, rimanendo

detto spirito sempre uguale a se stesso (e questo perché l’identità di un popolo non muta nel corso

del tempo), sarebbe stato possibile, attraverso un sistema di continue astrazioni dal caso concreto ai

 principi generali dell’ordinamento, creare norme sempre applicabili nel tempo. È la giurisprudenza

dei concetti a ritenere individuabili dall’esperienza concreta, quotidiana, attraverso il compimentodi processi di astrazione, i principi (meglio: i concetti) su cui plasmare la definizione dello spirito

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 popolare che avrebbe dovuto animare qualsivoglia attività del legislatore. Detti concetti assumono,

dunque, un ruolo centrale nell’opera dell’interprete. E qui risiede il dissidio rispetto alla

 giurisprudenza degli interessi che qualifica l’attività interpretativa come rielaborazione della norma

alla luce degli interessi che essa è chiamata ad assolvere nella realtà concreta: si ricordi la

distinzione che Jhering compie tra giurisprudenza inferiore e giurisprudenza superiore.

L’ermeneutica critica fermamente le concezioni positiviste che eccedono nella considerazione del

testo (o, meglio, del sistema giuridico di riferimento, sia esso, come nel caso del formalismo

francese, costituito dalla parola del legislatore, ovvero, come nel caso del fenomeno tedesco,

costituito dai concetti nei quali si sostanzia la nozione di spirito popolare) quale momento di unico

interesse nell’attività interpretativa. In seguito a un primo periodo (secolo XIX) nel quale

l’ermeneutica considerava centrale l’intenzione di chi ponesse in essere la norma giuridica,

successivamente le teorie ermeneutiche sono convinte della possibilità di mediare tra tre elementi: il

testo, nella sua oggettività, l’intenzione di chi pose in essere il testo e il contesto giuridico di

riferimento. È possibile dare lettura in questi termini, ad esempio, dell’art. 12 delle preleggi: esso

indica i criteri per l’interpretazione della legge. Sarebbe un errore soffermarsi all’esaltazione del

criterio letterale (per il quale interpretare la legge significherebbe attribuirle il significato derivante

dall’attribuzione a ciascuna parola del suo significato da vocabolario), visto che, innanzitutto, non

vi è parola in nessuna lingua ad avere uno e un solo significato, e poi che una stessa parola assume

un’accezione differente in base alle circostanze in cui viene impiegata. Ecco perché, dopo il criterio

letterale, il legislatore del ’42 ne ha richiamati altri: il riferimento all’intenzione del legislatore e al

sistema di riferimento nel quale la norma è venuta in essere.

2. Gli elementi fondamentali del metodo ermeneutico

Le teorie ermeneutiche concepiscono l’interpretazione come un’attività di cui il testo sia il

necessario punto di partenza: questo, senza svilirne il significato come sarebbe tentato chi

accogliesse alla lettera l’insegnamento di Mǘller per cui testo è dato di ingresso, senza ulteriori

specificazioni. Il testo è, per le teorie ermeneutiche, vincolo e limite per l’interprete.

Essendo l’interprete un “animale razionale” (Aristotele), esso si pone a fronte del testo con una

serie di aspettative. Dette aspettative, in forza delle quali l’interprete affronta l’oggetto del proprio

interesse con un vero e proprio pregiudizio, derivano all’interprete da una serie di posizioni

soggettive e di rapporti intersoggettivi che lo qualificano come persona. Altrimenti detto,

l’interprete, in quanto persona, si colloca in un contesto e con quel contesto deve misurarsi,

essendone parte integrante. Detto contesto gli impone una determinata mentalità e la condivisione dideterminati valori che, in riferimento all’oggetto della propria attività, generano in capo a lui delle

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aspettative. Stiamo parlando del primo elemento fondamentale del metodo ermeneutico: la  pre-

comprensione, ovvero il necessario punto di partenza di qualunque attività interpretativa, l’insieme

delle aspettative che l’interprete acquisisce al momento del contatto con l’oggetto della propria

interpretazione.

Le aspettative che l’interprete acquisisce al momento del contatto con il testo necessitano di essere

verificate. Quella che propongono le teorie ermeneutiche è una logica dialettica, della domanda e

della risposta, sicché l’interprete pone al testo delle domande alle quali il testo risponderà, dando

conferma o smentendo le aspettative e il pregiudizio dell’interprete. A seguito del colloquio con il

testo, l’interprete formula una propria linea di pensiero. Occorre, a questo punto, tenere a mente che

non tutte le interpretazioni sono valide: occorre evitare che il testo divenga un pretesto, e, quindi,

 bisogna sottolineare l’esistenza del vincolo di fedeltà tra interprete e testo. Detto vincolo può essere

salvaguardato solo concependo l’idea di un controllo dell’attività interpretativa. Chi interpreta deve

assoggettare se stesso e la ricostruzione del significato data da lui al testo ad alcune forme di

controllo. Sia pure individuando modelli in parte diversi, due filosofi ermeneuti, Esser e Mc.

Cormick, addivengono al medesimo risultato, qualificando il vincolo di fedeltà al testo come il

criterio rispettando il quale l’interprete può realizzare una buona interpretazione.

Secondo Esser l’interpretazione deve potersi assoggettare a tre tipi di controllo:

1. controllo di congruenza: si tratta del controllo di coerenza dell’interpretazione data

dall’interprete rispetto al sistema giuridico nel quale il testo interpretato va a inserirsi;

2. controllo di  giustezza: si tratta di un controllo di ragionevolezza dell’interpretazione data

dall’interprete. “Ragionevolezza” significa, in tale contesto, “equità”. Il riferimento è ad

Aristotele. Ragionevolezza, quindi, come corretto contemperamento degli interessi in gioco,

così da evitarsi l’indebita prevalenza dell’uno sull’altro;

3. controllo di evidenza: si tratta del vaglio che l’uditorio compie nei confronti dell’prodotto

dell’interpretazione. L’interpretazione non è un fatto privato: essa è esplicazione di

significato di un testo che viene destinata a un indeterminato numero di persone. Così, è

chiaro che questi soggetti, destinatari, devono essere convinti dalle posizioni assunte

dall’interprete. E l’interpretazione, dunque, deve essere convincente.

Secondo Mc. Cormick l’interprete deve essere sottoposto a un duplice controllo:

1. controllo di coerenza narrativa, sì che l’interpretazione data alle varie parti del testo deve

essere coerente, tale da creare un tutto unico di senso compiuto; è questo un controllo

interno rispetto al testo;

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2. controllo di coerenza normativa, sì che l’interpretazione di un testo deve essere coerente con

l’ordinamento e con il contesto giuridico nel quale il testo si colloca; è questo un controllo

esterno rispetto al testo.

Come può vedersi, tanto Esser quanto Mc Cormick fondano le proprie costruzioni sull’ideale della

coerenza: prima di tutto, l’interprete è chiamato a svolgere un’operazione coerente. Non è possibile,

cioè, addivenire a un risultato interpretativo che smentisca il ruolo che quel testo assolve nella

globalità dell’ordinamento di riferimento.

3. Che cos’è il metodo giuridico

Si definisce metodo l’insieme dei criteri, sui quali deve vertere un vasto consenso da parte della

comunità giuridica, che permettono di attribuire un significato a un testo. Un giurista italiano, Betti,

ha inquadrato il problema dell’individuazione del metodo alla luce di alcuni parametri fondamentali

che dovrebbero tenersi in considerazione nelle operazioni di interpretazione. Così, chi interpreta

dovrà individuare i criteri più adeguati all’attribuzione di significato di un testo tenendo in conto:

1. l’autonomia di significato del testo (autonomia ermeneutica dell'oggetto): ogni testo ha un

 proprio significato e assolve a un proprio scopo. Essi non debbono venire meno per effetto

dell’interpretazione che, invece, deve essere capace di esaltarli. Nel nome, sempre, di quel

vincolo di coerenza e fedeltà testuale cui dicevasi poc’anzi;

2. la totalità di significato nel testo (totalità di senso): l’interprete deve attribuire alle varie

 parti del testo significato in modo tale da creare un tutto unico, coeso e omogeneo. Questo

requisito può ricondursi alla nozione di “coerenza narrativa” di cui parla Mc Cormick;

3. l’attualità del testo (attualità dell'intendere): ogni testo viene redatto con uno scopo; questo

lo si è già detto. Lo scopo che ciascun testo è chiamato ad assolvere si pone in relazione a un

contesto e alla necessità di realizzare determinati interessi. Nei casi in cui l’interpretazione

venga compiuta a tanto tempo dalla redazione del testo, occorre comprendere se e in che

modo gli interessi che spinsero il legislatore a operare siano attualizzabili;

4. la corrispondenza del testo rispetto al sistema di riferimento (corrispondenza di significato):

questo requisito può ricondursi alla nozione di “coerenza normativa” di cui parla Mc

Cormick.

In sintesi estrema, il problema dell’individuazione del metodo deve leggersi alla luce dei soliti tre

elementi: l’intenzione di chi pose in essere il testo (e, quindi, con riferimento al significato

individuabile dalla lettura del testo e agli interessi che risultano assolti da quel testo), l’oggettività

del testo stesso (ciò che risulta dalla lettura del medesimo, anche in relazione all’idea di testo come

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sistema chiuso in se stesso che costituisce un tutto unico di riferimento) e il contesto (giuridico,

sociale, culturale, politico, economico) di riferimento.

4. Dottrine del metodo e verità pratica dell’applicazione giuridica

Due sono i punti di vista da cui può affrontarsi la questione dell’individuazione del metodo; in altre

 parole, il metodo può individuarsi con riferimento al metodo stesso o ai risultati che l’interprete

intende realizzare. Si distinguono, così, due dottrine:

1. metodologia del risultato- da un lato, alcune dottrine intendono individuare il metodo sulla

 base del risultato: fissato, cioè, il risultato da realizzare, l’individuazione del metodo è

conseguente, l’interprete sceglierà quello tra i metodi esistenti maggiormente idoneo alla

realizzazione di quel risultato;

2. metodologia del metodo - dall’altro, alcune dottrine fanno dipendere il risultato conseguibile

dal metodo prescelto. Nel procedimento metodologico, quindi, primaria è l’individuazione

dei criteri da applicare nel compimento dell’attività interpretativa, e il risultato finale diventa

secondario, dipendendo esso dalla scelta metodologica effettuata.

La scelta del metodo deve essere sempre dettata da ragionevolezza. Il parametro dell’equità

aristotelica vale universalmente per tutti i soggetti che fanno la propria comparsa nell’attività di

interpretazione. La ragionevolezza è parametro fondamentale di un legislatore che è primo soggetto

a essere chiamato a dirimere il conflitto sociale in una logica di generalità e astrattezza quale è

quella della normazione. La ragionevolezza, poi, è criterio proprio del giudice: se è vero che questi

è chiamato a completare l’opera del legislatore attribuendo alle scelte di interesse di quello

concretezza, a fronte di un caso particolare, il giudice non può non giudicare senza essere

ragionevole. Ed è nella motivazione che, come già si vide, acquisisce importanza fondamentale

nello svolgimento dell’attività decisoria, che compare traccia di tale ragionevolezza. È il traguardo

decisorio dell’attività giurisdizionale improntato al raggiungimento della verità: ebbene, come

testimonia la tradizione accusatoria, è pressoché impossibile raggiungere, in sede processuale, la

verità reale, quella con la V maiuscola. Ci si “accontenta” di una verità ragionevole, alla quale si

addivenga attraverso un percorso privo di buchi logici di contemperamento dei diversi interessi in

gioco, tenendo in conto il contesto di riferimento in cui la regola di diritto, magari posta in essere

molto tempo prima del giorno in cui il giudice è chiamato a esprimere la propria potestà decisoria,

deve applicarsi. Ecco la nozione ermeneutica del sillogismo giudiziario: le teorie ermeneutiche non

rifiutano il sillogismo, che nella sua più assoluta accezione è strumento di logica positivista.

