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Sabino FORTUNATO
1. Grazie Presidente. Il tema della “governance” del fallimento è
certamente fra i più delicati della recente riforma e probabilmente è
prematuro esprimere compiute valutazioni al riguardo. Sia Fabiani che De
Marchi hanno sostanzialmente posto in luce che le prassi sono ancora poco
consolidate, perché si possa esprimere un giudizio adeguato sulla nuova
filosofia che governa la struttura organica della procedura. Tuttavia, questaforzata “sospensione del giudizio” corre il rischio di far passare in secondo
piano il quadro spesso contraddittorio e confusionale che ci consegnano i
vari interventi normativi succedutisi a così breve distanza.
E’ noto, per esempio, che proprio prendendo spunto dalle criticità
con cui la riforma ridisegna i poteri del giudice delegato e il ruolo
autorizzatorio del comitato dei creditori, il Tribunale di Firenze, con decreto
del 13 dicembre 2007 (cfr. in Il fallimento, 2008, 194 con nota contraria di
C. ESPOSITO, I rapporti tra gli organi del fallimento al vaglio di
costituzionalità), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei
novellati artt. 41, co. 1 e 4, e 35 l. fall. ora sotto il profilo di una non
“preventivata” sottrazione dei poteri autorizzatori al giudice delegato ora – e
all’opposto – sotto il profilo di un eccesso di potere autorizzatorio in capo
allo stesso giudice delegato nel caso di inerzia o mancato funzionamento del
comitato dei creditori.
La verità è che emergono molte resistenze alla riforma in sede
giurisdizionale e che queste resistenze trovano terreno fertile e agevolazione
nelle “mine vaganti” disseminate lungo il testo legislativo. Direi, anzi, che il
decreto correttivo del settembre 2007 (d.lgs. n. 169/2007), se per un verso
ha apportato numerose e meritorie correzioni ai primi interventi, per altro
verso ha segnato in alcuni casi dei veri e propri arretramenti, rispetto al
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disegno iniziale, come è accaduto, ad esempio, per il “programma di
liquidazione”.
2. Occorre allora chiedersi qual’è la filosofia di fondo sulla cui base
la riforma ha cercato di delineare i rapporti fra gli organi della procedura.
Giovanni Lo Cascio, in un bello scritto dedicato al tema che ci
occupa (Organi del fallimento e controllo giurisdizionale, in Il fallimento,
2008, 369), ha osservato che sono possibili, ovviamente, modellidifferenziati di governance del fallimento; e in particolare e agli estremi, un
modello pubblicistico, in cui il Giudice assume un ruolo pervasivo e
direttivo della gestione e liquidazione del patrimonio del fallito; e un
modello privatistico, in cui il potere giurisdizionale resta completamente
estraneo alla funzione gestoria e liquidatoria affidata ai privati interessati,
limitandosi esclusivamente a risolvere le controversie giudiziali che
dovessero insorgere.
Massimo Fabiani non ritiene che si debba parlare di
“privatizzazione” (o di “degiurisdizionalizzazione”) delle procedure
concorsuali, poiché sino a quando esse restano procedure giudiziali è
improprio connotarle in termini puramente privatistici. Non v’è dubbio,
tuttavia, che l’autonomia negoziale di debitore e creditori è ampiamente
valorizzata dalla riforma e che il tentativo operato è stato quello di
perseguire una maggiore efficienza delle soluzioni alle crisi d’impresa
proprio spostando l’accento dal ruolo direttivo assegnato in passato
all’organo giurisdizionale al ruolo che debitore e creditori possono più
direttamente giocare sia nella fase prefallimentare, mediante accordi fra gli
interessati, sia nella stessa fase fallimentare, mediante il protagonismo
attribuito ai creditori, che sono portatori degli interessi maggiormente lesi
dall’insolvenza.
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Ora, la giustificazione teorica di questo protagonismo dei creditori
può essere ricercata nella tesi dello spostamento di titolarità del patrimonio
insolvente in capo alla massa dei creditori proprio per effetto della
insolvenza giudizialmente accertata ovvero, come a me pare più corretto,
nella tesi dell’esproprio del solo potere gestorio dal debitore ai creditori; ma
tutto ciò non modifica l’opzione di fondo. La procedura fallimentare assolve
innanzitutto ad una funzione satisfattiva delle ragioni dei creditori, è ad essa
strumentale; ed anche la finalità di valorizzare e salvaguardare gli“organismi produttivi” nella procedura concorsuale non può che essere
subordinata alla finalità satisfattiva dei creditori.
