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SATIRICON *COPERTINA E DISEGNO DI VITO GEMMATI

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Page 1: SATIRICON - Scriviscrivà · a Sir Lawrence Alma-Tadema e ad Alberto Arbasino e al loro Eliogabalo; a Federico Fellini immodestamente. Personaggi del romanzo: Encolpio, il narratore

SATIRICON

*COPERTINA E DISEGNO DI VITO GEMMATI

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S A T I R I C O N

a Tinto Brass

e al suo “Caligola”;

a Sir Lawrence Alma-Tadema

e ad Alberto Arbasino

e al loro Eliogabalo;

a Federico Fellini

immodestamente.

Personaggi del romanzo:

Encolpio, il narratore (etimo del nome: “nella fica”);

Ascilto: compagno e amasio di Encolpio (etimo del nome: il culattone);

Trimalcione: l'anfitrione ricchissimo (etimo: il furbone incallito);

Gitone: l'efebo amato da Encolpio (etimo: l'intimo); Eumolpo: il

vecchio poeta (etimo: il buon cantore);

Lica: l'armatore invertito (etimo del nome: la lupa);

Trifena: la moglie di Lica (etimo del nome: molle, lasciva).

N.B.: I nomi di altri personaggi, in genere minori, sono quasi sempre

presi dall'Odissea di Omero alla quale l'autore sembra essersi ispirato

e sono quindi facilmente riconoscibili.

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ISTRUZIONI PER LA LETTURA:

Il testo è scritto in due caratteri:

con questo, che hai in nero sotto gli occhi e che sul mio computer si

chiama “Times New Roman”, ho scritto tutte le parti frutto della mia

fantasia da me usate per congiungere tra loro, secondo il mio modo di

vedere, tutti i frammenti del romanzo a noi pervenuti;

con quello che sul mio computer si chiama “AppleGothic” e che è

quello che ora hai in rosso sotto gli occhi, ho scritto invece le

“traduzioni” dei frammenti, alcuni dei quali lunghissimi.

Dunque in “Times New Roman” leggi me; in “Apple Gothic” leggi i

frammenti del Satiricon tradotti (cioè riscritti) da me. Con questa operazione

ho voluto fornire al common reader un romanzo intero fruibile senza avere

le necessarie conoscenze filologiche. Chissà se ci sono riuscito?! Ma

ovviamente non si è trattato solo di un'integrazione, come si capirà

benissimo leggendo: operazioni come queste infatti sono quasi sempre pro

domo sua.

A MARSIGLIA

Dov'è il mio fratellino? Mi chiedevo. Eravamo appena arrivati a

Marsiglia da Patrasso dopo un pauroso nubifragio e lui improvvisamente si

era involato. Asciltooo! Gridavo. Asciltoooo! Ma non c'era risposta. Decisi

di perlustrare la città palmo a palmo, ma Marsiglia non era la piccola

Patrasso che avevamo lasciato pieni di speranze, per andare a Roma, da

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dove, quando eravamo quasi arrivati, una tempesta aveva allontanato la

nostra nave trascinandola sulle coste della Provincia e aveva anche

consentito a dei furfanti di derubarci dei pochi soldi che ci eravamo portati

da casa per andare a studiare oratoria nella capitale dell'impero. La lingua?

Avevamo imparato il latino in una scuola di Atene, frequentata per volontà

delle nostre famiglie e, parlando greco, imparare il latino fu uno scherzo.

Poi all'improvviso fra me e il mio fratellino adorato, Ascilto, una reciproca

innominabile passione ci aveva sconvolto la vita e gli studi. Le nostre

famiglie non ci permettevano di stare sempre insieme ed erano diventate

insopportabili per entrambi. Me, che ero un po' più grande, mi costrinsero a

sposare Doride e a non vedere più Ascilto. Poveretti! Non capivano che se

nasci tondo non puoi diventare quadrato. Doride era giovane e bella e

scopavamo, ma io con disgusto perché pensavo ad Ascilto e lei con

insoddisfazione perché, mi diceva, si sentiva quasi respinta da me nel tempo

stesso in cui la tenevo tra le braccia. E allora io e Ascilto avevamo deciso di

fuggire da Atene e di recarci a Roma. Ma sì! La grande Atene ormai era

scaduta al rango di piccolo centro provinciale, pieno di gloria e di cultura,

ma privo di vita. Per noi due, assetati di sapere, ma soprattutto affamati di

vita e di amore, Roma era una specie di miraggio. Sentivamo dire che ormai

la ricchezza che vi confluiva quotidianamente aveva completamente

cambiato i costumi, che la vecchia morale catoniana, non lo fo per piacer

mio ma per dare figli a Roma, era ormai decaduta e che i giovani vi potevano

sfogare tutte le loro passioni solo che avessero avuto un po' di parlantina per

cercare il successo come oratori o come maestri di greco nelle scuole.

“Vedrai, fratellino.” dicevo ad Ascilto “Guadagnerò tanti soldi, ti spoglierò

e ti ricoprirò di monete d'oro e poi ti spoglierò di nuovo anche delle monete

portandole via una ad una dal tuo corpo meraviglioso.” Un corpo

meraviglioso davvero aveva, Ascilto, meglio di quello di una donna.

Completamente privo di peli, aveva una pelle più soffice della seta, ma

soprattutto sapeva darmisi con la innocente passività di una fanciulla che sa

il male che la aspetta nell'amplesso, ma sa anche quale bene ne scaturirà.

Asciltooo!

Che ti strilli? mi disse un vecchio mendicante. Non ti sente nessuno.

Stanno tutti al porto a quest'ora. Al porto troverò anche Ascilto, mi dissi, e

corsi come un invasato nella direzione indicatami dal vecchio. Lo trovai

praticamente svenuto per la fame e circuito da un porcone che voleva

farselo. Mi avvicinai, lo abbracciai e lui mi sussurrò in un orecchio: “Mi ha

promesso cento dracme. Che dici?” “Mai!” risposi, “Tu sei mio e nessuno

mai ti avrà al posto mio.” In realtà un pensierino ce l'avevo fatto. Con Ascilto

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scopavamo insieme ormai da anni; era sempre bellissimo ma la sua pelle

non era più quella di quando ne aveva quindici, di anni, e la passione ci

aveva travolto; come la fame ci stava travolgendo adesso. “No!” Dissi con

convinzione. “Ho visto un orticello fuori città con delle mele stupende.

Appena scende la sera potremo mangiarne a sazietà e riprendere un po' di

forze.” Mi mise il braccio destro sulle spalle, io lo cinsi alla vita col mio

sinistro e insieme ci recammo nella bottega di un oste che era sempre

generoso con i giovani e che quando ci vide ci rifocillò in cambio di un po'

di lavoro in cucina. Piangevamo dalla fame ma a nessuno di noi due uscì

mai una parola di pentimento per quanto stavamo facendo. Eravamo

giovani, anzi giovanissimi, e ci sembrava di poter sollevare il mondo con un

dito. Quando ero in forze perché avevo mangiato come si doveva, la sera,

invece di farlo a letto, spogliavo Ascilto ancora in piedi e lo sollevavo, lui

mi abbrancava il collo con le braccia e la schiena con le gambe e poi si

lasciava calare lentamente sul mio pisello in fiamme che lo penetrava senza

difficoltà e così, in piedi, me lo facevo anche due e tre volte finché esausto

venivo aggredito, sì: aggredito, dal sonno. Ah, notti memorabili! Adesso un

po' per i continui digiuni e un po' perché proprio giovane giovane non ero

più, quel giochetto non mi riusciva più sempre.

Il furto delle mele.

Lavorammo in quell'osteria fino a quando l'ultimo avventore ubriaco

non se ne andò e a notte fonda ci avventurammo per le stradine che

portavano in campagna. La notte, quella notte, non ci faceva paura perché

una bella luna, tonda e piena, la illuminava e ci si vedeva quasi come se

fosse giorno. “Ecco Priapo!” dissi ad Ascilto, “Riconosco la statua. Chi ce

l'ha più grosso, io o lui?” Ascilto rise e mi mise una mano tra le cosce come

a dire “tu, naturalmente” e lesse sprezzantemente i brutti versi messi in

bocca al dio dal contadino ignorante, padrone di quel bell'orticello:

“Bada ch'io non ti prenda, bel pischello,

che se ti prendo mal non ti farò

con un bastone né con il sarchiello

crudelmente ferire ti vorrò;

ma te lo metterò tutto nel culo

e ti aprirò talmente lo sfintere

che crederai di non avere più

le pieguzze nel buco del sedere.”

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Scherzò anche, l'incosciente, sul fatto che la statua era di legno e

quindi innocua e disse che solo i cretini davano credito a quelle sciocche

minacce. Non immaginava quanto siano potenti gli dei!

“Fai la guardia” gli dissi, “e se senti rumore di passi avvisami.” Ma,

mentre io rubavo le mele, quell'incosciente si mise a rispondere ai versi del

dio con un pezzo di carbone trovato per terra:

“A Priapo stanotte di mano

la falce cadendo

gli ha reciso di netto il pisello

sicché adesso l'occhiuto guardiano

non ha più né questa né quello.”

E, finito di scrivere, aveva tirato giù con un salto la scure con cui il dio

minaccia i ladri e con un colpo secco gli aveva staccato il membro di enormi

proporzioni che quella statua aveva. Il rumore del legno quando lo spezzi

svegliò il contadino che vide Ascilto e non gli parve vero. Io riuscii a fuggire

con la bisaccia piena di frutta, Ascilto invece, povero amore mio, fu

acciuffato da quell'infame che, minacciandolo con un coltellaccio, lo

costrinse a fargli tutti i servizi possibili immaginabili e alla fine lo aveva

penetrato col membro del dio che era più grosso di quello, di enormi

proporzioni, di Ascilto stesso. Io non ebbi il coraggio di mettermi a

difenderlo, mi preoccupavo più delle mele e nella notte raggiunsi, correndo

come un pazzo, la taverna che ci ospitava gratuitamente perché di tanto in

tanto Ascilto pagava l'affitto, ma in natura, alla vecchia megera che la

gestiva e che amava fare i pompini a chiunque glieli chiedeva, ma più di

tutti ad Ascilto che trattava come un figlio anche quando l'amore mio non

era proprio propenso a farsi sleccazzare tutto da quella vecchia sdentata e

lussuriosa che non solo lo leccava lì, ma con le sue manacce sembrava anche

volerlo avvolgere completamente e volerselo reinfilare tutto nella fica.

Quando arrivai era quasi l'alba: la vecchia maiala dormiva ancora. Senza far

rumore mi sistemai sul nostro giaciglio di foglie secche ma fui assalito dal

pianto pensando a che cosa poteva essere accaduto all'amore mio e non

riuscii a prendere sonno. Per fortuna ecco che alle prime luci lo vedo tornare

che camminava come una papera tanto era il dolore che sentiva lì. Mi

raccontò tutto mentre io me la prendevo bestemmiando contro quel dio

crudele e contro quel porco che si erano vendicati tanto crudelmente. “Me,

me dovevi colpire, carogna di un dio! Non questo ragazzino indifeso e

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incapace di reggere gli assalti del villico rozzo a te devoto. Me la pagherete,

tu e lui, maledetti! Me colpite, me sol, son io 'l colpevole: / contro di me le

spade rivolgete.” Mi tornavano alla memoria prepotentemente i versi di

Virgilio, quando Niso decide di morire sul corpo dell'amico Eurialo. Cercai

di consolare Ascilto curandolo come potevo e, nel massaggiarlo

delicatamente in quel posto affinché l'amore mio si rilassasse e il sangue

smettesse di scorrere, entrambi ci addormentammo tenendo stretta a noi la

bisaccia con le mele.

La vendetta di Priapo.

Il sole già alto ci svegliò all'improvviso. Fuori si sentivano le voci di

quelli che si davano da fare nell'aia della taverna: non si sentiva neanche la

voce della vecchia porca che di solito dava ordini a tutti. Il mio fratellino

decise di voler dormire ancora e si rannicchiò in grembo a me. Sempre,

quando il risveglio era così, lui si rannicchiava nel mio grembo e sempre il

mio fringuello dopo qualche attimo tirava su la testa con prepotenza mentre

le mie mani si appropriavano di quel culetto piccolo piccolo e pure così

capiente.

Ma che stava succedendo quella mattina? Ascilto era fra le mie braccia

e lui, il mio fringuello, continuava a dormire? Che gli era preso? Che mi

stava accadendo? Presi la mano di Ascilto, come facevo spesso quando lui

si rannicchiava in grembo a me e così moscio com'era glielo misi in mano

nella speranza che quel contatto più intenzionato risvegliasse il dormiente.

Non Ascilto, intendo. Mi piaceva quando Ascilto, anche nel sonno era così

succubo ai miei voleri. Prese a manipolarlo, ma non c'era niente da fare.

Dopo un bel po' di sfregamenti vani che il mio ragazzo accompagnava con

incitamenti ed eccitamenti finti, anche lui dovette ammettere che mi stava

capitando qualche guaio: una malattia, una fattura, la fine del nostro amore.

“Che hai, fratellino?”, mi disse, “Non mi vuoi più bene?” Piangevo; anzi:

singhiozzavo. Ero malato? Ma no! Mi alzai, feci alcuni esercizi ginnici che

avevo appreso nelle palestre greche e tutto funzionò alla perfezione meno

che la parte che più delle altre mi stava a cuore. Che mi stava succedendo?

Piangevo e a quel punto Ascilto si mise a piangere anche lui e ad

abbracciarmi per consolarmi e mi diceva: “Vedrai che passerà presto.

Succede sai.” Ma era come se lo dicesse a se stesso perché pensava che, se

non fossi guarito, addio amore.” Era un momento di stanchezza? Ma quale

stanchezza, all'età nostra, dopo aver dormito sodo per un'intera notte? Ero

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perseguitato da un dio? Chi poteva escluderlo? Non mi restava, anzi, non ci

restava che piangere.

Passavano i giorni tra furti, marchette e una fame implacabile che ci

esponeva alle avventure più assurde, la migliore delle quali era un invito a

cena quando rifocillati in qualche modo potevamo mostrarci al meglio di

noi stessi. Eravamo giovani, belli, stranieri, sapevamo parlare latino e

mostravamo entrambi sotto le tuniche arnesi che attiravano l'attenzione di

donne vogliose dell'uno e dell'altro sesso. Ma la fame, la fame, all'età nostra

è una dea implacabile. Nonostante tutte le nostre trovate alla fine ci

sembrava sempre di avere la pancia vuota. “Ma non sarà, fratellino, che sei

troppo debole e per questo non ti si addrizza più?” “E allora tu?” risposi,

“che mangi quanto me... perché ci hai sempre l'alzabandiera pronta?”

Ascilto rimase pensieroso e non ribatté più nulla, ma alla fine, in mancanza

di meglio, come si diceva là in Provincia, provammo ugualmente a fare

l'amore con un risultato disastroso. Piangevamo tutti e due come fontane ma

non avremmo mai saputo dire se era per la mia impotenza o per la nostra

fame.

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Porfirione.

Una notte finalmente riuscimmo a rubare un maialino ad un allevatore

a cui avevamo fatto credere di essere due mercanti della Tuscia venuti in

Provincia a posta perché ci avevano detto che là si allevavano maiali di una

razza speciale e il marpione aveva subito detto ad Ascilto, con cui parlava

tenendomi stretta una natica con la mano, che eravamo capitati

nell'allevamento giusto. Non dissi niente ad Ascilto di quella mano che mi

frugava il culo con violenza, per due motivi: primo perché Ascilto era

fumantino e gli sarebbe subito saltato addosso procurandoci altri guai e due

perché volevo che quel furfante si illudesse che io ci stavo; ma appena, per

un movimento brusco di Ascilto, lasciò la presa mi staccai da lui e col culo

dolorante mi affiancai ad Ascilto in modo che non mi potesse più abbrancare

se non osservato dal mio amico. Perché poi avesse scelto me, me lo sono

sempre chiesto. Ascilto, nonostante la sua dotazione impressionante, era

molto più efebico di me e con la sua vocina da donna dava l'impressione di

essere uno disposto a sottomettersi subito. Invece no. Ho scoperto in seguito

che ci sono dei maschioni froci che godono solo se sottomettono quello che

loro credono sia un altro maschio. Insomma quel porco mi si voleva inculare

e non gli si poteva dare torto visto che io ed Ascilto lo volevamo inculare

tutti e due insieme. E ci riuscimmo. Infatti la trattativa andò avanti in modo

per noi soddisfacente. Il furfante diceva sempre di sì e ogni volta che Ascilto

non lo ascoltava perché fingeva di occuparsi dei maiali, ma in realtà aveva

capito tutto, mi sussurrava nell'orecchio “tu però stanotte dormi con me.”

“Ma certo!” dicevo io ad alta voce fingendo di rispondere ad Ascilto sulla

trattativa, ma in realtà per ingannare lui. “Porfirione” si chiamava quel

burino con la erre moscia, per cui in realtà mi diceva “Va bene. Concesso.

Stanotte pevò tu dovmi con Povfivione.” e io facevo di sì con la testa

fingendo di non volermi far vedere dal mio amico. Intanto Ascilto aveva

adocchiato il maialino che avremmo rubato. Salutammo Porfirione

dicendogli “affare fatto” e che saremmo tornati l'indomani per concluderlo

perché non avevamo portato con noi i soldi. “Stanotte ho da fare. Domani

notte dormirò con te per festeggiare l'affare.” gli dissi alludendo

ambiguamente sia al maialino da comprare sia al suo cosino insignificante

che non increspava neanche un po' la sua tunica, tanto doveva essere

piccolo. Rise soddisfatto per entrambi i significati della mia battuta e ci

congedò con grande entusiasmo. Non immaginava nemmeno che appena

notte e appena calato il buio pesto io e Ascilto che ci eravamo

opportunamente appostati saremmo entrati nel recinto e, afferrato il

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maialino appena ci capitò a tiro, mentre gli altri maiali grugnivamo

disperatamente e per poco non svegliarono servi e padrone, ce la saremmo

squagliata rapidamente. Ci andò bene. Tornammo nell'albergo e sul retro di

esso dove c'era un ottimo focolare all'aperto cuocemmo alla svelta la povera

bestiola dopo averla decapitata, sventrata e ripulita delle interiora. Per

fortuna c'era un pozzo vicino da cui potemmo attingere acqua a volontà e

verso mezzanotte, lavati e ripuliti, potemmo mangiare a sazietà. Il povero

Ascilto si privava di tutto e mi pregava di mangiare e vedrai che questo gli

piace al nostro piccolo! Diceva ironicamente.

Ci mettemmo finalmente a dormire. Ascilto lo sapeva che per

eccitarmi doveva mettersi a dormire vestito e io lo dovevo spogliare

lentamente mentre lui fingendosi ritroso mi sottraeva sempre le natiche

tenendole attaccate al giaciglio. Incominciò quindi quel gioco bellissimo che

quella notte si rivelò un tormento. Alla fine Ascilto si girò verso di me

sospirando: “Prendilo, fratellino, è tutto tuo!” Ma io cominciai a imprecare

contro il dio sconosciuto che ce l'aveva con me e contro Venere che se ne

stava tranquilla a Citera senza pensare a me che soffrivo le pene dell'inferno

a vedere quei meloni dolcissimi senza poterli gustare. La furia blasfema che

non si placava perché io insultavo questo o quel dio senza alcuna distinzione

stringendo e tormentando con le mie mani le natiche di Ascolto che

sussurrava dolcemente “così così mi piace” alla fine mi eccitò. Dopo tanto

digiuno, intendo digiuno sessuale, finalmente il bischero venne sù più

rovente che mai e io subito infilzai Ascilto che gridò per il dolore ma poi si

adattò al mio vaevieni che non finiva mai; sudavo come se stessi sollevando

per la centesima volta cento chili: il bischero non voleva saperne né di

liberarsi del suo contenuto né di arrendersi. Alla fine mi sentii mancare e

non so se venni o se svenni davvero. Ascilto con gran soddisfazione mi disse

che ero venuto ma che ero rimasto svenuto a lungo, tanto che lui a un certo

punto si era messo a piangere perché credeva che fossi morto. Allora mi

aveva abbracciato sollevandomi e riempiendomi di baci e di lacrime:

“Addio, fratello crudele, che mi lasci proprio nel meglio dei nostri giorni.”

Evidentemente il calore e lo sfruculiamento di Ascilto avevano risvegliato i

miei sensi. Eravamo entrambi soddisfatti di quella prestazione quasi divina;

ma da allora il problema divenne ancora più grave perché ogni volta che io,

dopo l'abbuffata di qualche ricco invito a cena, ci riprovavo, Ascilto si

rifiutava dicendo che mi preferiva vivo e impotente piuttosto che morto per

una sola nottata d'amore. “O si risolve il problema” diceva “o vivremo cosi

come due fratelli. Io non posso perderti: non so cosa farei senza di te. Ti

prego, fratellino, calmati e rassegnati. Hai visto che funziona? Prima o poi

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riprenderà regolarmente il suo standard di lavoro. Abbi fede.” “Sì, sì: fede!”

dicevo io “Qui finisce che io diventerò uno di quegli eunuchi imbellettati

che i padroni mettono a guardia delle loro concubine.”

La partenza da Marsiglia.

Intanto si era sparsa la voce che Porfirione, uomo potentissimo a

Marsiglia, si era rivolto al pretore romano per acciuffare i due manigoldi,

cioè noi, che lo avevano ingannato e rubato il porcellino. Girando per il

mercato e per il porto sentivamo dire cose tremende sulla crudeltà dei

Romani verso i condannati per qualche delitto anche minimo e già ci

vedevamo con una mano tagliata o con un occhio cavato. Dopo due giorni

non uscimmo più dal nostro rifugio protetti dalla vecchia immonda che si

sarebbe fatta uccidere pur di non vedere Ascilto evirato, perché anche questo

i Romani erano capaci di fare. Se ti coglievano in flagrante per qualsiasi

motivo te lo tagliavano senza tante discussioni né processi perché tanto,

dicevano, non era un organo utile per fare la guerra. Era una diceria,

naturalmente, ma io ci credevo e la vecchia pure. Insomma a casa sua

stavamo al sicuro, ma di nascosto complottavamo di andarcene al più presto

ma non prima di aver consultato una maga famosa che si diceva fosse capace

di guarire da tutte le fatture, anche quelle di un dio. Ci recammo da lei di

notte, non voleva riceverci, ma alla fine convinta dalla avvenenza o dalla

parlantina o dal conto in banca di Ascilto ci fece entrare. Si coprì la testa col

suo stesso mantello, recitò quasi gridando delle formule per noi

incomprensibili, poi sollevò lentamente la mia tunica per osservare il mio

bischero, lo osservò e cadde a terra svenuta. “Maledetti, disgraziati, andate

via, via di qui.” gridava l'ancella ma mentre ci spingeva fuori dalla baracca

la fattucchiera rinvenne e le fece cenno di star buona. Poi con un gesto

imperioso ci invitò a tornare dentro e ci spiegò. La fattura era opera del dio

Priapo e contro le fatture di Priapo non c'era niente da fare; lei almeno non

avrebbe saputo proprio come aiutarci. “Vai dunque;” mi disse “ma tu, bel

ragazzo,” rivolgendosi ad Ascilto, “resta pure, se vuoi: passerai una notte

indimenticabile nel letto della maga Gorgo.” Ce la demmo a gambe tutti e

due, senza voltarci mai indietro: ormai era chiaro quello che dovevamo fare:

andar via da quella città disgraziata che mi aveva procurato quel danno

irreparabile e che ci aveva ridotto alla fame.

Ma come fare? Non ci avevamo una lira e se anche l'avessimo avuta

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l'avremmo spesa per mettere qualcosa sotto i denti perché la fame ci stava

consumando. “Volete scappare, eh? Anzi: dovete scappare!” ci disse un

marinaio con cui ci imbattemmo in uno dei vicoli che ci riportavano dalla

immonda vecchiaccia. “Voi dovete essere quei due che le guardie vanno

cercando. Se vi beccano, siete finiti. Vi tortureranno e poi vi

crocifiggeranno. Porfirione è il mercante più potente della città. Vi conviene

imbarcarvi e andar via.” “No, non siamo stati noi a rubare il porcello di

Porfirione.” Piagnucolai. “Ah no! E come fai a sapere che si trattava di un

porcellino? Dio solo sa perché non vi denuncio io stesso alle guardie. Anzi

no, lo sa bene. Se volete che vi aiuti, io posso farlo e lo farò perché questo

bel ragazzo mi piace da morire.” “No, prendi me!” Gridai. “Sono io il

colpevole! Ascilto non c'entra niente.” “No. Voglio lui. Da questa parte del

vicolo non viene mai nessuno. Tu mettiti dall'altra e fai il palo.” Mi diede

una spinta e Ascilto mi accompagnò sorridendomi rassegnato, ma anche

curioso di farsi il marinaio. Che era un omone muscoloso. Prese Ascilto per

i fianchi, lo sollevò, gli ordinò di stringerli le gambe sulla schiena e mentre

gli succhiava la bocca avidamente se lo calò piano piano sul pisello

allargandogli smisuratamente le chiappe. Ascilto gridò di dolore ma a quel

porco sembrava non importasse nulla. “Grida, grida che mi piace di più.”

ansimava e alla fine lo lasciò cadere mezzo morto nel viottolo mentre si

riaggiustava il cazzo sotto la tunica e ci diceva che, se volevamo partire

subito, o pagavamo con i soldi, ma noi non ne avevamo, o dovevamo

sottostare tutti e due a turno, una notte per uno, alle voglie del capitano. E

quello che non stava col capitano doveva stare con lui. Rifiutammo

recisamente. “Bene, bene.” disse il furfante “Io sono un buono e non vi

denuncerò, tanto più che domani all'alba ce ne andiamo via da Marsiglia.

Ma tanto, prima o poi Porfirione vi acciufferà e..... Se preferite morire sulla

croce peggio per voi.” E si avviò per andarsene. “Non andare via.” gli gridò

Ascilto che piangeva un po' per il dolore e un po' per la paura. “Non

andartene, io ti voglio bene, voglio stare con te anche tutte le notti. Ti prego,

prendimi con te.” L'uomo si volse intenerito da quella professione di amore

che Ascilto gli faceva. Lo abbracciò non come un uomo, ma come un

bambino, lo baciò teneramente e gli disse: “Ti porto io. Chissà come ti fa

male! Ma ti passerà presto e sulla nave abbiamo tutto il necessario per

sistemarti per bene e per fare colpo sul capitano. Di' al tuo amico di seguirci:

per amor tuo voglio salvare anche lui.” Gli tenni dietro sconsolato e

bestemmiando in silenzio il dio Priapo che ci stava punendo tanto

crudelmente.

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Sulla nave per Roma.

Al capitano piacemmo tanto, sia io che Ascilto. Quella notte ci tenne

nascosti nella stiva; all'alba partimmo e, lasciata Marsiglia, un mare calmo

e purificatore ci accompagnò per giorni e giorni con venti sempre favorevoli

che ci spingevano a sud est verso Roma. Era una meraviglia, ma finché non

scendeva la sera: prima di andare nei rispettivi talami Ascilto mi consolava

dicendomi: “Tanto, fratellino, il dio non ti permetterebbe di amarmi.

Godiamoci questi due bistecconi fino a Roma. Poi si vedrà.”, ma dicendo

così piangeva e io piangevo con lui. Tutto però era sopportabile perché ci

teneva in pugno una paura folle di quei due che mentre facevamo l'amore ci

avvisavano di continuo “Se mi tradisci ti butto a mare, frocetto!” Poi faceva

una breve pausa e aggiungeva minaccioso: “Hai capito?” e noi annuivamo

con la testa senza dire niente. Il capitano poi, mentre ci inculava, pretendeva

che gridassimo e ci difendessimo perché voleva avere ogni volta l'illusione

di stuprarci. Alla fine quei giochi ci piacquero: tutto era meglio che morire

sula croce o finire in mare!

L'incidente del Giglio.

Arrivati all'isola del Giglio, la sera, il capitano, ubriaco fradicio,

sentenziò: “Niente amore, stasera. Voglio restare a prua per salutare il mio

amico Prudenzio come faccio tutte le volte che passo di qui. Tu portami il

corno grande e accendi i bracieri in modo da essere visibili nella notte. Poi

diede ordini secchi e precisi per cui la nave puntò sull'isola del Giglio a tutta

velocità fra le grida dei marinai spaventati che dicevano “andiamo a

sbattere, capitano, andiamo a sbattere.” Ma quale sbattere, sosteneva lui. E'

una manovra che ho fatto non so quante volte e che faccio sempre senza

alcun rischio. Dateci sotto coi remi, mangiapane a tradimento, lavativi;

forzaaaa: uno, due, uno due. Com'era prevedibile la nave andò a sbattere e

rimase incagliata su uno scoglio per fortuna abbastanza alto per cui nessuno

di noi si fece male. L'equipaggio era salvo e poteva dedicarsi tutto a

tamponare il buco provocato dall'urto che non era neanche tanto grande.

Avete visto gridava il capitano che non si rendeva conto del danno che aveva

fatto e che suonava a pieni polmoni il corno con cui doveva salutare l'amico.

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“Ma chi è quest'amico? Questo Prudenzio?” “E che ne so?” mi rispose un

mozzo, “Dicono che sia stato un grande amico del capitano, ma adesso é

morto e lui ogni volta che passa qui dove é sepolto lo deve salutare.”

In due giorni la nave fu aggiustata e fu in grado di ripartire. Tutto andò

bene fino ad Ostia, ma arrivati ad Ostia quel furfante annunciò: “A Roma

non possiamo andare perché abbiamo perso troppo tempo al Giglio. Chi era

diretto a Roma la raggiungerà via terra da Napoli dove sbarcheremo per fare

una breve sosta. Non si può fare altrimenti: a Napoli mi aspettano da giorni

i mercanti africani e già sono in ritardo massimo. Coraggio dunque: salutate

la capitale dell'Impero e tiriamo avanti: i rifornimenti ci bastano sì e no per

arrivare a Napoli.” Quale capitale? Ostia? Ostia era un borgo di pescatori

poveri in canna che vivevano in baracche fatte alla meglio. Chissà come

doveva essere quella città meravigliosa che per la seconda volta sfuggiva al

nostro assedio. “Roma, Roma: non ci arriveremo mai!” Dissi ad Ascilto che

intanto piangeva. Facciamo lo sciopero dell'amore, mi disse, se non ci porta

a Roma. Quando lo comunicammo al mozzo ci rispose cinicamente: volete

essere buttati a mare? E se ne andò. Ci rassegnammo ad andare a Napoli di

cui i mercanti che erano sulla nave raccontavano meraviglie. Ma quando

arrivammo in vista di Napoli la città non sembrava tutto quello che quei

chiacchieroni dicevano. E comunque non potemmo verificare, perché

all'improvviso il cielo si rabbuiò, cominciò a piovere a secchiate, il mare si

ingrossò e la nave, portata a largo, in poco tempo naufragò. Abbracciami,

feci in tempo a dire ad Ascilto, ma quello aveva appena proteso le mani

verso di me che una terribile ventata lo spazzò via sottraendolo alla mia

vista. Allora mi lasciai andare anch'io deciso a morire in mezzo alle onde

gigantesche che si sovrastavano l'una con l'altra.