L’ermeneutica, però, non riduce l’operazione sillogistica a un mero algoritmo matematico diindividuazione della norma giusta in rapporto al caso pratico, ma involge nel ragionamento che

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 porta il giudice ad applicare la norma tutte le circostanze contestuali alla vicenda pratica di cui si

rende conto in giudizio.

5. Dibattito sui metodi e nuove concezioni del ragionamento giuridico

Il nostro sistema giuridico è connotato dall’eclettismo metodologico. Si pone, in altri termini,

l’interrogativo della scelta del metodo. Sussiste una pluralità di metodi: ed è logico che sia così,

essendo l’interprete un essere umano, e come tale dotato di ragione; egli può porsi in diverse

maniere a contatto con il testo giuridico, a seconda del tipo di attività che si prefigge di svolgere. Un

esempio nel dibattito sul metodo si ha, nell’ultima parte del Novecento, nella dialettica tra  Nuova

retorica e Scuola deontica. Il riferimento a questo dibattito ci permette di comprendere il confronto

tra metodologie dei metodi e metodologie dei risultati. Difatti, la Nuova retorica si pone nell’ottica

di considerare il testo giuridico e, per diretta conseguenza, l’attività di interpretazione come

finalizzate al convincimento di un uditorio. Il fine di chi pone in essere il testo e di chi va a

interpretarlo è, dunque, la persuasione di qualcuno. La scelta del metodo, individuato un siffatto

risultato, viene di conseguenza: l’interprete sarà chiamato a scegliere quello tra i metodi che meglio

gli permettono di realizzare il risultato del convincimento dell’uditorio. Ecco, allora, un esempio di

metodologia del risultato: individuato il risultato, la scelta di metodo viene di conseguenza. La

Scuola deontica ragiona nel senso opposto. A monte delle concezioni deontiche vi è un approccio di

tipo analitico al testo giuridico: di esso si osserva la struttura e i legami sintattici, morfologici e

logici tra le varie parti del testo (le teorie analitiche parlano, in riferimento alle varie parti di un

testo, di unità proposizionali). Dall’analisi della struttura e dei legami intertestuali è possibile

attribuire al testo un significato. Ecco, allora, che la Scuola deontica parte dalla scelta del metodo

 per addivenire a un risultato. Quest’ultimo si rivela secondario rispetto ai criteri predisposti per dare

significato a un testo.

Al di là di queste specifiche posizioni metodologiche, è l’interprete che, a fronte di una vastissima

gamma di criteri possibili, opta per l’uno o per l’altro. Inizialmente essi si collocano sullo stesso

 piano; per addivenire all’interpretazione, l’interprete dovrà creare una gerarchia tra i metodi e farne

uso, l’uno dopo l’altro, riempiendo di contenuto il testo. La legge, dal canto suo, tace se non per una

norma, l’art. 12, disp.prel., che introduce un duplice criterio, invitando l’interprete della legge a

tenere conto del testo della legge e dell’intenzione del legislatore. Due sono i criteri incarnati da

questa norma: da un lato, il criterio letterale, consistente nell’attribuzione a ciascuna parola della

disposizione del suo significato da vocabolario, dall’altro, l’argomento  psicologico o

“dell’intenzione”, riferendosi al quale ritornano tutte le questioni inerenti all’intenzione dellegislatore alla luce della desuetudine frequente dei testi di legge e dei caratteri propri degli organi

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legislativi – organi collettivi – nelle società odierne. Da parte di certi studiosi del diritto vi sarebbe

chi vorrebbe l’abrogazione dell’art. 12, disp.prel. Ciò che, però, appare improbabile, assolvendo

esso – come sottolinea Modugno – una funzione di limitazione della creatività dell’interprete. L’art.

12, disp.prel. insegna a “stare bassi”. Esso è da leggersi nell’ottica di sottolineare l’esistenza di un

legame tra testo e interprete, sicché il primo rappresenta per il secondo il limite fondamentale

nell’attività interpretativa. Quello che abbiamo già detto: una buona interpretazione è quella che

rispetta il vincolo di fedeltà rispetto al testo.

Gettate tali premesse, quali sono i metodi di cui sin qui si è parlato e cui l’interprete può fare

riferimento? Accanto agli argomenti letterali e psicologici, per ricordarne solo alcuni altri, vi è

l’argomento a contrario (ubi lex voluit, dixit; ubi, noluit, tacuit : se la legge ha voluto dire qualcosa

lo ha detto, altrimenti avrebbe taciuto; così, se a un determinato comportamento sono ascrivibili

determinate conseguenze, è chiaro che queste non potranno essere ricondotte a comportamenti

opposti o, comunque, diversi da quello in questione), l’argomento ad similem o a simili (in forza del

quale è possibile estendere i confini di una data disposizione, facendo rientrare nella regola di diritto

casi simili rispetto a quelli enunciati nella disposizione stessa. Qui si pone il problema di stabilire il

confine tra un’interpretazione estensiva come quella che si ottiene dal ricorso all’argomento ad 

 similem, e l’analogia legis: quest’ultima è attività di produzione del diritto e non già di attribuzione

di significato a una già esistente regola. Modugno afferma che la differenza tra interpretazione

estensiva e analogia legis risiede nel grado di estensione dei confini della disposizione: sarebbe,

quindi, una questione di gradazione), l’argomento ab absurdo (in forza del quale non è possibile

trarre conclusioni assurde dalla lettera di una disposizione. Assurde, cioè, contrarie a logica ed

esperienza), l’argomento a fortiori (cioè dell’ “a maggior ragione”), l’argomento economico

(secondo cui il legislatore non può avere ipotizzato, per due diverse disposizioni, il medesimo

significato normativo), l’argomento naturalistico (cui ricorse spesso l’analisi economica del diritto;

si fa riferimento alla natura delle cose e da lì si parte per analizzare la realtà), l’argomento “a partire

dai principi generali” (in una logica induttiva si spiegano casi particolari ricorrendo ai principi di

diritto: il rischio è quello di produrre una nuova regola di diritto, estendendo il portato dei principi

generali oltre i confini della disposizione data dal legislatore. Anche qui, probabilmente, lo sfociare

dall’interpretazione estensiva all’analogia iuris, è questione di gradazione), l’argomento di

coerenza (ogni interpretazione deve rispettare l’ordinamento e la sua fisionomia), l’argomento di

autorevolezza (data l’interpretazione di qualcuno in passato di molto autorevole, continuiamo a

rispettarla), l’argomento di continuità (dati due enunciati interpretati secondo un certo criterio, non

si vede perché interpretarne un terzo in maniera dissonante rispetto ai due precedenti) o l’argomentosistematico (che parte dall’assunto per cui il testo è parte di un tutto, di un sistema. Detto sistema

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coincide con il luogo normativo in cui il testo si colloca (criterio della  sedes materiae), cosicché

tutte le norme che si trovano in un determinato punto dell’ordinamento si trovano in sintonia tra

loro; secondo altre tesi la nozione di sistema sarebbe riconducibile all’intero bagaglio giuridico di

un ordinamento: quello che si chiama enciclopedia. Indipendentemente dalla collocazione di una

norma in qualche parte dell’ordinamento, si attribuisce significato a un testo in relazione

all’esperienza giuridica dell’ordinamento; in ultimo, altre tesi ancora affermano essere il sistema

riconducibile a una nozione di coerenza terminologica: un dato termine ha sempre lo stesso

significato in qualunque contesto esso venga utilizzato).

6. Il metodo dell’interpretazione costituzionale

 Nei sistemi giuridici a Costituzione rigida, la Costituzione si pone al vertice della gerarchia delle

fonti. Essa costituisce un parametro di riferimento per l’opera del legislatore, essendo descrivibile

come quell’atto che fa menzione dei principi sui quali l’ordinamento riposa. In quanto testo

giuridico, anche la Costituzione deve essere interpretata. Si pone in relazione a essa la questione

dell’interpretazione dei principi di cui si fa portatrice, anche alla luce dei casi pratici che la vita

quotidiana sottopone alla nostra attenzione. Frequentissime, infatti, sono le situazioni di conflitto tra

i principi espressi nelle differenti norme costituzionali. La tecnica, di derivazione statunitense, che

viene adottata allorché si ponga all’attenzione dell’interprete un contrasto tra principi e /o regole

espresse in Costituzione è quella del bilanciamento: si valuta, cioè, alla luce della situazione pratica

quale sia la soluzione più idonea da adottare, sacrificando, se del caso, una delle due norme di

costituzionali, ponendola in secondo piano. Un esempio si ha nel caso del processo penale, quando

si pongono esigenze cautelari che impongono la limitazione della libertà personale a un soggetto

che ancora non abbia subito una sentenza di condanna divenuta, poi, definitiva.

7. Metodo e scelta del metodo: i quattro tipi di interpretazione

Savigny cercò di definire una tassonomia delle possibili interpretazioni di un testo giuridico. Si

tratta, come è ovvio, di una semplificazione che, in quanto tale, soffre di un eccessivo sforzo di

sintesi e di un carente grado di adeguamento alla realtà; a quella realtà, cioè, nella quale l’interprete

deve fare i conti, in quanto soggetto razionale, delle molteplici sfaccettature del fenomeno testuale

e, quindi, viene a essere costretto a utilizzare più di uno tra i canoni interpretativi proposti da

Savigny e di cui qui a breve si renderà conto.

Savigny individuò:

a. interpretazione grammaticale, fondata sull’analisi del testo e dei sintagmi che locompongono, giungendo – e questo lo si disse già in tema di interpretazione letterale (art.

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12, disp.prel.) – ad attribuire a ciascun termine utilizzato nel testo il significato che il

vocabolario gli attribuisce. Il problema di questa forma interpretativa riguarda

l’indeterminatezza della lingua italiana: una stessa parola assume una pluralità di significati

alla luce del contesto in cui è inserita. Occorre, dunque, mediare l’attenzione rivolta al dato

linguistico e letterale con altri parametri di riferimento;

b. interpretazione logica, fondata sull’analisi dei legami logici e dei connettori che

legano le diverse parti di uno stesso testo. È il riferimento alla logica lo strumento per mezzo

del quale mediare la letteralità dell’interpretazione grammaticale. Ricordiamo il legame tra

logica e metodo nell’attività interpretativa: il legislatore applica determinati criteri per dare

significato a un testo e detti criteri fanno riferimento a una logica che permette, dati tali

 presupposti, di estrapolare determinate conseguenze, e di escludere aprioristicamente gli

assurdi. Il problema dell’interpretazione logica risiede nel fatto che si fa riferimento a

un’analisi interna al testo; altrimenti detto, chi interpreta logicamente il testo rischia di

esaltare troppo l’analisi della struttura e dei legami che ne uniscono le varie parti, perdendo,

così, di vista il significato complessivo che detto testo assume alla luce del contesto di

riferimento. Un tipo particolare di interpretazione logica è l’interpretazione teleologica,

ossia lo studio del testo alla luce della finalità che esso intende perseguire;

c. interpretazione storica, fondata sull’analisi delle condizioni storiche che spinsero il

legislatore a disporre in un dato modo e sullo studio del contesto nel quale egli produsse la

disposizione. L’interpretazione storica, utile per comprendere l’eventuale corrispondenza di

significati e di finalità tra il momento in cui la disposizione fu posta in essere e quello in cui

la disposizione viene interpretata, rischia di tradursi in un mero esercizio di storicismo.