A me pare che sia importante ribadire il principio per cui il
fallimento persegue la finalità primaria della soddisfazione dei creditori,
anche per non trasformare gli istituti concorsuali in occasioni di pura
speculazione. Un recente decreto del Tribunale di Roma respinge una
proposta di concordato fallimentare avanzata da un terzo, proposta che pur
prevedeva la soddisfazione integrale dei creditori, ma a fronte
dell’acquisizione di un patrimonio immobiliare del fallito ad un prezzo di
gran lunga inferiore al valore di mercato dello stesso.
La procedura serve a soddisfare le ragioni dei creditori, ma non può
tradursi in una espropriazione ingiustificata di quanto compete comunque al
debitore.
Così inquadrata la logica del “modello privatistico”, ben si
comprende qual è il ruolo che è chiamato ad assolvere il comitato dei
creditori, quale organo esponenziale degli interessi della massa dei creditori.
3. Il comitato agisce nell’interesse di tutti i creditori concorsuali. Di
qui la particolare attenzione posta dall’art. 40 l. fall. sulla nomina dei
componenti.
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Innanzi tutto sul piano della tempestività: non c’è più bisogno di
attendere il deposito e l’esecutività dello stato passivo. Il giudice delegato è
investito del potere di nomina sin dal primo momento della dichiarazione di
fallimento, incombenza che deve comunque assolvere entro trenta giorni dal
deposito della sentenza sulla base delle “risultanze documentali”, previa
consultazione del curatore che dovrebbe essere già in possesso della
contabilità e dei creditori che abbiano dato la propria disponibilità o abbiano
segnalato nominativi di altri creditori idonei, sia con la propria domanda diammissione al passivo sia con altra apposita e anche precedente
comunicazione. Non v’è dubbio che in questa fase, così anticipata, possono
sorgere concrete difficoltà, soprattutto sul piano della equilibrata
rappresentatività dei componenti il comitato. Ma proprio per questo siamo
di fronte ad una sorta di “nomina provvisoria”, allo stato degli atti. Né va
dimenticato che il legislatore indica un numero minimo e un numero
massimo, in tre o in cinque membri. Il giudice delegato, insomma, proprio
in considerazione della più compiuta verifica dello stato passivo o per altro
giustificato motivo potrà modificare la composizione numerica e qualitativa
del comitato, ad esempio aumentando o diminuendo il numero dei
componenti o ancora modificando alcuni componenti in relazione alle
risultanze dello stato passivo definitivo. A mio avviso la norma è
sufficientemente flessibile, per cui legittima una modifica del comitato in
corso d’opera, anche in relazione alla concreta rappresentatività degli
interessi in gioco nel corso della procedura. Nel “giustificato motivo”
(formula ampia, in cui possono ricomprendersi motivi soggettivi –
concernenti il singolo componente – e motivi oggettivi – concernenti lo
stato della procedura) può configurarsi, ad esempio, anche la situazione
conseguente ad avvenuti riparti, per cui mano a mano che i creditori
vengono soddisfatti il giudice delegato potrebbe rivedere la composizione
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del comitato e adeguarla ad una migliore rappresentatività dei creditori
residui che mantengono un reale interesse alla procedura.
Il carattere esponenziale del comitato dei creditori è confermato non
solo dalla modularità della sua composizione nelle varie fasi della
procedura, di cui è interprete il giudice delegato, ma altresì dallo speciale
potere di cui è investita la collettività dei creditori in sede di “adunanza per
l’esame dello stato passivo” ai sensi dell’art. 37– bis l. fall. I creditori
presenti che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, “possonoeffettuare nuove designazioni” in merito ai componenti del comitato e il
Tribunale (non più il giudice delegato) provvede alla nomina dei soggetti
designati sul solo presupposto che siano rispettati i criteri numerici e
qualitativi disposti dall’art. 40.