A BAIA

Mi risvegliai completamente nudo su una spiaggia assolata e luminosa

dove una brezza freschissima sembrava mandata dagli dei apposta per

risvegliare dolcemente i dormienti. Sono nei Campi Elisi, pensai; ma

l'illusione durò poco: in realtà ero stato risvegliato da una fame che mi

mordeva le budella e davanti a me avevo una bellissima fanciulla che mi

guardava incantata tenendo in mano il mio bischero. Lascia perdere, le dissi,

non serve più a nulla: credevo di essere morto io, in realtà il vero morto è

lui. Mi guardò come se gli dei mi avessero tolto il senno e la sua idea si

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rafforzò ancora di più quando improvvisamente fissatomi nel pensiero del

mio amico le chiesi con naturalezza, come se Ascilto fosse arrivato lì con

me e lei lo conoscesse, “Ascilto?” Rise. Non capiva bene la mia lingua.

Allora le ripetei in greco dov'è il mio amico? Quale amico? Disse. Allora

capii che il destino ci aveva separato di nuovo e che forse Ascilto era anche

morto. Dove siamo? Le chiesi. A Baia. E dov'è? Vicino Napoli. Allora

ricordai tutto.

La fanciulla si alzò, mi sollevò dalle ascelle e per mano mi condusse

in una capanna bellissima e ordinatissima. Su una specie di altare c'erano

tanti vasetti con un po' d'acqua dentro la quale crescevano piantine di grano.

Dietro di esso c'era la statua di un giovane bellissimo disteso a terra e con

una coscia lacerata da un'enorme ferita. Era una statua fatta di cenci e la

ferita era riconoscibile come tale perché un panno rosso fuorusciva dalla

coscia come se fosse sangue. “Inginòcchiati”, mi disse Cinzia,

“inginòcchiati e ringrazia il dio di averti salvato.” Mi inginocchiai ma non

sapevo che dire, conoscevo poco quella divinità, pensavo addirittura che

fosse una divinità locale, sconosciuta a noi Greci, ma quando sentii che

Cinzia intonava un canto in onore di Adone mi resi conto che quello era un

tempietto dedicato a Venere dove si venerava la divinità del giovane da lei

amato. O Adone, pregai, io ti ringrazio di avermi salvato da una morte

precoce come la tua; ma fa, ti prego, che anche il mio amico Ascilto si salvi.

Ahò, che voi ci crediate o no, in quel momento dal mare si sentì un coro di

marinai che intonavano i cori sacri a Adone per ringraziarlo di aver potuto

salvare tanti naufraghi, fra i quali c'era anche il mio Ascilto.

Non resteremo a Baia, gli dissi, né andremo a Napoli. Ho sentito dire

che a Pompei c'é molta vita: lì potremo trovare lavoro in qualche scuola di

retorica per impiegarci come maestri di oratoria. Adesso va molto di moda

fra le famiglie ricche mandare i figli a studiare retorica per poter fare la

carriera politica o forense. Vedrai che lì le nostre conoscenze potranno essere

impiegate in modo proficuo.

Non andare, mi disse Cinzia, resta qui. Con il tuo amico. Qui non

avrete bisogno di lavorare. C'è il mare, si pesca facile, e poi il tempio rende

bene. A Pompei sono tutti avidi, gente desiderosa solo di fare soldi, gente

che non conosce le gioie del vivere liberi e felici sotto la protezione di un

dio. Non andate. Da lei, effettivamente, stavamo benissimo. Ci ospitava in

modo sontuoso perché io mi godevo Ascilto mentre lei era impegnata nei

riti e Ascilto si godeva lei le notti che io mi riposavo dalle mie fatiche

d'amore con lui. Quello era proprio un tempio di Venere, altro che Adone!

Ma noi eravamo due vagabondi abituali. Dopo un po' ci stancavamo della

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routine e volevamo un altro viaggio, un'altra avventura. Ma quale viaggio?

Quale avventura? Diceva Cinzia. Pompei è a due passi. Ci potete andare in

qualsiasi momento. Però promettetemi che quando vi sarete stancati anche

di Pompei tornerete da me, disse alla fine rassegnata.

A POMPEI

La città era veramente vicina. Chiedemmo un passaggio su un carro di

mercanti che vollero una cifra iperbolica prestataci da Cinzia e dopo tre ore

eravamo a Pompei. Non credevamo ai nostri occhi. La bellezza di quella

città era paragonabile alla nostra Atene. Le vie erano piene di gente

indaffarata che si occupava delle cose più diverse. Passavano lettighe

favolose portate da schiavi bellissimi. Insomma eravamo in una sorta di

paradiso in terra dove il sole, i marmi e le ginestre ci abbagliavano in

continuazione con le loro splendenti tonalità di giallo. Camminavamo, io e

Ascilto, abbacinati da quella luce sovrumana, a bocca aperta per lo stupore.

Non credevamo che tanta bellezza fosse possibile. A un certo punto

cercammo riparo all'ombra di un'enorme colonna, una delle tante che

sorreggevano, al centro del foro, il tempio di Giove.

Gitone.

Stavamo lì in contemplazione quando nel pieno della luce che

inondava tutta la piazza vedemmo avanzare, proprio verso di noi, una

creatura che sembrava danzare volando, senza mai toccare terra. Non

riuscirò mai a descrivere Gitone e la sua bellezza. Ci rinuncio. Lo lascio

tutto all'immaginazione del lettore, avvertendolo però che era biondo come

un angelo ed esile come una fanciulla. Gli occhi erano grandi e pieni delle

luci di quel golfo ineguagliabile. Si fermò davanti a noi e ci guardò a lungo.

Poi visto che noi eravamo insensibili alla sua bellezza (in realtà eravamo

attòniti) disse: “Stranieri?” Sì! “Greci?” Sì! “Davvero?” Sì, sì, davvero.

“Ehi, ma è un dio che vi manda. Qui pensano tutti ai soldi e all'amore delle

donne e nessuno capisce come sia bello amarsi tra uomini e tra donne. Voi

che siete greci lo sapete bene. Voglio passare la notte con uno di voi. Con

te.” disse indicandomi decisamente. E così dicendo mi si mise in braccio

perché io mi ero messo seduto mentre Ascilto era rimasto in piedi. Lo

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abbracciai e lo riempii subito di baci convinto di stare in un sogno. Ascilto

si era allontanato e con indifferenza intratteneva un vecchio mercante

cercando di cavargli tutte le informazioni possibili su quella città

meravigliosa. Gitone ricambiava i miei baci con ardore e intanto col culetto

esplorava i miei inguini per accertarsi subito se io ero sensibile o no

all'amore efebico. Non dovette aspettare molto per la risposta. Sembrava che

la fattura di Priapo fosse scomparsa del tutto. “Non vedo l'ora di stare con

te.” mi disse. “Ma tuo padre e tua madre non dicono niente?” “No. Non ce

li ho per fortuna. Io sono un valletto del tempio di Priapo e il sacerdote mi

manda in giro a rimorchiare nuovi adepti di quel culto. A noi non ci

piacciono le donne anche se le donne ci cercano in continuazione per

imparare a fare quello che facciamo noi. Noi sosteniamo che l'amore efebico

deve essere il primo degli amori di qualsiasi maschio che poi, una volta

adulto, potrà scegliere se continuare cogli efebi o andare con le donne o con

tutti e due. E lo stesso le donne. Invece questi idolatri di dei orientali

sostengono che l'amore efebico sia un amore osceno e peccaminoso. Sono

dei pazzi. Io non potrei vivere senza il cazzo di un compagno che mi fruga

dappertutto. I miei genitori mi lasciarono nel tempio di Priapo due giorni

dopo che ero nato e i sacerdoti e le sacerdotesse del tempio mi hanno

allevato e cresciuto fino ad oggi. Ma voi che siete venuti a fare qui a

Pompei?” “Vorremmo studiare retorica e anche insegnarla visto che siamo

greci.” “Ah bene! Qui a Pompei c'è la scuola di Agamennone che è molto

frequentata, là sotto il portico.”

Mi mossi subito per andarci. Gitone mi disse: ci rivediamo, vero?

Certo, dissi. Io non ti lascerò mai più. Verrò a cercarti al tempio. E' lontano?

No, è là! e me lo indicò. Era un piccolo tempio di fattura deliziosa. Questo

dio Priapo aveva avuto in Italia la fortuna che la Grecia gli aveva negato.

Ma capivo perché. Da noi l'amore efebico non aveva bisogno di essere

protetto da un dio. Era considerato come doveva essere: un comportamento

normale della vita. Cosa facevano i soldati romani negli accampamenti

quando non riuscivano a catturare neanche una donna? E che se ne facevano,

poi, di quelle donne barbare che non si lavavano mai, neanche le mani

quando cucinavano? I soldati più giovani e più carini lo sapevano che non

si potevano rifiutare alle voglie del centurione o del capocoorte o del

luogotenente e, i più fortunati, alle voglie del generale. E i più dotati lo

sapevano benissimo che se il capo era una vecchia checca impenitente se lo

dovevano inculare quando lui glielo ordinava e che quello era il miglior

passepartout per fare la carriera militare. Insomma i maschi romani quando

erano in guerra si inculavano tra loro e solo quando tornavano a Roma

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scopacchiavano con le mogli per dare figli a quella grande città guerriera.

Dove le donne, quando gli uomini le lasciavano per andare in guerra, non

erano da meno di essi.

Ma Gitone non se n'era andato... per tornare, come aveva detto, al

tempio. Ci seguiva continuando a interrogarmi su tutto. Sembrava

imbambolato dalla mia cultura e dal mio modo di parlare. Ci seguiva come

un anatroccolo segue qualsiasi cosa che si muove. Ascilto al mio fianco non

si muoveva neanche un po' per non darmi modo di parlare più intimamente

con Gitone. Il dio Priapo che evidentemente ce l'aveva con lui che gli aveva

sconciato la statua a Marsiglia, e non con me, anche se prendendosela con

me tagliava il pisello al marito per far dispetto alla moglie, come si dice,

probabilmente mi venne in aiuto. Uno scugnizzo più curioso che affamato

gli sfilò proditoriamente la spada e scappò via: Ascilto si mise ad inseguirlo

e io ne approfittai per prendere letteralmente in braccio quell'angelo, Gitone,

ricoprirlo di baci e dirgli che abitavo in un alberghetto di legno a tre piani

con due sole finestre nella parte bassa della città. Lo conosco mi disse. Verrò

io da te. E stavolta se ne andò davvero senza più ripensamenti.

Agamennone il retore.

Io e Ascilto che nel frattempo aveva recuperato la spada continuammo

senza di lui e, arrivati davanti alla scuola di Agamennone (lo chiamerò così,

per sfotterlo, quel pallone gonfiato che non faceva che citare Omero) io mi

misi ad ascoltare. Stava insegnando ai suoi allievi come si può invertire

l'ordine delle argomentazioni di un discorso in modo da rendere accettabile

una tesi di cui prima si è sostenuto il contrario. Ma Ascilto incominciò a

farmi una scenata di gelosia. “Smettila!” gli dissi, “Lo sai che io amo solo

te. Questo è solo un momentaneo infiacchimento della mia potenza, ma

presto...” Mi interruppe. Non parlava di questo: parlava di quel ragazzetto:

“Io lo so cosa ti piace a te ma ti ricordo che a me mi hai stuprato quando ero

poco più che un bambino e non puoi dimenticartelo.” “Cos'è?” dissi, “Una

scenata di gelosia? Ma non lo vedi che l'ho già congedato? Lasciami

ascoltare questo pallone gonfiato. Senti quante sciocchezze sta mettendo in

fila.”

A un certo punto non ne potei più e cominciai io a declamare ad alta

voce in modo che mi sentissero lui e i suoi quattro discepoli: “Come è

possibile sostenere che la forza della parola sia tale da far digerire nello

stesso tempo una tesi e il suo contrario? Solo menti stravolte dalla ricchezza

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e dalla corruzione possono pensare che dei briganti che assalgono un carico

di merci hanno ragione tanto quanta ne hanno quelli che sono stati derubati.

Solo chi non discerne il bene dal male può pensare che la verità del bene sia

uguale alla verità del male. E così infiocchettando tutto con citazioni da

grandi poeti o con paroloni poco usati e altisonanti ci si illude di poter fare

ciò che neanche un prestigiatore da teatro riuscirebbe a fare.” A questo punto

Agamennone, sentendosi attaccato, schizzò fuori dall'aula per contrastare le

mie posizioni ma non fece in tempo a togliermi la parola prima che io

concludessi scherzosamente con dei versi:

“Dell'oratore è il fin la meraviglia.

La verità può starsene lì buona

senza chiedersi mai se quella figlia,

intendo dire la declamazione,

è prostituta o vergine o matrona.

Matrona no, e vergine non fu

neanche da bambina, ma, cresciuta,

pensò ch'era assai meglio

fare la prostituta a quattro mani

vendendosi nei trivi ai ciarlatani.”

Agamennone restò colpito da questa mia capacità di improvvisare

versi adatti alla situazione ed io ne approfittai per continuare, ma in prosa,

declamando: “Quando Euripide fa delirare Oreste sotto l'impulso delle Furie

che lo tormentano per il matricidio appena compiuto pone forse in dubbio

la criminosità di quel gesto? Certo che no! Oreste è in preda ad una

contraddizione per lui insanabile: lui ha ritenuto giusto uccidere la madre:

ora perché le furie lo perseguitano? Sono forse furie diverse quelle che

perseguitano gli oratori quando gridano: 'Queste ferite io le ho

subite per la libertà della patria; quest'occhio: per voi l'ho perso;

datemi un accompagno che mi conduca dai miei figli perché i

legamenti recisi dalla spada nemica non sostengono più le mie

gambe.'? Frasi anche accettabili, se però fossero utili ad insegnare

ai giovani l'eloquenza. Invece il vaniloquio delle parole altisonanti

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e lo sproloquio delle citazioni inutili ottengono solo il risultato di

farli sentire stranieri quando approdano al foro e vengono messi

alla prova. Ed io ritengo che i ragazzi nelle scuole divengono degli

scimuniti perché non ascoltano né vedono nessun fatto oggettivo

a riscontro delle nostre parole, ma solo pirati che ti aspettano sulle

spiagge con le catene, per massacrarti, tiranni che impongono ai

figli di decapitare i padri, responsi di oracoli che impongono di

immolare tre o più fanciulle per fermare una pestilenza, smielati

confetti di parole e tutto, parole e fatti, conditi di papavero e

sesamo.

Chi viene istruito così non può essere un sapiente più di

quanto possa profumare uno che lavora in cucina. Fidatevi: siete

stati voi maestri di retorice, prima di tutti gli altri, a corrompere

l'eloquenza. Infatti eccitando le vostre farneticazioni con soluzioni

verbose e prive di contenuto avete fatto sì che il nerbo del discorso

si indebolisse e decadesse. I giovani non erano ancora affascinati

dall'oratoria quando Socrate o Euripide trovarono le soluzioni

verbali dei loro pensieri. E, per non parlare solo dei poeti, non

avevano ancora distrutto il talento oratorio i maestri di strada

quando Pindaro e i nove lirici esitarono persino ad imitare Omero.

L'orazione grande non é, per cosi dire, né macchinosa né turgida,

ma risplende solo per la sua naturale bellezza. E' da poco che

questa loquacità logorroica è arrivata dall'Asia ad Atene ed ha

corrotto, come un'enorme cometa impestata, gli animi dei giovani

destinati a grandi imprese oratorie e, una volta stuprate le norme,

l'oratoria ne fu corrotta e rimase muta. In seguito chi ha più

raggiunto le sublimi vette dei grandi oratori greci? Ma neppure la

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poesia poté risplendere dei sani colori della buona salute: come

se avesse mangiato cibo avariato, non riesce ad arrivare non dico

alla morte ma neanche alla vecchiaia. E neanche la pittura ebbe

altro destino dopo che la superficialità degli Egiziani ha inventato

la realizzazione accelerata di un'arte finora così grande.”

Il buon Agamennone non tollerò che io stando sotto al portico

declamassi più a lungo di quanto lui aveva fatto dentro l'aula

sudando come un somaro, ma: “Giovanotto,” disse “poiché hai uno

scilinguagnolo non del tutto volgare, e, ciò che è molto raro, ami la

verità, non ti terrò nascosti i segreti del mestiere. Non devi

meravigliarti se gli insegnanti cadono in questi vizi nelle loro

esercitazioni poiché essi sono costretti a comportarsi come

sciocchi trovandosi in mezzo a degli sciocchi. Infatti se essi non

dicono delle cose che piacciono ai ragazzi “saranno lasciati da soli

nelle scuole”, come dice il grande Cicerone. Come gli attori di

teatro che cercano inviti a cena da parte dei ricchi non dicono

niente altro che quello che è più gradito ai loro ascoltatori (e infatti

non li otterranno altrimenti che tendendo trappole alle loro

orecchie) così il maestro di eloquenza si attarda sullo scoglio

senza preda proprio come il pescatore che non ha messo nell'amo

l'esca che lui sa gradita ai pesci.

Conclusione: i responsabili sono i genitori che non sanno più

educare i figli con severità. Prima di tutto essi affidano alla loro

ambizione le loro speranze e tutto il resto; poi, per realizzare subito

i loro desideri, spingono i figli nel foro che ancora non sanno

parlare, li obbligano sul nascere a studiare l'oratoria che è l'arte

più difficile di tutte. Se invece pazientassero e aspettassero che i

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loro figli percorrano i gradini del sapere uno per uno affinché

divenuti giovani studiosi fossero arricchiti da severe lezioni,

piegassero i loro animi ai precetti della filosofia, scavassero le

parole con penne affilate, ascoltassero a lungo ciò che vogliono

imitare, si persuadessero che non c'è niente di grande in ciò che

piace ai piccoli, allora sì che la grande oratoria tornerebbe ad

avere tutto il peso della sua grandezza. Oggi invece i bambini, a

scuola, si fanno giocare; da ragazzi, vanno nel foro ma per

divertirsi e, ciò che è più grave di entrambe queste cose, da vecchi

disconoscono ciò che hanno male imparato da giovani. Ma perché

tu non pensi che io rifugga dalle improvvisazioni alla Lucilio ti dirò

anch'io in un carme quel che penso.

Ma se uno desidera il successo

in quest'arte sovrana e dedicarsi

ad argomenti di grande importanza

i costumi suoi ispiri alla severa

frugale legge della temperanza

e a testa alta non si curi affatto

del truce volto di chi ha il potere

né offuschi, perduto tra i perduti,

col vino la sua mente e non applauda,

a pagamento, chi sta sulla scena,

corrotto e prezzolato da istrioni.

Ma sia che gli sorridano le rocche di Minerva,

di armi portatrice, o la terra abitata

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dal colono spartano, ovver delle Sirene

la casa, i primi anni dedichi alla poetica

arte del grande cieco e impari bene Omero.

Poi pieno dei profondi dettami filosofici

di Socrate agli allievi lasci liberamente

sciolte le briglie al vento e vibri arditamente

le armi inimitabili del celebre Demostene.

Quindi si spanda intorno l'esercito romano

e fatto fuori il subdolo scilinguagnolo greco

cambi lo stile e fughi il vuoto stile asiano.

Ogni tanto, sottrattasi la paginetta al foro,

corra rapida e libera e libero il caso

la faccia da sovrano privo di ghirigori;

feste e banchetti anche le guerre posson fare

celebrate col sacro verso del ritmo epico

e minacciose suonino di Cicerone i fremiti.

Di questi insegnamenti egli empirà la mente:

così con largo effluvio diffonderà parole

modellando il suo stile sul canto delle Muse.”

La fuga di Ascilto.

Mentre mi sorbisco diligentemente questi versi vacui, non mi

accorgo che Ascilto se l'è squagliata e mentre nel ribollire della

discussione passeggio nei giardini, ecco che arriva sotto al portico

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un numeroso gruppo di studenti, tali almeno mi sembravano,

provenienti dalla declamazione di un tizio che aveva risposto con

altra declamazione a quella di Agamennone. I ragazzi deridevano

le idee esposte da quello e ne smontavano pezzo per pezzo

l'orazione; Agamennone si distrae e io colgo l'occasione per

squagliarmela di corsa e mettermi a cercare Ascilto. Ma non

sapevo da che parte andare perché non conoscevo neanche

l'ubicazione del nostro albergo. E così in qualsiasi direzione

andavo mi ritrovavo sempre allo stesso punto, finché stanco per il

correre e grondante di sudore mi avvicino a una vecchietta che

vendeva ortaggi e le dico:

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” Ti prego, madre mia, sai forse dov'io abito?”. Quella si divertì alla

mia battuta scema e mi rispose: “Come non lo so?”, poi si alzò e

mi fece segno di seguirla. Così feci pensando che fosse

un'indovina e poco dopo, arrivati in un luogo molto nascosto, la

vecchia tirò via una tenda e mi disse: “Forse è qui che abiti, c'è

anche tua madre.” Quella stronza!

E sì che stavo per dirle, come un cretino, che non era quella la mia

casa, ma fui distratto da due tipi che si aggiravano furtivamente

fra le celle delle prostitute nude leggendo quali erano le loro

specialità. Tardi, troppo, mi ero reso conto che ero stato portato

in un lupanare. E perciò maledicendo quella vecchiaccia mi coprii

il capo e cominciai a correre in mezzo a quel bordello verso l'altra

uscita, quando ecco che proprio sulla porta mi viene incontro

Ascilto, stanco come me e mezzo morto; forse era stato condotto

lì da quella stessa vecchia. E così ridendo, appena lo ebbi salutato,

gli chiesi cosa stesse facendo in un luogo tanto sordido.

Quello si asciugò il sudore con le mani e mi disse: “Se

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sapessi... quello che mi è accaduto!” “Cosa?” gli chiesi. E lui

abbracciandomi per appoggiarsi mi disse: “Mentre giravo confuso

da una parte all'altra della città perché non riuscivo a ricordare

dove stava il nostro albergo, mi si avvicinò un signore dall'aspetto

serio, un padre di famiglia, ti dico, gli chiesi l'indicazione e lui si

offrii spontaneamente di farmi da guida verso quell'albergo. Poi

attraverso vicoli e stradine mi condusse fin qui e, offrendomi del

denaro, mi chiese di dargli il culo. Già una mignotta aveva riscosso

l'affitto della cella, già quello mi aveva messo le mani addosso e

se non fossi stato più forte di lui mi si sarebbe fatto lì per lì.”

”Fuggiamo, allora!” gli dissi, “non vorrei che quel tipo tornasse

all'attacco e ci mettesse nei guai con una rissa.” Non lo sapevamo neanche

noi perché, ma ci mettemmo a correre come due matti fuggendo da qualcosa

o qualcuno che non esistevano. La paura ci inseguiva, quella sì, perché

Ascilto aveva potuto capire che quel padre di famiglia era uno potente a

Pompei e che se ci avesse coinvolto in qualche grossa questione avremmo

rischiato grosso. A un certo punto, era più furbo di me, si fermò e si mise a

ridere come un matto. “Perché ridi?” “Perché dove cazzo vogliamo andare?

Pompei l'abbiamo percorsa tutta e siamo arrivati in campagna, dove

vogliamo arrivare? Piuttosto rientriamo, concentriamoci e cerchiamo di

ritornare al nostro albergo.” Mentiva quello sciagurato. Lui lo sapeva bene

dove stava, il nostro albergo, ma fingeva di non saperlo mentre sceglieva

questo o quel vicolo per studiare un percorso che invece gli era ben noto,

come potei capire dopo.

Licurgo.

A un certo punto del nostro cammino senza meta incontriamo una casa

tutta illuminata dalla quale proveniva un melodioso suono di flauto. Stavano

facendo festa, chissà per quale motivo. Ci fermammo ad ascoltare estasiati

da quella musica che il flautista estraeva con maestria dal suo strumento.

“Qui, qui. Venite qui, bei giovani. Questa casa ama i bei ragazzi. Venite,

venite: si balla.” Era il portiere che evidentemente invitava tutti quelli,

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pochissimi, che a quell'ora di notte, passavano per di lì. “Siamo stranieri.

Greci, per la precisione.” Dissi mentre Ascilto mi tirava le braghe per dirmi

di non parlare, di non dire niente. Ma ormai era fatta. “Greci?” disse, “Allora

più volentieri la casa vi accoglierà. I Greci conoscono l'amore. Venite.

Venite. In questa casa si mangia che è una bellezza. Venite. Non abbiate

paura.” Dopo tutte quelle corse la fame ci mordeva lo stomaco con dolori

inenarrabili. Quindi più che la paura di qualche altro inganno poté il digiuno

di un giorno con tanto di esercizi fisici estenuanti. Il portiere era una cinedo

vomitevole, grasso come un tacchino da brodo, dipinto in volto con la

volontà di sembrare una donna e con una parrucca femminile assolutamente

non credibile. Faceva schifo. Ascilto, quello stronzo, si riparò dietro di me

e quello, una vera e propria regina, mi appioppò un vomitevole bacio sulla

bocca. Mi pulii le labbra col dorso della mano ed entrammo in casa. In una

sala da pranzo sontuosa i musici, più d'uno, si alternavano in melodie

dolcissime che inducevano facilmente al sonno. “Non si mangia.” pensai.

Ma uno schiavo che sembrava avermi letto nel pensiero mi disse: “Siediti,

bel ragazzo, che il padrone ti farà servire tutto quello che vuoi. Il padrone

ama i bei ragazzi e vuol compiacerli in tutti i modi possibili. Siediti. Siediti.

Mi sdraiai sul primo letto vuoto e Ascilto si sdraiò davanti a me muovendosi

sui fianchi caso mai il mio fringuello desse segni di vita. Macché! Gitone ci

voleva, non lui! La sua barba ispida mi scoraggiava tanto che la mente non

riusciva a coinvolgere il mio bambino. A un certo punto divenne così

esplicito nel tentativo di eccitarmi che gli dissi “Smettila, mi vergogno!” ma

lui si mise a ridere. “Di che ti vergogni? Qui non c'è nessuno!” E aveva

ragione! Sembravano tutti addormentati, a tal punto la casa era piena

dovunque di gente che sembrava ubriaca di satirio. Tutti credono

che il titolo di questo libro sia dovuto alla volontà di fare satira contro i

nostri governanti, di Roma e di tutti quelli sparsi per l'impero. In realtà non

è così. Non è da “satyra” che deriva il titolo di Satyricon, ma da “satureia”,

un'erba aromatica che si usa in cucina per dare sapore ai cibi e da cui,

insieme ad altre erbe, si ricava un infuso, il satirio, una bevanda stupenda

che ti stravolge l'anima. Il suo titolo deriva da questo infuso meraviglioso

che viene usato dappertutto nell'impero per consentire ai Romani di

raggiungere la massima potenza sessuale, fare all'amore e poi abbandonarsi

a dei sonni ristoratori durante i quali la mente viene consolata da un

susseguirsi di immagini e sogni meravigliosi. Come si potrebbe fare la satira

al felice impero di Nerone? Come si potrebbero prendere in giro i governi

imperiali che si sono susseguiti fino ad oggi e che hanno fatto la fortuna di

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Roma e di tutte le città del mondo? Il satirio! Il satirio! Non so quanto ne

bevvi, ma il mio piccolo, si fa per dire, non dette comunque segni di vita

neanche quando Ascilto me lo prese in bocca con la sua maestria di maschio

abituato a fare la femmina. Mi addormentai e dormii fino a quando non

sentii un gran trambusto e Ascilto che mi scuoteva. Il padrone, Licurgo,

aveva finalmente fatto ingresso nella sala e aveva ordinato agli schiavi di

servire le prime pietanze. Il dormitorio si era improvvisamente trasformato

in un mercato e Licurgo con la sua toga bordata in oro, al centro di esso, in

compagnia di una donna vecchia ed arcigna, impartiva ordini agli schiavi

per il buon andamento del banchetto. Ascilto finalmente riuscì a svegliarmi

e la coscienza mi ritornò del tutto quando mi sussurrò in un orecchio che il

padrone, Licurgo, era il padre di famiglia che se lo voleva inculare dentro al

bordello.

“Ma adesso non può farti niente: c'è la moglie!” dissi, “Mangiamo a

sazietà e poi ce la squagliamo.” E così fu. Ma il vecchio porco aveva

riconosciuto Ascilto e quando fummo fuori della villa era già lì: era solo ed

era chiaro che non aveva intenzioni violente; infatti ci fermò e ci scongiurò

di farlo felice per quella notte. “Se non ci vuoi stare tu,” diceva ad Ascilto,

“convinci il tuo amico. Vi farò ricchi. Ma non vedete quant'è vecchia e brutta

mia moglie? Che vi costa? Voi greci siete abituati a prenderlo in culo. Vi

prego, restate. Diventerete i miei preferiti e vi farò fare la carriera politica

prima qui a Pompei e poi a Roma.” Ascilto mi fece il solito cenno di intesa

e, congiunte le nostre forze, sistemammo quell'importuno. Mi

prostrai improvvisamente dietro di lui fingendo di accettare il suo invito.

Ascilto gli diede una spinta. Licurgo, incontrando il mio corpo chino, cadde

a terra di schiena e non si rialzò più: noi, mentre lui cercava invano di farlo,

aggirammo di corsa la casa arraffando vesti e gioielli e dopo avergli

strappato di dosso anche la toga che lui ormai non era in grado di difendere,

fuggimmo a perdifiato nella notte.

In casa di Quartilla, vicino al tempio di Priapo.

Riposàti e rifocillàti come eravamo, la nostra corsa durò veloce fino a

quando non ci trovammo di nuovo in campagna vicino a un povero tempio

costruito alla meglio. Entrammo per ripararci dall'umidità della notte che a

Pompei è terribile e ci addormentammo. Al mattino ci risvegliò una

gradevole voce di donna che rivolgendosi ad Ascilto gli diceva: “Ma il tuo

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amico è impotente? Sono tre ore che cerco di eccitarlo in tutti i modi e sono

tre ore che lui e il suo piccolo non danno segni di vita. Sta male?” “No, non

sta male.” le spiegò, “E' vittima di una fattura del dio Priapo che non glielo

fa addrizzare più. Non sappiamo perché.” “E mbè? Io sono sacerdotessa del

dio e in quattro e quattr'otto gli farò concedere il perdono.” “Magari!.... E

qual è il tuo nome, sorellina? Ti prego, fallo guarire.” “E come no? Vedrai

che presto tornerà a fare l'amore meglio e più di prima. Il mio nome è

Quartilla. Ma adesso sveglialo e fallo mettere in ginocchio nudo.” “Ma fa

freddo, signora.” “Meglio! Il freddo indurisce. Deve stare nudo davanti al

dio.” “Ma quale dio? Dove sta?” “Vieni, vieni!” Prese per mano Ascilto e lo

condusse davanti al tempio. Io li seguii e sul cancello dell'orto che stava

intorno al tempio vidi la statua di Priapo uguale uguale a quella che Ascilto

aveva rotto a Marsiglia e davanti ad essa Gitone inginocchiato.