Occorre considerare, quindi, la prospettiva storica in un’ottica di attualizzazione del testo

(ricordiamo sempre quanto Betti afferma: una delle chiavi metodologiche di interpretazione

testuale è proprio la considerazione della dimensione del testo come fenomeno attuale): il

testo è attuale e in base a esigenze che si producono nella dimensione del presente, esso

deve essere applicato. L’interpretazione storica, quindi, non può essere finalizzata a se

stessa, ma deve sapersi porre in contatto con quel che accade nel momento in cui l’interprete

interpreta la disposizione;

d. interpretazione sistematica, fondata sulla nozione bettiana di totalità di senso. Il testo

che forma oggetto dell’interpretazione giuridica è parte di un tutto cui va necessariamente

ricondotto. Bisogna, quindi, estrapolare collegamenti esterni al testo (e non, quindi,

soffermarsi solo sul tentativo di individuare la logica a esso interna) e ricondurre il testo alcontesto giuridico di riferimento: si potrebbe dire, all’enciclopedia giuridica di riferimento.

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Il problema è concepire correttamente la nozione di “sistema”. Che cosa esso sia varia a

seconda delle teorie di riferimento, come già si ebbe modo di vedere.

8. Pre-comprensione e argomentazione

Il ragionamento giuridico parte da determinati presupposti: in sostanza, esso prende le mosse dalle

aspettative che colui che interpreta è in grado di formulare dinnanzi al testo di riferimento. È questo

ciò che l’ermeneutica definisce “precomprensione”. Le aspettative di cui si tratta, poi, avranno da

essere confermate attraverso lo svolgimento del ragionamento giuridico, che porterà, poi, a una

decisione. Di qui, si distingue tra il ragionamento della dottrina – finalizzato a una decisione di

carattere necessariamente teorico – dal ragionamento della giurisprudenza – finalizzato a una

decisione di carattere pratico –. Dando luogo tali modalità di ragionamento a risultati diversi,

altrettanto diversa sarà la giustificazione che l’interprete attribuirà alla ricostruzione del testo

giuridico. Occorre, quindi, concentrarsi sulla nozione di argomentazione: essa riprende le posizioni

di approccio iniziale dell’interprete verso il testo di riferimento e le successive eventuali

confutazioni che sono all’interprete derivate dallo svolgimento del testo giuridico.

L’argomentazione si pone, quindi, a chiusura del ragionamento giuridico. Essa giustifica, in buona

sostanza, le scelte dell’interprete. In particolare si suole distinguere tra  giustificazione interna (cioè,

delle premesse, di fatto e di diritto, al ragionamento giuridico: la premessa di fatto è la quaestio

 facti, la premessa di diritto, quella che si definisce quaestio iuris) e  giustificazione esterna (cioè i

collegamenti tra le premesse e la decisione finale). Nelle premesse di fatto e di diritto si incarna il

modo in cui l’interprete sceglie di approcciarsi al testo di riferimento.

L’argomentazione è fondamentale nel nostro ordinamento. Essa è resa obbligatoria dalla

Costituzione per le sentenze e i provvedimenti incidenti sulla libertà personale del singolo.

L’obbligatorietà deriva dal fatto che è attraverso la motivazione che colui che è interessato da un

dato provvedimento può comprendere – e, se del caso, sindacare – l’iter  logico e metodologico

dell’interprete.

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Filosofia del diritto avanzata.

“Diritto e interpretazione” – Capitolo 3

Schema dei concetti fondamentali

1. Positivismo ed ermeneutica differiscono per l’approccio nei confronti del testo, prediligendone il primo la dimensione oggettiva nella convinzione di estrapolare, dallalettera del testo (positivismo francese) o dai principi generali da esso astratti (positivismo

tedesco), il significato in esso intrinseco. L’ermeneutica muove nella convinzione diritrovare una sintesi tra testo, intenzione dell’autore e contesto di riferimento.

2. Il metodo ermeneutico parte dal presupposto che l’interprete abbia, al momentodell’approccio al testo, una serie di aspettative ( precomprensione) che devono essereconfermate da un’attività, dialettica, di interrogazione del testo stesso. L’attivitàinterpretativa, però, deve rimanere fedele al testo. Esser ha individuato tre tipi di controlloche debbono svolgersi sull’attività interpretativa per garantirne la fedeltà al testo: controllodi congruenza (= coerenza del testo rispetto al contesto di riferimento), controllo digiustezza (= ragionevolezza, equità aristotelica), controllo di evidenza (= capacità diconvincimento dell’uditorio circa la fondatezza della ricostruzione svolta). A medesime

conclusioni perviene Mc. Cormick, ancorché con uno schema diverso: egli parla di coerenzanormativa (del testo rispetto al contesto) e di coerenza narrativa (delle parti del testo traloro).

3. Il metodo è l’insieme dei criteri attraverso i quali è possibile ricostruire il significato di untesto. La metodologia si occupa dello studio dei metodi. Betti affronta il discorso dei metodiconcependo il testo giuridico come fenomeno autonomo nel suo significato, parte di un tutto(= l’ordinamento), attualizzabile e corrispondente, per significato, alle altri parti del tutto.Gettate queste premesse, sarà possibile inquadrare correttamente, dal punto di vistametodologico, l’attività interpretativa.

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4. Si distinguono “metodologie dei metodi” e “metodologie dei risultati”: le prime guardano almetodo per pervenire, poi, in base al metodo scelto all’individuazione del risultato; le altreindividuano preventivamente il risultato e in base a detta aspettativa scelgono il metodo.

5. Il nostro sistema giuridico è caratterizzato dall’ eclettismo metodologico. Una pluralità di

metodi possibili sono utilizzabili dall’interprete che opererà una scelta in base al risultato  prefissato. L’art. 12, prel. suggerisce all’interprete l’argomento letterale e l’argomento psicologico (= riferimento all’intenzione del legislatore). Modugno afferma che occorre darelettura di questa disposizione come di un invito all’interprete a rimanere fedele al testo.

6.  Nei sistemi a Costituzione rigida, la Costituzione è parametro fondamentale. Occorre teneresempre a mente, nella normazione e nell’interpretazione, i principi in essa espressi. Di fronteal contrasto tra principi e regole costituzionali, la dottrina statunitense ha elaborato il sistemadel bilanciamento.

7. Savigny tentò di semplificare l’analisi del fenomeno interpretativo individuando quattro

tipologie di interpretazione (letterale, logica, storica, sistematica). Il tentativo di Savigny, però, pecca di eccessivo semplicismo.

8. L’argomentazione, fondamentale punto di arrivo del ragionamento giuridico, raccoglie leaspettative dell’interprete (pre-comprensione) e le eventuali conferme o confutazioni.Argomentazioni diverse si accompagnano a tipi di interpretazione diversi:fondamentalmente, quella del giurista e quella del giudice, finalizzate l’una a una decisioneteorica e l’altra a una decisione pratica. Nel nostro ordinamento è obbligatoria lamotivazione (e quindi l’argomentazione) di sentenze e di provvedimenti incidenti sullalibertà personale: cfr.art.111.7, Cost.

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Capitolo 4 “Cosa interpretare?”

1. Testo e testo giuridico

Occorre partire dalla considerazione di una delle questioni fondamentali che la filosofia del diritto è

chiamata a trattare: che cos’è il diritto? La questione deve affrontarsi dal punto di vista

dell’interpretazione: l’ermeneutica considera le diverse tematiche della filosofia del diritto

inquadrandole dal punto di vista dell’interprete, sul presupposto che la funzione di organizzazione

sociale espletata dal diritto sussiste solo in relazione a quell’attività di analisi e di critica del

fenomeno giuridico che viene compiuta da chi interpreta. Al fine di meglio comprendere questi

assunti dovremo concentrarci sull’elemento testuale. Se si è detto che la buona interpretazione è

quella e solo quella che rispetta il vincolo di fedeltà al testo giuridico, occorre concentrare la nostra

attenzione sul testo giuridico, limite fondamentale dell’attività svolta da chi interpreta.

 Diversi approcci al testo giuridico

Ogni testo è la manifestazione di un’intenzione, della volontà, cioè, di colui che lo ha posto in

essere. Occorre capire quale è il ruolo da ascrivere al testo nell’operazione di interpretazione

 proprio alla luce di questa premessa. Storicamente si fronteggiano due approcci:

- approccio letteralista: esso è tipico dell’intenzionalismo e si sostanzia nella considerazione

della lettera del testo come espressione dell’intenzione del suo autore, sicché occorre

interpretare letteralmente il testo per comprendere che cosa l’autore intendesse in esso

affermare; il problema si pone quando tra colui che pose in essere il testo e colui che lo

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interpreta c’è una rilevante distanza in termini di tempo, sicché l’interpretazione letterale del

testo non risulta più attuale al momento in cui a esso si dà interpretazione;

- approccio antiletteralista: esso è tipico delle teorie del contestualismo che, al fine di

risolvere i problemi di “attualizzazione” dell’intenzione del legislatore propongono la

considerazione delle circostanze economiche, politiche, sociali, culturali nelle quali colui

che interpreta svolge la propria attività di analisi. Detto insieme di circostanze prende il

nome di contesto. Quest’ultimo è a tal punto esaltato nelle teorie antiletteraliste da

ammettersi la distruzione dell’oggettività del testo qualora lo richiedano le circostanze di

contorno alla lettura dello stesso nelle quali si trova colui che interpreta.

Il dibattito tra intenzionalismo e contestualismo ha avuto grande risonanza negli Stati Uniti, tra gli

anni Cinquanta e Settanta, con riferimento, in modo particolare, alla questione dell’interpretazione

della Costituzione alla luce delle sempre più crescenti istanze sociali che si proponevano allora nel

Paese. Da un lato, gli originalisti proponevano una lettura fedele del dettato costituzionale: i padri

costituenti avevano, sul finire del diciottesimo secolo, gettato le basi di un ordinamento civile quale

è quello americano; occorre,quindi, nel rispetto di questa loro intenzione, dare un’interpretazione

letterale del testo costituzionale, al fine di evitare deviazioni che potrebbero tradire lo spirito con cui

i costituenti operarono nella posizione in essere della norma costituzionale. Negli anni Settanta il

 presidente Nixon nominò alcuni giudici di Corte Suprema che accoglievano questo punto di vista:

uno di essi, il giudice Antonin Scalia, ancora oggi è autore di pronunce molto conservatrici.

L’intento di Nixon era quello di osteggiare l’opera del giudice Warren; questi, ancorché

repubblicano, aveva dato una lettura del   Bill of rights (= i primi dieci emendamenti alla

Costituzione, 1791) tale da estrapolare da quelle che egli definiva come “penombre del dettato

costituzionale” l’attestazione di una serie di diritti e di libertà che permettevano di dare una risposta

alle istanze sociali manifestatesi in quel tempo nella società americana. Altrimenti detto, il giudice

Warren (espressione evidente dell’antioriginalismo) aveva letto in chiave evolutiva la Costituzione

e i primi dieci emendamenti, attualizzando l’opera dei costituenti e dando, così, risposta alle istanze

di chi chiedeva l’attestazione di diritti culturali e sociali non ancora tutelati nell’esperienza giuridica

costituzionale statunitense. Fu grazie a Warren che la Corte Suprema seppe esprimersi, per esempio,

circa la questione razziale, ponendo fine alle numerose restrizioni che la popolazione afroamericana

soffriva.

L’ermeneutica novecentesca si pone a cavallo tra letteralismo e antiletteralismo: come gli

antiletteralisti, le teorie ermeneutiche propugnano il superamento della lettera del testo se necessario

all’attualizzazione dell’intenzione del legislatore rispetto al contesto di riferimento; come i

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letteralisti, però, le teorie ermeneutiche non ammettono la distruzione dell’oggettività del testo che,

sempre e comunque, rimane un limite all’attività di colui che interpreta.

