ritorno a casa
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Un taglio cesareo d'urgenza di notte nella Repubblica CentrafricanaTRANSCRIPT
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Tre settimane dal mio ritorno a casa…
Sono già passate tre settimane dal mio ritorno a
casa, eppure solo oggi trovo per la prima volta un
pomeriggio quieto in cui fermarmi e rivedere tutto
quanto mi ha travolto da quando sono rientrata a
Maigaro. Un pomeriggio che lascia spazio ad un po'
di riposo e che arriva come un regalo dopo una
notte trascorsa in sala operatoria.
Sì, la notte scorsa c'è stato un cesareo ed un bimbo
è venuto al mondo. Non erano ancora le 3 di notte
quando mi sono svegliata di soprassalto con la
sensazione che mi stessero chiamando… e la luce
di una grossa torcia puntata fuori dalla finestra a
richiamare una presenza che stava cercando di scuotermi dal mio sonno… un rapido balzo per raggiungere la finestra
prima ancora che venisse pronunciato il mio nome. Oltre la grata della zanzariera un velo bianco, la figura forte e
decisa di suor Giulia: “chiamano in ospedale: ci dev'essere un cesareo, hanno chiesto di svegliare anche Nicola.”
Nicola è arrivato con me tre settimane fa per trascorrere a Maigaro il mese di agosto, lui, ex direttore di cattedra di
Ginecologia e Ostetricia ormai in pensione, per supportarmi in questo mese in cui il mio collega centrafricano,
Séraphin, è in ferie, con il proposito anche di insegnarmi a fare i cesarei e rendermi indipendente dal punto di vista
chirurgico in questa terra dove il medico deve saper fare un po' di tutto. Non capitano spesso in realtà occasioni del
genere: le donne vengono ancora troppo poco a partorire in ospedale, restano nei villaggi morendo nel dare alla luce i
loro bambini, spesso vittime di situazioni troppo
complicate. Avvolta ancora nella mia bolla di sonno che mi
fa muovere in una dimensione sospesa, raccolgo in fretta
e furia i miei vestiti, afferro la torcia e con passo deciso mi
avvio oltre il cancello della missione, verso l'ospedale.
Incrocio Pascal, una delle sentinelle che mi abbaglia con il
fascio rotondo della sua torcia; mi saluta, sta andando a
chiamare Léon, il laboratorista. Intuisco che oltre quel
silenzio e quell'immobilità di questa notte in cui sono
immersa e che i miei passi veloci sulla ghiaia sembrano
profanare, là davanti a me, sotto quell'alone chiaro che
segnala la presenza della luce elettrica, eccezionalità in
questa sconfinata e dimenticata savana, mi aspetta dietro
il pesante portone di ferro dell'ospedale un operoso e concitato fermento... e la luce accesa nella sala parto indica
subito la direzione che devo prendere.
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Laure, l'ostetrica, si sta già industriando attorno al
corpo di una partoriente steso sul lettino, nudo e
perfetto come solo i corpi così neri e lucidi di
queste donne africane sanno essere… una
perfetta statua di ebano. E’ Orthensia che solleva
solo un poco la testa per osservare chi sia entrato,
mi rivolge un flebile saluto. Osservo con aria
interrogativa il suo grosso ventre di fine
gravidanza: Laure mi spiega che la donna è già
stata sottoposta in precedenza a due cesarei e che
per forza di cose occorre il terzo. Mi indica il suo
piccolo “carnet” posato sul bancone, quel
quadernino sanitario che, sgualcito e sporco di
terra, accompagna ogni africano attraverso i suoi
accessi all'ospedale.. faccio scorrere le paginette
fino all'ultima e riconosco con un moto di affetto la scrittura di padre Tiziano di Niem: ha accolto lui nel suo ospedale
quella donna e, constatato che aveva avviato il travaglio e che non avrebbe potuto farcela da sola, l'ha inviata da noi.
In quel momento, nel cuore della notte, mi scalda il cuore quella firma in fondo alla pagina, mi parla di un amico: mi
piace la figura sempre sorridente di padre Tiziano, quegli occhietti azzurri ridenti dietro agli occhiali che si perdono il
quel viso paffuto, tondo come una luna piena; è un amico ed un collega ed è bello poter esserci l'uno per l'altro,
potersi appoggiare vicendevolmente.. Leggo sul carnet che quella donna è stata visitata alle 23,30. Immagino la notte
africana di Niem, immagino il fuoristrada che si prepara e parte con il suo carico prezioso, 50 km fatti di buche e fango,
più di due ore, a volte tre, per percorrerla, per arrivare all'ospedale di Maigaro. Immagino i colpi al portone per
richiamare la sentinella nel cuore della notte e l'ospedale che dormiva a riprendere improvvisamente vita per ricevere
quella donna, come il castello della bella addormentata.
Intanto mi accorgo che Nicola mi aveva già preceduto e che mi aspettava già cambiato con la sua divisa verde. Bisogna
fare presto. Mentre Jules si attiva a preparare la sala operatoria, corro anch'io a prendere la mia divisa nel mio
armadio: ormai sono più che sveglia! Mi lavo, mi preparo, come pian piano nel tempo ho imparato a fare dai chirurghi
che ho affiancato nelle mie esperienze africane, io che chirurga proprio non sono, ma che devo imparare a cavarmela
e, come nei due cesarei precedenti capitati nelle scorse due settimane, inizio ad assistere Nicola; a questo punto, sto
imparando tutti i passaggi e scopro le mie mani muoversi quasi d'istinto, da sole, ad accompagnare il lavoro di Nicola.