“Inginòcchiati e pregalo. La conosci la preghiera del dio?” “No.” “Va bene

uguale. Di' soltanto: Salve, padre santo, salve, Priapo. Il dio capirà.” Poi uscì

e dopo un po' tornò con un coniglio che teneva per le orecchie e che sbraitava

per quella scomoda posizione. Era accompagnata da una specie di schiavetta

che appena rientrati nel tempio vicino all'altare le passò un coltellaccio e

Quartilla, senza né “a” né “ba”, sgozzò la povera bestia facendo scorrere il

suo sangue sull'altare e quasi gridando mi disse: “Vieni, vieni,

inginòcchiati!” Così feci e quella invasata affondava le mani nel sangue del

povero coniglio agonizzante e poi le stringeva intorno al mio pene con

l'intento di colorarlo di rosso. Ora o che fosse il sapiente contatto delle sua

mani o che fosse realmente la potenza del dio, il mio pisello alzò

prepotentemente la testa e lei senza esitazione se lo infilò nella fica gridando

come una pazza “Sì, siii. Ce l'abbiamo fatta!” Poi, quando fui venuto, se lo

sfilò con destrezza e alzandosi e tornata all'altare squarciò il corpo della

povera bestia, lo eviscerò e offrì al dio le interiora pronunciando strane

parole, non traducibili né in latino né in greco, che erano tutti anagrammi

del termine sator, termine che forse allude alla grande potenza di

inseminazione del dio. Finita la preghiera, Quartilla intinse le mani in quel

corpo ancora palpitante, ne estrasse il fegato, si fermò ad osservarlo e poi

invasata cominciò a cantilenare: “Grazie, Priapo, ti rendo grazie, mio dio, di

averlo fatto guarire. Fallo armare di nuovo, o grande iddio!” Poi bevve

ancora sangue del coniglio e di nuovo incominciò a verniciare con esso il

mio fringuello che si eccitò subito. A quel punto ebbi paura. Quella pazza

sanguinava da ogni parte e mostrava chiaramente di volermisi fare ancora.

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Fuga da Quartilla.

Feci un cenno ad Ascilto e anche stavolta non avemmo il coraggio di

affrontare la situazione fino in fondo. Di nuovo una grande corsa per

sfuggire a quella pazza, che mi si era fatto quasi senza che me ne accorgessi,

e per rientrare in città alla ricerca del nostro albergo. Prima infatti Gitone

per correre ci aveva perso di vista. Giravamo come due storditi cercando un

segno che ci permettesse di orientarci, ma quando noi cercavamo l'albergo

Pompei diventava più grande di Atene. Non si finiva mai di perlustrarla e ci

si ritrovava sempre al punto di partenza. A notte fonda esausti ci

accasciammo sui gradini di una casa qualsiasi e lì restammo fino all'alba.

Che ci svegliò presto quando ancora il sole non era visibile ma il cielo si era

già tinto di rosa. Ci rimettemmo a cercare sperando che con la luce la ricerca

fosse più proficua, macché!

Per fortuna improvvisamente, come se fosse attraverso il fumo di

un fuoco acceso lì vicino, vidi Gitone che se ne stava in piedi ai

bordi di una stradina secondaria e allora, insieme ad Ascilto, mi

precipitai verso di lui e Gitone, divertito, ci disse che l'albergo era poco

distante.

Gitone piange.

Tornammo dunque in albergo e mentre chiedevo al mio amichetto

se avesse preparato qualcosa da mangiare, quello, sedutosi sul

letto, cominciò a piangere come una fontana asciugandosi le

lacrime col pollice. Poi, dopo una lunga pausa in cui si mostrava

reticente a spiegare il perché di quel pianto dirotto, indotto dalla

mia furia incominciò a parlare: “Il tuo fratellino, come dici tu, prima

che tu arrivassi è venuto di corsa qui in albergo e ha cominciato

ad allungare le mani perché mi si voleva fare. Io ho cominciato a

chiamare aiuto e allora lui ha sguainato la spada e mi ha

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minacciato.” Non gli feci dire altro. Mi avventai a pugni chiusi su

Ascilto gridandogli: “E tu che dici, marchettaro figlio di puttana che

di puro non hai neanche il fiato?” Ascilto finse di meravigliarsi e

poi alzando la voce più di me gridò:”Sta zitto, gladiatore di

mmerda, che il pubblico graziò solo perché crollasti a terra senza

vita. Sta zitto. Zitto, assassino notturno, che non ti sei mai

cimentato con una donna e che ti ho fatto da amante come fa ora

questo pischello.” “Mi hai abbandonato mentre discutevo col

maestro di retorica.” “Che dovevo fare, idiota? Avevo una fame da

morire. Avrei dovuto mettermi a sentire le chiacchiere di un

maestro di oratoria, cocci vecchi e interpretazioni di sogni. Sei

molto più riprovevole tu che ti sei messo a lodare quel poetastro

improvvisato per rimediare una cena.” “Perché? Io, secondo te, non

avevo fame, no?” “Il nostro guaio è proprio questo:” disse Ascilto, “noi due

siamo più devoti alla dea Fame che a Priapo.” La battuta ci fece ridere e

così, a forza di ridere, da uno scontro durissimo passammo serenamente a

fare quello che c'era da fare. Però il tentativo di Ascilto di sedurre Gitone

non mi si voleva levare dalla testa. Mettevo in ordine, rifacevo il letto,

preparavo l'acqua per il bagno, cercavo insomma di distrarmi da quel

pensiero ossessivo, ma non c'era niente da fare. Gitone, solo Gitone, sempre

Gitone ritornava nei miei pensieri. Ed ecco che a un nuovo assalto di

quel ricordo, cioè dell'offesa arrecatami da Ascilto gli dissi:

“Ascilto, io capisco che noi non si può più andare d'accordo. Perciò

dividiamoci le bisacce e cerchiamo di vincere la nostra miseria

ognuno per conto suo. Sia tu che io conosciamo la letteratura: io,

per non ostacolare le tue iniziative, cercherò qualcos'altro;

altrimenti ogni giorno avremo mille motivi per litigare e finiremo

nelle chiacchiere di tutta la città.” Ascilto disse di sì e aggiunse:

“Oggi però, poiché abbiamo accettato un invito a cena come

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studenti non roviniamoci la nottata; poi io mi procurerò un altro

alloggio e un altro amico.” Ma io volevo concludere subito e gli

risposi: “Perché rimandare quel che si può fare subito? E' una

perdita di tempo.” La libidine mi spingeva ad accelerare la

separazione: da un pezzo infatti desideravo che quello scomodo

terzo incomodo si togliesse di mezzo per il desiderio di farmi

Gitone secondo come avevamo cominciato a fare da quando ci

eravamo incontrati. Infatti quel ragazzo, non so perché, o forse perché era

un devoto del dio Priapo, nonché addetto al suo tempio più importante,

quello sul foro di Pompei, me lo faceva addrizzare subito con misteriose

cantilene in latino arcaico di cui io non capivo nulla. Sembrava, il mio

fringuello, come il cobra che si ergeva spaventoso dal cesto dell'indiano

suonatore di flauto sulla piazza di Atene. Ma per Gitone il mio pisello non

era spaventoso affatto. Anzi! Lo venerava come un attributo sacro del suo

dio e lo salutava gioiosamente con la solita cantilena “Salve, padre santo,

divino Priapo, salve.” E dopo, dopo, o amplessi memorabili, o deliziosi

gridolini di Gitone che sembrava aprirsi totalmente fra le mie braccia stretto

da me in una morsa colma di libidine!

A cena da Agamennone.

Ma non ci fu verso di convincere Ascilto né io e Gitone potevamo

essere a nostra volta tanto convinti perché anche noi la fame ci tormentava

e dunque, dopo esserci dati una ripulita, ce ne andammo a cena da

Agamennone, quel vecchio maestro di retorica con cui avevo avuto la

discussione sulla decadenza dell'oratoria romana e che, grazie a me, ci aveva

invitato a cena. Che fu modesta ma sufficiente a sfamare i nostri stomaci.

Gli invitati erano pochi e tutte persone colte che parlavano di argomenti

importanti mostrando di conoscere i nostri filosofi molto meglio di noi greci.

Il successo di Gitone era enorme: incedeva tra gli invitati circondato di

ammirazione e non c'era nessuno che cercasse di fargli la corte. Perciò mi

insospettii e chiesi spiegazione al commensale che avevo vicino. “Ma come?

Non lo sai? E' un sacerdote di Priapo e gode del diritto di scegliere lui l'uomo

con cui vuole andare a letto; sembra però che la cosa non gli interessi. Non

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c'è nessuno a Pompei che si possa vantare di averlo avuto per amante. Forse

si sarà innamorato di qualcuno dei sacerdoti, magari quello che gli ha fatto

la festa per primo, beato lui! E' tanto bello quanto casto. E' così, lui dice, che

deve essere un sacerdote, anche se del dio Priapo. In realtà alcuni dicono

che riceva solo i più dotati, quelli che nessuna donna per paura vuole, e che

li soddisfi masturbandoli con grande perizia. Ma sono chiacchiere. Non se

ne sa niente di certo.” Fui rassicurato da queste parole e cominciai a parlare

della filosofia greca tenendo banco fra quei sapienti che ne sapevano

abbastanza per starmi ad ascoltare con una certa competenza. Agamennone

poteva ritenersi soddisfatto. I suoi invitati mostravano verso la mia sapienza

la stessa ammirazione che avevano per la bellezza di Gitone. Insomma per

quella sera aveva indovinato gli inviti e quella cena sarebbe rimasta a lungo

nella memoria dei suoi convitati. A mezzanotte ci congedammo, sazi e

soddisfatti del successo avuto.

Una notte indimenticabile.

Era l'inizio del novilunio e non ci si vedeva a un palmo dal naso.

Mettemmo Gitone in mezzo tra me e Ascilto e cautamente, piano piano,

cercammo di ritornare all'albergo, perdendoci come al solito. Ci rimettemmo

in cammino e improvvisamente mi resi conto che non avevo più con me il

mio mantelletto sdrucito. “Me l'ha preso! Ascilto, me l'ha preso!” “Cosa?”

“Il mio mantello.” “Ma chi?” “Quell'uomo che abbiamo incontrato poco fa.

Si è avvicinato per salutarci e mi ha sfiorato. E' stato lui che me l'ha preso!”

“E che ti importa? Era tutto vecchio e a pezzi.” “Sì, ma ci avevamo cucito

dentro i pochi denari che avevamo e i gioielli rubati a casa di Licurgo.” Nella

notte fonda l'insulto di Ascilto risuonò più sprezzante: “Deficiente! L'ho

sempre detto che sei un deficiente! Ma di più lo sono io che ti vengo

appresso.” Piangevo e camminavo come un automa. Gitone era ammutolito

e io disperato. Ascilto si era scostato da me. Sentivo i suoi i passi ma quasi

non lo vedevo. “Con questo buio è inutile cercarlo. Rassegnati. Non

piangere, cretino! Non serve a niente.” La notte pompeiana nel novilunio è

nera nera e compatta, però un lampo sinistro del vulcano che erutta

improvvisamente può illuminarla completamente rivelando alla vista

edifici, colonnati e statue della città con lunghe ombre che vanno verso il

mare. La paura ci teneva stretti stretti e camminavamo a turno io all'indietro

e Ascilto con Gitone in avanti, oppure il contrario ma con Gitone che

camminava sempre in avanti perché conosceva meglio di noi la città.

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Quando si udì il fragore di un'eruzione e la luce della lava lanciata in aria

illuminò i vicoli Gitone gridò: “Ci siamo: vedo l'albergo.” Si svincolò dal

nostro abbraccio e corse verso la porta; io lo seguii, ma Ascilto che in quel

momento camminava all'indietro fu lasciato lì da noi due e si perse di nuovo

nei vicoli che ormai credeva di dominare grazie all'indicazione di Gitone. Io

non sono né un vigliacco né un ingrato. Voglio bene ad Ascilto che è stato il

mio compagno per tutti questi anni, come ne voglio a Gitone, ma non ci

posso fare niente se Gitone me lo fa addrizzare e lui non più. Quando mi

accorsi che non era in casa, dissi subito a Gitone che bisognava cercarlo

immediatamente e mi slanciai fuori non sapendo neanche io dove andare.

Dopo aver perlustrato tutta la citta mi rassegnai e ritornai nella

cameretta dove Gitone ci aspettava e lì, dopo avergli strappato

tanti baci, a cui il pischello rispondeva volentieri lo abbracciai più

volte strettamente dando sfogo alla mia libidine con orgasmi da

urlo. Non avevamo ancora finito quando Ascilto si avvicina quatto

quatto alla porta della cameretta e, scardinata violentemente la

serratura, mi sorprese che me la godevo con il mio fratellino.

Evidentemente incazzato, riempì la cameretta di risate ironiche e

di applausi rivolti a me, tirò via la coperta che avevamo sopra e:

“Che stavi facendo, amico caro, sotto la stessa coperta del

ragazzo?” Ma non si accontentò solo delle parole di scherno: sfilò

la cinghia della bisaccia e cominciò a frustarmi mica tanto per

finta, aggiungendo anche sprezzanti rimproveri: “Così impari a non

condividere i tuoi beni con tuo fratello!” Grazie a Gitone, che era un

ragazzo davvero giudizioso, quello scontro durò poco. Io mi nascosi sotto

al letto e lui gli si gettò ai piedi supplicandolo di non frustarmi e giurando e

spergiurando che io non lo avevo toccato e che invece mi stavo riposando

perché ero andato a cercare lui per tutta la città. “Allora mi vuoi bene,

fratellino? Non ci dividiamo più? Vieni fuori, dai.” disse Ascilto. “Ma certo

che no.” rispose per me Gitone, “Lui non viene con me perché non ama più

te; ci viene perché io conosco le formule per compiacere il dio Priapo. Vedrai

che quando sarà guarito tornerai ad essere tu il suo amante. Via, adesso

calmati e distenditi anche tu, che sarai stanco. Io vado a cercare alla vecchia

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qualcosa da mangiare. Tu perciò riposati, che quella, lo sai, dopo vuol essere

pagata.” “E tu esci fuori da là sotto, cretino!” concluse Ascilto ridendo e

sporgendosi a guardarmi da sopra al letto su cui si era finalmente disteso.

Al mercato.

Il giorno dopo decidemmo di andare a vendere la toga rubata a

Licurgo. La fame era tanta e la vecchia si rifiutava categoricamente di

aiutarci se Ascilto non la scopava. Ma Ascilto diceva che non avrebbe potuto

neanche se fosse intervenuto personalmente il dio Priapo. Il sole già era

al tramonto quando arrivammo nel foro, in cui trovammo un bel po'

di merci, non molto preziose ma la cui provenienza sospetta era

molto meglio che fosse nascosta dal calar della sera. Poiché

dunque anche noi avevamo portato lì un mantello rubato

decidemmo di cogliere quell'opportunità e in un angolo più scuro

cominciammo a scuotere il bordo di quella toga per vedere se caso

mai lo splendore di quella veste potesse attrarre qualcuno. Non

dovetti aspettare a lungo. Un contadino che già avevo intravisto in

città accompagnato dalla sua mogliettina mi si fece più accanto e

cominciò ad esaminare il mantello. Ascilto a sua volta alzò gli occhi

sulle spalle del contadino e rimase basito. E neppure io potei

guardarlo senza una profonda emozione: mi sembrava proprio

quell'uomo che in quel vicolo solitario mi si era avvicinato fingendo

di volermi salutare. No, anzi, era proprio lui. Ma Ascilto non si fidò

solo della sua vista. Per non sbagliare, prima gli si avvicinò come

se fosse un compratore interessato a quell'oggetto e poi cominciò

a palparne il bordo per vedere se il mantello era proprio quello.

Che botta di culo! Il contadino almeno fino a quel momento

non aveva ritenuto di dover osservare più di tanto l'oggetto rubato

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considerandolo uno straccio di poco conto da vendere il prima

possibile. Ascilto, visto che il denaro era ancora lì e che la persona

del venditore non poteva dare alcun problema mi tirò in disparte e

mi disse: “Lo sai, fratello, che il tesoro che davi per perduto è

tornato a noi? A quanto pare è quello il mantelletto pieno di denaro

che ti fu rubato. Che si fa? A che titolo possiamo rivendicarne il

possesso?” Rinfrancato non tanto perché vedevo recuperata la

mia roba ma soprattutto perché mi liberavo di uno spiacevole

sospetto, dissi che non era il caso di agire con sotterfugi ma di

seguire le vie della legge. Se quello non voleva restituire la roba

non sua l'avremmo chiamato davanti al pretore.

Ascilto invece non si fidava della legge. “Chi crederà a due

stranieri? Ho idea che sia meglio ricomprare ciò che è nostro e con

pochi soldi recuperarlo piuttosto che rischiare una lite temeraria.

Che possono le leggi dove il denaro regna

o dove nessun povero vincere mai potrà?

Anche quelli che seguono il cinico pensiero

molte volte barattano con il denaro il vero.

Altro non è giustizia che merce da scambiare

e vota il cavaliere sentenze da scontare.”

Non avevamo che pochi spiccioli per fare la spesa. Perciò,

affinché nel frattempo il mantello non sparisse, comprato da altri,

decidemmo di mettere in vendita la toga di Licurgo ad un prezzo

più basso del suo valore pensando che la perdita sarebbe stata

compensata dal recupero del nostro tesoro. Appena cominciammo

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a dispiegare quella toga la donna col capo coperto che

accompagnava il contadino, ispezionate le rifiniture dell'oggetto,

cominciò a gridare a piena voce “Al ladro, al ladro!”. Noi, colti di

sorpresa, per non sembrare di esserlo, a nostra volta, afferrammo

il loro mantello e con la stessa forza cominciammo a gridare che

la loro roba era roba rubata. Ma la lite era assolutamente

asimmetrica e dei sensali accorsi alle nostre grida lo

sottolineavano sorridendo, come fanno di solito, perché da una

parte si rivendicava una veste elegantissima, dall'altra uno

straccetto sbrindellato che neanche dei rattoppi avrebbero potuto

rendere appetibile. Perciò Ascilto cercò di farli smettere di ridere

e ottenuto a fatica il silenzio disse: ”E' evidente che a ciascuno di

noi sta a cuore la propria roba. Dunque ci restituiscano il nostro

mantello e si riprendano il loro. Al contadino e alla moglie la

proposta piacque, ma degli avvocati, o piuttosto dei furfanti

notturni, che volevano approfittare della lite e lucrarci sopra,

insistevano che affidassimo a loro i due mantelli e che il giorno

dopo se ne sarebbe occupato il giudice. Infatti, secondo loro, e a

ragione, erano in discussione non tanto gli oggetti contesi quanto

la loro provenienza sulla quale gravava un forte sospetto di furto.

Già erano tutti d'accordo sul deposito e uno dei sensali, pelato,

con la fronte piena di brufoli enormi, uno che qualche volta

discuteva anche delle cause, aveva afferrato la nostra toga e

assicurava che il giorno dopo l'avrebbe presentata al giudice. Era

chiaro che non si cercava altro: gli indumenti depositati se li

sarebbero spartiti quei bricconi perché noi per paura del furto

commesso non ci saremmo presentati in giudizio. Noi ovviamente

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stavamo pensando la stessa cosa che pensava il contadino e così

il caso venne in aiuto ad entrambe le parti in contesa. Infatti il

contadino, incazzato, perché noi chiedevamo che la sua merce

fosse oggetto di giudizio, scagliò in faccia ad Ascilto il suo

straccetto per noi prezioso e ci ingiunse, non essendoci più motivo

di litigare, di restituire loro la toga che era la sola che l'aveva

provocata. Noi a nostra volta ingiungemmo all'intrigante sensale di

consegnare al contadino la merce che era sua. E il sensale obbedì: ormai era

stanco come tutti noi di una discussione che per l'esiguo valore delle merci

era durata sin troppo a lungo e recuperato, almeno credevamo, il

nostro tesoro, corremmo di filato verso l'albergo e, chiusa bene la

porta, cominciammo a ridere come pazzi dell'acume dei sensali

non meno che degli avvocati, che ci avevano accusato di furto,

poiché, proprio grazie al loro acume, ci avevano ridato il nostro

denaro.

Se un desiderio preme e non dà pace

soddisfarlo all'istante non mi piace

né mi piace di avere un talismano

che metta la vittoria a portata di mano.

L'arrivo di Quartilla.

Ma ci eravamo appena ingozzati della cena gentilmente

preparataci da Gitone che all'improvviso sentimmo bussare con

forza alla porta. Pieni di paura chiedemmo chi fosse e la risposta

fu: “Apri e lo saprai!”. Mentre ci consultiamo sul da farsi la

serratura cede di sua iniziativa e la porta si apre alla visitatrice.

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Era proprio quella che col capo coperto stava poco prima insieme

al contadino e ci disse: “Voi vi credete di avermi fregato? Io sono

l'ancella di Quartilla, la donna che avete interrotto mentre stava

compiendo il rito davanti all'altare di Priapo. Peggio per te, mi disse,

eri quasi guarito e adesso invece tornerai ad essere impotente. Non si

offende impunemente il dio. La mia padrona è venuta qui di persona e

chiede di potervi parlare. Non preoccupatevi: non intende né

rimproverare né punire il vostro errore; anzi, si chiede meravigliata

quale dio sia, se non è Priapo, quello che ha condotto sul suo

territorio giovani come voi, così colti e così bene educati.

Noi eravamo interdetti e non sapevamo che fare. La donna

allora entrò, senza aspettare il nostro invito, con una ragazzina per

mano. Si sedette sul mio letto e cominciò a piangere. Neppure

allora noi riuscimmo a parlare. Aspettavamo che finisse quel

pianto chiaramente ostentato per mostrare quanto dolore la

opprimesse. Finalmente quel rovescio di lacrime finì, si tolse il velo

dal fiero capo e, facendo schioccare le nocche delle mani,

incominciò: “Da dove viene questa audacia? Su quali libri avete

imparato simili comportamenti? Per Giove protettore dei segreti,

ho pietà di voi, perché mai nessuno poté assistere impunemente

a dei riti sacri segreti, anche se in questa regione ci sono più dei

che uomini. Ma io non sono venuta qui per vendicarmi. Sono

indulgente con la vostra età più di quanto sia offesa per il vostro

comportamento sacrilego: avete commesso ma non in piena

consapevolezza un crimine inespiabile. Io quella notte, intirizzita

dal freddo, temo di essermi presa la febbre terzana. E perciò

dormendo nel tempio di Priapo ho chiesto al dio di rivelarmi qual

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è la medicina per questo male e in sogno il dio mi ha ordinato di

cercarvi e di alleviare così gli assalti del male nei momenti di

maggiore violenza. E non mi preoccupo tanto della medicina; più

forte è la preoccupazione che ho dentro e che mi sta portando alla

morte: che cioè voi, per giovanile intemperanza, non divulghiate

ciò che avete visto nel tempio di Priapo e riveliate a tutti i segreti

del dio. Tendo quindi le mie palme alle vostre ginocchia e vi

scongiuro di non fare oggetto di scherno i riti a cui avete assistito

quella notte, riti protetti da una secolare tradizione e che a

malapena un migliaio di uomini conosce.”

Dopo questa supplica ricominciò a piangere e profondi

singhiozzi le stravolgevano il volto che affondò di nuovo nel mio

petto. Io la invitai a stare di buon animo e a non cedere né alla

compassione né alla paura: infatti nessuno avrebbe divulgato il

contenuto dei riti cui avevamo assistito e se il dio le avesse

suggerito qualche rimedio alla sua febbre noi l'avremmo aiutata

anche a nostro rischio e pericolo. Resa più allegra da questa mia

promessa mi baciò fittamente e passando dalle lacrime al riso con

mano delicata e leggera incominciò ad accarezzarmi dietro

l'orecchio i capelli che io allora portavo lunghi e disse: “Facciamo

una tregua. Io vi assolvo perché avete accettato di aiutarmi nel

cercare la medicina di cui ho bisogno. Sia chiaro che se non aveste

accettato era già pronto uno squadrone di miei schiavi etiopi che

vi avrebbero punito severamente.

Essere offesi è indecenza,

ma perdonare è un gran bene.

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Amo poter andar liberamente

là dove l'estro mi chiama.

Anche il saggio, offeso, reclama

e se non lo fa con violenza

di solito esce vincente.”

Recitati questi versi, esultò in un applauso e in una risata così

scomposta e rumorosa che ci fece temere il peggio. Anche perché

la stessa cosa fecero l'ancella e la ragazzina che erano venute con

lei.

Tutta la stanza fece eco a quelle risate fragorose che

riempirono di sé l'albergo e noi ci guardavamo tra noi o

guardavamo le tre donne che, ridendo come pazze, facevano una specie

di girotondo a tre vorticando con violenza finché non caddero tutte e tre a

terra svenute. Poi piano piano si ripresero e il riso nuovamente si mutò in

qualcosa d'altro, una specie di coro muto che quelle intonavano voltolandosi

per terra con la stessa violenza con cui avevano riso. Noi tre, io Ascilto e

Gitone, non sapevamo che fare. Restavamo in silenzio in attesa che quelle

invasate riprendessero il loro aspetto umano: per il momento esse

sembravano cuccioli di belve feroci che stessero facendo un loro gioco

violento ma innocuo. A un certo punto, spossate, si fermarono e tacquero.

Noi ci rinfrancammo, ma per poco. Improvvisamente Quartilla schizzò in

pedi con occhi di fuoco dilatati e crudeli e rivolgendosi a me dopo avermeli

piantati a due dita dal naso, disse: “Per questo io ho proibito che oggi

nessuno sia ammesso in questo albergo, perché, senza che

nessuno ci disturbi, io possa avere da voi il farmaco per curare la

febbre terzana.” Quando disse queste parole, Ascilto ne fu un po'

preoccupato; io invece, reso più distaccato e freddo dagli inverni

marsigliesi, riuscii a non proferire verbo. Ma i miei compagni mi

inducevano a non temere niente di peggio. Infatti erano tre

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donnette: se avessero voluto tentare qualcosa, erano

naturalmente inferiori; noi invece eravamo, se non altro, di sesso

maschile. E inoltre eravamo in vesti molto più succinte. Anzi, io

avevo già formate le coppie da combattimento: io con Quartilla,

Ascilto con la schiava e Gitone con la ragazzina. Quella stronza però

aveva preorganizzato tutto. Batté tre volte le mani come per manifestare la

gioia di aver ottenuto il nostro assenso, ma in realtà per mandare il segnale

convenuto a sei negri da due metri di altezza che irruppero nella sala e

neutralizzarono Ascilto e Gitone, lasciandomi libero di essere circondato

dalle tre che mi spogliarono nudo, ma lentamente, perché io facevo

resistenza e “Dai, spogliati e spogliati, che sei così bello!” “Come gli piace

il culetto al dio Priapo, anche se è di un uomo!” cantavano in coro

infilandomi le dita nell'ano. Io mi difendevo e gridavo di rifiuto e di dolore,

anche perché quelle tre scalmanate non ci andavano piano e la piccola

cercava di penetrarmi con la sua manina delicata ma decisa che mi faceva

gemere come una donna in orgasmo. “E spogliati! e spogliati!” “E come sei

bello!” “Guarda, se vuoi guarire, che cosa devi fare. E' la punizione che

Priapo pretende per i miscredenti come te.” E io, vigliacco: “Non sono stato

io, è stato Ascilto!” “Ma quale Ascilto? quale Ascilto? E guarda, e

guardaaa!” e così dicendo mi girò la testa verso i due negroni che erano

rimasti a sbarrare la porta: uno dei due aveva un membro pauroso, e in

erezione. Le tre donne mi trascinarono fino a lui e gridavano: “Bacialo,

bacialo e prega il dio di perdonarti, peccatore, miscredente. Lo vedi che c'è

il dio. Bacia il cazzo se vuoi guarire. E prepara il culo. Ci vogliono due

coglioni come i tuoi per prenderlo in culo senza gridare e cosi dicendo mi

infilò a forza un grosso panno in bocca affinché non gridassi e con l'altra

mano piena di grasso di maiale mi massaggiò l'ano cantando: “Prendilo,

Priapo. E' tuo. E perdona questo peccatore che non ti vuole credere.

Prendilo, spaccalo in due, fagli capire qual è la tua potenza e finché non

mugola e sbava come una troia non smettere di incularlo. Prendilo, o grande

iddio, fallo guarire.” Guardavo il negro con occhi terrorizzati ma finché

stava fermo, pensavo, non correvo rischi... però a un certo punto vidi che

affondando una mano nella stessa vescica di grasso dalla quale si era

rifornita Quartilla stava ora spalmando quel membro pauroso e mentre se lo

masturbava in quel modo si avvicinava lentamente verso il nostro gruppo di

donne, cioè delle tre donne più me; anche l'altro negro avanzò, mi abbracciò

e mi mise in piedi. Io con le braccia libere cercavo di dargli dei pugni sulla

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schiena ma per quel monumento di negro erano carezze; poi Quartilla mi

fermò le braccia e sempre cantando diceva: “E fermo! Fermo! Non lo sai

che per Priapo devi essere una verginella paurosa di dargli la fica. Lui dai

maschi vuole il culo, ma come se fossero donne. E sta buono!” Ero perduto!

Il negrone mi teneva stretto a sé; Quartilla mi teneva le braccia incollate

sulla sua schiena e quelle due disgraziate, la serva e la ragazzina, avevano

afferrato ciascuna una delle mia natiche e le divaricavano paurosamente.

“Grande iddio, prendilo, prendilo è tuo!” Ma io resistevo e con tutta la forza

che potevo cercavo di stringere gli sfinteri. Ma ormai tutti, compreso il toro

che quella pazza aveva incaricato di stuprarmi, cantavano verso di me:

“Rilassati, bambina,

non farti violentare.

Vedrai che se resisti

lui ti farà più male.

Ormai sei una fanciulla

che deve dare il culo

al dio che se ti incula

presto ti guarirà.”

Già il negro me lo aveva appuntato tenendomi saldamente per i

fianchi. Cercavo di gridare ma... mi pareva di gridare: era solo un'illusione.

Quel toro infojato e determinato mi premeva con quel suo enorme attributo.

Decisi di rassegnarmi e di rilassarmi, aspettando la morte. Ma quello,

stranamente, agiva con cautela e destrezza. Con la testa del pene mi

massaggiava l'ano delicatamente e io ormai rilassato e rassegnato mi

abbandonavo lentamente a quel massaggio che incominciava a piacermi.