Significato, funzione prescrittiva e dimensione intersoggettiva del testo giuridico

Gettate tali premesse ci sembra opportuno soffermarsi su un dato, e cioè sul motivo per cui è

necessario porre in essere testi giuridici. Il diritto espleta la propria funzione di organizzazione

sociale proprio attraverso il testo giuridico; per il tramite di esso, infatti, è possibile vincolare la

volontà dei consociati al rispetto di regole comuni. Il testo giuridico è l’espressione di una volontà

organizzatrice della società, e come tale, non deve essere svilito della sua propria oggettività. Si

crea, peraltro, un doppio binario tra testo e contesto nel senso che se il testo giuridico influisce sul

contesto perché in grado di coartare, se del caso, la volontà dei consociati e di indirizzarla

all’accoglimento di una comune regola di diritto, è vero anche che il testo giuridico è influenzato

dal contesto di riferimento, posto che il testo giuridico deve cogliere le istanze della società di

riferimento. È per queste ragioni che Dworkin si pone a cavallo tra le prospettive letteraliste e

quelle antiletteraliste. L’eremeneutica viene a svolgere ancora una volta il ruolo di intermediario tra

norma e caso, proponendo una visione dell’attività interpretativa che sappia colmare la distanza tra

di essi alla luce delle esigenze che vanno manifestandosi nella società di riferimento.

Specificità del testo giuridico. Testo giuridico e testo letterario: analogie e differenze

L’estremizzazione più evidente delle teorie antiletteraliste risiede nella posizione di Jacques Derrida

(in Europa) e di Stanley Fish (negli Stati Uniti). Essi sono i principiali esponenti del

destrutturalismo. Secondo il loro punto di vista il testo come elemento preesistente

all’interpretazione non esiste: essi accolgono l’insegnamento di Nietzche secondo cui “non esistono

testi, ma solo interpretazioni”. Già nel momento in cui il testo viene posto su carta, esso è frutto di

un’interpretazione, espressione di un punto di vista dotato di insopprimibile soggettivismo: quello

del suo autore. Il destrutturalismo esalta il contesto e le aspettative di colui che entra in contatto con

il testo tanto da distruggerne la dimensione oggettiva e da ricomprenderlo tra le componenti (le

uniche) soggettive dell’attività interpretativa.

Corollario di questi ragionamenti è l’assunto che il testo giuridico e il testo letterario, in quanto

entrambi espressioni di un punto di vista, si porrebbero sullo stesso piano. Sia l’uno che l’altro,

infatti, esprimerebbero una volontà e al punto di vista dell’autore va a sostituirsi quello di chi legge

il testo, in una sorta di catena di sostituzione di segni ad altri segni. In aperta violazione con

 posizioni più caute e maggiormente fedeli al testo come quella, a noi già nota, di Wittgenstein

(secondo il quale – è bene ricordarlo – l’interpretazione non è il sostituire a un segno un altro

segno). Che il testo giuridico e il testo letterario siano entrambi espressioni di volontà, in quantoentrambi testi è un dato certo. Che si pongano sullo stesso piano è una conclusione errata. Il testo

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giuridico e il testo letterario sono espressioni di esperienze di natura diversa: l’esperienza giuridica,

da un lato, un’esperienza artistica, dall’altra parte. Nell’esperienza giuridica assume rilevanza

  primaria la funzione prescrittiva e di organizzazione del diritto; ciò che è estraneo, invece,

all’esperienza artistica. Il testo giuridico gode di una sua  specificità, essendo in forza di essa

distinguibile rispetto a qualsivoglia altra forma testuale. Esso espleta una funzione – quella

 prescrittiva attraverso la quale è possibile addivenire all’organizzazione della vita associata – che

nessun altro fenomeno sociale o naturale è in grado di adempiere. In forza di questa funzione è

riconoscibile una specificità non solo nei contenuti del testo giuridico, ma anche delle strutture (si

 badi: qualunque approccio meramente funzionalista o meramente strutturalista a una qualsiasi

esperienza non ha significato. Ogni struttura è idonea alla realizzazione di una funzione, così che

occorre tenere in conto la prima per comprendere il portato della seconda): si pensi, ad esempio, alla

struttura tipologica. Il tipo è un’ “invenzione” della dottrina: esso permette di inquadrare al suo

interno una serie di casi aventi caratteristiche comuni, così da potere essere di maggiore aiuto al

giudice nello svolgimento della sua operazione di sussunzione (si badi a non eccedere troppo nel

formalismo nel parlare di “sussunzione”). Il legislatore eredita dalla dottrina la struttura tipologica:

essa gli permette di operare in modo meno astratto e più vicino alla realtà delle cose. La struttura

tipologica è finalizzata all’ottenimento di una risposta, più breve e più completa, all’istanza di chi si

fa parte in un giudizio ma è utile anche all’inquadramento, in termini generali e astratti, di un ordine

sociale. È dunque ovvio che la struttura tipologica è estranea all’esperienza artistica: non avrebbe

senso inserirla in essa, estranea rimanendole la funzione prescrittiva e quella organizzativa.

Spazi ermeneutici di co-determinazione del testo

In conclusione di queste considerazioni è possibile ora inquadrare al meglio gli elementi su cui si

fonda la teoria ermeneutica dell’interpretazione. L’ermeneutica fonda le proprie considerazioni

sugli assunti della:

- intenzionalità del testo, essendo esso l’espressione della volontà di chi lo ha posto in essere.

 Non bisogna, però, dimenticare l’insegnamento di Betti che parla di “attualità” del testo:

occorre attualizzare l’intenzione del legislatore per renderla maggiormente conforme al

contesto di riferimento;

- contestualità del testo, collocandosi esso in un insieme di circostanze economiche, politiche,

sociali, culturali e storiche di riferimento. E dovendo a esse farsi riferimento nel nome di

quell’attualizzazione di cui si parlava prima. Qualsiasi istanza di attualizzazione, però, non

deve portare alla distruzione dell’oggettività del testo;

- testualità del testo, ossia il suo elemento oggettivo, che costituisce il limite estremo aqualunque attività interpretativa.

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L’ermeneutica è quindi convinta della possibilità di trovare un momento di sintesi rispetto a queste

tre componenti. Esemplificando, è forse possibile inquadrare le teorie ermeneutiche nell’immagine

mitologica di Hermes. Messaggero degli dei, egli sta nel mezzo. L’ermeneutica fa dello “stare nel

mezzo” il significato ultimo e fondamentale dell’opera dell’interprete, richiamando in essa quel

concetto di mesotes aristotelica (Aristotele, Etica nicomachea) che si traduce nella ragionevolezza

cui è chiamato più volte l’operatore del diritto. Egli deve sapere coniugare i vari aspetti, oggettivi e

soggettivi, dell’attività interpretativa, concepibile, sotto questo profilo, come una rete (la rete

collega vari punti tra loro. Lo stesso fa l’interprete). Egli deve concepire il testo alla luce di quelli

che Wittgenstein, nel suo Tractatus, definisce come “complessi movimenti” sottesi al testo,

facendosi riferimento, ovviamente, a ciò che non si esprime ma rimane sottinteso: l’intenzione.

Il modello di Hermes si contrappone ad altri due modelli, storicamente presenti nella cultura

giuridica occidentale: il modello di Zeus e il modello di Ercole.

Quanti ascrivono al legislatore un ruolo primario, collocando l’interprete in un angolo, aderiscono a

quello che, figurativamente, è inteso come modello di  Zeus o modello  piramidale. Il legislatore si

 pone al vertice e dice il diritto imponendolo dall’alto verso il basso. Il letteralismo, figlio della

tradizione formalista, aderisce perfettamente a questa concezione, volendo estrapolare dalla lettera

del testo l’intenzione dell’unico soggetto che assume rilevanza nell’atto di posizione della regola di

diritto: il legislatore.

Quanti, pur riconoscendo al legislatore un ruolo fondamentale nella posizione della regola di diritto,

esaltano le Corti in quanto sono quelle che danno attualità al diritto, rispondendo a istanze pratiche

(e, per fare questo, superando, se del caso, l’oggettività del dato testuale), aderiscono a quello che,

figurativamente, è inteso come modello di  Ercole e che, geometricamente, può essere raffigurato

come un modello a piramide rovesciata (la forma di un imbuto, per intenderci). È nell’opera del

giudice che si coagula l’unità e la coerenza del diritto sotto un profilo di praticità.

I modelli dell’ermeneutica si pongono come punti di contatto tra queste diverse teorie, sostenendo

la possibilità di una sintesi tra elemento intenzionale, elemento testuale ed elemento contestuale del

testo, tutti e tre fondamentali nell’operazione di attribuzione di significato.

2. Testo giuridico e linguaggi settoriali

L’argomento della specificità del testo giuridico rispetto a qualunque altra manifestazione testuale

ci ha permesso di confutare la tesi destrutturalista di Fish. Induce in errore pensare che tutti i testi

siano uguali tra di loro sul solo presupposto della loro attitudine a esprimere una volontà e un punto

di vista. Ogni testo adempie una propria funzione e in relazione a essa si fa portatore di una diversa

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struttura: il diritto espleta un ruolo di organizzazione sociale e il testo giuridico dà voce a tale

esigenza di ordine.

 Nell’ambito dei testi giuridici è possibile riconoscerne forme diverse. A seconda dell’ambito nel

quale vuole organizzarsi la vita associata esistono forme testuali strutturalmente differenti. D’altra

 parte il diritto entra in tutti i settori della quotidianità: non è sbagliato pensare che tutto sia

riconducibile al diritto in quanto il diritto è la sola forma di organizzazione della società e dei

differenti interessi che entrano in gioco nell’interazione tra soggetti diversi. Se tutto è diritto, allora,

è comprensibile come i testi giuridici vadano sempre di più ogni giorno arricchendosi di riferimenti

a un vocabolario che non è quello giuridico. Si parla di testi omnibus, contenenti, cioè, richiami a

qualunque settore della vita associata: pensando alla legge sull’aborto (legge 194/1978), per 

esempio, vi sono richiami al settore medico, pensando alla legge sugli stupefacenti (d.p.r.309/1990),

lì vi sono richiami al lessico farmaceutico, pensando alle leggi sul bilancio, lì vi sono richiami al

vocabolario degli economisti. E così via in una serie pressoché infinita di esempi. Di qui, un

 problema per l’interprete, che non riesce a comprendere, in via immediata e diretta, il contenuto

delle disposizioni: l’interprete non è onnisciente e gli occorre un ausilio a meglio afferrare il

significato dei termini, spesso molto specialistici, che il legislatore impiega durante la propria

attività di normazione. Ecco che, in ambito processuale, con riferimento all’interpretazione

giurisdizionale, ma non solo, accresce l’importanza di consulenti tecnici e periti. Certo, tutto questo

rappresenta un ostacolo all’autonoma comprensione della regola di diritto da parte dell’interprete: la

norma, difatti, dovrebbe essere autoreferente e così non è. Ciò che può creare un ostacolo

all’immediata comprensione del contenuto della regola e all’immediata esplicazione di quella

funzione organizzativa che viene espletata dal fenomeno giuridico nei confronti della società.

Un altro problema che si pone in relazione all’attività normativa del legislatore riguarda il suo

modus operandi: nella prassi odierna, infatti, si riconoscono ben poche norme di facile e immediata

comprensione. Oggi la normazione è caratterizzata da prolissità e da continui rimandi a disposizioni

già esistenti, sì che la lettera della legge, attualmente, ci appare come un coacervo di numeri

 praticamente incomprensibile. Si pensi alla riforma del diritto societario: negli articoli del codice

civile da essa introdotti vi sono molteplici rimandi. Il tutto con una evidente difficoltà nel capire il

senso della norma in via immediata e diretta e con ovvi ritardi e ostacoli nell’organizzazione

sociale.

Testo legislativo, testo contrattuale, testamento

Il più tipico esempio di testo giuridico è dato dalla legge. Il legislatore, non senza una pretesa di

universalità, regolamenta la vita associata definendo regole connotate di  generalità e astrattezza.Già si disse come le teorie positiviste si fondassero sul mito dell’unicità di significato della parola

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del legislatore; unico garante dell’unità e della coerenza dell’ordinamento, il legislatore non avrebbe

necessitato dell’interprete il cui ruolo, ancillare, sarebbe stato quello di estrapolare il significato

intrinseco nella disposizione di legge. Il significato intrinseco, ossia l’unico possibile: il legislatore

ottocentesco riteneva di potere creare norme ad hoc per risolvere i diversi problemi sociali, essendo

dette norme interpretabili in un unico modo ed essendone a tutti evidente il significato.