In un attimo mi trovo a spingere sulla pancia di Orthensia per aiutare Nicola ad estrarre il bimbo dall'incisione che ha
fatto: un attimo di manovre trafficate ed un bel maschietto sano e forte canta il suo ingresso alla vita. Lo osservo con
gioia e tenerezza mente leghiamo e tagliamo il cordone, poi lo affidiamo alle mani di Laure perché assista i suoi primi
istanti.
Lascio andare quel bimbo con rammarico: quante vite ho già avuto la grazia di veder venire al mondo, ma io sono
sempre stata dall'altra parte, quella di chi prima di tutto è lì per accogliere il bambino. Penso alle mie notti rwandesi,
ai tanti neonati assistiti e aiutati a restare aggrappati alla vita. Il mio lavoro è quello, io sono pediatra. Ora devo
imparare qualcosa di nuovo, devo frenare il mio istinto, che è quello di prendermi all'istante cura del bambino: ora
sono lì, sotto un camicione verde, una cuffietta ed una mascherina, per aiutare una mamma, devo affidare il suo
bambino alle mani di altri.
Torno a concentrarmi sul tavolo operatorio cercando di districarmi tra aspiratore, garze, pinze.. Nicola è veloce a
richiudere l'utero in mezzo ad un abbondante sanguinamento; io sto imparando come vuole essere aiutato e cerco di
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accompagnarlo con le mie mani. Mi preparo ad osservarlo ricucire tutto il resto quando lui mi sorprende: “Bene, ora la
chiudi tu!” Resto un attimo a fissarlo perplessa… forse ho capito male? No, non ho capito affatto male, ora tocca a me
iniziare a provare, anzi, con un gentile sorriso aggiunge : “forse è meglio che ci scambiamo di posto, da questo lato ci
riesci meglio!”
E quasi senza rendermene conto mi trovo di là, ago e filo affidati a me, che nella mia carriera di studentessa di
medicina tanto ho avuto occasione di fare tentativi su fogli di carta e pezzi di stoffa, ma non ho mai avuto l'onore di
“dare dei punti”. Beh, da qualche parte bisogna pure iniziare, del resto l'ho visto fare tante di quelle volte e, con
serena pazienza e cura paterna, Nicola inizia a spiegarmi, ad indicarmi, suggerirmi, incoraggiarmi; mi sollecita a non
farmi cruccio della lentezza dei miei passaggi, abbiamo tutto il
tempo che vogliamo. Mi osservo nei mie movimenti lenti, incerti,
impacciati, eppure tenaci; mi osservo e mi faccio tenerezza da sola
in questi miei primi passi chirurgici. Continuo ad osservare
concentrata la punta dell'ago e i lembi che devo suturare, ma con
lo sguardo del cuore accarezzo grata e commossa quest'uomo che
alle 4 del mattino si dedica con piena disponibilità ad un enorme
esercizio di pazienza, che ha voglia di insegnare, di insegnare a me.
Mi sta facendo un dono enorme Nicola in quest'agosto di piogge
centrafricane, mentre sono certa porta nel cuore l'estate di
Genova ed i nipotini che trascorrono questo mese al mare. E' stato
generoso nell'accettare la mia richiesta d'aiuto. Ma anche questa è
la ricchezza dell'Africa, della mia Africa, il bene che ne ricevo, è una continua, unica via di bene: è il bene che mi sanno
dare gli Africani che incontro ogni giorno, è il bene che mi sa dare la mia gente di casa per sostenermi in questa terra.
E così uno strato dopo l'altro, scorrono i minuti di questa notte di lavoro finché taglio il filo sul mio ultimo punto:
l'intervento è finito! Mi sfilo i guanti, mentre Jules si occupa di Orthensia per riportarla in stanza, ci salutiamo e ci
ringraziamo a vicenda per quelle ore trascorse insieme: sono le 5,54 e ormai è sorto il sole sulla savana. Con Nicola ci
avviamo con passo stanco, ma soddisfatto, verso la missione, ci lasciamo coccolare un poco da suor Alessandra che ci
aspetta in cucina con il thermos del caffè. Aspetta i nostri racconti, aspetta notizie di quella donna e del suo bimbo:
alle 7 le comunicherà via radio alla missione di Niem, a padre Tiziano: fiocco azzurro all’ospedale di Maigaro! Così
l’inizio di giornata ha il sapore di una tazzina di caffè e della condivisione: si condivide la tavola, si condivide il lavoro e
la fatica degli altri, si condividono le storie di questa gente. Ed è importante e bello farsene carico insieme.
Dott.ssa Francesca Pezzola,
Ospedale di Maigaro, Repubblica Centrafricana
Maigaro, 14 agosto 2012
La dottoressa Francesca Pezzola è stata inviata da Medicus Mundi Italia quale coordinatore e gestore del progetto
“Inquadramento e gestione medica dei pazienti sieropositivi afferenti all'ospedale cattolico “Siriri na Ngia” di Maigaro
con avvio di un centro di riferimento pediatrico per l'HIV nella Diocesi di Bouar” nella Repubblica Centrafricana. Per
saperne di più http://www.komerarwanda.org.