Sentivo che gli sfinteri uno dopo l'altro cedevano e quel porco,

evidentemente abituato a svolgere quella funzione, quando le tre donne

cominciarono a gridare impazzite “sfondalo sfondalo” mi diede il colpo di

grazia. Il dolore tremendo mi tramortì, nella testa ebbi come un fulmine che

la attraversava con un'enorme scia di luce e svenni fra le braccia dell'altro

negro che non mi mollava e che quando mi vide senza coscienza prese con

una mano una brocca d'acqua che le tre puttane avevano messo lì per la

bisogna e me la scaraventò in faccia. Non so quanto restai svenuto e quando

rinvenni (ma quando rinvenni?) mi sentivo quell'aggeggio che stantuffava

dentro di me perlustrandomi le viscere senza pietà. “Devi godere

consapevolmente” mi disse il negro con tono imperativo, “sennò il dio non

ti fa la grazia.” E l'altro spingeva e spingeva procurandomi un dolore

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insopportabile perché si rinnovava ad ogni botta che dava dentro di me col

suo pisello e quella condizione di dolore incominciava a sembrarmi eterna.

Svenni di nuovo e di nuovo fui svegliato nel modo che ho detto. Cercai di

resistere e di essere il più cosciente possibile e allora mi accorsi che il mio

fringuello era teso come nelle sue migliori prestazioni. “Lo vedi, lo vedi.”

Gridavano quelle tre forsennate. “E spingi, spingi!” gridavano al negro, “che

il santo padre Priapo lo sta perdonando. Guarda come gli si addrizza, guarda

come gli si addrizza.” Quartilla si inginocchiò e cominciò a farmi un

pompino magistrale. Il dolore e il piacere si unirono e io credo di non aver

mai più goduto così pienamente. Il cazzo del negro che mi inculava era

implacabile come la lingua di quella maiala di Quartilla. Facevo fatica a

restare cosciente, ma a quel punto me lo imposi come un dovere e non so

per quanto tempo potei godere come una troia, ma sicuramente fino a

quando lo schizzo del mio sperma inondò il viso di Quartilla e allora quella

balzò in piedi gridando come invasata. Tutti in contemporanea lasciarono le

loro prese. Anche il negro che mi stava inculando; dandomi però, a mano

libera, per così dire, un altro paio di botte e venendo anche lui; gli altri

liberarono Ascilto e Gitone e cominciarono a danzare cantando di nuovo la

canzone di ringraziamento al dio che fa “Salve, padre santo, Priapo, salve.”

Io non ce la feci ad alzarmi. Il negro che mi teneva mi fece bere da una

coppa un liquore dolcissimo che seppi poi essere il celebre satirio e mi sdraiò

su un letto che era stato apparecchiato come tutto il resto per quel rito. Non

mi addormentai perché l'ano mi sanguinava vistosamente, ma ero felice.

Sembra che il satirio abbia questa straordinaria capacità: se te lo bevi non ti

addormenta, ti leva solo una parte della coscienza in modo che la mente

possa fluttuare, senza che tu possa farci niente, da un'immagine all'altra,

immagini che sembrano pensieri ma pensieri non sono: sono solo ribollii

della tua mente che resuscitano il passato e che si confondono con la realtà

presente. Vedevo il Partenone, il Pireo, il primo uomo che mi aveva stuprato

consenziente compensandomi con mille dracme e poi Ascilto e poi Gitone e

poi la ragazzina e non capivo se li stavo sognando o se stavo realmente

vedendo quelli che erano lì con tutti gli altri. E le note del loro canto di

ringraziamento accompagnavano il fluttuare delle immagini che mi si

avvicendavano nella testa. Non ho più provato in seguito un piacere tanto

grande. E quando questa fluttuazione dei miei pensieri cominciò a finire mi

accorsi di avere ancora il cazzo dritto per un'erezione violenta e impossibile

da far rientrare. Cercavo con lo sguardo Gitone, ma il ragazzo sembrava che

si fosse eclissato. Cercai Ascilto ma vidi che uno di quei negri se lo stava

inculando sull'altro letto che avevamo in quella misera stanza d'albergo.

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Vedo allora Quartilla che con la faccia ancora sporca del mio sperma si stava

chinando sul mio fringuello. Capisco che quella porca vuole scoparmi

ancora perché è salita sul mio letto e si è inginocchiata su di me a gambe

divaricate. ”Non vuoi restituire al dio quello che ti ha dato? Ma allora sei

proprio un miscredente fottuto!” E allora le dico: “Signora, tu sai qual è il

mio problema. Il tuo dio mi vuole punire perché forse in qualche modo io

l'ho offeso. Ma io non posso fare quello che tu vuoi da me.” “Per questo,

infamone, sei fuggito, quando nel tempio io ero quasi riuscita a convincere

Priapo a perdonarti e a restituirti la potenza sessuale.” “E' vero, signora, sono

fuggito, ho avuto paura: troppo sangue, troppo dolore; quello per me non

era un piacere, era una tortura. Fare l'amore senza desiderio è una tortura.”

Rise sguaiatamente secondo il suo solito e gridò: “Allora non mi vuoi,

beccamorto?” “No, signora; non ti desidero, ma non ti devi offendere! Io

non desidero le donne. A me piacciono solo i ragazzi e solo quando vedo o

penso al loro culetto riesco ad eccitarmi. Io sono nato in Grecia ed ero bello

come una fanciulla. Sai quanti uomini mi si sono fatti insegnandomi l'amore

degli efebi; sicché alle donne non ho mai pensato né ci penso più. Non riesco

proprio a pensarci! Ogni volta che qualcuna mi si offre o mi costringe io

cedo, se è bella come te, ma non provo proprio nessuna emozione.”

Lasciò il letto, balzò in piedi e gridando come una furia mi fece

una predica con una voce alterata da un'ira profonda: “Ecco perché il dio ti

punisce, disgraziato! Tu non sai che ti perdi, povero infelice. Se non scopi

con le donne come farà l'umanità a riprodursi? Devo curarti; per Priapo,

devo curarti!” Poi a Gitone: “Vieni qui. Tu sei il trovatello di Priapo, no?

Siete voi che avete rovinato il nome del dio, tu e quei frocioni dei sacerdoti

che ti hanno allevato. Vieni qui.” Ma Gitone, miracolosamente riapparso da

dove era nascosto, sembrava non volersi muovere. In realtà era trattenuto da

uno di quei negri che se lo stava inculando e che io non vedevo perché era

completamente nascosto dal buio della stanza che in quel punto era totale.

Capii che quella porcona voleva assistermi mentre mi facevo Gitone che

però per il momento non era disponibile e perciò infojata dal mio fringuello

perfettamente eretto, gridando “Il dio lo vuole!” balzò di nuovo su di me e

se lo infilò nella fica godendo come una pazza. Io però non riuscivo a venire.

E perciò quando quella pazza venne lei, cambiò di nuovo posizione e si

infilò il mio pisello anche nel culo sempre cantando le lodi del dio. Credetti

di morire; in realtà essendo semicosciente fui ingannato dal trucco di quella

porca fottuta che gridava “Ecco Gitone, ecco Gitone!” Pensai che il culo di

Quartilla fosse quello di Gitone. Mi arrovesciai su di lei e la inculai

selvaggiamente come facevo con quel ragazzetto bellissimo che io amavo

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come fosse mio fratello, mio figlio, mio tutto.

Il rito volgeva al termine. Ognuno di noi, ormai sfiancato da

quell'orgia di accoppiamenti ripetuti, si abbandonò al sonno

pensando che non fosse il sonno ma una sicura morte ciò che ci

stava chiudendo gli occhi.

A notte fonda un delicato e crescente suono di tamburelli ci

svegliò piano piano a tutti. Nessuno di noi si rendeva conto di dove si

trovasse e che cosa fosse accaduto prima. Né ci fu consentito di rendercene

conto. Quartilla aveva istruito uno di quei negri (gli altri che non avevano

compiti dovevano solo provvedere a tenerci fermi se tentavamo fughe o

violenze) e lo aveva dotato di una frusta dolorosissima e quello si aggirava

per la stanza ordinandoci imperiosamente di bere le coppe che quella pazza

di sacerdotessa aveva fatto riempire dall'ancella dopo averla mandata a

procurarsi il satirio al tempio.

Beviamo. C'è poco altro da fare, ma io ci provo ugualmente:

“Ti supplico, signora, se ci stai preparando qualcos'altro di

terribile, che sia veloce e definitivo. Noi non abbiamo commesso

niente di così grave da dover essere puniti tanto crudelmente.”

“Ma che dici? Che dici, scemo? Stai guarendo. Stai godendo. Stai sognando.

Che vuoi di più? E' così che si prega il dio se vuoi guarire definitivamente.

Devi avere pazienza, devi avere. Sei un idiota. Non capisci che solo io ti

posso guarire? Non dar retta a quel frocetto del tuo amico. Lui sta nel tempio

di Priapo solo perché è un trovatello ed è così bello da fare la gioia di quei

vecchi maiali dei sacerdoti. Ma loro non possono nulla, il dio non li ascolta.

Il dio ama la fica, le donne vogliose, le pazze come me che quando vedono

un cazzo gli si buttano addosso. Obbediscimi, se vuoi guarire; altrimenti

vattene pure a fa 'n culo tu e i tuoi amichetti froci.” I risultati c'erano: le diedi

credito. Bevvi un'altra coppa di satirio e mi affidai alla volontà del dio.

Intanto la schiava, che si chiamava Psiche, distese accuratamente

un tappetino sul pavimento. Spense le fiaccole più vicine e si gettò sui

miei inguini, che erano a portata di mano perché bastava alzarmi il

gonnellino. “E' inutile, Psiche, anche se hai rovesciato i ruoli del mito a me

con una donna non mi si addrizza.” “Ah no?” disse infuriata “Vediamo se ti

si addrizza adesso.” Entrarono due di quei giganti negri che ci avevano fatto

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il servizio prima. “Sono perduto!” pensai. Cominciai a gridare come un

pazzo. Gridavo. Gridavo e basta, in preda ad un attacco isterico che

assomigliava ad un episodio di epilessia. I due negri si spaventarono.

Credettero che veramente il dio mi avesse graziato e mi avesse fatto il dono

dell'epilessia e inginocchiatisi cominciarono ad adorarmi come se fossi io il

dio e non Priapo. Capii subito il gioco e quindi continuai a gridare strizzando

l'occhio a Gitone che mi capì al volo e che si inginocchiò anche lui

cominciando a biascicare una incomprensibile preghiera in latino arcaico

che ormai nessuno capiva più. Ascilto allora si tirò su dal suo giaciglio, si

spaventò e cominciò a piangere come una pavida femminuccia smarrita che

teme di veder morire il marito. Non sapevo che fare, ma visti i risultati, a

scanso del peggio, continuai a gridare, questa volta però parlando, ma in

greco, in modo che solo Ascilto potesse comprendermi. Gli dicevo: “Non

aver paura, sto benissimo, lo faccio solo per tener buoni questi due

energumeni che mi credono una creatura divina. Dai, inginocchiati anche tu

come Gitone e fingi di pregarmi.” Eseguì immediatamente, anche perché

nessuno poteva più controllarlo; infatti Quartilla e la ragazzina erano sparite.

Potevo compiere l'opera. Sempre urlando posi le mani sulla testa dei due

negri e recitai la formula con cui a Roma si emancipavano, cioè si

liberavano, gli schiavi. Appena ebbi finito, i due energumeni si alzarono, mi

baciarono e poi se ne andarono abbracciati come se avessero vinto una

lotteria.

Psiche era interdetta. Ora era lei che non capiva più. Per fortuna

tornò Quartilla con la ragazzina e le disse: “Levati, buona a nulla! Ho quello

che ci vuole per questo smidollato. E' un rimedio consigliatomi dal dio.

Spegni tutte le fiaccole e lascia la stanza nell'oscurità. E tu, Encolpio, non ti

muovere se vuoi guarire veramente.” Uscì, restò fuori della stanza per

qualche minuto e poi rientrò con un'ampolla di profumo con cui mi cosparse

da capo a piedi togliendomi di dosso tutti i panni. Profumavo come una

puttana dopo il bagno. “Sei bellissimo!” Mi diceva lei. “Ah, se ti piacessero

le donne, che notti potremmo trascorrere insieme. Ma ho una sorpresa per

te.” Poi rivolta a Psiche: “Portami un'altra coppa di satirio.” “Bevi, mi disse,

vedrai che sorpresa!”

La sorpresa.

Intanto Psiche e e la ragazzina Pannichide avevano spento tutte le

fiaccole meno una che faceva una tenue luce con la quale non era possibile

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neanche riconoscere una persona. Quartilla batté le mani ed ecco che

compare sulla porta un giovane cinedo di angelica bellezza. Non era la solita

regina vecchia, con la parrucca e imbellettata in modo da sembrare

un'improbabile donna; era giovane ed aveva un cosino quasi invisibile che

sembrava una clitoride. Era di una bellezza mozzafiato. Mi si avvicinò, mi

divaricò le gambe e si inginocchiò in mezzo ad esse poggiando le sue mani

sul mio ventre. Io pensavo che come al solito mi avrebbe preso in mano il

pisello e invece quell'angelo sembrava del tutto indifferente al mio bischero.

Mi prese le mani e se le portò dietro la schiena facendomi sollevare. Seduto,

guardavo i suoi occhi splendenti e luminosi e i riccioli abbondanti e perfetti

che gli incorniciavano il bellissimo viso completamente glabro e senza

neanche l'ombra di un pelo. Era una donna? ma no! Da vicino il suo sesso

anche se minuscolo recava i chiarissimi segni del maschio.

Automaticamente abbassai le mie mani dalla schiena al fondoschiena. Ma

lui si rilassò più pesantemente sulle gambe anteriori in modo da impedirmi

di afferrargli le natiche. “Baciami, stupido!” mi sussurrò. Non me lo feci

dire due volte, mentre le mani cercavano di sorpassare lo sbarramento che

quel perfido opponeva loro e che gli impedivano di arrivare in paradiso. Lo

baciai senza interruzione, lui mi prese la testa con entrambe le manie e me

la schiacciò contro la sua, poi la staccò dalle labbra e continuando a

sussurrarmi “Baciami, baciami!” me la spostava lui dove voleva essere

baciato: sulle spalle, sulle mammelle, sul ventre. Era un maestro di anatomia

oltre che di seduzione. Lentamente il mio bischero si sollevò e allora le mie

mani cercarono freneticamente il suo culetto che quel perfido continuava a

negarmi. Lo baciavo, gli sbavavo addosso tutto il mio desiderio, gli cercavo

con le mani le natiche, ma lui fingeva di non capire. Quando vide che la mia

erezione era completa si tirò indietro di scatto e inchinatosi me lo prese in

bocca e contemporaneamente dovette liberare le natiche e lasciarmele

afferrare con tutta la violenza del desiderio represso fino a quel momento.

Non so se sospirasse gridando o se gridasse sospirando. Anche lui sembrò

esaudire un desiderio represso fino a quel momento con violenza. Non ebbi

più freni, lo girai e me lo inculai con suo grande piacere, arrivando a mia

volta a raggiungere il massimo del godimento. Ma stavo lì lì per venire

quando Gitone che aveva finalmente capito cosa stava succedendo ci

piombò addosso e con un bastone cominciò a bastonarci provocando in me

un piacere anche maggiore. Gridava come un pazzo per la gelosia e per

fortuna io ebbi l'idea di fargli credere che avevo scambiato per lui quello

splendido cinedo che mi ero appena inculato. Sembrò aspettare e desierare

anche lui quella scusa assurda per rassicurarsi del mio amore per lui. E allora

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lo rafforzai nella sua convinzione aggiungendo che avevo creduto che fosse

Priapo a mandarlo da me. Guardò finalmente anche lui quello splendido

cinedo che giaceva mezzo svenuto sul tappeto steso a terra da Psiche: lo

avevo letteralmente sfondato come mai mi era accaduto prima: il ragazzetto

singhiozzava in silenzio nascondendo il viso sulla stuoia e coprendosi l'ano

con una mano come a volerlo proteggere da un secondo attacco violento,

come quello che aveva appena subito. Ero guarito? Il solo pensiero mi

faceva girare la testa. Abbracciai Gitone e immediatamente il mio bischero

rispose. Ero dunque guarito e Gitone era sempre il mio amore; ma Gitone

mi respinse e, con la sua solita grande sensibilità, si inginocchiò vicino al

cinedo e lo accarezzò a lungo fino a quando non si addormentò. Mi sembrò

che i due si conoscessero: avrei indagato.

Infatti il sonno, dopo il cinedo, sembrò impadronirsi di tutti noi e la

nostra povera stanza in poco tempo piombò nel silenzio.

Mi svegliai che quella puttana di Psiche mi stava letteralmente

possedendo come se fosse lei il maschio. Mi teneva stretto e mi baciava

furiosamente tenendomi infilato nell'ano un fallo finto di non so che

materiale. Sperava così di eccitarmi, ma niente da fare. Allora con l'altra

mano cercò di eccitarmi davanti, ma il mio attributo era ormai

morto di mille morti. “Cosa stai facendo al mio amico?” le disse Ascilto,

nel frattempo svegliatosi anche lui; non ricevette risposta: la ragazza come

una furia afferrò il bastone che Gitone aveva lasciato lì e gli appioppò una

gragnola improvvisa di colpi dai quali Ascilto non si poté riparare. Però si

era coperto il capo col mantello, ma quando ormai era troppo tardi, così

imparava a impicciarsi degli affari altrui: la furia della ragazza era stata

repentina e a termine. Si calmò subito e si distese a terra chiamando vicino

a sé le altre due. Si addormentarono e restarono tranquille per un bel pezzo.

Appena si accorse che dormivano, Gitone ci chiamò a raccolta per vedere

se si poteva uscire da quella situazione, ma nessuno di noi aveva idee

convincenti e per di più io non volevo andar via perché mi pareva veramente

che stessi incominciando a guarire. Insomma, alla fine decidemmo di

dormire anche noi e di riposarci in attesa degli eventi.

Che notte fu quella! Non era ancora l'alba e le tre pazze ci

svegliarono di nuovo improvvisamente per continuare a fare i loro giochi

erotici che facevano passare per riti sacri a Priapo, ma che oggi, a ritroso,

penso che erano solo la loro insaziabile voglia di cazzo.

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Ci svegliammo e ancora satirio. Il satirio si presenta come una

bevanda gradevole che sembra avere per base vino più miele, ma poi anche

altra roba per cui più ne bevi più senti che ti sciogli e ti apri agli altri. Ci

trovammo senza neanche accorgercene nel bel mezzo di una conversazione

sulla bellezza delle città e sulla bellezza di Roma in particolare, di cui tutti

avevamo sentito parlare. Più di un milione di abitanti! Piazze con enormi

templi di marmo! Terme grandissime con tutti i bagni a diversa gradazione

termica! E vita, vita notturna interminabile e movimentata! Oh, Roma,

Roma! Che desiderio avevamo io e Ascilto di arrivarci, ma ormai

pensavamo che non ci saremmo arrivati mai. L'avevamo avuta due volte in

vista e due volte l'avevamo perduta. La nostra condizione era quella di chi

desidera una cosa immaginata di cui sa però con certezza che esiste la realtà

corrispondente ma sa anche di non poterla raggiungere mai. Era la peggiore

forma di disillusione continua con cui forse quel dio voleva punirci. Ma che

dio! Che Priapo! Chi ci credeva più negli dei? Erano stati tutti cacciati dal

mondo da quella nuova dea, Roma, potente e superba, l'unica capace di

decidere del destino di ognuno. Un po' favoleggiando e un po' riportando

notizie vere avevamo trascorso un bel po' di tempo a parlare di Roma e della

vita che vi si svolgeva, quando l'ancella tirò fuori da una tasca due

nastri e con uno ci legò i piedi, con l'altro le mani. Noi la lasciammo

fare; ormai eravamo rassegnati a quella vera e propria persecuzione

sessuale, io per la speranza di guarire e Ascilto perché più che altro divertito.

Anzi, poiché l'occasione delle chiacchiere cominciava a venir

meno, cambiò discorso: “Ma come? Io non sono degno di bere con

voi?” L'ancella, avvertita dalla mia risata, cominciò a battere le

mani e mi disse: “Bello, io l'ho versato per tutti e tu ti sei trincato

da solo tutta la medicina.” “E' proprio così?” disse Quartilla:

“Encolpio si è scolato tutto il satirio che c'era? Brutto porco! Allora

sei pronto! Vieni vieni, il dio Priapo ti vuole!” Mi trascina sul pavimento

come uno stuoino fino ai piedi del negrone già pronto a farmi il servizio e lì

mi gira sulla pancia cominciando a pregare Priapo di guarirmi. Ero legato

mani e piedi. Che potevo fare? Solo gridare per il male che

quell'energumeno mi faceva penetrandomi e chiavandomi con estrema

decisione e violenza. Con me per solidarietà gridava anche Ascilto che però

non poteva far niente neanche lui e anche Gitone, che avrebbe voluto

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soccorrermi, gridava, ma un altro negrone lo tratteneva inculandoselo e

l'amore mio gridando gli rendeva due servizi. Le nostre grida si univano a

quelle delle tre pazze che urlavano, come ammattite, scomposte preghiere

al dio. Il mio negrone finalmente venne e mi liberò del suo arnese. Quartilla

mi rigirò e con mia grande sorpresa vidi che mi si era addrizzato l'uccello

come nelle migliori occasioni. La pazza cominciò a versare lacrime a fiumi,

poi si mise a ridere scompostamente e, tiratasi su la veste, abbandonandosi

ad uno spegnicandela furioso come quello che un pittore ha disegnato poi

sulle pareti della casa di Vettio venne più e più volte. Gridava come se fosse

veramente invasata dal dio. Io non provavo alcun piacere ma il mio bischero

fece la sua funzione fino alla fine, fino a quando cioè quella puttana quasi

non svenne raggiungendo l'orgasmo. Si arrovesciò all'indietro sul pavimento

e restò lì immobile che sembrava morta, ma all'improvviso si riscosse e

invocò con un grido il dio Priapo e un riso aggraziato le scuoteva i

fianchi. Era una risata strana, a garganella, si diceva allora, strana e

contagiosa. Prima la seguì l'ancella, poi la bambina, poi i negri, poi Ascilto,

poi anche il negrone che si stava inculando Gitone e che lo lasciò andare

ridendo con un riso ancor più contagioso di quello di Quartilla, la quale ogni

tanto inseriva in quella sorta di sequela il nome del dio. Quasi quasi stavo

per convertirmi. L'uccello aveva ripreso a funzionare. Il mio amichetto,

Gitone, mi si avvicinò e neanche lui poté più trattenersi dal ridere. E

rise ancora di più quando Pannichide, la ragazzina, gli saltò

addosso riempiendolo di baci senza che lui le opponesse la

minima resistenza. “Hai capito?” Pensai. “Quel frocetto non disdegna le

attenzioni delle donne.” Ridevamo tutti come se fossimo impazziti né

potevo smettere se provavo a farlo. Era chiaro che qualcosa, forse il satirio,

aveva avvolto le nostre anime in una specie di semicoscienza che non ci

faceva capire niente di quello che facevamo. Ed era proprio così. Non

dovevamo capire. I negri si ripresentarono tutti e sei a cazzo dritto e noi

fummo torturati fino a notte inoltrata. Era un'orgia sanguinaria che quelle

tre pazze avevano programmato da prima.

Noi, poveri disgraziati, cercavamo di chiamare aiuto, ma chi

ci poteva sentire? E inoltre ogni volta che riuscivo a farlo gridando

“Aiuto, Quiriti, io sono un cittadino romano!” quella disgraziata di

Psiche mi punzecchiava le guance con uno spillone da capelli e

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intanto la ragazzina tormentava Ascilto con un pennellino che

intingeva nel satirio. Poi ecco che all'improvviso arriva un cinedo

con una veste verdemirto e una cintura ai fianchi alla quale

agganciava la veste per scoprirsi il culo e strofinarcelo addosso

sculettando; poi ci leccò il viso con baci schifosissimi finché

Quartilla, con una bacchetta di balena e con la veste tirata sù

ordinò alle altre due di concederci la grazia gladiatoria.

Poi, rivolta a noi, ci promise di lasciarci in pace se avessimo ripetuto

il giuramento che già le avevamo fatto. Entrambi, io e Ascilto, formulammo

in modo più solenne il giuramento che un segreto così raccapricciante si

sarebbe estinto con noi. Allora Quartilla batté imperiosamente le mani e

rivolta ai suoi schiavi negri ordinò: “Sù sù: tutti al tempio del dio per

ringraziarlo della grazia che ci ha fatto.” Noi tre non facemmo neanche in

tempo a riflettere su quanto stava accadendo. Tre di quei sei energumeni ci

sollevarono di peso; un altro raccolse le nostre povere cose e la processione

si avviò verso il tempietto di Priapo dove era stato sgozzato quel povero

coniglio. Cantavano cantilene incomprensibili. Forse erano preghiere, forse

no. Cantano tutti sempre in questo cazzo di paese, mentre il negro mi diceva:

“Se non scappi ti poso e ti faccio camminare da solo: non fuggire perché

tanto il dio ti riacciuffa.” “Sì, sì: te lo prometto.” Allora mi posò a terra, mi

tolse le bende dai piedi ma non dalle mani e mi lasciò camminare da solo

come l'ultimo degli schivi incatenati. Tristi pensieri mi attraversavano la

mente. Stranamente non avevo fame: forse era quel dolore insopportabile

all'ano che mi distraeva dal pensiero del cibo. Non c'era altro da fare che

mettermi a cantare con loro: “Che lodato / sempre sia / il gran nome / di

Priapo / che lodato / sempre sia...” Arrivammo al tempio che il sole era già

alto: nessuno di noi tre avrebbe mai potuto dimenticare quella notte di orge

sfrenate.

In casa di Quartilla.

Mica lo so quanto dormimmo! A un certo punto fummo svegliati da un

grande frastuono. Trombe e tamburi che suonavano una specie di marcetta

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assordante al suono della quale entrarono in casa parecchi palestrati,

che, senza chiedere il nostro permesso, ci massaggiarono con un olio

profumato e ci rimisero al mondo. Perciò, andata via la stanchezza,

ci rivestimmo per la cena e fummo condotti in una stanza vicina

nella quale c'erano tre letti per mangiare e una tavola piena di ben

di dio apparecchiato con estrema eleganza. Ricevuto l'invito a

sdraiarci e invitati a quella fantastica degustazione fummo

letteralmente inondati da un profluvio di Falerno. Poi fummo

serviti e riveriti con una serie portentosa di altre pietanze e già

stavamo scivolando nel sonno, quando Quartilla disse: “Ah, è così?

Come vi viene in mente di dormire sapendo che dobbiamo a Priapo

una notte di veglia?”

Una notte di veglia! Quella fu una notte di tregenda dalla quale

nessuno di noi sperò mai, finché non ebbe termine, di uscire vivo. I negroni

ci tenevano letteralmente per il naso e di tanto in tanto ci costringevano a

bere di nuovo un po' di satirio. Quel liquido maledetto ci toglieva il senno e

ci dava il sesso. Ormai giravamo intontiti per la casa quasi sempre a cazzo

dritto e loro, quegli assatanati, negri e no, maschi e femmine, appena ne

vedevano uno bello dritto si inginocchiavano per succhiarcelo o, in due, uno

ci teneva e l'altro o l'altra si metteva a pecoroni, ci costringevano a

metterglielo in culo o nella fica. Era un'orgia, ma quelle pazze la

accompagnavano ogni volta che la foja diminuiva con misteriosi canti al dio

Priapo che avevano l'andamento di sentitissimi inni cletici. Lo invitavano a

venire tra noi, ma in realtà invitavano solo i nostri cazzi ad ergersi per

appagare le loro voglie insaziabili. Non vi dico poi cosa accadeva se a

qualcuno di quei negri giganteschi gli si addrizzava. Sembravano

ammaestrati. Uno ci teneva in ginocchio e a testa in giù, un altro ci sbatteva

fra le natiche un liquido biancastro e vischioso che secondo loro doveva

facilitare la penetrazione e il terzo, quello col cazzo dritto, ci penetrava in

modo violento e spietato e noi... hai voglia a gridare! Le tre pazze coprivano

grida e lamenti con le loro cantilene sacre in onore del dio. “E' finita!” dissi

ad Ascilto in un momento che ci trovammo faccia a faccia. “Addio, amore

mio!” Mi rispose con gli occhi allucinati e pieni di lacrime. Ma gli aguzzini

non avevano pietà. Appena dette queste parole ci tirarono su per il naso e di

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nuovo satirio e satirio fino a ridurci a poveri corpi inerti. Ma quella bevanda

era davvero miracolosa! Dopo un po' che eravamo stati sdraiati a terra le

forze ci tornavano e il sesso tornava a inturgidirsi. Allora balzavamo di

nuovo in piedi e lo infilavamo nel primo culo che capitava, maschio o

femmina che fosse, e appena avevamo raggiunto l'orgasmo di nuovo uno dei

negroni ci penetrava violentemente facendoci sanguinare.

Le tre pazze intanto andavano in giro con tre ampolle in cui

raccoglievano tutto lo sperma e il sangue che potevano e ogni volta che

riuscivano a riempirne una la depositavano sulla mensola del focolare

cantando un inno di ringraziamento al dio.

Ma ecco che ad un segnale di Quartilla tutti sembrarono placarsi. Tutti

si distesero a terra e sembrò finalmente che fosse arrivato il momento di

trovare un po' di riposo. Nei momenti di lucidità pensavo ad Ascilto più che

a Gitone. Ascilto sembrava essere la preda più ambita da tutti quei pazzi.

Bello e aitante com'era e soprattutto ben dotato com'era evidentemente li

faceva sognare, quei maiali!

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Pensai veramente di non rivederlo mai più. Lo avevano violentato in

continuazione, glielo avevano messo dappertutto e appena che gli si

addrizzava glielo fiaccavano con un pompino o con un culo voglioso. Ora

era a terra, secondo me agonizzante, ma per fortuna no, come potei

constatare in seguito. E mentre, fiaccato da tante violenze, stava

scivolando nel sonno, l'ancella che lui, sfiancato, aveva da poco

respinto, gli cosparse tutta la faccia di fuliggine e gli disegnò dei

falli sulla bocca e sulle spalle. Ma Ascilto non era più in grado di

accogliere provocazioni sessuali. Aveva veramente dato tutto e io credevo

veramente che stesse per morire come del resto io. Tramortito da tante

violenze anch'io avevo, per così dire, cominciato a scivolare nel

sonno; anche tutta la servitù, dentro e fuori della casa, sembrava

ormai abbandonarvisi e cercare in esso un po' di riposo; alcuni

sdraiandosi si accovacciavano ai piedi dei commensali, altri

dormivano in piedi appoggiandosi alle pareti, alcuni si

appoggiavano l'un l'altro non trovando altro supporto. Anche le

lucerne poiché l'olio stava per finire emettevano ormai una debole

luce.

A questo punto due schiavi sirii entrarono nel triclinio per

rubarsi una bottiglia e litigandosela vicino al tavolo dell'argenteria

la fecero rompere e fecero tracollare anche il tavolo: un bicchiere

volato in alto ricadde violentemente sul capo di una schiava

ferendola seriamente. Quella si mise a strillare come un'aquila e

in questo modo attirò l'attenzione sui due ladri e svegliò parte degli

ubriachi addormentati. I due, quando capirono di essere stati

scoperti, finsero di dormire slanciandosi entrambi su un letto

vuoto con una sincronia che sembrava concordata in precedenza.