Confutate le teorie positiviste, la nostra attenzione si sposta sul rapporto tra legge e

regolamentazione degli interessi individuali. Il contratto è il tipico esempio di atto finalizzato alla

disciplina della volontà privata. Dice l’art. 1321 del nostro codice civile che “il contratto è accordo

di due o più parti per costituire, regolare, estinguere un rapporto giuridico patrimoniale”. Già la

 presenza dell’aggettivo “patrimoniale” permette di capire come il contratto non abbia in sé quella

 pretesa di universalità che è propria, invece, della legge. E questo perché il contratto non è uno

schema idoneo alla gestione di tutti i rapporti intersoggettivi, ma solo di quelli patrimoniali. Non

solo: il contratto esprime la propria efficacia solo tra le parti che lo hanno stipulato: a dirlo è l’art.

1372 del codice civile. Ciò che connota il contratto di una dimensione di estremo particolarismo

rispetto alla legge, che aspira alla realizzazione di interessi universali, senza entrare nel merito di

questa o di quella vicenda personale. A fondamento del contratto, la volontà delle parti. Esso è

incontro di volontà e la prima operazione da compiere nell’interpretazione di un regolamento

contrattuale è l’individuazione di tale incontro di volontà: a dirlo è l’art. 1362 del codice civile. Le

disposizioni a seguire indicano ulteriori criteri di interpretazione, finalizzati a tenere conto il

contesto di riferimento e le altre disposizioni contrattuali che compongono il regolamento (è l’art.

1363 a fare riferimento all’interpretazione sistematica del contratto. Qui il sistema è riferibile nella

globalità del regolamento contrattuale, secondo quel criterio della  sedes materiae di cui si riferì

 parlando dei metodi di interpretazione del testo giuridico).

Gettate queste premesse, occorre comprendere se e in che modo l’ordinamento possa limitare

l’espressione della volontà individuale che è implicita nel contratto. La risposta è necessariamente

affermativa: codice civile alla mano, è possibile accorgersene leggendo gli articoli 1343 e 1418. Se

il contratto è nullo quando la causa è illecita e se la causa è illecita se sussiste contrarietà a norme

imperative, ordine pubblico e buon costume, significa che l’ordinamento sanziona con l’assenza di

effetti giuridici quei regolamenti contrattuali che si pongono contro i valori sui quali l’ordinamento

  pretende di fondare la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo. C’è, quindi, da parte

dell’ordinamento stesso, un’azione di delimitazione della volontà dei privati che viene esaltata e

tutelata fintantoché non si ponga in contrasto con i valori fondamentali dell’ordinamento.

L’esistenza di un siffatto rapporto tra interesse privato e interesse pubblico è riscontrabile anchenella disciplina del testamento. Atto di ultima volontà (in ciò differisce dal contratto), il testamento

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regola la destinazione degli averi di un soggetto dopo la sua morte. E per questo ne viene esaltato il

significato intrinseco fin dall’antichità: nel 321 d.C. l’imperatore Costantino dichiarava essere il

testamento fondamentale strumento di “manifestazione della volontà dopo la morte”. È regola

generale che ciascuno è libero di destinare i propri averi, dopo morto, a chiunque voglia. Accanto a

questa regola, però, il codice civile predispone delle limitazioni. E lo fa, nel senso specificato sopra,

del corretto contemperamento tra interesse pubblico e interesse privato: l’art. 624, ad esempio,

afferma che non è possibile apporre condizioni al testamento. Difatti questo significherebbe creare

un implicito ricatto nei confronti del beneficiario, costretto, per entrare nella disponibilità dei beni

dell’asse, a tenere un certo comportamento o vincolato a un determinato evento anche indipendente

dalla propria volontà. Di sicura rilevanza è l’art. 457 secondo cui, nelle successioni testamentarie,

una parte dell’asse viene destinato ai familiari più stretti indipendentemente dalle disposizioni di

ultima volontà. È una forte limitazione che si giustifica considerando l’importanza che, per 

l’ordinamento, ha la famiglia: si leggano gli articoli 2, 29, 30 e 31 della Costituzione. La famiglia è

il nucleo fondamentale ove si sviluppa la personalità del cittadino. Non è pensabile nemmeno

lontanamente privare un familiare della propria quota di asse ereditario. E questo,

indipendentemente dall’inviolabilità delle disposizioni di ultima volontà.

L’individuazione dell’interesse pubblico è rimessa alla legge che è in grado di limitare la volontà

dei privati (e, quindi, il loro interesse) nel nome della funzione organizzativa espletata dal diritto.

Un probabile punto di attrito tra pubblico e privato potrebbe essere dato dal testamento biologico.

Un atto con il quale un soggetto dispone preventivamente della propria vita nel caso in cui, poi,

versasse in uno stato di incapacità o di incoscienza si scontra con concezioni di carattere etico,

morale e religioso di fondamentale importanza per la costruzione della società. Ecco, allora, che

mancherebbe nell’ambiente politico, culturale e sociale un unanime convincimento circa la

correttezza di un siffatto mezzo di regolamentazione dei propri interessi. Di qui, la necessità di un

dibattito e di una regolamentazione, per mano del legislatore, che sappia contemperare le posizioni

delle diverse parti e, soprattutto, tutelare l’interesse privato alla luce del bene di tutti.

 Il lavoro dell’interprete sul testo amministrativo

 Nell’affrontare un testo amministrativo, l’interprete si scontra con un carattere fisiologico dello

stesso, e cioè l’esercizio della discrezionalità della pubblica amministrazione. In diritto

amministrativo vige il principio di legalità nella sua accezione relativa; ragione per la quale

l’interprete deve sapere individuare il confine tra legge e provvedimento amministrativo,

sull’assunto che solo l’amministrazione pubblica è in grado di realizzare l’interesse dei più in una

 prospettiva di organizzazione della vita associata. La difficoltà dell’interpretazione di un testoamministrativo risiede, dunque, in questo: la legge è chiamata alla definizione di norme di carattere

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generale che la pubblica amministrazione deve sapere contestualizzare in un contesto concreto. Si

  pone un rapporto tra generalità della legge e particolarismo nell’attività provvedimentale

dell’amministrazione che deve potere essere colto dall’interprete.

 L’elemento testuale nel diritto penale

In diritto penale lo scenario è antitetico rispetto a quel che accade nel diritto amministrativo. Vige in

esso il   principio di tassatività: l’interprete deve interpretare la norma evitando interpretazioni

estensive, ammessa essendo come una deroga la sola analogia in bonam partem. Di qui, il divieto

dell’analogia in malam partem: essa assolve a una precisa esigenza di ordine sociale, tutelando le

garanzie del cittadino. Il diritto penale e il tratto più tipico di questa branca giuridica, la sanzione

 penale, vanno a toccare interessi fondamentali del cittadino: primariamente la libertà personale e, in

alcuni ordinamenti, la vita. Il cittadino deve conoscere che cosa sia vietato e che cosa sia ammesso:

di qui, la necessità di imporre, quale regola di vertice dell’intero sistema penale il  principio di

legalità (art. 1 del codice penale). Solo ciò che è dalla legge definito come reato è suscettibile di

essere punito: di qui, è chiaro, se l’interprete potesse fuoriuscire dal testo di legge nel suo

significato più tipico e tassativo, si esporrebbero i cittadini al rischio di subire sanzioni penali per 

avere tenuto comportamenti non rientranti nella norma penale ma, magari, molto simili a quelli

 previsti dalla legge penale stessa.

Accanto a queste riflessioni sulla legge penale e sui principi che si pongono a fondamento di essa

(ricordando, peraltro, che l’applicazione del principio di legalità comporta una più facile

realizzazione dell’opera di unità e certezza a cui il diritto è chiamato ad assolvere), occorre

considerare l’altra polarità nella materia penale: la  sentenza. Il giudice penale mantiene una

discrezionalità piuttosto limitata e concernente non la qualificazione di un comportamento come

reato (in questo egli è vincolato dalla legge), bensì il computo della pena, l’individuazione di

circostanze e degli altri accidentalia delicti o l’acquisizione di prove qualora siano necessarie dato

lo scenario istruttorio. La sentenza deve rendere conto tanto dell’operazione di rispetto della legge

nella lettura del quadro fattuale, quanto dell’esercizio di una potestà discrezionale che comunque

esiste e connota l’attività giurisdizionale come attività razionale (in aperto contrasto all’ideale

  positivista della giurisdizione come mera sussunzione di caso e norma): tali elementi si

ripercuotono nella motivazione, unico strumento in capo al cittadino per comprendere l’iter logico e

metodologico seguito dal giudice nell’elaborazione della propria decisione.

Testo come vincolo e testo come rapporto con il mondo

Svolte tali riflessioni sarà possibile concepire il testo giuridico in una duplice ottica, statica e

dinamica:

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- sotto il primo profilo (visione  statica del testo giuridico), il testo assolve una funzione di

limite e vincolo per l’interprete, sul presupposto che tra tutte le interpretazioni possibili

quella buona è quella in grado di mantenere un vincolo di fedeltà con il testo. L’ermeneutica

inquadra questo rapporto tra legislatore e interprete nel circolo ermeneutico, di cui già si

fece cenno: il legislatore pone in essere la norma ma necessità dell’apporto dell’interprete

 per darvi concretezza; l’interprete attribuisce significato a una norma da cui comunque è

tenuto a prendere le mosse;

- sotto il secondo profilo (visione dinamica del testo giuridico), il testo, nella sua

attualizzazione, si fa vincolo della realtà sociale: è strumento di comunicazione con il

mondo. Con il contesto. Ricordiamo, infatti, quanto affermato dall’ermeneutica

novecentesca: l’operazione di interpretazione deve tenere conto dell’intenzione dell’autore,

della lettera del testo e del contesto di riferimento di colui che interpreta (alla luce,

naturalmente dei cambiamenti intercorsi rispetto al momento in cui il testo fu posto in

essere).

Una siffatta concezione del testo giuridico permette di considerarlo come importante strumento di

organizzazione sociale. Nell’ottica della nozione di coerenza rispetto al sistema ordinamentale e di

funzione organizzativa del diritto rispetto alle istanze sociali.

3. Le fonti del diritto

Tradizionalmente si usa affermare che il diritto promana da atti o fatti cui l’ordinamento attribuisce

l’attitudine a produrre diritto. Si tratta delle  fonti del diritto e l’immagine più frequente è quella

della sorgente da cui zampilla diritto come fosse acqua. Questa raffigurazione della posizione in

essere del fenomeno giuridico, però, è stata, da qualche tempo a questa parte, messa in discussione.

 Pluralità di usi della dottrina delle fonti

Affermare che il diritto produce diritto significa, sostanzialmente, a) affermare che il diritto produce

se stesso, cioè che dal diritto promana altro diritto, in un continuo sistema di autogenerazione; b)

affermare l’esistenza di due significati diversi della parola “diritto”, così da asserire che le norme

giuridiche nascono da qualcosa di ontologicamente diverso dalle stesse.

La filosofia del diritto contemporanea quasi unanimemente esclude l’autogenerazione del diritto e

  preferisce riscontrare nell’affermazione “il diritto produce diritto” due significati della parola

“diritto”: da un lato, diritto come quelli che Ross definisce fatti storici, politici, economici, sociali e

culturali da cui e nel contesto dei quali viene in essere la regola di diritto; ciò che la dottrina

costituzionale definisce “fonti del diritto”, ossia tutti gli atti o fatti aventi l’attitudine a produrrediritto; ciò che chiameremo di qui in avanti diritto(1); dall’altro lato, diritto come il risultato della

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 produzione normativa, ossia come ciò che promana da diritto(1): ciò che definiremo diritto(2).

Semplificando, l’uno (diritto(1)) è ciò che produce, l’altro (diritto(2)) è ciò che viene prodotto.