E a tal riguardo la norma indica criteri certamente ragionevoli per
evitare il prevalere di alcune categorie a discapito di altre, allorché
sottolinea che la composizione del comitato deve tener conto di una
“equilibrata” rappresentatività dei creditori per quantità e qualità dei crediti
da essi recati e in relazione alla “possibilità di soddisfacimento” degli stessi,
contro fenomeni di disimpegno per mancanza di concreto interesse.
In definitiva i criteri di composizione del comitato appaiono flessibili
e al contempo idonei, se ben applicati, a garantire un organo rappresentativo
ed altresì professionalizzato, considerato che ciascun creditore che venga
nominato a tale carica può delegare le proprie funzioni ad un professionista
qualificato (art. 40, ult. co., in relazione all’art. 28 l. fall.).
4. Ai meccanismi di nomina si accompagnano ovviamente i nuovi
poteri attribuiti al comitato, non più meramente consultivi né
immediatamente gestori (funzione che compete al curatore), ma
autorizzatori e perciò direttivi delle operazioni gestorie e liquidatorie della
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procedura. E’ un potere che nella disciplina del ’42 si ripartiva fra giudice
delegato e Tribunale, soprattutto per gli atti di straordinaria
amministrazione. Ambedue organi giurisdizionali, cui oggi il legislatore
parrebbe sottrarre il potere autorizzatorio per incardinarlo nel comitato dei
creditori; e ciò del tutto in linea con l’ispirazione di fondo. Se è vero che
l’interesse primario da realizzare con la procedura fallimentare è la
soddisfazione delle ragioni dei creditori, allora ad essi deve competere – per
il tramite del loro organo esponenziale – la valutazione di “convenienzaeconomica” degli atti gestori e liquidatori del patrimonio del fallito.
Lo spostamento del potere autorizzatorio in capo al comitato dei
creditori, dunque, si fonda sul tradizionale principio per cui il miglior
giudice dell’interesse da perseguire è, in via di principio, il titolare di
quell’interesse e non un terzo, sia pure imparziale.
Il ricavato degli atti liquidatori (e gli effetti degli stessi atti
conservativi) ridondano a vantaggio innanzi tutto dei creditori che su di esso
devono trovare concorsuale soddisfazione. Gli atti gestori e liquidatori del
curatore, dunque, devono essere autorizzati dal comitato dei creditori (art.
41, co. 1°, l. fall.).
La norma, in verità, attribuisce al comitato anche funzioni
consultative nei casi previsti dalla legge o su richiesta del Tribunale o del
giudice delegato. E sin qui, mi sembra che tale compito si sposi con la
principale funzione autorizzatoria dell’organo. Ma gli attribuisce anche una
funzione di vigilanza sull’operato del curatore, funzione a mio avviso
impropria se non intesa in senso restrittivo e strumentale al compito
decisionale che è proprio del comitato. In altre parole è certo ben più
corretto parlare di “vigilanza” del giudice delegato sull’amministrazione e le
operazioni compiute dal curatore (art. 31, co. 1°, l. fall.); del resto al giudice
delegato spettano più in generale “funzioni di vigilanza e di controllo sulla
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regolarità della procedura” (art. 25 l. fall.), così come il Tribunale “è
investito dell’intera procedura fallimentare”. La funzione di vigilanza,
insomma, è più consona all’Autorità Giudiziaria, che esercita altresì i poteri
sanzionatori conseguenti alla rilevazione di irregolarità e inadempienze nel
corso di quell’attività di controllo.
Ma al Comitato dei creditori quel potere di vigilanza è assegnato
“nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite”, come dispone l’art. 31, co.
1°, l. fall. e dunque strumentalmente a compiti autorizzatori e consultivi cheè chiamato ad assolvere. Sì che il comitato, collegialmente, ma anche ogni
suo singolo componente possono ispezionare in qualunque tempo le
scritture contabili e i documenti della procedura; possono chiedere notizie e
chiarimenti al curatore (e al fallito) (art. 41, co. 5°, l. fall.). Il comitato può
altresì chiedere al Tribunale la revoca del curatore (art. 37), ma parlare di
vigilanza sul curatore continua a sembrarmi funzione del tutto
impropriamente ad esso attribuita.