Si concluse così quella giornata terribile che Quartilla sosteneva essere

dovuta a Priapo se volevamo che la sua ira si placasse. Io intanto, mentre il

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sonno calava su di me, pensavo non di addormentarmi ma di morire, così

come credevo che fossero morti il povero Ascilto e quel fiorellino di Gitone

che la sorte mi costringeva ad abbandonare proprio in un simile frangente.

Il secondo giorno in casa di Quartilla.

Già il servo addetto all'organizzazione del triclinio, svegliatosi,

aveva rimboccato l'olio delle lucerne e gli altri schiavi

stropicciandosi un po' gli occhi erano tornati al loro lavoro quando

una cembalista entrando nella stanza e sbattendo i piatti di bronzo

svegliò tutti. Dunque si ricominciò a mangiare e Quartilla, eccitata

da quella suonatrice, ci invitò di nuovo a bere. Io, svegliatomi, quando

vidi Ascilto e Gitone che si congratulavano l'un l'atro dandosi il buon giorno,

pensai di stare in una zona dell'Inferno molto simile alla stanza in cui

Quartilla ci aveva ospitato e che tutti fossimo morti. Mi pizzicai le braccia

e piano piano mi convinsi anch'io che invece eravamo ancora

incredibilmente tutti vivi. Cominciai veramente a credere che la forza di

quel dio doveva essere immensa e che il potere del satirio doveva essere tale

da farti ricongiungere la realtà col sogno e di non darti più la possibilità di

giudicare e di misurare alcunché per la tua infelicità. Cominciavo insomma

ad acclimatarmi in quell'ambiente di gaudenti religiosi, o se credete, di

religiosi gaudenti, che col pretesto di onorare un dio mangiavano e

scopavano a loro piacimento qualsiasi cosa gli si parasse davanti senza

alcuna remora. Quartilla guardava quasi esclusivamente agli inguini degli

uomini. La sua serva non faceva altro che massaggiarle la fica col pretesto

di mantenergliela sempre calda e sempre pronta a ricevere il maschio, ma in

realtà, e si vedeva, provocandosi un certo ormai celebre piacere, quello

scoperto la prima volta dalla poetessa di Lesbo.

Non riuscivo a immaginare che cosa mai potesse avere in mente per

quel secondo giorno in quella sua casa vicina al tempio. Non vedevo in giro

ampolle di alcun genere, né di satirio né di sangue né di sperma, e mi colpiva

una calma inconsueta nella quale tutti sembravano muoversi con una

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lentezza innaturale. Pensai di nuovo che fossimo tutti morti, mi pizzicai di

nuovo le braccia, ma le braccia mi risposero che ero lì in carne e ossa, vivo

e vegeto, nonostante le sregolatezze della notte appena trascorsa. Quartilla

improvvisamente scomparve. Tutti si ricomponevano e coprivano la propria

nudità anche con un tocco di eleganza. Tutti si aggiustavano i capelli e si

guardavamo negli specchi per controllare le fattezze dei propri visi. Io e i

miei due amici ci guardavamo con sguardi interrogativi perché nessuno di

noi tre capiva che cosa mai ci sarebbe potuto succedere più di quello che ci

era già successo. La sua curiosità fu subito accontentata. Di lì a poco

ricomparve Quartilla con una culix in mano e alla testa di uno sparuto corteo

cantando un inno a Priapo e al dio Imeneo.

Più di tanto, mio dio, darti non posso:

tu non me ne volere e fai in modo

che io trovi un marito forte e sodo

che come te ce l'abbia bello grosso.

Tutti applaudivano e tutti gridavano “Priapo è tuo marito! Priapo ora

ti prende, ti ingravida e tu avrai un figlio che sarà un portento.” Si alzò una

specie di sipario e la stanza si trovò in comunicazione col tempio del dio.

Sull'altare c'era la sua statua enorme con un cazzo dritto dalle proporzioni

inimmaginabili. Uscirono da dietro l'altare bellissimi ballerini che fecero

una danza meravigliosa agitando le fiaccole e invocando Imeneo a nome del

dio Priapo. A quell'invito sembrò rispondere una specie di primo ballerino

bellissimo e superdotato che si slanciò su Quartilla e la scopò senza tanti

complimenti. La donna mugolava sotto i colpi di quel torello imbestialito e

tutti gridarono evviva di auguri fino a quando il rito non ebbe termine. Il

ballerino si ritirò. Quartilla si alzò e si ricompose, poi con la massima calma

invitò tutti a riprendere il proprio posto nella sala del banchetto.

Dove ecco che entra un cinedo, uno scimunito, un degno

rappresentante di quella casa di squinternati. Si fa scricchiolare le

nocche delle mani dalle quali uscì un suono acuto e stridente e poi

sciorinò questi versi incredibili:

“Venite qui, cinedi delicati,

venite qui di corsa, anzi volate,

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voi pronti di bacino, il culo morbido

e le mani espertissime a eccitare,

teneri, ben frollati nelle carni

voi che dal dio di Delo, il grande Apollo,

un dì foste evirati.”

Balbettati questi versi orrendi, evidentemente una sua

creazione, mi si avvicinò e mi appioppò un bacio schifoso sbavante

saliva. Poi venne addirittura sul mio letto e mi spogliò nonostante

la mia resistenza. Mi grufolò tra le gambe sleccazzandomi gli

inguini in lungo e in largo, ma inutilmente. Sudava per la fatica e

aveva la fronte bagnata della resina del suo sudore e tra le rughe

delle sue guance c'era tanto di quel fard che le avresti credute una

parete sgretolata da un temporale. Non riuscii a trattenere le

lacrime più a lungo, ero ormai alla disperazione e dissi: “Ti prego,

signora, non avevi dato ordine di servirci della culinaria?”; lei batté

le mani delicatamente e mi disse: “Ma che uomo di mondo! ma

che arguzia da servo! Ma come? Non avevi capito che il cinedo si

chiama 'Culinaria'? Allora per fare uno scherzo al mio amico, le

dico: “Ma come, signora, in questo triclinio solo Ascilto se ne può

stare senza far niente?” E Quartilla: “Vero, vero: sia servito della

culinaria anche ad Ascilto.” A queste parole il cinedo cambiò

cavalcatura e saltato addosso al mio amico lo soffocò di natiche

sul viso e di baci e sleccazzate sugli inguini. Intanto Gitone se ne

stava in piedi e si sbellicava dal ridere. Allora Quartilla,

accorgendosi di lui, chiese con insistenza a chi appartenesse

quello schiavetto. Le risposi che era il mio amasio. E quella: “E

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allora perché non mi ha ancora baciato?” Lo chiamò a sé, se lo

strinse al petto e gli affibbiò un bel bacio. Poi gli fece scivolare la

mano tra le gambe e dopo aver maneggiato a lungo la sua

dotazione ancora acerba disse: “Questa robetta me la farò servire

domani come antipasto: oggi, dopo quello di un asino, che me ne

faccio di uno strapuntino simile?”

Ma ecco che Psiche le si avvicinò all'orecchio ridendo e le

disse qualcosa che non potei sentire, ma Quartilla si agitò tutta e

le rispose: “Certo, certo, che bella idea, perché no? questa è

proprio una bellissima occasione per far sverginare la nostra

Pannichide. E subito fu introdotta la bambina, molto graziosa, che

non sembrava avere più di sette anni, la stessa che era venuta in

camera nostra la prima sera in compagnia di Quartilla. Tutti

applaudivano ovviamente e reclamavano a gran voce le nozze. Io

trasecolai e dissi che né Gitone, timidissimo con le donne, avrebbe

avuto la forza di portare a termine un'impresa simile né una

bambina di quell'età avrebbe potuto ricoprire il ruolo sessuale di

una donna adulta. “Perché?”, disse Quartilla, “lei è forse più

piccola di quanto lo ero io quando dovetti sopportare il primo

uomo? Giuro su Giunone che io non mi ricordo di essere mai stata

vergine. Infatti, da bambina, mi si facevano i bambini miei

coetanei, però una volta fui stuprata da un vecchio porco; poi,

mano a mano che passavano gli anni, mi mettevo con quelli più

grandi fino ad arrivare ad oggi. Da qui credo che derivi il proverbio

“può sollevare un toro chi ha sollevato un vitello.” A quel punto,

per evitare che Gitone ricevesse a mia insaputa un'offesa

maggiore, mi alzai e mi unii alla celebrazione di quelle nozze.

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Già Psiche aveva avvolto col velo da sposa il capo della

bambina; già Culinaria si era messo in testa al corteo con una

fiaccola; già le donne, ubriache, battendo le mani, avevano

formato un corteo dopo aver ricoperto il talamo con una sporca

coperta, quando anche Quartilla, eccitata dalla libidine di quei

debosciati si alzò anche lei, prese Gitone e lo trascinò in camera

da letto. Certo il ragazzo non si era rifiutato né la bambina si era

spaventata al sentire la parola “nozze”. E così mentre quelli se ne

stanno chiusi nel baldacchino del talamo noi ci sediamo davanti

ad esso e tra i primi ci fu Quartilla ad appiccicare il suo occhio

curioso ad uno spiraglio del tendaggio praticato ad arte e ad

osservare morbosamente i giochi erotici dei due bambini. Poi

indusse anche me, prendendomi carezzevolmente la mano, ad

assistere a quello spettacolo e, poiché i nostri due volti erano

attaccati ogni volta che c'era una pausa, storceva verso il mio le

sue labbra per affibbiarmi un diluvio di bacetti come se me li

stesse rubando.

La cosa non mi dispiaceva, tanto più che la sua mano era scesa

furtivamente verso i miei inguini e cercava furiosamente di masturbarmi e

poi fingendo di voler guardare nella fessura ma in realtà perché era

mostruosamente eccitata mi si metteva davanti e gridava “Guarda Gitone,

guarda Gitone!” evocando col suo culetto quello del mio amasio ed

eccitandomi oltre ogni dire.

Non so quante volte venni e gli altri con me e alla fine stremati

trascorremmo a letto il resto della notte. Nel sonno sentivo i commenti

degli altri sull'andamento della prima notte di nozze del mio Gitone. Da quel

poco che sentivo si capiva che non era stata una grande notte. I due ragazzini

si baciavano, si accarezzavano, ma mai a Gitone veniva in mente di

deflorare quella bambina e quando provava a girarla per incularla lei si

metteva a gridare facendo capire che sapeva bene di cosa si trattava e che

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lei non voleva. Quando però lui le chiedeva di prenderglielo in bocca allora

tutto si aggiustava con grande soddisfazione di entrambi.

Il terzo giorno in casa di Quartilla.

Quando ci svegliammo era ormai giunto l'ultimo giorno, cioè

quello della cena di liberazione, ma noi ormai esasperati da tutte

quelle sevizie preferivamo starcene da parte piuttosto che

mischiarci con quelli che erano tutti agitati in attesa di chissacché.

E allora mentre noi preoccupati cercavamo di capire in che modo

avremmo potuto evitare l'incombente catastrofe, un servo di

Agamennone disse: “Voi non sapete dunque da chi ci si riunisce

oggi. Ma da Trimalcione! Quel ricco sfondato che ha un orologio

con annesso trombettiere per farsi informare minuto per minuto

di quanta vita abbia già vissuto.”

Messo da parte il ricordo delle sventure passate ci

sistemiamo per bene per andare da Trimalcione e io ed Ascilto

ordiniamo a Gitone, sempre pronto ad obbedirci come un fedele

schiavetto, di non allontanarsi mai da noi dal momento in cui

saremmo stati introdotti nella piscina dell'ingresso della casa, dove

ti accoglieva un grosso orologio portaiella.

A cena da Trimalcione.

Dopo l'ingresso con l'orologio, andiamo oltre e arriviamo in una

grande sala da bagno. Incominciamo però a girare qua e là ancora vestiti

scambiando battute oscene con gli altri convitati che facevano pesanti

allusioni alla nostra bellezza: “A tua madre!” “A tua sorella!” “A quella

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bocchinara di tua moglie!” e così via. Ma ad un tratto vediamo un

pelato sulla cinquantina avvolto in una preziosissima tunica rosso

smagliante che giocava a palla con dei ragazzini stupendi: un

profluvio di riccioli. Lo spettacolo non ci attirò tanto per i ragazzini,

che pure erano magnifici, ma proprio per quel vecchio che giocava

con loro con una palla di un tenue colore verde. Che se gli cadeva,

mica la raccoglieva: c'era uno schiavo raccattapalle con una cesta

piena che ne gliene dava subito un'altra. Il tutto era molto strano.

Infatti dall'altra parte di quella pista circolare c'erano due frocetti

in piedi, dei quali l'uno teneva in mano un vaso da notte d'argento

e l'altro teneva il conto delle palle che cadevano per terra, chissà

perché. Noi guardavamo stupiti ogni cosa ma ecco che arriva

Menelao e fa le presentazioni: “E' questo l'uomo che vi ospita e la

cena è già incominciata.” Aveva appena finito di parlare che

Trimalcione fece schioccare le dita e subito il frocetto incaricato

gli mise davanti il vaso da notte mentre lui ancora giocava. Pisciò,

poi immerse le dita in un vaso d'acqua pòrtogli da un altro schiavo

e se le asciugò fra i riccioli di uno dei ragazzini.

Non c'era più tempo per ammirare tutte le meraviglie di quella

casa. Perciò andammo subito nella sauna e di lì, grondanti di

sudore, andammo sotto le docce fredde. Intanto Trimalcione che

si era spalmato di unguento si faceva ormai asciugare ma non con

dei teli qualsiasi, bensì con morbidi accappatoi di ciniglia. Intanto

i tre che lo stavano massaggiando si rifocillarono, stando davanti

a lui, con del Falerno, ma siccome se lo litigavano e lo facevano

cadere in gran parte per terra, Trimalcione, senza arrabbiarsi,

diceva che quelle erano libagioni agli dei per propiziare la sua

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salute. Fu poi avvolto in una coperta rosso scarlatto, adagiato su

una lettiga preceduta da quattro guardie armate e da una

carrozzella che trasportava il suo piccolo amasio, un ragazzo non

più tanto tale, cisposo e più brutto del suo padrone. Un musico,

che suonava e continuò a suonare per tutto il percorso all'altezza

della sua testa, accompagnava Trimalcione standogli proprio

accosto, come se gli volesse dire qualcosa all'orecchio. Noi

seguivamo il piccolo corteo insieme ad Agamennone, stupefatti...

e a un certo punto arrivammo davanti all'entrata della casa vera e

propria la cui porta era sormontata da una scritta così: “Ci sono

cento frustate per ogni schiavo che dovesse uscire di casa senza

l'autorizzazione del padrone.” E proprio all'ingresso c'era un

portiere in carne ed ossa, divisa verde con cintura rosso ciliegia,

intento a sgranare piselli in una bacinella d'argento. Proprio sulla

soglia era appesa una gabbia d'oro con dentro una gazza che dava

il benvenuto a chi entrava.

Stupito da tutte queste meraviglie, all'improvviso, per la paura,

faccio un salto all'indietro e per poco non mi rompo le gambe:

paura perché? perché a sinistra, poco distante dalla stanza del

portiere, c'era un cane enorme con tanto di catena, solo che era

dipinto sulla parete insieme con la solita scritta “attenti al cane”,

in caratteri cubitali. Gli infami dei miei compagni ridevano come

matti del mio spavento; intanto io, rassicurato, mi guardavo

incuriosito gli affreschi di tutta la parete: c'era dipinto un mercato

di schiavi ciascuno con la sua brava targhetta contenente nome e

provenienza. E Trimalcione, ancora un ragazzo dai bei capelli

lunghi, faceva il suo ingresso con in mano il bastone di Mercurio e

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guidato personalmente dalla dea Minerva. E poi a partire da qui

per tutta la parete c'era la storia della sua vita, tutta rappresentata

dallo scrupoloso pittore. Come avesse imparato a far di conto,

come poi fosse divenuto cassiere eccetera eccetera eccetera.

Nell'ultima parte dell'affresco, là dove il portico stava per finire,

Mercurio lo rapiva in alto tirandolo su per il mento fino a metterlo

seduto su di un trono regale. Gli stava accanto, da una parte, la

dea Fortuna, prona ai suoi piedi con una cornucopia strapiena, e,

dall'altra, le dee della morte, le Parche, che gli misuravano la vita

col filo che continuamente filano. C'era dipinto di tutto: una

squadra di servi che un istruttore stava allenando a correre, un

grande armadio e, nella parte superiore del portico, inquadrate in

edicole, delle statuette d'argento che rappresentavano gli antenati

morti di Trimalcione, una statua di Venere in marmo e un calice

d'oro, non tanto piccolo, nel quale dicevano che si trovasse

custodita la prima barba di Trimalcione. Chiesi allora al portiere il

soggetto delle altre pitture nella parte centrale dell'affresco. Mi

rispose: “L'Iliade, l'Odissea e il grande spettacolo gladiatorio

offerto a Trimalcione dal magistrato Gneo Pompeo Lenate, suo

benefattore.”

I miei compagni non mi dettero il tempo di fermarmi a guardare né

d'altra parte era possibile soffermarsi su qualche figura, tanta era

l'abbondanza dei dettagli. Arrivammo dunque vicino al triclinio

proprio mentre l'amministratore di Trimalcione stava facendo i

conti della spesa. Anche qui stranezze: sullo stipite della porta

c'erano affissi dei fasci littori con tanto di scure e la loro parte più

bassa terminava in un rostro di bronzo, come quello delle navi, sul

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quale c'era scritto: “A Gaio Pompeo Trimalcione, assessore

augustale, il tesoriere Cinnamo.” Con la stessa iscrizione c'era una

lampada a due fuochi che pendeva dal soffitto. Poi, fissate ai lati

della porta, c'erano due lastre delle quali una recava la scritta: “Il

30 e il 31 dicembre il nostro Gaio cena fuori.”; l'altra era dipinta

con il corso della luna e dei sette pianeti e i giorni fortunati e quelli

no erano contrassegnati da borchie differenti. Stufi di tutto questo

ci accingevamo ad entrare nel triclinio quando uno schiavetto

addetto a questo servizio ci gridò: “Col piede destro! Si deve

entrare col piede destro!” Per un attimo tremammo al pensiero

che qualcuno di noi potesse aver violato quella prescrizione; poi ci

rassicurammo, ci accordammo ed entrammo tutti in fila col piede

destro. Fu allora che uno schiavo tutto nudo si inginocchiò di botto

ai nostri piedi e ci implorò perché lo aiutassimo ad evitare la

punizione che gli era stata assegnata; protestava che non era

grave quello che aveva fatto e che la punizione era esagerata: nel

bagno si era fatto rubare la veste del tesoriere arrecandogli un

danno di massimo dieci sesterzi. Tirammo indietro il piede destro

e scongiurammo il tesoriere, che intanto senza badarci continuava

a contare i soldi, di perdonare il poveretto. Quello si degnò di

alzare la testa e disse: “Non è tanto il danno che mi fa arrabbiare

quanto la noncuranza di questo buono a nulla. Mi ha perduto un

abito da cerimonia regalatomi da un cliente per il mio compleanno:

un'autentica porpora di Tiro; però era già stata lavata una volta.

Ma tant'è. Ve lo regalo questo scimunito.”

Entrammo nel triclinio carichi della nostra generosità. Lo

schiavetto uscì fuori da non so dove e ci riempì con una serie

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infinita di baci che ci lasciarono attoniti e che quello accompagnò

con ripetuti ringraziamenti per la nostra comprensione. Poi disse:

“Basta! Capirete subito chi sono io: il vino del padrone, quello

buono, è il ringraziamento dello schiavo!” Finalmente ci sdraiamo

per mangiare e intanto schiavetti di Alessandria ci versavano

acqua ghiacciata nelle mani; altri ancora, subito dopo i primi, si

inginocchiarono per toglierci dai piedi, senza farci soffrire per

niente, le pellicole che avevamo intorno alle unghie. E cantavano!

Riuscivano a cantare mentre lavoravano pur dovendo assolvere un

compito così sgradevole. Per vedere se tutti gli schiavi cantavano

lavorando chiesi da bere. Uno schiavetto lì pronto mi servì...

cantando! Tutti gli schiavi cantavano: sembrava un'opera buffa,

non un triclinio dove si mangiava, almeno nelle case per bene.

Fu servito un antipasto raffinato: ormai tutti si erano sdraiati

meno Trimalcione al quale era riservato, contro ogni regola, il

primo posto del primo letto. Generalmente infatti il padrone di casa si

siede al primo posto del terzo letto della fila di sinistra entrando. Ma non è

importante: torniamo all'antipasto! Su un grande vassoio c'era un

asinello di bronzo corinzio con una bisaccia a due tasche

rispettivamente con olive chiare e scure. Sulla parte dei fianchi

lasciata scoperta dalla bisaccia l'asinello recava due piatti

d'argento con inciso il nome di Trimalcione e la caratura

dell'argento stesso. Dai piatti invece sporgeva una piccola

mensola che sosteneva un ghiro cosparso di miele e spolverato

con polvere di papavero. Sullo stesso vassoio delle salsicce

friggevano su una griglia d'argento e sotto la griglia c'erano prugne

siriane e chicchi di melograno.

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Ma ecco che sempre a suon di musica viene portato a tavola

Trimalcione. Fu accolto da una montagna di cuscini, imbottiti fino

all'inverosimile, sui quali Trimalcione si sdraiò suscitando le

nostre risate. La sua testa pelata sbucava da un mantello scarlatto

e intorno al collo già strozzato dal vestito portava un largo scialle

purpureo con tanto di frange alle estremità. Al mignolo della

sinistra un grande anello placcato in oro; un anello più piccolo, ma

tutto d'oro, nell'ultima falange del dito medio. Tutto d'oro per come

potevo giudicare io dalla mia posizione, ma tutto intarsiato con

pezzetti di ferro in forma di piccole stelle. Non bastandogli ciò, a

un certo punto si scoprì il braccio destro ostentando un bracciale

d'oro e uno di avorio intrecciati con una lamina splendente.

Si pulì i denti con uno stecchino d'argento, poi disse: “Amici

miei, scusatemi ma non potevo ancora venire a tavola; però per

non prolungare la vostra attesa sono venuto lo stesso: voi mi

consentirete di finire qui la mia partita.” Lo seguiva infatti uno

schiavetto con una scacchiera di legno pregiato, dadi di cristallo

e, invece delle pedine solite, monete d'oro o d'argento per i due

giocatori. Si mette a giocare e giocando sciorinava tutto il

repertorio delle parolacce dei carrettieri. Noi intanto, finito

l'antipasto, vediamo arrivare a tavola una cesta con dentro una

gallina di legno ad ali aperte a mo' di ventaglio come le mettono

quando covano. Subito si avvicinano alla cesta due schiavetti e

fingono di rovistare in mezzo alla paglia; sanno che tireranno fuori

delle uova di pavone da distribuire agli invitati. Allora Trimalcione

si girò verso quella sceneggiata di cattivo gusto e disse: “Amici,

sono uova di pavone, ma, perdio, vuoi vedere che dentro c'è già il

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pulcino?” Ne bevve una e concluse sganasciandosi dalle risate: “No, no,

si possono bere.” Arrivano dei cucchiai pesantissimi con i quali

rompiamo le uova ricoperte di uno spesso strato di farina

impastata. Rotto il mio uovo, mi sembrò davvero che dentro ci

fosse il pulcino e fui sul punto di gettare via tutto, ma sentii fra gli

invitati un veterano che diceva: “Qui dentro ci deve essere

qualcosa di buono.” Infilai la mano nel guscio e trovai un beccafico

che nuotava nel tuorlo ben impepato.

Trimalcione, interrotta la sua partita, si fece servire i nostri

stessi antipasti senza saltarne nessuno e ci invitò ad alta voce a

bere del vino melato nel caso che qualcuno avesse desiderato fare

il bis. Aveva appena finito di parlare che esplose dall'orchestra il

segnale che era per i servi addetti a ritirare i vassoi. I servi

portarono via tutto, ovviamente cantando, ma nel trambusto del

servizio uno fece cadere a terra un'insalatiera e un altro la

raccolse. Trimalcione ordinò che il primo fosse schiaffeggiato e al

secondo di rigettare a terra il vassoio in modo che il cameriere

addetto alle stoviglie, scopando per terra portasse via il vassoio

insieme agli altri rifiuti. Entrarono quindi due schiavi etiopi con i

capelli lunghi recando in mano piccolissimi otri, di quelli che negli

anfiteatri si usano per spargere la sabbia, e con quelli ci versarono

del vino sulle mani. Acqua, niente! Piovvero le lodi dei commensali

su queste raffinatezze e Trimalcione se ne beò fino alle lacrime.

Poi disse: “Marte ama il giusto. Per questo ho fatto apparecchiare

una mensa per ciascun invitato in modo che questi schifosissimi

servi non ci disturbino troppo durante il servizio.” Arrivano delle

anfore di vetro con tanto di sigillo e di etichetta: “Falerno

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Opimiano di cento anni.” Noi osserviamo stupiti le etichette

mentre quello commenta: “Ahimè, dunque, il vino può durare più

a lungo di un pover'uomo. Ma allora ubriachiamo le nostre budella.

Il vino è la vita. Vi sto facendo servire dell'autentico Opimiano. Ieri

ne ho fatto servire di meno pregiato, anche se avevo a cena gente

molto più importante di voi.”

Bevevamo ed osservavamo stupefatti tutto quel lusso senza

perderci il minimo particolare. Ma ecco che uno schiavo portò uno

scheletrino d'argento fornito di un automatismo che gli faceva

muovere automaticamente gambe e braccia in ogni direzione.

Trimalcione lo posò sul tavolo più di una volta in modo che

assumesse tutte le posizioni di cui era capace e sciorinò i suoi

versi scombiccherati:

Poveri poveri noi, / l'uomo ahimè non è nulla.

Tutti saremo così, / dopo la morte, all'Inferno.

Perciò godiamoci tutta / la vita finché stiamo bene.

Applausi a non finire; poi una portata che non era granché,

ma originale, tanto da attirare l'attenzione di tutti. Era un vassoio

rotondo con sopra, disposti in cerchio, i dodici segni zodiacali su

ciascuno dei quali il capocuoco aveva disposto cibi appropriati.

L'Ariete: ceci cornuti; il Toro: una bistecca di manzo; i Gemelli:

testicoli; il Cancro: una corona; il Leone: fichi d'Africa; la Vergine:

la vulva di una piccola scrofa vergine; la Bilancia: una bilancia che

sui due piatti aveva rispettivamente una focaccia salata e una

dolce; lo Scorpione: un pesciolino di mare; il Sagittario: un totano;

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l'Acquario: un'oca; i Pesci: due triglie. Al centro del vassoio una

zolla ti terra, sradicata insieme con l'erba, sulla quale era adagiato

un favo.

Uno schiavo egiziano distribuiva il pane ai commensali

tirandolo fuori da un piccolo forno d'argento e cantando. Allora

anche Trimalcione, con orrendi gorgheggi, straziò un'aria del

“Mercante di laterizi”, un'operetta allora in voga. I cibi dello zodiaco

erano proprio immangiabili ma noi molto malvolentieri cercavamo di

mangiarli lo stesso per non offendere il padrone di casa. E Trimalcione

incalzava: “Mangiamo! Mangiamo! Questo è il pezzo forte della

cena!” Dette queste parole, a tempo di musica entrarono

danzando quattro camerieri e tolsero la parte alta di quel “trionfo”;

quindi vediamo dentro di esso pollame, pancette e in mezzo una

lepre agghindata con ali di pollo affinché sembrasse un Pegaso, il

mitico cavallo. Notammo anche, agli angoli del trionfo, quattro

Marsia con piccoli otri: da questi colava garum sui pesci i quali

nuotavano come in un acquario. Tutti applaudiamo appresso agli

schiavi e tutti ci gettiamo ridendo su quei cibi prelibati. Allo stesso

modo, contento per quella raffinatezza, Trimalcione esclamò:

“Squarcia!”. Si fece avanti subito un addetto e muovendosi a suon

di musica anche lui ridusse in porzioni quella pietanza sicché ti

veniva da pensare che non era un cuoco, ma un gladiatore che

combatteva a suon di musica. Nondimeno Trimalcione lo incalzava

sillabando: “Squarcia! Squarcia!”. Io, sospettando che un grido

tante volte ripetuto si riferisse a qualche trovata spiritosa di

Trimalcione, non esitai a interrogare su ciò uno che mi sedeva

accanto. E quello, che aveva assistito spesso a giochetti di questo

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tipo, mi disse: “Quello che taglia si chiama 'Squarcia', così

Trimalcione con una parola sola lo chiama e gli dà l'ordine di

tagliare.” Ròso dalla curiosità non riuscii più a mangiare, ma

rivoltomi verso di quello, per saperne quanto più possibile,

cominciai, prendendola alla lontana, a chiedergli chi era quella

donna che andava di qua e di là . “E' la moglie di Trimalcione.” mi

disse, “Si chiama Fortunata, una che i soldi li misura a secchi. Ma

fino a qualche tempo fa chi era? Mi perdoni il tuo dio, non avresti

accettato neanche un po' di pane dalla sua mano. Oggi, com'è

come non è, ha fatto fortuna ed è il fiore all'occhiello di

Trimalcione. Insomma se a mezzogiorno gli dirà che è notte, lui le

crederà. Non lo sa neanche lui quel che possiede, tanto è ricco. E

questa mignottona pensa a tutto lei e te la trovi dove meno te

l'aspetti. E' astemia, sobria, di buoni principi – ha le mani d'oro -

però è una linguacciuta, una gazza da conversazione; ma solo se

gli piaci; se no, no. Trimalcione poi ha tali latifondi che ci volano i

nibbi, soldi su soldi. Nella guardiola del suo portiere c'è più argento

di quanto chiunque ne possa annoverare nelle sue fortune. Quanto

agli schiavi, 'leva e metti', giuro su dio che neanche la decima parte

conosce il suo padrone. Insomma, prendi uno qualsiasi di questi

babbei invitati stasera: Trimalcione se lo incarta in una foglia di

ruta.” Non c'è niente che egli debba comprare, tutto gli nasce in

casa: lana, cedri, pepe; vuoi il latte di gallina? Lui te lo procura.

Insomma, gli producevano lana che non gli sembrava buona?

Comprò degli arieti di Taranto e li mise nel gregge. Perché gli

nascesse in casa del miele attico, ordinò delle api di Atene: quelle

che aveva in casa sarebbero divenute un po' meglio insieme a

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quelle greche. Alcuni giorni fa ha scritto affinché gli mandino

dall'India dei semi di boleto, un fungo pregiato che qui non si trova.