Ecco, allora, che la tradizionale immagine della fonte da cui zampilla diritto come fosse acqua si

complica, arricchendosi di almeno due diversi significati da riferire al fenomeno giuridico.

 La relatività del concetto di fonte di diritto

 Non si può non attestare, date le premesse sopra esposte, un certo relativismo nel concetto di fonte

di diritto. Solitamente siamo abituati a individuare le fonti di diritto nell’elenco contenuto in

qualche disposizione normativa – nel nostro ordinamento, l’art. 1, disp.prel. –. Ebbene, è opportuno

domandarsi, sono solo quelle fonti di diritto? Si può individuare qualcos’altro oltre le fonti formali

del diritto? L’ermeneutica francese, nella persona di François Geny, afferma l’insufficienza delle

fonti formali di diritto sul presupposto che, oltre a quelle, vi è qualcos’altro. Certo, prendendo

l’esempio del nostro ordinamento, appare molto chiaro come al di là di quelle indicate nell’art. 1

delle Preleggi, vi siano anche altre fonti nel nostro ordinamento: la Costituzione e le fonti

sovranazionali e comunitarie in primis. Geny, però, va oltre e involge nel novero delle fonti anche

l’apporto di dottrina e giurisprudenza.

 Dalle norme alle fonti o dalle fonti alle norme? Disposizione e norma

È probabilmente molto utile individuare un terzo significato da attribuire alla parola “diritto”: il

diritto come risultato dell’applicazione posta in essere dall’interprete. Ciò che definiremo come

diritto(3). È altrettanto opportuno ricordare quanto affermava Kelsen, distinguendo tra

interpretazione descrittiva e interpretazione ascrittiva. La prima si limiterebbe a descrivere un

fenomeno già esistente, la seconda vorrebbe ascrivere a un certo fenomeno un qualche significato.

Kelsen riconosce una certa componente di creatività nell’opera dell’interprete e, dal momento in cui

si concepisce quella interpretativa, come attività non meramente descrittiva ma creatrice di qualcosa

di nuovo, non è più possibile limitarsi a parlare di due soli significati di “diritto”, atteso che ciò che

viene prodotto da diritto(1), cioè diritto(2), è suscettibile di una rielaborazione che si traduce in

diritto(3). È applicabile a questo ragionamento la distinzione che Tarello pone in essere tra

disposizione e norma, inquadrando nelle disposizioni diritto(2) e nelle norme diritto(3).

Il problema che si pone, a questo punto, è quello di comprendere quale sia il rapporto effettivo tra

diritto(2) e diritto(3); se i concetti facenti capo a queste definizioni divergono, ponendosi quasi in

antitesi l’uno rispetto all’altro, significa che l’attività dell’interprete è stata massimamente creativa,

mentre in caso di coincidenza tra diritto(2) e diritto(3), l’attività dell’interprete sarà stata

 particolarmente rispettosa del vincolo di fedeltà al testo.

Alla luce di questo, è possibile affermare che l’insufficienza delle fonti formali del diritto è, in buona sostanza, una realtà. Ed è questo un dato con il quale pure gli ordinamenti di civil law devono

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fare i conti: in essi la giurisprudenza non viene considerata come fonte del diritto, ma assume,

attraverso la nomofilachia, una funzione sempre più importante di individuazione del modo con cui

concepire il significato delle diverse disposizioni per poi applicarle. Il diritto, quindi, si arricchisce

dell’apporto di chi interpreta il diritto visto che l’interprete porta avanti l’opera del legislatore

inquadrandola in un contesto di particolarismo e concretezza.

 Approccio ermeneutico alla teoria delle fonti

Traiamo le conclusioni da quanto si è sin qui detto. L’ermeneutica ritiene essere il diritto un

fenomeno che vive e si sviluppa grazie all’interpretazione, ponendo al centro dell’interpretazione la

sintesi tra oggettività del testo, intenzione dell’autore e contesto. L’immagine tradizionale delle

fonti ( = il diritto che zampilla da qualcosa di non ben definito) non regge, essendo necessario

inquadrare almeno tre significati della parola “diritto”: diritto(1), come fonte, diritto(2), come ciò

che promana dalla fonte, diritto(3), come risultato dell’applicazione del prodotto dalla fonte da parte

del giudice. Di qui, una sola logica conclusione, il passaggio, necessario, tra diritto(2) e diritto(3)

non può essere tale da svilire la dimensione oggettiva del testo, visto che, in caso contrario, si

esalterebbe in modo eccessivo la creatività dell’interprete, rendendo il testo un pretesto. Non è

 possibile fare dire al testo ciò che l’interprete vuole. Torniamo al nostro punto di partenza:

l’interpretazione non è sostituzione di segni ad altri segni (Wittgenstein).

 Il problema della validità della norma

In chiusura, poniamoci una questione: che cosa significa affermare che una norma è valida?

Molteplici sono le risposte che la filosofia del diritto ha inteso dare a tale questione. Bobbio, nella

sua teoria della norma giuridica, afferma che la norma deve essere  giusta, valida ed efficace.

Produttiva di effetti (cioè, efficace), essa deve rispondere a un parametro di valori predefinito

dall’ordinamento medesimo (cioè giusta). Il concetto di validità di Bobbio risponde al dato fattuale

dell’esistenza della norma: una norma è valida in quanto quella regola esiste nella realtà sociale dei

fatti. Aggiunge Kelsen, cogliendo sostanzialmente l’equazione “validità – esistenza”, che non solo

la norma è valida in quanto esiste, ma in quanto è avvertita come vincolante dalla maggioranza dei

consociati. Kelsen coglie nella nozione di validità una sfumatura di obbligatorietà.

Rispetto alla posizione di Bobbio divergono i  giusnaturalisti: essi colgono nella validità della

norma giuridica la necessità di un requisito di giustezza. La norma è valida in quanto giusta. Essa

trova applicazione nell’ordinamento in quanto è in grado di portare ordine nel disordine in cui

l’essere umano vive, immerso nel suo stato di natura, nella guerra di tutti contro tutti.

Da Bobbio prende le distanze anche il realismo giuridico, secondo cui la validità della norma

coincide, in buona sostanza, con la sua efficacia. La norma è valida in quanto suscettibile di produrre effetti in capo ai consociati. A monte, probabilmente, la medesima nozione di ordine che

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già qualifica il pensiero giusnaturalista: gli effetti prodotti dalla norma sono funzionali alla

creazione di un ordine.

In buona sostanza, è possibile concepire la nozione di validità in almeno quattro modi:

- validità come esistenza: l’esistenza di una regola è il risultato di una valutazione dei fatti,

sicché occorre rinvenire nella società la sussistenza di un determinato schema di valori in

relazione ai quali la norma viene in essere e si impone quale comportamento tra i consociati.

L’esistenza, a differenza dell’obbligatorietà, prescinde da qualsivoglia riferimento alla

sanzione: una norma esiste e i consociati la rispettano in quanto condividono i valori sui

quali essa si fonda e su di essi plasmano il proprio modo di essere;

- validità come appartenenza: chi appartiene all’ordinamento partecipa del momento di

 produzione della norma, sicché è possibile inquadrare in questa relazione la distinzione tra

validità ed efficacia. La prima avrebbe valenza interna, mentre la seconda un valore

necessariamente esterno: una norma è efficace perché produce effetti e detti effetti

rappresentano ciò che viene percepito da colui che rimane all’esterno dell’ordinamento; si

tratterebbe della punta di iceberg dell’articolazione del fenomeno di normazione giuridica;

- validità come obbligatorietà: è Kelsen a individuare nell’obbligatorietà il vincolo che lega i

consociati al rispetto della norma. Una norma è obbligatoria e in relazione a essa e al timore

della sanzione è possibile garantire il rispetto della stessa da parte di tutti i consociati;

Kelsen identifica la validità in termini di obbligatorietà e viene criticato da Ross che, pure

condividendo in termini generali questa visione, critica la sovrapposizione, in Kelsen, delle

nozioni di ciò che è giuridico e di ciò che è morale. Il diritto e la morale non sempre

coincidono, essendo fenomeni di natura e provenienza radicalmente differenti (sul punto, si

veda anche Hart, Il concetto di diritto, 1961);

- validità come ragionevolezza: il concetto di “ragionevolezza” è inquadrabile nella mesòtes

aristotelica, ossia nello stare nel mezzo, nella capacità di contemperare i diversi interessi in

gioco per evitare il conflitto sociale. Si pensi anche al nostro diritto costituzionale: l’art. 3

fonda i presupposti del cd. giudizio di ragionevolezza. A monte un’idea: la necessità di dare

spazio a tutti gli interessi in gioco. È utile, parlando di ragionevolezza, citare anche

Tommaso d’Aquino, che parla di devianza e conformità rispetto all’ordinamento: la

ragionevolezza è da considerarsi come atteggiamento necessariamente conforme

all’ordinamento che sia tale da non escludere alcuno degli interessi in gioco, appunto, per 

evitare la devianza di alcuni gruppi (torna qui la nozione di “appartenenza al gruppo”).

 Naturalmente è possibile inquadrare una complessiva nozione di “validità”, essendo presenti diversispunti di collegamento tra le diverse nozioni.

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Filosofia del diritto avanzata.

“Diritto e interpretazione” – Capitolo 4

Schema dei concetti fondamentali

1. Due sono i modi di inquadrare il significato di un testo giuridico: l’approccio letteralista,che incentra l’attenzione sul significato della lettera del testo al fine di estrapolarel’intenzione del suo autore, e l’approccio contestualista o antiletteralista, che incentral’attenzione sul contesto di riferimento, così da rendere sempre possibile l’attualizzazionedel testo. In relazione all’interpretazione della Costituzione americana nella trattazione enella risoluzione di alcune questioni sociali, tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, si èsviluppato, in seno alla Corte Suprema, il dissidio tra originalismo (di matrice letteralista) enon originalismo (di matrice contestualista). L’ermeneutica si pone nel mezzo tra taliconcezioni, sicura della necessità di attualizzare il contenuto di un testo attraverso ilriferimento al contesto ma intenzionata a non tradire l’intenzione dell’autore del testo

attraverso la violazione del vincolo di fedeltà all’interprete. Eccessi di contestualismo  potrebbero, infatti, portare alla distruzione della dimensione oggettiva del testo, come  paventa Fish (teoria destrutturalista) che arriva a equiparare il testo giuridico e quelloletterario in quanto entrambi espressione della volontà di chi scrive, chiudendo un occhio difronte alla  specificità del testo giuridico, frutto a sua volta della specificità del fenomenogiuridico. Figurativamente le teorie ermeneutiche, che propongono, quindi, di inquadrare iltesto alla luce di tre elementi (testo, contesto, intenzione), possono raffigurarsi conl’immagine di Hermes, colui che sta nel mezzo, messaggero degli dei.

2. Il testo giuridico oggi soffre di almeno due vizi: la cattiva tecnica legislativa (prolissità,rinvii a catena, ecc.) e l’eccessiva specializzazione del lessico giuridico che prende in

 prestito parole dai vocabolari delle scienze da cui attinge per disciplinare i diversi ambitidella vita associata. Questi vizi fanno sì che l’operazione di interpretazione somigli sempre più a un percorso a ostacoli.

3. L’opera di ordine cui assolve il fenomeno giuridico si colloca in ambiti diversi. Di qui,l’esigenza di testi giuridici diversi con contenuti e strutture diverse. Si distinguono, a titolodi esempio, il testo di legge, il testo contrattuale, il testo testamentario, il testoamministrativo e il testo penale. Tutti questi esempi devono considerarsi nell’adempimentoall’obbligo di fedeltà dell’interprete rispetto al testo.