Del resto, una interpretazione restrittiva di questo compito in capo al
comitato dei creditori parrebbe trovare oggi un avallo ulteriore nella
riformulazione del rinvio operato, in tema di responsabilità dei componenti
il comitato, all’art. 2407 c.c. dal penultimo comma dell’art. 41 l. fall., in
forza del quale non è più richiamato (dopo il decreto correttivo) anche il
secondo comma di quella norma, ma solo il primo e il terzo. A parte la
problematicità del rinvio in sé considerato, è certo che il mancato richiamo
del secondo comma dell’art. 2407 esclude che si possa invocare a danno del
comitato una responsabilità per omessa vigilanza sul curatore, insomma che
esso possa essere chiamato a rispondere secondo il noto criterio della
responsabilità solidale e concorrente del vigilante per i fatti o le omissioni
del curatore, ove il danno non si sarebbe prodotto se avesse vigilato in
conformità agli obblighi della propria carica.
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5. Questo il disegno di base con una sua certa logicità e coerenza.
Senonchè, e qui vengo all’ultimo aspetto del mio intervento, un tale disegno
risulta minato da una serie di regole, sparse qua e là e ulteriormente
aggravate dal decreto correttivo, per cui gli esiti della riforma possono dirsi
in qualche modo scontati. Con una mano si dà e con l’altra si toglie, sì che
prevale nella prassi una sorta di implicita controriforma.
Punti di emersione di questo “controcanto” appaiono gli istituti
dell’esercizio provvisorio (art. 104 l. fall.), dell’affitto di azienda (art. 104 – bis l. fall.) e del programma di liquidazione (art. 104 – ter l. fall.).
Il potere autorizzatorio dell’Autorità Giudiziaria riemerge in barba
ad ogni proclama innovativo.
L’esercizio provvisorio può essere disposto dal Tribunale in sede di
sentenza dichiarativa, sotto una duplice condizione, positiva (evitare che
l’interruzione dell’attività determini un “danno grave” evidentemente al
patrimonio aziendale) e negativa (purchè l’esercizio non arrechi
“pregiudizio ai creditori”). In un momento successivo, pur quando è già
funzionante il comitato dei creditori, il potere autorizzatorio si sposta dal
Tribunale al giudice delegato, benché su proposta del curatore e sentito
“favorevolmente” il comitato stesso. Può ben comprendersi che il Tribunale,
nella fase iniziale e in mancanza della costituzione degli altri organi
fallimentari, adotti in via d’urgenza e di supplenza una decisione che compie
in sostanza una valutazione di opportunità e convenienza per conto della
massa dei creditori. Meno comprensibile è che tale potere continui ad essere
incardinato nel giudice delegato quando il comitato è già stato formato,
benché quel potere sia limitato da un parere vincolante del comitato
medesimo e dunque da una valutazione di opportunità e convenienza in
capo all’organo esponenziale degli interessi creditori.
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Giudizio di opportunità del comitato che, peraltro, sembra poter
impedire in qualsiasi momento la prosecuzione dell’esercizio provvisorio,
quando il comitato dovesse esprimere un parere contrario nel corso di un
esercizio già avviato. Ma se il potere del giudice delegato, in termini positivi
o negativi, è sempre condizionato al conforme vincolante parere del
comitato, non così accade per il Tribunale cui permane, in concorrenza, il
potere di ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi
momento e laddove ne ravvisi l’opportunità, pur sentiti curatore e comitato(ma non necessariamente in senso conforme).
La confusione dei ruoli e delle funzioni, come si può notare,
raggiunge in questo controdisegno il parossismo.
Il modello è destinato a ripetersi nel caso dell’affitto di azienda,
quando esso sia disposto ancor prima della presentazione del programma di
liquidazione. Su proposta del curatore e previo parere favorevole (e dunque
vincolante) del comitato dei creditori, l’affitto di azienda viene autorizzato
dal giudice delegato “quando appaia utile al fine della proficua vendita
dell’azienda o di parti di essa”. Nel che, come per l’esercizio provvisorio, è
insito un giudizio di merito rimesso all’organo giurisdizionale della
procedura, con buona pace del disegno generale recato dall’art. 25 l. fall. in
cui i poteri del giudice delegato parrebbero connotarsi solo in termini “di
vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura” e non anche in
termini di partecipazione attiva all’amministrazione del patrimonio
fallimentare.
Ma è nella formazione del “programma liquidatorio” che il
legislatore raggiunge il massimo dell’ipocrisia riformatrice ed evidenzia il
proprio intento controriformatore.