Ha sempre il meglio: non ha una sola mula che non sia nata da un

onagro. Guarda quanti cuscini: non ce n'è uno che non abbia la

copertura di porpora o di scarlatto. Tanto grande è la felicità del

suo animo; però non sottovalutare gli altri liberti suoi pari. Sono

pieni di soldi. Vedi quello sdraiato lì in fondo? Oggi come oggi

arriva agli ottocentomila sesterzi. E' venuto su dal nulla, come si

dice. Fino a ieri portava mannelli di legna sulle spalle. Ma a quanto

dicono - io non so niente - ha rubato la lampada ad un Folletto ed

ha trovato un tesoro. Io non invidio nessuno, se a qualcuno un dio

gli concede un po' di fortuna. Ha ancora i segni della schiavitù, ma

ora non si fa mancare nulla. E così davanti alla casa padronale in

cui ha sgobbato finora ha messo un cartello con su scritto: “Gaio

Pompeo Diogene dal primo luglio affitta questa casa di cui ha

comprato le mura.”

Che dovrebbe dire quello che sta sdraiato nel posto riservato

ai liberti? Come se l'è cavata bene! Non lo rimprovero. Arrivò fino

al decimo sesterzio, ma poi fallì. Non credo che abbia più un

capello non ipotecato, e non, per dio, per sua colpa, non c'è un

uomo migliore di lui, ma dei suoi liberti scellerati che gli presero

tutto. Ricordati dunque: la pentola ai mezzi non bolle mai e appena

la tua fortuna prende una brutta piega gli amici se la squagliano.

Lavorò troppo onestamente, perciò si è ridotto così. Fece

l'impresario di pompe funebri. Faceva cene da re: cinghiali in

crosta, torte al forno, uccelli, cuochi, pasticceri. Sotto la sua tavola

scorreva più vino di quanto uno possa averne in cantina. Un mito,

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non un uomo! Quando la sua fortuna cominciò ad andare in

malora, temendo che i creditori non subodorassero che stava per

fallire organizzò un'asta con questo avviso: “Gaio Giulio Proculo

metterà all'asta il superfluo dei suoi beni.”

Questa bella conversazione fu interrotta da Trimalcione. Il

trionfo era stato portato via e i commensali avevano cominciato a

bere e a chiacchierare allegramente tra loro. Ma dovettero

smettere perché Trimalcione, appoggiato sul gomito, incominciò a

parlare: “Voi dovete fare buono questo vino; i pesci, bevono acqua.

Ditemi, pensate che io possa accontentarmi della cena che avete

visto in cima al trionfo? Così poco vi è noto Ulisse? Fatemi fare

una citazione dotta, anche a cena la cultura non guasta. Riposino

in pace le ossa del mio padrone che mi fece uomo tra gli uomini.

Per me non ci può essere niente di nuovo, come dimostra la

pietanza di prima che ora vi spiegherò. Questo cielo, nel quale

abitano dodici dei, si trasforma in altrettante figure, la prima delle

quali è l'ariete. Chiunque nasce sotto quel segno, possiede molte

pecore, molta lana, e inoltre una testa dura, una fronte spavalda,

corna aguzze. Sotto questo segno nascono molti maestri di scuola

e avvocati.”

Lodiamo tutti la finezza dell'astrologo che aggiunse: “Il cielo

quindi si trasforma in toro. Allora nascono i tipi riottosi, i bifolchi e

i misantropi. Sotto i gemelli invece nascono gli aurighi, i bovari, i

coglioni e i bisessuali. Sotto il cancro sono nato io. Per questo

tengo i piedi in più staffe e ho possedimenti sterminati per mare e

per terra. Infatti il cancro tiene i piedi in due staffe. Perciò già da

tempo non faccio mettere niente su questo segno: per non

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nascondere la mia nascita. Sotto il leone nascono i crapuloni e i

violenti; sotto la vergine le donne da quattro soldi, gli schiavi

fuggitivi e quelli in catene; sotto la bilancia, i macellai, i profumieri

e tutti quelli che per mestiere debbono pesare qualcosa; sotto lo

scorpione, gli avvelenatori e gli assassini in genere; sotto il

sagittario, gli strabici che ti fanno credere di guardare alle verdure

e intanto nel piatto si calano il fritto; sotto al capricorno nascono

i disgraziati a cui per i guai che hanno crescono le corna; sotto

l'acquario, gli osti e gli zucconi; sotto i pesci, gli addetti alla spesa

e i retori. Così il mondo come un mola sempre gira e fa sempre

qualche sbaglio affinché gli uomini nascano o muoiano. Nel mezzo

voi vedete una zolla e un favo. C'è un motivo: la zolla è la madre

Terra che sta nel mezzo rotonda come un uovo e contiene in sé il

favo che a sua volta contiene ogni bontà.” “Bravo!

Bravo!” gridiamo tutti e con le mani alzate verso il cielo giuriamo

che i più grandi astronomi greci non erano uomini da reggere il

confronto con lui. Finalmente arrivarono i camerieri e distesero sui

letti delle coperte, sulle quali erano ricamate reti da caccia e

cacciatori pronti con gli spiedi e insomma tutta l'attrezzatura da

caccia al completo.

Noi non avevamo ancora modo di formulare congetture per

spiegarci quei meravigliosi ricami quando una muta di cani della

Laconia, dopo aver fatto un gran baccano fuori del triclinio, irruppe

fra i letti correndo qua e là anche intorno alla tavola. Appresso a

loro un grande vassoio con sopra un cinghiale di enormi

dimensioni, con tanto di cappuccio e due panierini che gli

pendevano dalle zanne: erano di foglie di palma intrecciate e

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contenevano, uno, datteri freschi, e l'altro, datteri secchi. Dei

lattonzoli finti, fatti di pasta abbrustolita erano attaccati ai

capezzoli della bestia per indicare che era una femmina:

sarebbero stati poi per i commensali dei doni da portare a casa.

Per tagliare il cinghiale non si presentò Squarcia, ma un gigante

con la barba che aveva le gambe avvolte da fasce e sulle spalle un

mantello di vari colori; impugnò un pugnale da caccia, squarciò

con violenza un fianco del cinghiale e dalla ferita uscì in volo uno

stormo di tordi. Ma degli uccellatori stavano lì pronti con le panie

ed in un attimo catturarono tutti quegli uccelletti che svolazzavano

nella sala. Poi dopo aver ordinato di riportare i tordi ciascuno al

suo posto, Trimalcione aggiunse: “Guardate un po' di che ghianda

raffinata si nutriva quel maiale selvatico!” E subito i camerieri si

avvicinarono ai panieri che pendevano dalle sue zanne e

distribuirono equamente ai commensali datteri freschi e datteri

secchi.

Io mi chiedevo dal mio cantuccio come mai il cinghiale fosse

arrivato col cappuccio. Dopo un po' di supposizioni senza costrutto

tornai ad interrogare il mio informatore di prima. E quello: “Che

domande fai? Lo capirebbe perfino uno schiavo che oggi il

cinghiale rifiutato dai commensali di ieri sera ritorna in tavola con

la tenuta da liberto.” Mi rammaricai con me stesso per la mia

ingenuità e non feci più domande per non far capire che non ero

mai stato a cena con gente importante. Intanto ecco un bel

ragazzino incoronato con tralci di vite e di edera (stava

impersonando infatti le diverse manifestazioni del dio Bacco) che

se ne andava in giro con un panierino d'uva e con voce da soprano

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interpretava poesie del suo padrone. Trimalcione gli fa eco coi suoi

soliti doppisensi: “Dioniso, sii Libero!” che sono i due nomi con cui

in greco e in latino viene chiamato Bacco. Il ragazzo obbedì

immediatamente, tolse il cappuccio dalla testa del cinghiale e se

lo mise lui. Allora Trimalcione col solito cattivo gusto sentenziò:

“Se sono padre di un Libero, anche mio padre era Libero!”.

Applaudimmo tutti quella battuta insulsa e riempimmo di baci il

ragazzino che faceva il giro per farseli dare.

Poi Trimalcione si alzò per andare al gabinetto e la

conversazione senza di lui che la dominava incontrastato riprese

liberamente. Un certo Dama disse che il giorno non esisteva

perché non facevi in tempo ad alzarti che già era notte. Dunque

era meglio andare subito a pranzo appena alzati. E quel giorno in

particolare, perché faceva un gran freddo, perché il bagno non ti

riscaldava e perché era bene aiutarsi con bevande calde. Lui

infatti se ne era scolate parecchie una dopo l'altra.” “Io non faccio

il bagno tutti i giorni - disse Seleuco - l'acqua ha i denti e così ci

consuma dentro e fuori. Invece dopo un buon vino e miele il freddo

se ne va a far fottere. Del resto oggi non ho neanche avuto il tempo

di lavarmi perché sono dovuto andare ad un funerale. Povero

Crisanto! Ci ho parlato fino all'altro ieri. Si era messo a dieta, ma

non è servito a niente. Mamma mia, siamo niente! Siamo meno

delle mosche! Sono stati i medici a rovinarlo... o la mala sorte? E'

più probabile la seconda, tanto si sa che i medici non servono ad

altro che a consolarti se devi morire. Però ha avuto un bel funerale.

Un bel compianto. Ci credo: con tutti gli schiavi che ha liberato! La

moglie soltanto non ha versato neanche una lacrima. Vai a far del

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bene al mondo, va. Alle donne poi!”

Filerote non ce la fece più. “Pensiamo un po' ai vivi!”, gridò:

“Crisanto ha avuto il suo: è vissuto con decenza e con decenza è

morto. Si può lamentare? Da poveraccio era diventato ricco,

magari raccattando due soldi con i denti anche in un letamaio.

Però è così che li fece, i soldi. Tanti! Ne ha lasciati proprio tanti e

in contanti. Però diciamo le cose come stanno: fu una malalingua,

un mettizizzania, non un uomo. Il contrario di suo fratello che era

generoso con gli amici e sempre pronto a dare a chiunque. Ma lui

all'inizio se la passò brutta. Non fosse stato per una vendemmia

fortunata e per un'eredità che in gran parte sottrasse al fratello

non avrebbe mai rialzato il capo. Naturalmente il suo testamento

lo fece non a favore del fratello ma a qualche figlio di nessuno. Ed

ecco com'è andata a finire! Dice bene il proverbio: légami mani e

piedi e géttami in mezzo ai miei. Infatti, adesso che ci penso, sono

stati i suoi schiavi a rovinarlo. Troppa confidenza lui e troppo

chiacchieroni quelli. Comunque un gran risparmiatore e l'eredità

che aveva in gran parte rubato se l'è goduta alla grande. Aveva più

di settant'anni e se l'è sempre spassata. In casa sua non ha

lasciato in pace neanche il cane, ragazzini a parte. Almeno così

dicono. Ma sai che ti dico? Ha fatto bene! Questa è l'unica cosa

che ti porti nell'aldilà.

A quel punto anche Ganimede volle voltar pagina. “Ma che ci

importa di Crisanto? Io penso alla carestia che ci sfa affamando

ogni giorno di più. Oggi non sono riuscito a trovare neanche un

pezzetto di pane. E la siccità non vuol finire. E' tutta colpa degli

assessori che sono d'accordo con i fornai. Io ti do una cosa a te,

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tu mi dai una cosa a me. Così la povera gente crepa e loro se la

spassano. Non era così quando arrivai qui. Allora gli assessori

erano persone tutte d'un pezzo e facevano il loro dovere. E i fornai

dovevano rispettare le leggi. Mi ricordo di Safinio che quando

parlava in consiglio li attaccava uno per uno facendo i nomi e

quando parlava nel foro tuonava come un trombone che va in

crescendo. Ai suoi tempi il grano era quello buono e costava poco:

con un soldo non ce la facevi a finirlo. Oggi invece la città va

sempre peggio. Abbiamo un simdaco che non vale niente e che

pensa solo a quello che riesce ad intascare. E così se la spassa

guadagnando senza neanche uscire di casa. Ma se noi cittadini

avessimo le palle, le cose non andrebbero così. Gli è anche che gli

dei ce l'hanno con questa città di miscredenti dove più nessuno

rispetta i riti e i miti sono tutti scaduti. La gente se ne frega di

Giove, tutti pensano a calcolare quanto possiedono. Quando le

matrone andavano a pregare il dio di far piovere pioveva subito,

ma oggi chi lo fa più? Chi ci crede più? Non c'è più religione e i

campi...

Fu interrotto da Echione, un mercante di stracci antincendio:

“Parla come si deve, Ganimede. Il nostro sindaco è un grande e fa

le cose in grande e se vai a vedere altre città ti renderai conto che

la nostra affronta la crisi meglio di tante altre. Il nostro sindaco è

ricco di suo perché ha ereditato trecento milioni di sesterzi. Vedrai

che spettacoli sta allestendo! Ha ingaggiato un bel po' di

energumeni e addirittura un'amazzone. Poi farà scendere

nell'arena il tesoriere di Glicone, quel cretino che si è fatto

sorprendere a letto con la moglie del padrone. Che infame però,

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Glicone! Mandare alle belve il tesoriere. Questo è volersi far male

da soli. Il tesoriere ha solo obbedito a quella puttana della

padrona. Piuttosto lei, quella chiavica, avrebbe dovuto essere

infilzata da un toro! Ma si sa che chi non può bastonare l'asino

bastona il basto. Ormai si è messo da solo alla berlina. Comunque

affari suoi! Alle prossime elezioni vincerà Norbano se Mammea

non farà quello che ha promesso: un bel pranzo per tutti noi liberti

e due bei denari per uno. Ma, lo vogliamo dire, cos'ha fatto

Norbano per noi? Ha ripescato solo gladiatori vecchi decrepiti e

cavalieri da operetta. Lui dice che lo spettacolo ce l'ha dato, e io

lo applaudo. Ma se fai il conto, gli ho dato più io.”

Poi continuò rivolgendosi ad Agamennone: “Tu te ne stai zitto

zitto perché questi discorsi non ti piacciono. Ma allora parla tu che

sai parlare, che stai sempre a studiare. Fra poco ti manderò anche

mio figlio che promette bene: sa far di conto e studia con successo

il greco e il latino. Io però gli ho comprato dei libri di diritto perché

voglio che si dedichi a questi studi che in casa possono sempre

servire. Quando non vorrà più studiare lo manderò a bottega.

Glielo dico sempre: con un mestiere e un po' di conoscenze te la

cavi sempre nella vita perché la cultura è un bene prezioso ma un

mestiere dura per sempre.”

Rientra Trimalcione, si asciuga il sudore, si lava col profumo e

riprende in mano la conversazione: “Scusatemi, cari, ma già da

molti giorni il mio intestino non funziona bene. Neanche i medici

ci capiscono niente. Un po' mi ha fatto bene la scorza di melagrana

e la resina di pino immersa nell'aceto. Forse così qualcosa otterrò.

Se no, lo stomaco continuerà a brontolare come un toro infuriato.

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Perciò se qualcuno di voi ha bisogno del bagno non faccia

complimenti: non c'è niente da vergognarsi. Nessuno nasce senza

buchi e per me non c'è peggior tortura che il doversi trattenere. E'

cosa che Giove in persona non potrebbe ordinare. Tu ridi, eh,

Fortunata, perché tutta la notte non mi fai dormire con le tue

scoregge sonore. Nel triclinio potete fare quel che vi pare. Anche

i medici lo proibiscono, di trattenersi. Perché se anche vi capitasse

di dover andare di corpo, là fuori c'è tutto l'occorrente: acqua, pitali

e quant'altro. Credetemi: se la scoreggia, trattenuta, arriva al

cervello, provoca flussioni anche nel resto del corpo. Molti sono

morti per non volere riconoscere che le cose stanno così.“

Noi lo ringraziamo e cerchiamo di nascondere le risate fingendo

di sorseggiare il vino. Ma non erano queste tutte le raffinatezze

che Trimalcione ci voleva offrire. Ripuliti i tavoli a suon di musica,

furono portati vivi tre maiali bianchi con tanto di museruole e

sonagliere. Il capocameriere ci informò che il primo aveva due

anni, il secondo tre e il terzo sei. Io pensavo a qualche esibizione

spettacolare di atleti da circo con i maiali. Macché! Trimalcione ci

sorprese tutti: “Quale di questi tre maiali volete che sia cotto

all'istante? I cuochi di paese sanno cuocere così solo un galletto,

lo spezzatino e simili quisquiglie; i miei invece saprebbero cuocere

in casseruola anche un vitello.” Convocò immediatamente il cuoco

e senza attendere la nostra risposta fece ammazzare il maiale più

vecchio e, rivolto al cuoco: “Da quale distretto provieni?” “Dal

quarantesimo.” “Ma comprato o nato in casa?” “Nessuna delle

due: ti sono stato lasciato in testamento.” “Allora vedi di fare le

cose fatte bene; se no, ti mando nel quartiere degli scopini.”

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Quindi il cuoco, istruito su chi comandava, fu riportato in cucina al

guinzaglio del maiale condannato a morte.

Poi Trimalcione, ripresa la sua espressione compiacente, si

rivolse di nuovo a noi: “Se volete vi cambio il vino. Siete voi che

dovete scegliere qual è quello più buono. Grazie a dio, io non

compro niente, ma questo vino qui proviene da un mio podere che

ancora non conosco, fra Terracina e Taranto. Fra poco,

acquistando qualche altro poderetto, ho intenzione di collegarmi

con la Sicilia, in modo che quando mi va di andare in Africa posso

navigare sul mio. E tu, Agamennone, quale arringa hai declamato

oggi? Io anche se non faccio il tuo mestiere un po' di cultura me la

sono fatta, per i bisogni di casa più che altro. Non pensare che io

non ami studiare. Ho tre biblioteche: una di greco e una di latino.

Dai, allora, dimmi cosa hai declamato.”

E Agamennone: “Un povero e un ricco erano nemici...” Ma

Trimalcione lo interruppe: “Che significa 'povero'?” “Per favore!”

disse Agamennone e continuò ad esporre la sua arringa. Ma

Trimalcione incalzò: “Ma se le cose stanno già così, che arringa è?

Se non c'è il motivo del contendere a che serve l'arringa?”

Ridevamo tutti facendogli i complimenti più sperticati per queste

spiritosaggini. E Trimalcione implacabile cominciò a sfidare

Agamennone sul piano culturale infilando una serie di sciocchezze

incredibili: che conosceva la storia delle dodici fatiche di Ercole

perché aveva letto Omero a scuola; ma Omero non parla di dodici

fatiche, bensì di un numero inferiore; che il Ciclope aveva storto

un dito ad Ulisse con un coltellino; che a Cuma aveva visto la

Sibilla sospesa in un'ampolla e che ai ragazzini che le chiedevano

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in greco se voleva qualcosa, lei in greco rispondeva che voleva

morire.

Per fortuna fu interrotto dall'arrivo di un enorme maiale

depositato sulla tavola dai camerieri. Tutti restammo meravigliati

della sveltezza con cui era stato cucinato. E Trimalcione: “Ehi, ma

questo maiale non è stato eviscerato. Fate venire subito qui il

cuoco!” Il poveretto si fermò davanti alla tavola centrale con la

coda tra le gambe scusandosi per essersi dimenticato di

eviscerare la povera bestia. “Spogliatelo!” ordinò Trimalcione e

quello, nudo com'era, andò a mettersi tra i due aguzzini che lo

avevano denudato. A quel punto tutti si misero a intercedere per

lui. Io no, però perché sono fatto così, un uomo tutto d'un pezzo.

Non riuscivo a capire come ci si possa dimenticare di eviscerare

un maiale prima di cuocerlo. Perciò dissi in un orecchio ad

Agamennone: “Io non gliela farei passare liscia.” Ma Trimalcione,

di diverso avviso, diede ascolto alle suppliche degli altri

commensali e ordinò al pover'uomo: “Dunque, visto che sei uno

smemorato, puliscilo adesso, qui, davanti a noi.” Allora il cuoco,

rivestitosi in fretta, si mise ad incidere il maiale da una parte e

dall'altra in modo che dai due tagli venissero fuori le salsicce e i

sanguinacci che ci aveva messo dentro per inscenare quella

pagliacciata.

Viva Gaio!” urlavano ripetutamente gli altri schiavi

applaudendo. Anche il cuoco fu premiato con un invito a bere, con

una corona d'argento e con una coppa e un piatto corinzio.

Agamennone fu incuriosito da questi oggetti e allora Trimalcione:

“Io sono l'unico ad avere autentici bronzi di Corinto.” Poi aggiunse

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superando qualsiasi immaginazione e sempre rivolto ad

Agamennone: “Ti chiedi come mai io sia l'unico? Ma è chiaro: il

mio bronzista si chiama Corinto!” E poi, dandogli praticamente del

cretino, spiegò: “Che significa 'corinzio' se non che uno si serve da

Corinto? Ora ti spiego la vera storia del 'corinzio'. Quando Troia fu

conquistata, Annibale, uomo furbo e dalle mille risorse, riunì in un

solo mucchio le statue di bronzo, argento e oro e le fece fondere

in un'unica lega metallica. Quindi gli artigiani ne ricavarono

scodelle piatti e statuette. Da qui nacque la lega corinzia: dal

molteplice all'uno e dall'uno al molteplice. Io però preferisco il

vetro, perché gli oggetti di vetro almeno non puzzano. E se non

fossero così fragili io li preferirei anche all'oro. E' per la loro

fragilità che hanno così scarso valore.

Una volta un vetraio realizzò una coppa di vetro infrangibile.

Andò da Cesare per regalargliela, ma dopo che l'imperatore l'ebbe

osservata se la fece ridare e la scagliò sul pavimento. Cesare si

spaventò, ma lui la raccolse prontamente e riaggiustò

l'ammaccatura con un martelletto: la coppa era ancora sana.

Credeva, l'ingenuo, di aver conquistato Cesare, ma quello gli

chiese se qualcun altro, oltre lui, conoscesse quel metodo di

lavorazione del vetro e, avendo lui risposto di no, lo fece

decapitare immediatamente in modo che il prezzo del vetro non

distruggesse quello dell'oro.

Poi, sull'argenteria sono proprio fissato. Mi devi lasciar stare.

Non so più neanch'io quante coppe d'argento possiedo. E che

storie ci sono scolpite sopra: Cassandra che fa uccidere i suoi

bimbi per vendicarsi di Giasone; Dedalo che rinchiude Niobe

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dentro al cavallo di Troia. Un migliaio me le ha lasciate il mio

padrone al quale le aveva lasciate a sua volta il console Mummio,

il disruttore di Corinto. E poi ho un'infinità di boccali con su incise

le lotte gladiatorie e in particolare quelle dei celebri Ermerote e

Peraite. Ho una competenza nel vasellame d'argento che levati!

Non la baratterei con nessuna cosa al mondo.” Mentre sciorinava

tutte queste sciocchezze a uno schiavo scivolò di mano un calice.

E Trimalcione: “Su, svelto, picchiati da solo, buono a nulla.” Il

ragazzo si mise subito a chiedere perdono: “Che parli con me?

Dillo a te stesso di smetterla di essere un buono a nulla.” Alla fine,

come al solito, lo perdonò e quello si mise a correre intorno alla

tavola distribuendo baci per aver interceduto per lui. Allora

Trimalcione ricominciò a parlare cambiando discorso: “Fuori

l'acqua e dentro il vino!” Grandi applausi soprattutto da parte di

Agamennone, il retore, che conosceva bene l'arte di farsi invitare

e rinvitare.

Trimalcione già mezzo ubriaco disse: “Ma perché nessuno

chiede alla mia Fortunata di ballare? Nessuno balla bene come

lei!” Mentre diceva così teneva le braccia in alto come un celebre

attore del tempo e la servitù lo accompagnava al ritmo di

“Ebbrezza, o dolce ebbrezza!” E sarebbe arrivato al centro della

sala se Fortunata non gli si fosse accostata all'orecchio

probabilmente per impedire quello spettacolo indecoroso per

gente come loro. Grande contraddizione di Trimalcione! Si

fermava per obbedire a Fortunata ma poi la voglia di divertirsi lo

spingeva a riprendere la danza, poi si rifermava e così via fino a

quando la passione del ballo gli fu stroncata dal segretario che

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incominciò a leggergli ad alta voce i resoconti dei suoi

possedimenti e dei suoi affari: “Il 26 luglio sono nati 30 maschi e

40 femmine; sono stati trasportati nel granaio del cortile 500.000

moggi di grano; sono stati aggiogati 500 buoi. Sempre il 26 luglio

è stato crocifisso lo schiavo Mitridate perché ha bestemmiato il

nome del nostro padrone, Gaio, e si sono riposti nella cassaforte

10.000.000 di sesterzi per l'impossibilità di reperire investimenti

vantaggiosi. Poi, verso sera, essendosi sviluppato un incendio nei

giardini pompeiani vicino alla casa di Nasta....” “Cosa?” lo

interruppe Trimalcione, “In che data sono stati comprati per mio

conto quei giardini?” “L'anno scorso: perciò non sono ancora

registrati.” “D'ora in poi vi proibisco di registrare nei miei conti

qualsiasi acquisto che non mi viene notificato entro sei mesi dalla

data dell'acquisto stesso.” gridò Trimalcione. Poi seguirono le

comunicazioni di vari altri eventi di non grande importanza.

Poi irruppero nella sala gli acrobati e fecero dei numeri per i

quali Trimalcione andava pazzo. Ma durante uno di questi numeri

uno di essi, un ragazzo, sbagliò e piombò sul letto di Trimalcione.

I commensali impauriti incominciarono a gridare, non perché

preoccupati per il ragazzo, bensì perché pensavano che la cena si

potesse concludere male. E in effetti Trimalcione, dopo una specie

di dolorante grugnito, si accasciò su un braccio come se gli si fosse

fratturato. Allora irruppe uno stuolo di medici con a capo Fortunata

che gridava come un'aquila. Intanto il ragazzino come al solito

andava in giro pregando noi commensali di intercedere per lui.

Pensai che si trattasse del solito scherzo cretino di Trimalcione.

Pensiero che si rafforzò quando fu preso a frustate uno schiavo

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colpevole, pensate in po', di aver fasciato il braccio del padrone

con una benda bianca invece che con una rossa. E infatti poco

dopo fu letto un decreto di Trimalcione col quale il ragazzo,

colpevole di essergli piombato addosso, veniva liberato affinché

nessuno potesse mai dire che lui era stato ferito da uno schiavo.

Tutti d'accordo, naturalmente, e a quel punto Trimalcione volle

eternare l'accaduto con dei versi scritti proprio da lui. Dopo un po'

di concentrazione sfornò questi tre “originalissimi” capolavori:

“Quel che da lunga pezza non succede

capita in un secondo: è la fortuna!

Versami il vino, via. Via la tristezza!”

L'epigramma scatenò una lunga conversazione sui poeti e su

quale di essi fosse il migliore. Alla fine la palma toccò a un certo

Mopso che nessuno sa chi è. Poi Trimalcione, per cambiare

discorso, propose un confronto fra Cicerone e il mimo Publilio,

esprimendo il suo favore per il secondo a cui sarebbero

appartenuti, diceva, dei versi che citò a memoria:

“Si consumano ormai nel lusso abnorme

le gloriose gesta di una volta.

Chiuso nella sua stia un bel pavone

sotto l'orientale aureo piumaggio

viene ingrassato per il tuo palato,

per te viene allevata la gustosa

gallina di Numidia, per te viene nutrito

un bel cappone. E anche una cicogna,

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sacra agli dei, gradita pellegrina

dalle lunghe eleganti esili zampe,

che con il becco instancabilmente

batte a tempo di musica il comignolo.

Uccello che d'inverno vola via

e a primavera torna a fare il nido

nella padella della tua insaziabile

famelica ingordigia. Perché ti è cara

la perla che proviene dall'Oriente?

Forse perché la tua signora, adorna

di mirabili gioie d'oltremare,

apra le cosce senza posa in letto

che non è il tuo? E a che ti serve

lo smeraldo dal verde evanescente?

Perché vuoi da Cartagine le pietre

indurite dal fuoco se non perché risplenda

la sua onestà da quei carboni accesi?

E' giusto che una sposa, ricoperta

da velo come il vento inafferrabile,

si mostri nuda a tutti avvolta solo

da un'impalpabile nuvola di lino?”

Dopodiché incominciò uno sproloquio per fare la solita

graduatoria fra i lavori più ingrati partendo da quello dei poeti e

dei letterati. E avrebbe tirato in ballo anche i filosofi se i servi non

fossero giunti con i doni da estrarre a sorte fra i convitati. E qui,

inutile dirlo, il gusto di Trimalcione si scatenò nei noiosi doppi

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sensi che gli piacevano tanto e che non vi sto a ripetere perché

sciocchi ed insulsi come quelli che ho raccontato fino ad ora. Ne

basti uno per tutti: “coppa argentata” in realtà era un'acetiera

d'argento abbinata a coppa di maiale.

A questo punto capii che Ascilto non ne poteva più e infatti

cominciò a ridacchiare prendendo in giro tutti e tutto. Piano piano

prese gusto a questo gioco e alla fine si piegava su se stesso

ridendo fino alle lacrime. Un liberto amico di Trimalcione non

sopportò quel comportamento da pidocchio che sputa nel piatto

in cui mangia e attaccò una pippa che non ti dico contro Ascilto:

“Che hai da ridere, morto di fame? Le tue cene sono forse più

ricche e divertenti? Se ti stessi vicino te la farei vedere io, brutto

scroccone, vagabondo, ladro. Se pisciando ti disegnassi un cerchio

intorno intorno non ne usciresti vivo. E ridi ancora? Ma che hai da

ridere? Ridi di noi liberti che da schiavi siamo diventati cittadini

romani? Ma guarda in casa tua, scervellato. Io sono stato schiavo

quarant'anni, ma nessuno se n'è mai accorto e da uomo libero non

c'è nessuno che avanzi qualcosa da me. La mia sì che è stata una

vita ben spesa, io che da schiavo mi sono ricomprata la libertà. A

nascere liberi sono buoni tutti, ma fai un po' il mazzo che ho fatto

io appresso al mio padrone per guadagnarmi la libertà.”

Non avesse mai parlato. Anche Gitone cominciò a ridere come

un matto in modo tale che tutti se ne accorsero. E allora quello:

“Anche tu ridi, cretino? E certo il tuo padrone non ti ha insegnato

nulla, salvo che a prostituirti per denaro. Ma tanto dove andate?

Vi aspetto fuori a tutti e due e vi farò scontare queste risate senza

senso. Solo perché sapete un poco di retorica. E io so far di conto

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e so leggere le lettere scolpite. Tu non sapresti risolvere neanche

uno degli indovinelli che io conosco e ti dai tante arie. Ma giuro

che nessun dio ti salverà dalle mie botte quando saremo fuori di

qui. Ora mi trattengo per rispetto del mio amico Trimalcione.” Il

quale, sentendo il suo amico esprimersi così bene, intervenne

togliendo la parola ad Ascilto che stava incominciando a

rispondergli: “Lascialo stare, Ermerote, non vedi che è un

ragazzino? Ha il sangue caldo! Sei tu che devi avere più giudizio.

Vince chi cede, non lo sai? Siamo qui per divertirci, non per litigare.

Arrivano gli omeristi.”