4. L’immagine tradizionale del diritto che zampilla da una fonte non ben definita non regge

  più; così come non regge più l’affermazione per cui “il diritto nasce dal diritto”. Èfondamentale individuare almeno due significati del diritto: ciò che produce diritto(“diritto(1)”) e ciò che è prodotto (“diritto(2)”). Il prodotto delle fonti è, poi, oggetto diinterpretazione, addivenendo l’interprete a estrapolare dalle norme un significatonecessariamente rispettoso del testo ma attualizzato rispetto al contesto di riferimento:“diritto(3)”.

5. Problema tipico della filosofia del diritto è quello della validità. Essa è stata concepita comeesistenza (= la norma esiste nell’ordinamento; è un fatto e lo si riscontra nel comportamentodei consociati), come appartenenza (di chi rispetta la norma a un gruppo unico), comeobbligatorietà e come ragionevolezza.

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Multiculturalismo e processo penale

 Nel corso degli ultimi due decenni si è posto in Italia, come già da tempo accadeva nel resto del

continente e negli Stati Uniti, un problema di valori tra soggetti diversi appartenenti a culture

differenti; tale questione si è più volte nella prassi ripercossa sul processo penale, posto che quello

che per un gruppo è un atto conforme ai propri valori non lo è necessariamente per un altro gruppo,

sicché possono verificarsi contrasti che vanno, di diretta conseguenza, a tradursi nella violazione di

una norma penale. Ed è questo uno dei tanti aspetti del conflitto che viene vissuto da chi proviene

da una comunità che professa valori diversi da quelli propri del gruppo ospitante. Si pone, detto in

altri termini, un conflitto di multiculturalismo.

La parola “multiculturalismo” fu utilizzata per la prima volta negli anni Ottanta del secolo scorso in

Canada. In quel Paese coesistono diverse identità culturali e si pone, ormai da molto tempo, il

 problema della specificità di tali identità, dell’eliminazione di discriminazioni e della salvaguardia

dei valori di ciascun gruppo. Il riconoscimento delle identità delle minoranze non può avvenire se

non attraverso la formazione giuridica. Ecco, allora, che il conflitto di multiculturalismo di cui va

trattandosi si traduce in un problema giuridico di incredibile attualità.

La storia dell’uomo ha conosciuto una grande quantità di Stati multiculturali sul territorio dei quali,

cioè, hanno coabitato popoli diversi, tutti soggetti alla medesima autorità politica. Si pensi

all’impero romano nell’antichità, all’impero turco in tempi più recenti, agli Stati Uniti e agli Stati

europei nella modernità. Oggi in Europa molti Stati fanno del multiculturalismo una questione

centrale del dibattito politico: in Inghilterra e in Francia il problema si pone a seguito di flussi

migratori; si stabiliscono gruppi diversi di etnia diversa sullo stesso territorio; si pongono problemi

di integrazioni e questioni legate alla differenza di valori tra popoli immigrati e popolazione

autoctona. E lo strumento giuridico viene utilizzato in modi necessariamente diversi a seconda della

volontà politica, delle reazioni della popolazione locale e della mentalità della stessa.

Semplificando possono rinvenirsi nella prassi due definizioni di “multiculturalismo”:

1. multiculturalismo è la mera coesistenza di gruppi diversi sul territorio dello Stato. Si vuole,

da parte delle minoranze, il riconoscimento della propria identità; non si vuole, però, da

  parte delle minoranze, la propria partecipazione alla vita associata e al governo della

comunità. Il rischio è quello della chiusura verso e dall’esterno della minoranza. Ogni

gruppo sociale viene a chiudersi in se stesso e l’esito di una siffatta coesistenza non può che

essere il conflitto. È quella che è stata definita da alcuni opinionisti come balcanizzazione, in

ricordo dei fatti che hanno tristemente segnato la convivenza tutt’altro che pacifica dei popoli della penisola balcanica nel corso degli anni Novanta;

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2. multiculturalismo è l’intesa tra gruppi sociali che collaborano tra loro in un clima di

coesione sociale. In tale contesto l’identità del gruppo non è chiusa ma aperta al confronto e

al cambiamento. Il venire a contatto delle diverse identità in un clima di collaborazione

 porta facilmente a una crescita comune.

Da tali definizioni la teoria politica ha estrapolato quattro modelli di rapporto tra politica e

multiculturalismo. Detti modelli hanno segnato il dibattito sul tema negli ultimi venti anni.

1. secondo il modello che si riferisce alla tradizione liberal-democratica a fronte della

massiccia presenza di immigrati la sfera pubblica deve assorbire, nel nome dei comuni

 principi afferenti alle teorie liberaldemocratiche, l’identità dei privati; altrimenti detto, chi

entra nella sfera pubblica è deprivato della propria identità culturale di partenza, che rimane

un fatto privato. Secondo questa concezione, quindi, poco importa la comunità di

appartenenza: questo è un dato che fa parte della storia privata del singolo individuo. Se

questi intende entrare nella comunità pubblica, deve accettare il fatto di esserne assorbito;

2. secondo la teoria di Habermas la società deve cercare la coesistenza delle diverse identità,

riconducendole tutte all’accettazione di un denominatore comune di principi costituzionali.

Principi che, quindi, vengono a essere validi per tutti i gruppi in quanto connotanti la

 pacifica convivenza dei gruppi diversi nel pubblico contesto;

3. secondo il modello tracciato dai movimenti femministi e antirazziali è compito dei regimi

democratici quello di garantire la rappresentanza politica delle minoranze che compongono

la società e che mai sono destinate a incontrarsi tra loro;

4. secondo la teoria di Kymlicka i gruppi culturali debbono fare valere nella società i diritti

culturali del gruppo: solo attraverso questa azione di rivalsa sarà possibile il riconoscimento,

da parte della sfera pubblica, del gruppo. Evitandosi, così, uno squilibrio ai danni del gruppo

medesimo. A fronte dell’affermazione del gruppo nella società, però, vi è il venire meno

della dimensione privata dell’individuo: secondo Kymlicka il gruppo è a tal punto

importante che nel nome della sua affermazione (e dell’affermazione dei diritti a esso

facenti parte) è possibile il sacrificio del singolo e dei suoi diritti.

Il tema del multiculturalismo si riversa sul diritto penale. Esso è tradizionalmente fondato

sull’obbligatorietà della norma penale, sicché si pone un problema di gestione giuridica del conflitto

tra gruppi, posto che, in teoria, tutti dovrebbero assoggettarsi al rispetto delle norme penali

ordinamentali. Occorre, così, concepire i principi e i criteri che fondano l’ordinamento e che

legittimano l’attività decisionale del giudice alla luce del problema del multiculturalismo. La

questione più rilevante è la presenza di conflitti tra soggetti che perseguono comportamenti accettatio imposti dalle comunità di origine e vietati dall’ordinamento dei Paesi di accoglienza: si pone,

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così, il tema del reato culturale (o culturalmente orientato); da un lato, c’è una norma penale che

vieta un comportamento, dall’altro c’è un soggetto che si trova in una particolare situazione di

specificità culturale. Il giudice deve decidere come comportarsi nel nome della discrezionalità che

connota la sua attività giurisdizionale e che gli permette di individuare circostanze e gradazioni

della pena in riferimento al caso concreto. Sotto il profilo processuale il binomio “multiculturalismo

 – giurisdizione penale” stride: le minoranze avanzano pretese di riconoscimento che talora vanno a

violare le norme penali. Chi accerta i reati, poi, deve valutare l’elemento oggettivo e quello

soggettivo del reato e, in riferimento a quest’ultimo, tenere conto del motivo che spinge l’agente a

commettere il reato. Circa questa ultima questione negli Stati Uniti, dagli anni Ottanta, si discute

circa la necessità di individuare delle scriminanti o delle esimenti culturali. Chi afferma la necessità

di applicarle fa riferimento al fatto che, di fronte alla legge penale, il cittadino autoctono e

l’immigrato non si pongono sullo stesso piano. Il problema che si pone è quello della

individualizzazione della risposta sanzionatoria; esigenza, questa, che discende dalla natura stessa

della sanzione penale. Circa l’elemento oggettivo del reato è, poi, utile ricordare come un fatto

ammesso per una cultura non lo sia necessariamente per un’altra: questo qualifica diversamente il

fatto a seconda del diverso sistema di riferimento. E questo ha ricadute sul sistema di acquisizione

delle prove nel processo.

 Nel processo a carico di immigrati, poi, si pone un’altra questione: quella dell’interprete. Detta

esigenza ha a che fare con il diritto di difesa e a essa si collega il problema della traduzione degli

atti processuali: sono queste articolazioni specifiche del cd.  giusto processo. Grazie all’interprete,

 per effetto della traduzione degli atti lo straniero interagisce con il giudice che potrà riconoscerne

l’identità. Anche questo è un modo per ridurre il margine di conflitto tra gruppi che caratterizza gli

ordinamenti contemporanei che si apprestano ad affrontare il tema del multiculturalismo: il diritto è

chiamato a rendere possibile la convivenza pacifica tra consociati. La questione è capire come detta

operazione debba svolgersi. Sono state individuate almeno tre nozioni di conflitto e, in rapporto a

esse, almeno tre tipi di soluzioni:

1. conflitto di interessi, ossia tra gli interessi facenti capo ai diversi gruppi: la soluzione è

quella della mediazione tra detti interessi;

2. conflitto di identità, sicché ognuna vuole affermarsi sull’altra o sulle altre; anche qui, la

mediazione risulta fondamentale al fine della composizione del conflitto;

3. conflitto di valori.

Il diritto deve predisporre una serie di soluzioni che permettano di evitare il conflitto. La società

contemporanea poggia sul politeismo di valori (Weber), ritenendo ciascuno rilevanti solo i propri,volendoli imporre nello spazio comune. Rispetto a questo scenario il diritto è chiamato a coordinare

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i valori fatti propri da ciascuna delle parti. Nel processo la contrapposizione tra valori si riflette nel

contraddittorio, nell’interazione, cioè, tra soggetti che si pongono su un piano paritario. Il giudice

deve coordinare gli interessi delle parti. Egli ragiona sulle norme, sulle prove e in base al

riconoscimento dell’identità dei vari gruppi.

Torniamo, ora, alle definizioni di multiculturalismo come mera coesistenza e come interazione tra

gruppi sociali. È utile chiarire che sussistono almeno tre metodi per inquadrare, alla luce di tale

definizioni, i modi con cui il diritto ha cercato di comporre i conflitti tra gruppi sociali e culturali:

1. modello dell’intolleranza: esso prevede la configurazione di norme giuridiche manifestanti

severità nei confronti degli autori di reati culturali. Si pensi all’inasprimento della risposta

sanzionatoria per chiunque commette manipolazioni o lesioni degli organi genitali

femminili: questo inasprimento si ebbe in Italia nel gennaio 2006 allorché fu introdotto nel

nostro codice penale l’art. 583bis, configurandosi, così, autonomamente il reato di lesioni

agli organi genitali femminili;

2. modello dell’indifferenza: il legislatore mostra insensibilità per il fattore culturale in una

logica assimilazionista. A monte c’è l’accezione formale dell’uguaglianza: tutti i cittadini

sono uguali tra loro e come tali debbono essere trattati indipendentemente dalla loro

 provenienza sociale e culturale;

3. modello della tolleranza o della mitezza: il termine “mitezza” fu per la prima volta

impiegato da Zagrebelsky in una sua opera intitolata “Diritto mite”. La tolleranza è volta

alla tutela dei diritti fondamentali e dei diritti culturali dei vari gruppi sociali; c’è un

atteggiamento tollerante che si manifesta con l’apprestare strumenti volti ad attenuare o a

eliminare la responsabilità penale per gli autori di reati culturali (è il tema delle attenuanti o

delle esimenti culturali). Si tende a rendere più specifica la risposta sanzionatoria, a

individualizzare la pena. Certo, questo atteggiamento pone un problema: è ammissibile un

ordinamento penale per gruppi? Nella gestione dei conflitti normativi culturali è

fondamentale la disciplina del processo penale; il giudice, rispetto al legislatore, può

ragionare in una prospettiva equitativa, può, cioè, equilibrare interessi diversi, esprimendo

l’idea di una giurisdizione che sappia coniugare cultura maggioritaria e culture minoritarie.