Nei progetti Trevisanato il “programma di liquidazione” non voleva
essere né un libro dei sogni né una camicia di forza. Era concepito (e ne
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rivendico l’idea originaria, invero subito accolta dagli altri componenti della
Commissione di studio) alla stregua di uno strumento autorizzatorio
generale per gli atti di amministrazione e liquidazione del curatore.
A prescindere da chi dovesse essere il titolare del potere
autorizzatorio (Tribunale, Giudice delegato, comitato dei creditori),
l’esigenza di base era quella di snellire e velocizzare il compito gestorio e
liquidatorio del curatore e di rendere trasparente il suo operato, nella misura
in cui egli si fosse attenuto a quanto già previamente autorizzato.Per questo il programma di liquidazione non poteva e non doveva
risolversi in una mera “dichiarazione di intenti”, come ha giustamente
sottolineato il dott. Fontana. Doveva e deve essere sufficientemente
specifico, poiché - una volta approvato - il curatore avrebbe dovuto andare
avanti da solo, certo sotto la vigilanza continua degli organi giurisdizionali e
con l’obbligo di una informativa e rendicontazione periodica e continua, ma
pur sempre con una piena autonomia di iniziativa conforme al già delineato
programma.
E ciò spiega perché il testo originario (ora abrogato) dell’art. 104– ter
l. fall. disponesse che “l’approvazione del programma di liquidazione tiene
luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della
presente legge per l’adozione di atti o l’effettuazione di operazioni inclusi
nel programma”.
Ma il decreto correttivo ha arretrato su tutta la linea. Se per un verso
sembra cedere alla “nouvelle vague” di un potere autorizzatorio (anzi, la
legge parla di “approvazione”, nel che forse vi è un potere più intenso di
quello puramente autorizzatorio, posto che il comitato può proporre al
curatore modifiche al programma presentato) che si incardina nel comitato
dei creditori e che parrebbe escludere nella fase formativa ogni ingerenza
del giudice delegato, per altro verso ripristina una “autorizzazione
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singolare”, atto per atto, da rilasciarsi dal giudice delegato per “l’esecuzione
degli atti conformi” al programma di liquidazione.
Il programma di liquidazione, ora enfatizzato come “l’atto di
pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per
la realizzazione dell’attivo”, è sostanzialmente svuotato di forza precettiva e
sollecitatoria.
Il giudice delegato autorizza gli atti di esecuzione del programma e
ovviamente parrebbe dover compiere innanzi tutto una valutazione dilegittimità, meglio di “conformità” dell’atto esecutivo al programma.
Senonchè egli non perde il potere di vigilanza e controllo sulla “regolarità”
della procedura (art. 25 l. fall.), sì che non solo dovrebbe poter convocare
curatore e comitato “ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e
sollecito svolgimento della procedura” (art. 25, co. 1°, n. 3), ma dovrebbe
allora poter adottare – a fronte di un atto del programma di liquidazione che
egli dovesse reputare irregolare – il diniego di autorizzazione anche se per
ipotesi l’atto esecutivo risulti conforme al programma approvato. E badate,
sin qui si potrebbe ritenere che tutto proceda secondo un accettabile disegno
di ripartizione dei ruoli: controllo di convenienza e opportunità in fase
approvativa esercitato dal comitato; controllo di legittimità o regolarità del
singolo atto od operazione esercitato dal giudice delegato in fase di
“autorizzazione singolare”.
Ma potrebbe spingersi il controllo autorizzatorio del giudice delegato
sino al punto da compiere altresì la valutazione di merito, di opportunità e
convenienza dell’atto, sovrapponendo il proprio definitivo giudizio a quello
del comitato dei creditori?
Non mancano indici che potrebbero orientare l’interprete in una tale
direzione. Innanzi tutto il termine “autorizza” rinvia normalmente anche ad
una valutazione di merito. Così come di merito può essere il giudizio
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autorizzatorio espresso sugli atti liquidatori del curatore da compiere ancor
prima dell’approvazione del programma, benché solo nel caso in cui il
“ritardo” può determinare “pregiudizio all’interesse dei creditori” e pur
sentito (ma non necessariamente in senso conforme) il comitato dei
creditori. E ancora di merito sembra l’intervento autorizzatorio del giudice
delegato per l’esercizio provvisorio e per l’affitto di azienda ante
programma di liquidazione. Sì che ha buon gioco chi osserva che non si può
pensare che il giudizio di merito, espresso dal giudice delegato primadell’approvazione del programma di liquidazione su tali atti indubbiamente
straordinari, scompaia poi solo perché quegli atti vengano inseriti in un
programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori.