Gli omeristi sono attori mediocri che recitano parti delle opere

di Omero. Entrarono e cominciarono a fare casino battendo con le

lance sugli scudi e intanto parlavano tra di loro utilizzando versi di

Omero in greco. A Trimalcione non sembrò vero di sedersi su un

cuscino più alto e di seguire le loro conversazioni leggendo

lagnosamente su un canovaccio la loro traduzione in latino. E

rivolto a tutti i convitati spiegò: “Si tratta del brano del rapimento

di Elena che scatenò la guerra di Troia.” Ma non disse proprio così:

infilò come al solito una serie di errori in cui confondeva situazioni

e personaggi del mito in modo assolutamente irriproducibile qui,

concludendo con la pazzia di Aiace. Quando finì di spiegare, gli

omeristi levarono un grido e i valletti portarono a tavola un vitello

lesso con un elmo in testa su un enorme vassoio d'argento. Gli

teneva dietro un omerista vestito da Aiace che, mimando la sua

incipiente follia, calava fendenti a ritta e a manca sul povero vitello

che fu ridotto in pezzi, poi distribuiti dal “folle” a ciascun

commensale utilizzando la punta della sua lancia.

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Non ci fu dato il tempo di ammirare l'elegante artificio.

Improvvisamente i cassettoni del soffitto scricchiolarono

paurosamente rimbombando per tutta la stanza. Balzammo tutti

in piedi impauriti, temendo di dover assistere alla caduta di

qualche altro acrobata; e invece, apertosi il soffitto, lentamente

discese a poca altezza dalla tavola un cerchio, forse tolto a una

botte gigante, che recava appese tutto intorno coroncine d'oro con

vasetti di profumo in alabastro. “Prendete, prendete!” invitavano i

valletti e noi per prendere non ci accorgemmo che al centro della

tavola era stato approntato velocemente un trionfo, circondato di

focacce, a centro del quale era stato sistemato un Priapo fatto da

un pasticcere che gli aveva messo in grembo ogni ben di dio. Fu

un arrembaggio seguito da una gustosa sorpresa. Le cose che

prendevamo si aprivano e diffondevano polvere di zafferano

dall'odore acre, come si sa. La cosa era tanto più divertente in

quanto non capivamo se si trattasse di un rito propiziatorio come

avviene solitamente quando si impiega lo zafferano o se fosse

semplicemente un'ulteriore trovata scherzosa del padrone di casa.

Io comunque arraffai a piene mani quanto più potevo di quel ben

di dio pensando che ne avrei fatto dono al mio Gitone.

Fecero il loro ingresso tre valletti, di cui Trimalcione annunciò

i nomi, “Arraffatutto”, “Fortunato”, e “Lucro”. Noi come tutti

dovemmo baciare il ritratto dal vero di Trimalcione che uno di quei

tre faceva girare intorno alla tavola. Ma era un momento di stanca.

Allora il padrone di casa si rivolse a un commensale che si

chiamava Ermerote e gli disse: “Stasera non sei del solito umore.

Che hai fatto? Perché non ci racconti quella storia che ti è capitata

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mesi fa. Dai, raccontala! Che sono tutti curiosi di conoscerla o di

saperne ancora più particolari.” Ermerote prima giustificò il suo

umore che invece secondo lui era ottimo, poi augurò lunga salute

a Trimalcione e infine iniziò il suo racconto:

”Vi ricordate tutti quando facevo il filo a quella magnifica

cicciona di Melissa, la moglie dell'oste. Non che me la volessi

portare a letto o scoparmela: l'avevo solo scelta come tesoriera

perché era innamorata di me e amministrava i soldi che

guadagnavo con una onestà impeccabile. Dopo tutto ero uno

schiavo e neanche lei pensava seriamente di poter venire a letto

con me. Un bel giorno capita che il mio padrone deve recarsi a

Capua per affari. A me non sembrò vero di andare a trovare

Melissa che abitava al quinto miglio e per raggiungerla di notte

chiesi di accompagnarmi a un soldato, un omaccione grande e

grosso, dalla forza erculea. Eravamo quasi arrivati quando, mentre

attraversavamo un cimitero, quello improvvisamente, senza dirmi

niente, si mise a pisciare. Io continuo a camminare fingendo per

discrezione di non accorgermene. Ma nel girarmi per vedere se

aveva finito vedo invece che si era completamente denudato e che

stava ancora pisciando sopra e intorno ai suoi abiti. Quando ebbe

finito vidi le sue membra trasformarsi una ad una in quelle di un

lupo. Non sono balle, ragazzi! Possa morire se racconto balle!

Subito dopo quello cominciò ad ululare e corse verso il bosco

scomparendo. Io ero completamente stordito da quell'evento e

quando mi ripresi la prima cosa che mi venne da fare fu di

raccogliere i suoi panni. Ma, sorpresa! Erano duri come rocce, anzi

mi sembrarono proprio rocce, per cui li lasciai lì. Mi stavo cacando

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sotto per la paura, ma decisi di non lasciarmi andare. Impugnai la

spada di quello e a forza di fendenti mi aprii la strada attraverso il

bosco al di là del quale sapevo che c'era la casa della mia Melissa.

Avevo gli occhi sbarrati e mi sentivo morire. Ci volle un bel po'

prima di riavermi. Melissa mi rimproverò perché andavo in giro ad

un'ora così tarda. Almeno fossi arrivato un po' prima avrei dato

una mano a catturare un lupo che li aveva aggrediti. Ci è sfuggito,

ma non se l'è cavata a buon mercato. Un nostro schiavo lo ha

centrato con una freccia trafiggendogli il collo. Non chiusi occhio

per tutta la notte. All'alba corsi sul luogo dove quello si era involato

a cercare i panni, ma non li trovai: c'era solo del sangue. Allora

corsi in casa, cioè nella casa del mio padrone, e, arrivato lì trovai

il soldato sdraiato sul letto e il medico che gli curava la ferita al

collo. Era un lupo mannaro. Da allora, alla larga! E quanto a voi, se

mi volete credere, bene; se no, fate come vi pare. Ma io vi giuro

sugli dei che questo racconto non contiene neanche una bugia.”

E Trimalcione: “Nicerote non è uno che racconta balle, amici.

Parla poco e ficca assai; e quando parla dice solo cose vere. Del

resto anch'io devo raccontarvi una storia incredibile, praticamente

'un asino che vola'. E vi dico quel che ha detto Nicerote: se ci

credete bene; se no, fate come vi pare. Dunque tanti anni fa,

quando ero un bel pischello e sfoggiavo dei bei capelli lunghi, per

darmi alla bella vita, morì il favorito del mio padrone, un ragazzo

fatto per vedere, un amasio perfetto, con tutte le doti che uno può

desiderare. La madre era disperata e molti di noi parteciparono

addolorati alla veglia funebre che si protrasse per tutta la notte.

Ma ecco che a notte fonda si presentano le streghe circondando

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la casa. Emettevano un insopportabile stridio, per cui tutti

rimanemmo senza fiato: un soldato forzuto che era con noi uscì

fuori e cominciò a menare fendenti in ogni direzione. Quando

rientrò noi pensavamo che avesse avuto la meglio, invece era

pieno di graffi e di vere e proprie ferite. Si si sdraiò affaticato su

un letto e la povera madre riprese il suo straziante compianto. A

un certo punto il dolore la spinse verso il cadavere di quel

giovinetto bellissimo e, sorpresa! si accorse che le streghe lo

avevano sostituito con un fantoccio di paglia avvolto nei vestiti del

morto. Voi non ci credete, ma io vi dico che esistono donne che

vivono nella Notte, di cui sono figlie, e che vagano per portare

scompiglio ovunque. Io non so dove portarono il corpo del

giovinetto, ma so con certezza che quel soldato, dopo qualche

giorno, impazzito morì.”

Poi Trimalcione invitò un certo Plòcamo a recitare o a cantare

qualcosa; ma Plocamo si schermì accampando la vecchiaia e la

gotta che ormai gli impedivano di essere il giovane damerino di

una volta. Allora Trimalcione si rivolse al suo ragazzetto, che lui

chiamava Creso, chissà perché, ma quello non se ne dava per

inteso, tutto intento com'era a rimpinzare la sua cagnetta. Allora

Trimalcione intimò ai servi di portare Cucciolo, il suo cane, un

bestione enorme tenuto alla catena che si andò a mettere, dritto

sulle zampe anteriori, proprio davanti alla tavola. E Trimalcione:

“Eccolo il mio Cucciolo: solo lui mi ama in questa casa.” Punto da

queste parole e dalle coccole che il padrone faceva al suo cane,

Creso mise a terra la sua cagnetta incitandola alla zuffa con

Cucciolo. Che per poco non la fece a pezzi. Ma tutto si mantenne

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entro i limiti della zuffa senza che nessuno si facesse male.

Cucciolo però riempì la sala di latrati spaventosi, si agitò

nonostante la catena lo trattenesse saldamente, per cui alla fine

un candelabro enorme si rovesciò e si abbatté sui vasi di cristallo

che contenevano olio bollente e gli schizzi andarono a colpire i

commensali più vicini: urla, balzi repentini, fughe concitate: un

disastro!

Trimalcione mostrava di non preoccuparsene affatto. Ordinò a

Creso di salirgli sulle spalle e quello non se lo fece dire due volte

cominciando ad assestargli dei colpi in testa e chiedendogli

quante fossero le dita che mostrava a tutti meno che a lui.

Trimalcione, divertito da quel gioco, bambinone com'era, ordinò di

distribuire vino ai servi e, se quelli lo avessero rifiutato, di

versarglielo sulla testa.

All'improvviso un littore bussò alla porta del triclinio e annunciò

l'arrivo di un tale Abinna preceduto dai numerosi componenti del

suo seguito, per cui io, credendo che si trattasse del pretore,

cercai di ricompormi mettendomi almeno le scarpe. Ma

Agamennone mi prevenne: “Calmati, coglione! E' solo un

assessore come Trimalcione. E' un marmista che lucra

abbondantemente costruendo tombe colossali.” E infatti Abinna

proveniva da una cena di commemorazione di uno schiavo che il

padrone aveva liberato in punto di morte e che aveva voluto

onorare con una tomba di riguardo. Abinna raccontò di essersi

divertito e di aver bevuto abbondantemente anche se, per volontà

dell'ospite, tutti prima di bere avevano dovuto versare metà del

vino sul corpo di quel poveretto. E sì, che erano nove giorni che

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era morto! “Ma per cena che cosa avete mangiato?” incalzò

Trimalcione incuriosito dallo stato di ebrezza di Abinna. Quello

sciorinò un elenco interminabile di portate descritte con un

linguaggio volgare che faceva spesso riferimento alla merda e

insomma facendo intendere che non si era mangiato bene. Lui

aveva salvato due mele che si era portato via per regalarle al suo

amasio, su suggerimento della moglie Scintilla. Allora, ubriaco

com'era, gli venne in mente Fortunata, la moglie di Trimalcione, e

chiese come mai non stesse a tavola con gli altri. “Sai com'è

fatta?” disse Trimalcione, “Se prima non sistema tutto come vuole

lei non tocca nemmeno una goccia d'acqua.” “Ah, è così?” disse

Abinna, “Allora se lei non viene a tavola, io me ne vado subito

subito.”

Fu un coro di invocazioni per Fortunata, invitata tre o quattro

volte a venire a tavola. Lei si presentò con la sua mise

studiatissima che metteva in risalto tutte le sue parti più costose

e, adocchiato il letto di Scintilla, si andò a sdraiare accanto a lei e

la rimproverò: “Ti si vede, finalmente!” e la baciò. I convenevoli

andarono avanti un bel pezzo. Fortunata si tolse i bei bracciali per

mostrarli all'amica; infine le mostrò gli anelli, anche quelli da

caviglia, ripetendo più volte che erano d'oro zecchino. Trimalcione

si accorse di quello sfoggio, chiese di portargli tutti quei gioielli e

quindi inveì contro la coglioneria dei mariti che si lasciano

derubare dalle mogli. Poi però ci pensò bene e disse che anche lui

si era comprato un bracciale pesantissimo e fece portare la

bilancia per pesare sia quello che gli ori della moglie. A quel punto

Scintilla, sentendosi provocata, fece pesare anche lei i suoi gioielli

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compreso un medaglione che si tolse dal collo e che doveva essere

una specie di amuleto e infine gli orecchini con le perle che

commentò dicendo: “Grazie a mio marito, nessuna ne ha di più

belli.” “Sfido io!”, disse Abinna, “Mi hai prosciugato per farti

comprare quei vetracci. Se avessi una figlia, le farei mozzare le

orecchie. Se le donne non esistessero tutta questa roba non

varrebbe un fico secco. Spendi un capitale per non mangiare

niente.” Le signore ridevano e intanto se la spassavano stando

abbracciate e scambiandosi bacetti e chiacchierando

animatamente per raccontare, una, le sue doti di madre attenta e

affettuosa, e l'altra, le scappatelle del marito con i maschietti.

Allora Abinna, di soppiatto, si avvicinò ai piedi di Fortunata e

afferrandoli scaraventò l'una e l'altra a gambe all'aria in modo da

far scoprire loro le sottovesti. Fortunata si ricompose velocemente

e nascose la faccia, rossa dalla vergogna, in grembo a Scintilla.

Seguì una specie di gara fra Trimalcione e Abinna che

sfoderarono, il primo, uno schiavo comprato ad Alessandria che

cercava di recitare Virgilio facendone scempio e, il secondo, uno

schiavo, acquistato per trenta denari, di cui lui decantava gli

infiniti pregi e la grande duttilità nel piegarsi a tutti i mestieri. Tutti

capimmo che quelle lodi derivavano dal fatto che lo schiavo era il

suo amante, e se avevamo qualche dubbio ci fu tolto da Scintilla

che cominciò a parlarne male. A Trimalcione non sembrò vero di

poter fare un intervento pacificatore fra i due coniugi suoi amici:

“Non essere gelosa, Scintilla. Lo sappiamo come siete voi

padrone. Vorreste che gli schiavi più belli stessero sempre a

menarvela. Non te la prendere se questo piace anche a tuo marito.

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Io quando ero ragazzo stavo sempre a letto con la padrona, tanto

che alla fine anche il padrone se ne accorse e mi trasferì con una

scusa.” Lo interruppe quel briccone dello schiavo di Abinna il

quale, come se quelli fossero per lui dei complimenti, tirò fuori una

lucerna di terracotta e diede inizio ad un bel numero di imitazioni

accompagnato dal suo padrone, che lo seguiva comprimendosi il

labbro inferiore con la mano. Alla fine il numero piacque tanto che

Abinna si mise ad elogiarlo di nuovo e gli regalò anche un bel paio

di scarponi. Non l'avrebbero mai fatta finita se gli inservienti non

avessero portato a tavola tutte le pietanze del postpasto. Che

esagerazione! Mai vista una simile grascia: tordi alla crosta con

farina di segale e infarciti di uva passa e noci; mele cotogne con

degli spini infilzati in modo che sembrassero dei ricci ecc. ecc. ecc.

Tutte cose tollerabili... ma alla fine arrivò in tavola una bestia che

ci sembrò un'oca ingrassata ma che presto si rivelò ben altro.

Sentimmo infatti Trimalcione tuonare: “Tutto quello che è arrivato

sul tavolo è fatto con un unico materiale.” Mi vennero in mente le

pietanze servite durante le feste di Saturno e inorridito chiesi ad

Agamennone: “Non mi stupirei che fossero tutte fatte di merda.”

Non avevo finito di parlare che ancora la voce di Trimalcione mi

rassicurò: “E' tutta roba ricavata con carne di porco. Io ho un cuoco

che è un genio. A richiesta può trasformare qualsiasi parte del

maiale in un'altra, senza scomporsi. Perciò su mio suggerimento

ha preso il nome di Dedalo, il mitico ingegnere del labirinto, e io

gli ho portato da Roma degli splendidi coltelli della Gallia.”

Cominciò a mostrarli a tutti invitandoci a provarne il filo sulla

guancia: quella interminabile ostensione non si sarebbe mai

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conclusa se non fossero arrivati due schiavi con delle brocche che

si stavano ancora litigando dopo essersi accapigliati presso la

fontana.

Trimalcione cercò di mettere pace tra di loro, ma quelli non gli

diedero retta e cominciarono a picchiarsi con dei bastoni che

finivano più spesso sulle brocche che sulle loro teste. Stupiti da

tanta impudenza pensammo che fossero ubriachi: perciò li

guardammo meglio e, sorpresa! dalle brocche scivolavano fuori

ostriche e frutti di mare che un valletto raccoglieva in un piatto e

distribuiva a tutti. Poi ci fu una cosa per me molto strana: dei

valletti con i capelli lunghi cominciarono a girare di letto in letto e

ad ungere i piedi dei commensali dopo averli legati con delle

coroncine. Poi, siccome l'unguento spalmato colava giù, loro lo

raccoglievano e lo versavano nella lucerna e nel recipiente del

vino. Che schifo! Ma questa volta purtroppo, non riuscendo a

capire il perché di tutto ciò e non avendo più vicino a me il

commensale che mi spiegava tutto, rimasi nella curiosità di capire

il significato di un rituale tanto schifoso. Intanto a Fortunata era

venuta voglia di ballare e Scintilla, stanca di chiacchiere, si era

messa ad applaudire qualsiasi cosa accadesse. Era un segnale: i

convitati si davano alle danze e gli schiavi si potevano sdraiare a

posto loro per consumare gli avanzi. “Anche tu, Carione, anche se

non sei del mio partito!” tuonò Trimalcione e fummo scaraventati

tutti giù dai letti dagli schiavi affamati. Il cuoco “Squarcia” non solo

si mise a tavola con tutti gli altri ma osò anche sfidare il suo

padrone dicendo che il suo partito avrebbe vinto il prossimo palio.

Trimalcione, messo di buon umore da quella specie di sfida,

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attaccò il solito sermone questa volta però non privo di interesse:

“Amici, gli schiavi sono esseri umani come noi e hanno bevuto il

latte da una mammella esattamente come noi. Il destino, poi, per

loro ha deciso diversamente, ma ciò non cambia quanto ho detto.

Perciò quanto prima ritroveranno anch'essi il gusto di essere liberi

perché io, i miei, ho intenzione di affrancarli tutti nel mio

testamento.” Si fece quindi portare il testamento e ne dette lettura

dalla prima all'ultima riga. Poi disse ad Abinna: “Amico mio, la mia

tomba la stai costruendo o no? Tu sai che ci voglio la mia statua e

ai piedi la cagnetta, le corone, i vasi di profumo, tutte le vittorie

del mio gladiatore preferito in modo da farmi vivere a lungo anche

dopo morto. Il monumento deve essere nell'insieme largo cento

metri e lungo duecento. Intorno alle mie ceneri deve crescere ogni

genere di frutta in abbondanza. Che significa infatti che in vita ci

preoccupiamo tanto delle nostre dimore e da morti non teniamo in

nessun conto la dimora in cui dobbiamo abitare molto più a lungo?

In alto farai scolpire ben visibile la scritta “Questo monumento non

va in eredità.” Nel mio testamento nominerò uno dei miei liberti

affinché faccia la guardia e impedisca a chiunque di andarci a

cagare sopra. Poi mettici una scultura con delle navi che navigano

a gonfie vele e seduto in tribuna me con cinque anelli d'oro mentre

distribuisco monete al popolo. Ciò a commemorazione del

banchetto pubblico che ho organizzato con distribuzione di due

denari a testa. Poi se ti va mettici pure le mie cene e il popolo che

si dà alla pazza gioia grazie a me. Alla mia destra, naturalmente,

la statua della mia Fortunata con in mano una colomba e nell'altra

il guinzaglio con cui porta a spasso la cagnetta. Poi il mio

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pischelletto. Poi delle anfore grosse e ben sigillate in modo che

non perdano vino. Al centro, proprio in mezzo a tutto questo, ci

deve stare un orologio in modo che chiunque si ferma a guardare

che ora è sia costretto a leggere anche il mio nome. L'epitaffio sia

questo, se ti sta bene: “Passante, qui riposa Gaio Pompeo

Trimalcione Mecenaziano. Per i suoi meriti fu eletto assessore a

sua insaputa. Volontariamente rinunciò a far carriera politica a

Roma che era pronta a spalancargli le porte. Rispettoso degli dei,

forte, fedele, si fece ricco venendo su dal niente. Non volle mai

ascoltare filosofi. Ha lasciato trenta milioni di sesterzi. Ti auguro

lunga vita, passante.” A questo punto cominciò a piangere come

un bambino. E con lui piangevano la moglie Fortunata, il suo amico

Abinna e tutta la servitù come se fossero stati assoldati per

piangere al suo funerale. Stavo per piangere anch'io, ma

Trimalcione riprese: “Se è vero che dobbiamo morire, perché non

vivere godendoci la vita? Buttiamoci tutti nel bagno. L'ho fatto

riscaldare a dovere.” Abinna approvò e fu il primo a seguirlo. Io

dissi ad Ascilto: “Che facciamo? Io mi sento morire solo al

pensiero di un bagno!” E lui: “Fingiamo di aderire all'invito e

quando tutti si sono incamminati noi ce la squagliamo.” Così

facemmo e Gitone, gentile come al solito, ci guidò verso l'uscita

perché conosceva la casa; ma un po' prima dell'uscio un terribile

cane tenuto alla catena cominciò ad ululare come un lupo e

Ascilto, impaurito, perse l'equilibrio e cadde nella piscina. Io,

ubriaco com'ero, per tirarlo fuori un altro po' gli andavo appresso.

Per fortuna il portiere, ignaro delle nostre intenzioni, calmò il cane

e ci tirò fuori dall'acqua. Ma prima del portiere ci aveva pensato

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Gitone che aveva messo davanti al cane tutti gli avanzi della cena

che noi gli avevamo regalato. Chiedemmo al portiere, così gentile,

di farci uscire perché eravamo tutti bagnati e infreddoliti. Ma

quello fu irremovibile. Nessuno in questa casa esce da dove è

entrato. Da una porta si entra e da un'altra si esce.” Non ci restava

che prendere anche noi un bel bagno caldo. Ci denudammo

dunque completamente ed entrammo nella piscina, per la verità

molto piccola, in cui Trimalcione si era già immerso. E, invogliato

dall'ambiente acusticamente favorevole, incominciò a straziare le

arie di Menecrate, un cantante di cui era ammiratore. E mentre

cantava, si fa per dire, tutti gli altri invitati, senza entrare in acqua

facevano un girotondo sul bordi della vasca. Entrammo in acqua e

io così potei smaltire la sbornia. Poi fummo condotti in un'altra

stanza della casa dove Fortunata aveva fatto una specie di mostra

delle suppellettili più eleganti che possedeva: oggetti d'oro e

d'argento, figurine in bronzo di pescatori, piastre d'argento

massiccio e, sopra e tutt'intorno, calici di terracotta laminati d'oro

e sacchetti di tela che filtravano il vino sotto i nostri occhi.

Di nuovo la voce di Trimalcione annunciò che bisognava

festeggiare il primo taglio della barba da parte di un suo schiavo.

“Restiamo a tavola fino all'alba, dunque!” Intonò con la sua voce

da tenore un invito che era piuttosto un ordine. Si ingozzò di

antipasti e poi rivolto agli schiavi presenti li invitò ad andare a

mangiare facendosi sostituire da altri. Assistemmo perciò al solito

balletto. Una schiera che usciva cantando: “Arrivederci, Gaio!” e

un'altra che la sostituiva entrando e intonando: “Salve, Gaio!”

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La lite con Fortunata.

Da quel momento non avemmo più pace. Perché? Perché tra

gli schiavi appena acquistati ce n'era uno di una bellezza

folgorante e Trimalcione, obnubilato dal vino, gli si gettò addosso

ricoprendolo di baci. Figuratevi Fortunata! Fu presa da un attacco

di gelosia che sfogò seduta stante insultando il marito con una

tiritera interminabile che però si concluse con un insulto preciso:

“Cane!” Trimalcione le lanciò contro un calice e la prese in pieno.

Quella si coprì la faccia con le mani e cominciò a gridare come se

ci avesse rimesso un occhio. L'amica Scintilla, impressionata,

l'accolse tra le braccia per consolarla. Arrivò subito un valletto con

un boccale di acqua fredda che avvicinò alla guancia colpita. E

Trimalcione: “Ma guardate un po'! Questa sgualdrina da

avanspettacolo non mi vuole perdonare proprio nulla. Io... io l'ho

levata dalla strada restituendole la dignità di donna e lei si

comporta come una bestia, non come una donna. Ma se gli dei mi

aiutano, ci penso io a questa Cassandra vestita da uomo. E dire

che io avrei potuto riscuotere, sposando un'altra, una dote da dieci

milioni di sesterzi. Tu lo sai che non racconto balle. Ancora l'altro

ieri il profumiere mi ha tratto in disparte e, siccome vuole darmi la

figlia, mi ha detto: 'Non far estinguere la tua stirpe!', volendo dire

che era pronto a darmi la figlia giovanissima se avessi deciso di

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ripudiare questa scemunita. Ma io, più scemo di lei, ho

tergiversato per non apparire superficiale e così mi sono dato la

zappa sui piedi. Ma tu non ti preoccupare che troverò io il modo di

farmi rispettare da una scema come te. E tanto per cominciare: tu,

Abinna, amico mio, sulla mia tomba non ci mettere la sua statua

perché non voglio che mi rompa i coglioni anche da morto. Anzi

scrivete sul mio testamento che, da morto, le è proibito baciarmi.”

E Abinna: “Suvvia adesso, calmati. Tutti possono sbagliare.” E

la stessa Scintilla cercava di calmarlo e lo blandiva chiamandolo

col suo nome proprio. E lui: “Abinna, giudica tu, che gli dei te ne

renderanno merito. Che ho fatto di male? Un ragazzo

educatissimo! L'ho baciato non per la sua bellezza ma per la sua

bravura: sa dividere per dieci; legge senza sillabare; risparmiando

sulla sua razione quotidiana si è comperato un vestitino da

gladiatore, coi soldi suoi si è comprato una poltroncina e due vasi.

Non si merita di essere premiato da me? Ma Fortunata non vuole,

appollaiata com'è sui suoi tacchi da quindici. Stammi a sentire,

scimunita! Accontentati di goderti la ricchezza che ti è capitata,

razza di avvoltoio, e non stuzzicare il cane che dorme, donnetta da

quattro soldi; altrimenti proverai cosa succede quando mi fai

arrabbiare. Quando io ti dico una cosa, è quella e basta. Hai

capito?

Ma basta così. Pensiamo ai vivi. State allegri, amici. Anch'io

una vola ero un poveraccio come voi, ma poi grazie al mio

cervellino ho costruito quello che vedete. E' semplice: “Compro a

poco e vendo a molto!” Se qualcuno vi dice un'altra cosa è un

imbecille. Io intanto nuoto nella ricchezza che vedete.

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E tu, scoreggiona, ancora piangi? Guarda che ti faccio piangere

con ragione.

Lasciamo perdere, va. Come vi dicevo, a questa condizione mi

ci ha portato il mio saper fare. Arrivato dall'Asia ogni giorno mi

misuravo con questo candelabro per vedere se crescevo in altezza.

Mi ungevo il mento per far cresce la barba al più presto. Fortuna

volle che quando avevo quattordici anni il mio padrone si invaghì

di me. Che male c'è a fare quello che il padrone ti comanda? Però

io di nascosto accontentavo anche la padrona. Ci siamo capiti no?

Basta così! Io sono un gentiluomo.

Quel brav'uomo del mio padrone me lo conquistai del tutto e

quindi mi fece erede di tutti i suoi beni. Un patrimonio favoloso!

Feci costruire cinque navi, le caricai di vino, che allora valeva

quanto l'oro e le spedii a Roma. Una tempesta se le inghiottì in un

sol giorno. Credete che mi sia dato per vinto? Neanche per sogno!

Ne faci costruire altre cinque, più belle, più grandi e capaci di

darmi un reddito anche maggiore. E anche più resistenti. Le

riempii come un uovo: vino, lardo, fave, profumi e schiavi. E via a

Roma.

Fortunata.

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Questo lo devo dire. In quell'occasione Fortunata prese una

grande decisione in mio favore. Vendette tutti i suoi averi e mi

diede i cento pezzi d'oro che ne ricavò. Il mio patrimonio li inghiottì

come l'impasto si beve il lievito. Con quel solo viaggio realizzai

dieci milioni di sesterzi. Riscattai tutti gli immobili del mio padrone

che avevo dovuto impegnare. Mi costruii una casa, comprai quanti

più campi potei e bestie schiavi e quant'altro: da quel momento

qualsiasi cosa toccavo diventava oro. Quando arrivai ad avere

possedimenti più ampi di quanti ne avesse la città nel suo insieme

cambiai mestiere e misi su una banca per i liberti. Anche qui mi

arrise un successo senza precedenti per cui mi stancai di

occuparmi di affari. Ma ecco che si presenta un piccolo greco di

nome Serapa, un astrologo portentoso che conosceva tutto di me

come se fosse cresciuto in casa mia e mi convinse a continuare.

Abinna che era presente ve lo può dire: mi preannunciò un'eredità

che poi ebbi e che avrei congiunto i miei fondi campani con la

Puglia. Intanto finii di costruirmi questa casetta: quattro sale da

pranzo, venti stanze da letto, due portici in marmo, una serie di

disimpegni al piano di sopra; e a piano terra il salottino dove dormo

io, la stanza di questa stronza, lo sgabuzzino del portiere e una

foresteria che può reggere fino a cento ospiti. Quel riccone di

Scauro ha preferito alloggiare qui da me piuttosto che recarsi nella

splendida villa di suo padre al mare: vi ho detto tutto! Ma ci sono

molte altre cose in questa casa: poi ve le farò vedere. Datemi retta:

hai un soldo, vali un soldo; hai qualcosa, sei qualcuno. Così il

ranocchio di una volta ora è un re. 'E tu' disse a uno schiavo, 'porta

i paramenti funebri con i quali voglio esser trasportato alla tomba

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e l'unguento con cui si ungono i morti e un assaggio di vino che è

in quell'anfora che dovrà essere usata per lavare le mie ossa.'”

La prova generale delle esequie e fine della cena.

Lo schiavo si sbrigò ad obbedire e così ebbero inizio le

esequie. Arrivarono due coperte che Trimalcione ci invitò a palpare

per vedere se erano di qualità: “Se non le conservi come si deve”

disse allo schiavo, “ti farò bruciare vivo. Ricordati che io voglio

essere portato via fra il compianto sincero della gente.” Poi arrivò

il nardo, il profumo tipico delle cerimonie funebri.

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Ci unse tutti e concluse: “Fate conto di essere stati invitati al mio

funerale.” Poi, era ubriaco fradicio, chiamò un altro gruppo di

suonatori, si distese sui cuscini e ordinò loro di suonare qualcosa

di adatto come se lui fosse morto. I suonatori diedero vita ad una

chiassosa marcia funebre.

Uno schiavo che aveva accompagnato l'impresario delle pompe

funebri, si calò tanto convintamente nella parte che cacciò un

acuto così potente da svegliare tutto il vicinato. I vigili che

presidiavano quella zona, credendo che la casa di Trimalcione

stesse andando a fuoco sfondarono la porta con un gran

trambusto, com'erano soliti fare, e cominciarono a inondare la

casa con enormi secchi d'acqua. A noi tre non sembrò vero: ce la

demmo a gambe come se veramente stessimo fuggendo da un

incendio. Ma fuori della casa fummo inghiottiti da un buio pesto per cui ci

si ripresentò il solito problema: come raggiungere il nostro albergo?