È la cd. ottica bidirezionale. Il giudice deve tenere conto dell’eguale rispetto di tutte le

 persone coinvolte nel gioco processuale: è fondamentale in ciò la ragionevolezza, ossia il

tenere conto di tutte le ragioni delle parti in gioco. Occorre calibrare la risposta penale

valutando la componente culturale come attenuante o come esimente. Il giudice ha

discrezionalità nel computo della pena. Un cenno soltanto a questo aspetto: gli articoli 62,ma soprattutto 62bis e 133 del codice penale entrano in gioco conferendo al giudice la

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 possibilità di individuare attenuanti generiche (cioè non previste dalla tassonomia codicistica

delle circostanze specifiche) e di calibrare il quantum della pena sulla base di fattori inerenti

al fatto e all’autore. È, è utile ripeterlo, il principio dell’individuazione della pena. Ed è su

questo punto che si incentra il problema delle attenuanti o delle esimenti culturali.

 Nei sistemi di common law l’elemento soggettivo del reato, ossia il coefficiente intenzionale del

reo, è definito mens rea. È il giudice a valutare la vicenda personale del soggetto e in tal contesto

rientrano necessariamente i motivi culturali. Equità e dimensione prudenziale rientrano nello

schema decisionale del giudice, così come vi rientra il principio di proporzionalità secondo il quale

la pena deve calibrarsi alla gravità del reato (tenendo conto che il luogo fondamentale dove la

dimensione della proporzionalità tra reato e pena può cogliersi è il processo: è lì che il giudice può

valutare i vari aspetti del fatto e individuare la pena più idonea da applicare al reo). Nel processo

entrano in gioco il diritto di difesa e il principio del contraddittorio. Nell’ambito del diritto alla

difesa importanza primaria assume il diritto alla prova. La filosofia del processo penale ha delineato

le diverse tappe del procedimento (mentale e non) compiuto dal giudice nell’acquisizione e nella

valutazione della prova di un reato culturale. Questo procedimento si snoda attraverso tre fasi:

1. innanzitutto occorre stabilire i motivi che hanno spinto un soggetto ad agire. Qualche mese

fa un giudice tedesco ha attenuato la pena per un reato di violenza sessuale compiuto da un

uomo di origine sarda sul presupposto che presso il popolo sardo è d’uso l’impiego della

forza da parte dell’uomo sulla donna. In quanto sardo, l’imputato avrebbe condiviso le idee

e i valori del gruppo di appartenenza e sarebbe, così, più facilmente stato incline allo stupro.

Il giudice non opera presunzioni ma deve stabilire se sussiste coincidenza tra i valori del

gruppo e le motivazioni del reo a delinquere. Occorre provare questa coincidenza attraverso

consulenze tecniche, così che non sia possibile per l’imputato addurre l’appartenenza al

gruppo come scusa per la commissione di un certo reato;

2. poi bisogna dimostrare che il gruppo di appartenenza mantiene determinati comportamenti e

che la violazione del singolo è condivisa dal gruppo; in altri termini, il giudice non deve

dimostrare che il soggetto X si comporta così. O, meglio, non solo. Egli deve attestare che a

tenere quel comportamento è tutto quanto il gruppo;

3. in ultimo il giudice deve operare una comparazione tra i valori del gruppo di appartenenza

dell’imputato e quelli della maggioranza della popolazione ospitante. In altre parole, deve

stabilire quanto quel comportamento costituisce una violazione dei principi e delle regole

fissati dall’ordinamento.

Strumento imprescindibile nello svolgimento di questo procedimento è il contraddittorio. Torna quiutile la massima latina “audi alteram partem”: è il principio cardinale del processo penale. Diritto

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di difesa e contraddittorio permettono alle parti di porsi sullo stesso piano e di interloquire tra loro.

L’effettiva uguaglianza tra le parti è alla base del giusto processo e questo deve essere anche se

imputato è chi appartiene a una minoranza culturale. Ciò ci porta a parlare ancora una volta del

ruolo dell’interprete nel processo penale e dell’importanza della traduzione degli atti di cui deve

 beneficiare chi non conosce né comprende la lingua italiana. Sono questi diritti fondamentali

dell’imputato: a dirlo sono l’art. 6, CEDU, l’art. 111, Cost. e l’art. 143, c.p.p. Relativamente a

quest’ultimo si danno diversi inquadramenti di quello che è lì definito “diritto all’interpretazione”.

Due, in particolare, sono prevalenti:

1. il diritto all’interpretazione come diritto esercitabile su istanza di parte;

2. il diritto all’interpretazione come istanza anche officiosa del giudice, dovendo esso disporre

l’interpretazione ogniqualvolta sia necessaria.

 Nel 2007 la Corte costituzionale ha optato per la seconda interpretazione.

Un ulteriore difficoltà è data dal fatto che il legislatore non definisce ciò che è culturalmente

orientato rispetto a quello che non lo è. L’orientamento culturale è definito dalla giurisprudenza,

riferendosi a quell’elemento soggettivo che deve essere individuato dal giudice.

Il giudice opera secondo equità nel riconoscimento della riconducibilità del fatto di reato ai valori

del gruppo di appartenenza e nell’irrogazione della pena. La Corte costituzionale, in sentenza

299/1992 ha affermato che questa valutazione equitativa, che porta all’individualizzazione della

sanzione penale, è perfettamente coerente con i principi costituzionali sulla pena, in modo

  particolare con l’esigenza specialpreventiva da essa assolta. Gettate queste premesse, è utile

domandarsi se sia opportuno introdurre nell’ordinamento delle attenuanti o delle esimenti culturali.

Il problema si pone primariamente nei sistemi di common law (negli Stati Uniti, in particolare) a

 partire dagli anni Ottanta. Può parlarsi di minore rimproverabilità in relazione all’appartenenza

culturale? Nel diritto penale statunitense si parla di defence in riguardo a tutte le cause di

giustificazione del fatto. Rientrano in questo gruppo l’errore, la legittima difesa, lo stato di

necessità, il vizio di mente, ecc. Sono elementi che cancellano o attenuano l’antigiuridicità del fatto,

attestando il venire meno o la diminuzione della mens rea. Di qui, si può parlare di cultural 

defences? Il discorso si lega ai cultural offences (= reati culturali). I giudici americani hanno

ricondotto la questione a una serie di casi pratici che vedevano protagonisti del fatto di reato

membri di minoranze culturali insediate da poco tempo negli Stati Uniti. In particolare, si parlava di

ispano-americani e di asiatici. Il contrasto è tra sistema penale statunitense e culture minoritarie: e

questo imponeva il bilanciamento di valori, quelli della cultura maggioritaria, incarnati nella norma

 penale, e quelli della cultura minoritaria che chiedeva riconoscimento. In base all’interpretazioneche le Corti americane danno del principio di uguaglianza, occorre valorizzare e riconoscere le

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differenze, evitando il livellamento e l’assimilazione indiscriminata. Questo ragionamento, che

trova esplicita o implicita conferma nelle sentenze dei giudici americani, si è diffuso in tutto il

mondo. In Europa tali questioni si sono diffuse innanzitutto in Inghilterra (anni Ottanta) e poi nel

resto del continente (a partire dagli anni Novanta). Che peso ha in tutto questo la religione? Un peso

notevole ma non assoluto. Negli Stati Uniti esiste il fenomeno delle sette. Esse creano culture

  parallele rispetto a quella istituzionalizzata; oggi in Italia il problema religioso è connesso ai

fenomeni dell’immigrazione. La componente religiosa connota inequivocabilmente la cultura di un

gruppo; non è, però, il solo valore. Sarebbe qui opportuna un’analisi sociologica per valutare

quanto, nello scontro di culture, conti effettivamente la componente religiosa.

A favore del sistema della cultural defences milita, quindi, l’esigenza di individualizzazione della

 pena come corollario del riconoscimento del singolo come individuo. Questo ragionamento, però,

mette in crisi il meccanismo << reato – sanzione>>. Tradizionali istituti della dottrina penale

vengono delegittimati attraverso la diminuzione della pena per ragioni culturali. Si vuole evitare

l’assimilazione forzata che si porrebbe contro i principi dello Stato federale ma si chiude un occhio

di fronte alle finalità che la pena dovrebbe espletare a seguito del reato commesso. In particolare, la

 pena dovrebbe, secondo la teoria generale del diritto penale, possedere una funzione rieducativa.

Taluni interpretano detta rieducazione come riconversione culturale. L’assimilazionismo

indiscriminato non tiene conto del fatto che uno stesso fatto può compiersi per motivi diversi; lo

considera come fatto di reato e in relazione a esso pone una sanzione che possa favorire il

riallineamento del reo rispetto ai valori dell’ordinamento. La lotta all’assimilazionismo forzato,

tutta tesa a esaltare il singolo come tale, milita a favore del sistema delle cultural defences.

Contro le cultural defences milita la considerazione che esse si pongono contro la funzione

deterrente della pena. Il riconoscimento dell’esimente culturale potrebbe portare i membri delle

minoranze a commettere reati, sicuri della non applicazione (o quantomeno dell’attenuazione) della

 pena. Parlare, inoltre, di cultura nella materia penale produrrebbe la possibilità che i reati cd.

culturali non venissero più giustamente puniti. Pensiamo al fatto che la maggior parte dei reati

culturali è commessa contro soggetti deboli: si arriverebbe, attraverso le cultural defenses, a tutelare

il reo e non la vittima.

Verso il sistema delle esimenti culturali si pongono anche critiche politiche: da destra esso viene

criticato perché mette in discussione il principio di uguaglianza formale, fondamentale presupposto

del rapporto tra Stato e individuo nella concezione liberal-democratica di cui in apertura si diceva;

da sinistra esso è criticato (si pensi alle tesi di Okin) in quanto squilibrando il rapporto tra il più

forte e il più debole, l’esimente culturale difende gli interessi del primo ledendo quelli del secondo.

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5/8/2018 Riassunti Metodologia e Logica Giuridica - slidepdf.com

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Tutelando le concezioni patriarcali delle culture minoritarie si finisce per violare l’interesse del

debole.

Altra critica: le cultural defences fanno riferimento a un’idea di gruppo monolitica e stereotipata. E

 perciò stesso falsa. Si parlerebbe delle altre culture in un’ottica museale: ciò che si pone contro i

 principi dell’interazione costruttiva tra gruppi su cui dovrebbe fondarsi l’idea di multiculturalismo.

Ulteriore critica: si teme che le cultural defences operino come cavalli di Troia di ogni

 particolarismo culturale che finirebbe, così, per essere esaltato, perdendosi l’attenzione ai legami

sociali tra i gruppi che compongono la società. Il pericolo è la strutturazione di nicchie normative

finalizzate alla realizzazione di una doppia morale e di differenze tra i gruppi. Torna l’idea della

 balcanizzazione e, così, il pericolo di frammentazioni eccessive che portano al conflitto.

Un altro spunto importante concerne il principio per cui ignorantia legis non excusat . Si

ammetterebbe, attraverso le cultural defenses, il venire meno di tale principio per gli immigrati che,

non socializzando, potrebbero invocare a loro difesa l’ignoranza della egge.

Molti sarebbero i danni provocati dal fatto di inserire il riferimento culturale tra le cause di

giustificazione del reato. Troppe e troppo rilevanti sono le obiezioni alle esimenti culturali; peraltro

quasi nessun ordinamento ne ha mai fatto espressamente riferimento. Giudici e dottrina, spesso e

volentieri, celano le cultural defences dietro le ordinarie e codificate cause di giustificazione;

 peraltro non per escludere la pena ma solo per attenuarla. Le si usa, in buona sostanza, come

implicito strumento in dotazione al giudice per calibrare la risposta sanzionatoria.

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