Non intendo prendere posizione, in questa sede, su quale sia la
soluzione più sistematicamente appropriata da fornire al quesito
sull’estensione del giudizio autorizzatorio del giudice delegato in sede di atti
esecutivi del programma di liquidazione. Mi limito ad osservare che, se non
siamo allo “scherzo da operetta”, poco ci manca.
6. L’istituto del comitato dei creditori, voluto come simbolo di una
innovazione radicale nella riforma delle procedure concorsuali, esce
sabotato dallo stesso legislatore alla fine dei molteplici “atti” (ricordo
l’espressione usata da Luciano Panzani) con cui è stato scandito il processo
riformatore.
E in verità esso già nasceva, sin dal primo atto, minato alla base dalla
sua disciplina – per così dire – di contorno, che ne ha condizionato
fortemente l’avvio. Non c’è solo un problema di mentalità che deve
modificarsi e di una abitudine inveterata ad un comitato che ha sempre
svolto il ruolo della “bella statuina”.
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Regime del compenso (art. 41, co. 6°, e art. 37– bis, co. 3°, l. fall.) e
regime di responsabilità (art. 41, co. 7° e 8°, l. fall.) hanno sin da subito reso
poco appetibile il comitato, sì da rendere normale e non già eccezionale il
potere sostitutivo del giudice delegato (art. 41, co. 4°, l. fall.).
Al di là del rimborso spese, che dovrebbe essere garantito ai
componenti del comitato (e con i fallimenti senza attivo, forse che subentra
lo Stato?), il compenso è solo del tutto eventuale, rimesso com’è alla
discrezionale decisione della maggioranza “numerica” dei creditori ammessie presenti all’adunanza per l’esame dello stato passivo, nei limiti peraltro del
dieci per cento (si ritiene complessivo per l’intero comitato) di quello
liquidato al curatore.
La responsabilità è certo il “pendant” del potere autorizzatorio e
decisionale attribuito al comitato; ma a parte la difficoltà di modellare il
relativo regime sulla falsariga dell’organo sindacale delle società azionarie
laddove il comitato svolge funzioni ben più pregnanti di quelle di mero
controllo sul curatore, a parte l’attenuazione arrecata dal decreto correttivo
con la eliminazione del richiamo alla responsabilità concorrente, forse il
regime è troppo sommariamente ed omogeneamente delineato, senza
distinguere fra gratuità e onerosità dell’incarico.
Dulcis in fundo, l’inerzia, l’impossibilità di costituzione (per
insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori) o di funzionamento
(evidentemente per continuata mancata riunione) del comitato, o anche solo
in caso di urgenza, le funzioni del comitato vengono riprese in pieno dal
giudice delegato. E badate bene, quale che sia quella funzione, anche solo
meramente consultiva e non solo decisoria.
V’è chi ha suggerito che l’inerzia o il mancato funzionamento del
comitato non dovrebbe sanzionarsi con l’intervento sostitutivo del giudice
delegato, ma con un “arresto” della procedura, sì da responsabilizzare in
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pieno la massa dei creditori. In una logica di reale coinvolgimento dei
creditori alla direzione della procedura, essi dovrebbero sapere che il
malfunzionamento del comitato può pregiudicare notevolmente le loro
ragioni e dovrebbero allora attivarsi per sostituire e comunque
adeguatamente stimolare il comitato ad assolvere compiutamente le proprie
funzioni.
Ma forse, come ben ha osservato Alberto Jorio, tutto milita contro
l’efficienza dell’istituto del comitato dei creditori, poiché proprio laddove siverificano le insolvenze maggiori, in cui più concreto ed attuale potrebbe
essere l’interesse dei creditori anche forti ad impegnarsi nell’attivazione di
un comitato professionalizzato e funzionale, il fallimento è procedura del
tutto residuale, sostituito dalle variegate e incessantemente rinnovantesi
“edizioni” dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
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