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La seconda lite per Gitone.

Non avevamo una fiaccola di scorta per illuminare i nostri passi

in mezzo a quel labirinto di strade sconosciute né la notte ormai

fonda e silenziosa ci dava la speranza di incontrare qualcuno

provvisto di lucerna. Inoltre eravamo ubriachi e assolutamente

ignari dell'assetto stradale della città, il che ci creava problemi

anche di giorno. Camminammo per più di un'ora con i piedi

massacrati dai cocci in cui incappavamo non potendo controllare

la strada. Ma alla fine la solita ingegnosità di Gitone ci trasse

d'impaccio: perché? che si era inventato quell'angelo venuto di cielo in

terra a miracol mostrare? Poiché temeva di perdersi ancora, anche di giorno,

fino ad un certo punto della nostra andata aveva contrassegnato con segni

riconoscibili il cammino da noi fatto: pilastri, colonne, svolte; poi, finiti i

gessetti che aveva preso con sé, aveva dovuto desistere. Ma al primo segno

noto che riconobbe anche in piena notte, perché i gessetti erano bianchi, la

sua gioia si espresse con una specie di balletto indiavolato in cui tutte le sue

forme splendide di tanto in tanto “illuminavano” anche il buio pesto di

quella notte terribile. Le strisce da lui lasciate ci guidarono

nell'oscurità e ci indicarono la strada in quel viluppo di vicoli. E

come gli dei vollero arrivammo all'albergo dove noi pensavamo che

i nostri guai sarebbero finiti. Ma niente da fare, la vecchia

tenutaria che si era ingozzata di vino per tener compagnia ad

alcuni avventori, era caduta in letargo e non volle sentire in alcun

modo né le nostre bussate né il baccano a cui demmo vita in tutti

i modi possibili. E ci eravamo quasi rassegnati a rimanere lì fuori

per il resto della nottata senonché sopraggiunse un corriere di

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Trimalcione con un seguito di ben sette carri, che ponendo fine al

baccano, semplicemente sfondò la porta immettendoci

direttamente nella nostra camera. E lì finalmente mi potei godere fino

in fondo e più volte le grazie di quell'angelo che non solo mi blandiva col

suo corpo indimenticabile ma si metteva al mio servizio ogni volta che se

ne presentava il bisogno.

Cielo, che notte fu quella!

Che morbido letto! E che stretta

ci avvinse nel gorgo dei sensi

ardendo di rara passione

per cui labbra a labbra mischiando

le anime nostre indagammo.

Al diavolo umani pensieri!

Non è forse questo il morire?

Gioivo, ma incautamente. Perché quando, travolto dal vino,

misi a posto le mani, quel diavolo di Ascilto, inventore di tutti gli

inganni, durante la notte mi si prese il ragazzo e se lo portò nel

suo letto e poi, abbracciandosi in totale libertà, con un compagno

non suo, connivente o no che fosse, si consegnò alla fine ad un

sonno ristoratore dimentico di ogni legge umana e divina. Quando

mi svegliai e presi a tastare con la mano il posto lasciato vuoto dal

mio amore e lo trovai vuoto... mi dovete credere: mi chiesi se non

dovessi trafiggerli entrambi facendoli passare dal sonno alla

morte. Poi, calmandomi un po', svegliai Gitone a forza di botte e

dissi truce ad Ascilto: “Fai fagotto e vattene via subito, traditore

degli amici e degli dei. Te ne devi andare, hai capito?” Quello non

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replicò, cominciò a spartirsi in silenzio la sua quota dei nostri

poveri averi e quando ebbe finito mi disse: “Bene! Adesso

dividiamoci il ragazzo!”

Pensai che fosse una delle sue solite insulse spiritosaggini.

Invece quello aveva già impugnato la spada e mi gridava: “Non te

lo godrai tutto da solo, un bocconcino simile. Anche se non mi

avete voluto contare nel gruppo, mi dovete dare la mia parte o

sono pronto a prendermela anche con la spada.”

Allora anch'io presi posizione: mi avvolsi il mantello sul braccio

e feci capire che avrei venduto cara la pelle del ragazzo. Che però

piangendo disperatamente si era messo in ginocchio e ci

supplicava, abbracciandoci alle ginocchia, ora me ora Ascilto, di

non macchiare col sangue la nostra così antica amicizia. Poi si

scoprì il collo e come Eurialo nell'Eneide di Virgilio gridava: “Me,

me dovete colpire; me che ho violato il sacro patto dell'amicizia!”

Ci lasciammo convincere da quelle lacrime di bellezza e allora

Ascilto prendendo la parola mi disse: “Perché non lasciamo

scegliere al ragazzo? O me o te.” Sicuro di me, caddi nella trappola

tesami da quell'imbroglione. “Va bene!” dissi, “Scelga lui.” Non

avevo neanche finito di dare il mio assenso che Gitone

inopinatamente si alzò e corse tra le braccia di Ascilto.

Mi avesse colpito un fulmine non avrebbe avuto su di me lo

stesso effetto devastante che ebbe quella decisione presa da

Gitone senza un attimo di esitazione. Caddi quasi svenuto sul

lettuccio dei nostri amori e stavo lì lì per uccidermi, ma mi

trattenne la volontà di non dare soddisfazione a quei due traditori.

Ascilto prese Gitone e tronfio e gonfio di orgoglio abbandonò il suo

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vecchio compagno di trincea nonché suo amatissimo amante nella

disperazione più nera in un posto che più sordido non si poteva.

Il nome di 'amicizia' resta saldo

fino a quando conviene e fino a quando

la sorte regge il gioco in tuo favore.

Ma se la sorte cambia, l'amicizia

se la squaglia da te e si abbandona

a una sordida fuga vergognosa.

Va in scena una commedia: questo il padre,

un altro il figlio e un altro ancora il ricco

interpreta in teatro, ma alla fine

quando il copione è ormai rappresentato

le maschere scompaiono e ciascuno

ritorna alla sua triste tragica verità.

Mi consolai con questi versi e non piansi più, ma per evitare di

essere raggiunto da qualche altro invito inopportuno in quel

momento, cambiai dimora e presi in affitto una stanza in un

alberghetto vicino alla spiaggia. Vi rimasi chiuso per tre giorni e mi

disperai piangendo e prendendomela con me stesso perché non

trovavo il coraggio di farla finita. E imprecavo contro la terra e il

mare che non mi inghiottivano per strapparmi al dolore di quel

tradimento e del pensiero che quei due se la stavano spassando

e magari ridendo alle mie spalle. Poi passavo agli insulti contro di

loro. Ascilto, un bellimbusto dedito ad ogni depravazione, degno di

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essere messo a morte per sua stessa ammissione, uno che si è

ricomprato la libertà facendosi stuprare e sempre facendosi

stuprare si è conquistato un nome rispettabile, uno che prima di

allora era stato messo in vendita come schiavo con un'etichetta

che indicava prezzo e età, uno che si era prostituito come femmina

anche a chi lo aveva comperato come maschio. E Gitone? Che dire

di Gitone? Il giorno in cui avrebbe dovuto indossare la toga virile

aveva preferito mettersi la gonna, uno che la madre aveva

convinto a fare la femmina, addirittura in una galera per schiavi,

un dissoluto che dopo avermi illuso come amante mi aveva

lasciato dimenticando senza esitazione il nostro amore, uno che

come una ninfomane insaziabile si era giocato il nostro amore per

le carezze di una notte. E poi concludevo con il mio forsennato

desiderio di vendetta: li troverò, li stanerò, li ucciderò, spargerò il

loro sangue, colpevole di un così grave affronto.

Il “fantolin da culo”.

Mi allacciai la spada, mi rifocillai con un pasto abbondante che

mi desse le forze necessarie per la mia spedizione punitiva, uscii

fuori e incominciai a cercarli per tutti i portici di Pompei. E mentre

me ne vado in giro come impazzito e con lo sguardo truce di chi

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medita una cruenta vendetta mi nota un militare. Un soldato, sì,

ma giovane e dall'aspetto assai strano. Se ne andava in giro a

passeggio o cercava l'occasione per borseggiare qualche

malcapitato? Non riuscii a capire. Certo che non aveva l'aspetto

rude del combattente: sembrava piuttosto un soldato da operetta.

Comunque era armato di tutto punto e faceva indubbiamente

paura. Mi fa: “Dimmi un po', tu? A quale legione appartieni? Si va

in giro di notte armato fino ai denti e con le scarpe da ballerina?”

Mi inventai il numero di una legione ma l'espressione impaurita e

il volto tremante tradirono la mia bugia. Allora quello mi impose di

deporre le armi e di andarmene se non volevo passare un guaio.

Le possibilità di vendicarmi di quei due cadde insieme alle mie

armi. Intanto il soldato, dopo averle raccolte, sembrava essersi

avviato in direzione contraria alla mia. E io quasi quasi gli fui grato

di avermi indotto alla rassegnazione. Mi avviai dunque in lacrime

verso il mio alberghetto, stanco per tutte le novità di quel giorno, incluso lo

spavento che quel furfante mi aveva fatto prendere. Ma ecco che mentre

stavo per bussare sentii di nuovo la sua voce che mi accoglieva come se mi

stesse aspettando: “Ma che strada hai fatto? Quanto tempo ci hai messo? E'

un'ora che ti aspetto!” “No, è che mi sono fermato a parlare con degli amici.”

“Quando la smetterai di dire bugie? Tu non sei di Pompei, non hai amici e

chissà che strada hai fatto e per quale motivo. Dai, bussa, fammi entrare con

te.” Il padrone dell'albergo mi salutò educatamente, ma quando vide che il

soldato entrava tranquillamente con me, lo fermò dicendogli: “Ehi, tu, dove

vai? Chi sei? Prima ti devo registrare.” Il soldato sfoderò la spada e gli disse

sprezzantemente: “Zitto. E' un suo diritto ospitarmi, senza registrazione. Si

prende lui la responsabilità. Tu sei garantito di tutto. E poi, non lo vedi che

sono un soldato?” L'albergatore non replicò e neanch'io ebbi il coraggio di

farlo. E il soldato senza tanti complimenti prese una torcia e mi fece cenno

di guidarlo verso la mia stanza. Che quando entrammo, illuminata dalla

torcia, mi sembrò migliore di quanto lo era di giorno. “Ma io non ti ho mai

detto che volevo ospitarti. Anche tu dici le bugie.” “Eh, hai voglia! Avrai

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tutta la nottata per scoprirle tutte. Intanto eccoti la prima sorpresa.” Mentre

parlava si spogliava velocemente e in un attimo mi si mostrò tutto nudo.

Sacri dei! Quello non era un uomo! Glabro come un efebo, aveva una

carnagione abbronzata al sole di quelle spiagge meravigliose e si presentava

con un fisico mozzafiato che dimostrava non più di vent'anni. “E tu di che

legione sei?” gli chiesi per cominciare a capire qualcosa. “Quale legione?”

mi rispose “Io sono un soldato per tutte le legioni. Quando i generali

riescono a trovare i soldi per arruolare anche un solo volontario in più mi

portano con loro per sfogarsi con me se non catturano belle donne da

scopare. Prima ti ho spaventato perché quello è il mio modo di rimorchiare.

Appena ti ho visto ho detto che mi ti sarei portato a letto perché sei troppo

bello. Ma adesso al lume della torcia sei ancora più bello. Dai, spogliati e

distenditi che ti faccio vedere di cosa sono capace. Esibiva un cazzo di

enormi proporzioni a riposo; mi figurai che cosa doveva essere in erezione

e tremai all'idea di farmi sfondare ancora una volta come a casa di Quartilla.

Pregai in silenzio Priapo di risparmiarmi quella punizione e gli promisi un

cesto di mele mature per riparare al furto che mi stava procurando tanti

danni. Quel dio crudele questa volta sembrò voler accogliere la mia

preghiera. Quella meraviglia di soldatino si distese a pancia in giù e quasi

mi ordinò di incularlo con una voce da donna che mi impressionò. Era una

donna a tutti gli effetti: bellissima! Col cazzo nascosto era anche più bello

di una qualsiasi donna e io col pensiero ringraziai il dio di avermi esaudito.

Mi misi in ginocchio e a cavalcioni su di lui e cominciai a tormentargli le

natiche con carezze morsi e baci. “Più dentro. Vai più dentro.” Gli leccavo

il culo e con la punta della lingua cercavo di penetrarlo come facevo con

Gitone. Ma era qui che si annidava la vendetta del dio implacabile. Secca

la fonte del piacere / il desiderio intatto. Dopo un po' il soldato cominciò a

smaniare e disteso come stava portandosi la mano destra sulla schiena

cominciò a frugarmi gli inguini trovando alla fine il mio fratellino inerte.

Schizzò su sorpreso e stizzito e me ne chiese la ragione. Allora d'istinto gli

recitai questi versi bellissimi che mi ricordavo a memoria e che mai in altre

situazioni erano stati più opportuni.

“Non puoi né bere le acque

né cogliere i frutti, infelice

Tantalo, o tu che sei il simbolo

del ricco che vede ogni cosa

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e tutto desidera eppure

fame e sete ahimè lo torturano.”

Dopodiché cominciai a raccontare la mia disavventura. Il soldato rideva

un po' divertito e un po' stizzito per essere andato completamente in bianco.

Pensavo che presto se ne sarebbe andato e che mi avrebbe finalmente

lasciato dormire. Quello però mostrava tutta l'intenzione di rimanere lì ad

ascoltarmi. Mi aveva quasi preso in braccio e mentre io raccontavo e

giustificavo la mia inerzia sessuale lui mi cercava con ansia le natiche e

quando ebbe raggiunto l'orifizio senza esitazione mi stuprò, ma infilandomi

dentro quasi tutta la mano. Io gridai per il dolore ma lui prontamente mi

tappò la bocca con un bacio che dire appassionato è dir poco. 'Stai buono!”

mi disse, “vedrai!” Chiamò l'albergatore, gli diede dei soldi e gli chiese di

portargli al più presto una ciotola con acqua caldissima. Intanto si sdraiò

come prima a pancia in giù, poi si mise in ginocchio sul letto divaricando le

gambe quanto bastava e poi mi ordinò di prendere dalla sua borsa una delle

cotiche di maiale che portava sempre con sé. Mi ordinò poi di ingrassargli

l'ano per bene e poi di stuprarlo come lui aveva fatto con me. “Tutta la mano,

tutta!” ansimava quasi pregandomi; ma la mia mano era troppo grande. Con

il pugno chiuso cominciai a fargli i massaggi come aveva fatto il negro con

me. E sentivo gli sfinteri di quell'ano delizioso piano piano allentarsi e

cedere alle mie spinte discrete. Ero quasi riuscito a far passare metà del

pugno quando l'oste bussò con l'acqua calda. Ci ricomponemmo

velocemente. Il soldato gli disse di posare a terra la ciotola e di andarsene,

ma l'albergatore aveva intuito che qualcosa di piccante si stava svolgendo in

quella camera e cercava di traccheggiare. L'ordine del soldato si ripeté

perentorio e allora quello sia pur malvolentieri lasciò la stanza chiudendosi

la porta alle spalle. Il soldato prontamente si sedette sulla ciotola che era

abbastanza ampia per accogliere quel suo portentoso culetto e lo sentivi

ansimare come una troia in calore alle carezze di quell'acqua caldissima.

“Che fai?” chiesi. “Il tuo pugno è troppo grosso.” mi disse, “L'acqua calda

aiuta gli sfinteri a dilatarsi e tu fra un po' riproverai a stuprarmi, vero,

amore?” Era vero. Contento lui! Quel giochetto eccitava la mia fantasia in

modo nuovo e incredibilmente piacevole. Infilargli un pungo chiuso nel culo

facendolo mugolare come una troia in calore mi dava una sensazione di

potenza che si rifletteva immediatamente sul mio fratellino. “Ecco, ecco!

Sono pronto.” Si alzò e velocemente prese la posizione di prima. “Prendimi,

amore; prendimi.” Ormai esperto, feci entrare velocemente una buona metà

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del pugno chiuso e quando sentii che anche l'ultimo sfintere aveva ceduto,

mi fermai un attimo perché lo stupro fosse il più doloroso possibile. “Di chi

sei tu?” gli sussurrai in un soffio nell'orecchio mentre lo mordevo sul collo

leccandoglielo tutto. Ebbe appena il tempo di rispondermi “tuo” in un soffio,

ansimando come un moribondo, che gli assestai il colpo di grazia

penetrandolo fino in fondo. Gettò un grido disumano. L'ano ormai

mostruosamente dilatato si stringeva ritmicamente e furiosamente sul mio

braccio quasi fermandomi la circolazione sanguigna e come se volesse

espellermi a qualsiasi costo, anzi a qualsiasi dolore; poi piano piano il

poveretto si rilassò e mi permise di incularlo dolcemente col va e vieni che

scioglie piano piano la stretta anale. Voleva godere da tutte le parti. Cercò la

mia mano in modo che gli prendessi il pisello eretto e lo masturbassi mentre

l'altra mano lo inculava. E continuava a gridare fino a quando l'albergatore

non poté più fingere di non sentire. Aprì la porta e quando capì che ero

praticamente ammanettato mi sollevò un po' e mi inculò a sua volta

selvaggiamente. Aveva anche lui un pisello mostruoso che penetrandomi

esaltò l'erezione già in atto e mi condusse a un piacere indescrivibile. Poi il

trio si disunì per riunirsi di nuovo in ruoli differenti. Chissà dov'era Priapo

quella notte! Ognuno di noi cambiò posizione per almeno cinque volte nel

corso di quell'orgia a tre. E quando il gallo cantò annunciando il sorgere del

sole, sfiniti dal piacere, ci accasciammo sul letto senza saper distinguere

quali parti del corpo fossero le nostre e quali quelle degli altri. Il più lucido

era l'albergatore che si allontanò per tornare subito con delle ampolle di

satirio. “Beviamo!” disse e quel dolce liquore ci accompagnò nel sonno

verso sogni deliziosi. Per tutta la notte e poco prima di svegliarmi mi

apparve in sogno una donna bellissima con le sembianze forse di Quartilla

che mi disse: “Non è bene confidare troppo nelle proprie forze e nei

nostri piani perché la sorte segue percorsi tutti suoi imperscrutabili

per gli umani. Domani di' al soldato di condurti con sé ad Ercolano se vuoi

ritrovare ciò che hai perduto.”

A ERCOLANO

“A Ercolano? E perché?”, mi chiese la checchina. Non avevo voglia di

dargli tante spiegazioni e perciò mentii spudoratamente. Fra me e quella

checca sfondata era tutto un gioco di menzogne. Era, il nostro, uno strano

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intendersi attraverso bugie piuttosto che seguire le belle strade della verità.

“A vedere il celebre tempio di Ercole. In Grecia non si parla d'altro. Non l'ha

costruito Vitruvio?” “Ma quale Vitruvio? Quello lo hanno costruito i soldi

di Lica che ora ci mangia alla grande.” “E quanti soldi avrà mai questo Lica

per permettersi di costruire un tempio simile? Più di Trimalcione?” Il

soldatino da culo fece spallucce e disse: “Trimalcione è un poveraccio di

fronte a lui. Lica è un armatore che possiede più navi di tutte le flotte romane

messe insieme. Pensa che quando l'imperatore decide di dare battaglia in

mare lo convoca e chiede il suo aiuto. Lica ha tanti di quei soldi che non gli

basterebbero cento vite, a lui e alla moglie, per mangiarseli tutti.” “E figli

non ne ha?” chiesi, incuriosito. “Che figli? Lui è una checca peggio di me

che con le donne non gli si addrizza proprio, neanche se un negrone nel

frattempo se lo incula. E lei, bellissima, è una... strana, che rifiuta di fare

figli fuori dal matrimonio. Il marito gli mette nel letto dei bistecconi che le

invidierebbe perfino Venere, ma niente, lei non allarga le cosce neanche a

pagarla. E' una specie di vestale che ha dedicato alla dea la sua verginità.”

“Interessante!” esclamai; “Interessante? Vi porterò da loro: quelli cercano

solo giovinetti belli come te. Se ti fai fare un pompino, Lica è capace di

ottenere subito per te la nomina di questore, ma non a Ercolano... a Roma!

Capisci?” Decisi che, sarebbe stato meglio andare subito da lui perché con

un protettore simile avrei riacciuffato quei due traditori immediatamente. E

altro che pompino ero disposto a farmi fare se mi si fosse addrizzato! Però

quel cretino del militare aveva dimenticato di dirmi che Lica era vecchio più

di Matusalemme, che aveva un occhio di vetro e che puzzava perché per

chissà quale strano male l'urina gli si trasformava in sudore piuttosto che

seguire la vie naturali. In compenso, come sperimentai personalmente,

aveva conservato un forza erculea grazie alle aderenze divine col dio Ercole

di cui aveva fatto costruire il tempio.

Non so se sei mai stato ad Ercolano, lettore. Ercolano è un'enorme

conchiglia che il mare ha depositato sulla terra, a poca distanza da Pompei,

e che gli dei hanno abbellito con doni di inenarrabile fascino. Il foro, piccolo

ma perfetto, giace in una specie di valle sulle cui pendici si adagiano case e

templi baciati da un sole perenne. Gli abitanti ridono sempre perché le loro

industrie fiorenti di ceramiche e tele ne fanno uno dei paesi più ricchi della

Campania e se la loro vita non fosse tormentata dall'eterna paura del

Vulcano che sta sempre lì lì per eruttare essi sarebbero più felici dei sibariti.

Ma forse lo sono, i più felici del mondo, perché proprio quella paura rende

la loro ricerca del piacere più stimolante e appagante.

Mentre giravamo per la città il soldatino mi mostrava questa o quella

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bellezza, ma soprattutto mi magnificava la pinacoteca. “Ci dobbiamo andare

prima di andare da Lica, se no quello non vi ci manda più.” “No, prima

dobbiamo ritrovare Gitone.” gli dissi: “Che ci vado a fare nella pinacoteca

se non posso concentrarmi e soprattutto se lui non è con me? La mia mente

pensa sempre a lui e quindi a quel criminale di Ascilto. No! Troviamo prima

loro!” “Ma no! - mi disse il soldatino - eccola, siamo arrivati! Distràiti un

po': ci sono opere di un bellezza infinita che ti faranno dimenticare il tuo

dolore. Dai, entra un attimo, mentre io saluto un amico mio che abita qui di

fronte.”. A malincuore, ma entrai, da solo.

Eumolpo.

La pinacoteca era in un salone del tempio di Apollo, quello grande dopo

le fontane. Mai visto tanti quadri tanto belli e tanto vari. C'erano

opere di Zeusi non ancora rovinate dal tempo. Potei quasi toccare

con mano i quadri di Protogene e i corridori di Apelle, ritratti su

una sola gamba mentre con l'altra, già levata, si danno lo slancio

nella corsa. Pittori così bravi che attraverso la perfezione con cui

ritraggono i corpi sembrano raggiungere anche la forma

dell'anima. Giove con sembianze di aquila rapiva in cielo

Ganimede; Ila respingeva le lusinghe della ninfa che poi lo portò

via ad Ercole; Apollo malediceva le sue mani per aver sbagliato il

tiro e ucciso così Giacinto e in ricordo di lui intrecciava giacinti alle

corde della lira. E io, in mezzo a tutte quelle immagini che

ritraevano mitici amori efebici, gridai, come se stessi da solo in

quel posto: “Anche gli dei dunque soggiacciono all'amore! Giove,

non trovando in cielo amanti adeguati, è disceso sulla terra per le

sue scappatelle. Che male faceva in fondo? E la ninfa che rapì Ila

non l'avrebbe mai fatto se avesse saputo che poi se la sarebbe

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dovuta vedere con Ercole. Apollo fece rivivere in un fiore il

giovinetto amato. Anche tutti gli altri racconti mitologici parlano di

amori in cui non erano presenti dei rivali. E a me invece mi tocca

di sopportare questo stronzo di Ascilto che in amore è più spietato

di Licurgo e che appena mi distraggo mi sottrae Gitone.”

Protestavo in questo modo a voce alta quando nella

pinacoteca entrò un vecchio con i capelli bianchi e una faccia già

segnata da una lunga vita, ma che però sembrava capace di

lusinghe irresistibili, nonostante la trascuratezza del vestire. Era

uno dei soliti intellettuali straccioni che i ricchi in genere

detestano. Mi arrivò vicino e mi rivolse la parola senza tanti

complimenti. Evidentemente faceva affidamento sulla sua

vecchiaia. Mi disse: “Io sono un poeta e anche di un certo livello

se si deve credere ai riconoscimenti che ho avuto e che adesso

danno a cani e porci. E non chiederti perché sono vestito così: con

la poesia non si mangia, lo sanno tutti. E quindi sciorinò dei brutti

versi d'occasione:

“Si sa: chi va per mare presto diventa ricco;

chi va in guerra e combatte presto si farà d'oro;

l'adulatore ipocrita se ne può star sdraiato

su morbidi tappeti e chi scopa matrone

ha più soddisfazione d'altri.

L'ispirazione

poetica va in giro povera e nuda, ahimè,

e l'arte del poetare per non restare sola

va in cerca di altre arti proprio come fai tu.”

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Poi riprese la sua arringa contro la corruzione operata dalla

ricchezza e contro le persecuzioni a cui i ricchi sottopongono i

poeti per tenerli aggiogati alle loro mense e dimostrare così che

anche loro sono sottoposti al potere del denaro. Poi si fermò un

attimo come per concentrarsi e concluse: “E' sicuro che c'è un legame

naturale tra povertà e genio, ma per quanti sforzi io faccia non

riesco a darne una spiegazione plausibile.” “Ma che mi frega della

povertà o del genio?!” dissi, “Io vorrei che l'unico possibile nemico

della mia continenza, cioè Gitone, si fosse mantenuto puro

lasciandosi corteggiare solo da me. Invece è una vecchia checca

più furba anche dei suoi magnaccia.” “Piano con le parole, giovanotto!

Tutti gli innamorati gelosi parlano così, ma il tuo ragazzo a quanto ho capito

non è più tanto ragazzo. Vedrai che torna da solo e magari sarai tu a non

volerlo più perché si deve depilare ogni mattina.” Era indubbiamente un

personaggio interessante e il suo aspetto ispirava una certa fiducia. Decisi

di sfogarmi e di raccontargli le mie disavventure amorose per spiegargli i

miei lamenti di prima. Mi ascoltò attentamente, cercò di ravvivare in me la

speranza di ritrovare quei due infamoni e infine, forse per consolarmi, mi

raccontò un divertente episodio della sua vita che aveva per tema l'amore

efebico. Allora mi misi in guardia. Vuoi vedere che questo vecchiaccio ha

intenzione di farmisi, anche se non sono più proprio un efebo? E

incominciò: “Da giovane, andando soldato al seguito di un questore

che era stato inviato in Asia, arrivati a Pergamo, presi alloggio

presso una buona famiglia di quella città. Ci stavo come un dio in

quella casa, primo perché era sommamente accogliente ma

soprattutto perché il giovane figlio del mio ospite era di una

bellezza mai vista prima. Avevo dunque deciso di farmelo, prima

che il mio pretore ripartisse per qualche altra destinazione.

Naturalmente senza che il padre si insospettisse. Perciò ogni volta

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che a tavola la conversazione cadeva sull'amore efebico io davo in

escandescenze e pregavo i commensali di non insultare il mio

pudore con quel genere di discorsi. La madre piano piano si fece

di me l'opinione che io fossi un grande filosofo. Facile capire quali

effetti sortirono queste mie ostentate prese di posizione.

Cominciai ad accompagnare l'efebo a scuola, a programmare il

suo studio, a dargli lezioni e ammaestramenti affinché non

permettesse a nessuno di entrare in casa e di attentare alla sua

castità. E una buona volta, mentre ci attardavamo nella sala da

pranzo perché il giorno festivo aveva prolungato il gioco e la

divertente conversazione della tavola aveva indotto in noi un certo

torpore che ci tratteneva dall'andare a letto, all'incirca verso la

mezzanotte mi accorsi che il ragazzo non dormiva ancora. Allora

con un fioco sussurro, ma non tanto fioco che il ragazzo non mi

sentisse, formulai questo voto per la dea dell'amore: 'Venere

madre, se io ora bacerò questo ragazzo e lui non se ne accorgerà

domani gli regalerò un paio di colombi.' Il furbetto incominciò a

russare fingendo di dormire e consentendomi di dargli una lunga

serie di bacetti con mio supremo godimento. E naturalmente il

mattino successivo sciolsi il voto regalandogli una magnifica

coppia di colombi.

Poi, la prima notte che si ripresentò l'occasione alzai la posta:

'Se potrò accarezzargli a lungo il culetto senza che lui se ne

accorga, domani in cambio gli regalerò due superbi galli da

combattimento.' e restai in attesa. Il ragazzo allora si avvicinò di

sua iniziativa, temendo, credo, che mi fossi addormentato. Placai

subito la sua ansia saziandomi di quello splendido corpo, ma

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senza osare di più. Quale fu la sua gioia quando la mattina

seguente mi presentai con i galli promessi!

Terza notte, solita occasione favorevole. Il mio desiderio ormai

sfrenato mi spinse a chiedere il massimo sussurrando il mio voto

proprio all'orecchio di quel furbetto che dormiva per modo di dire.

'Dei immortali, ascoltatemi, se riuscirò a strappare a questo

bellissimo ragazzo addormentato la piena intimità, ciò che io

desidero più di ogni cosa al mondo, però senza che lui se ne

accorga, domani gli regalerò in cambio uno splendido puledro

macedone. Sembrava che fosse sprofondato in un coma

irreversibile. Mi riempii le mani delle sue tettine ancora implumi,

mi incollai alle sue labbra baciandolo fino a restare senza fiato e

alla fine lo girai e colsi quel fiore a cui tutta la mia strategia aveva

teso fin dall'inizio. La mattina presto era già sveglio e pronto in

camera sua a ricevere il premio promesso. Già, ma procurarsi due

colombe o due galli è facile; il prezzo di un puledro macedone

invece andava molto oltre le mie possibilità e poi avevo paura che

un regalo così vistoso potesse insospettire i genitori. Passeggiai a

lungo prima di raggiungerlo, poi anche questa volta decisi di

tentare il tutto e per tutto. Niente puledro, solo un bacio!

Al che lui mi fa: “Maestro, il cavallo?” Era la fine. Mi rassegnai.

Però in seguito inopinatamente il ragazzo mi diede modo di

riconquistare le sue simpatie. Dopo vari giorni di mutrie per me

insopportabili, ecco che una notte si ripresenta l'opportunità di

potergli parlare senza essere sentito dagli altri. Il padre russava e

allora io incominciai a supplicarlo di fare la pace e di concedermi

quanto mi aveva dato anche con suo piacere e insomma tutte le

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parole più adatte che un desiderio scatenato può suggerire.

Irremovibile ad ogni mia pausa di attesa mi ripeteva

rabbiosamente: “Dormi o sveglio mio padre!”.

In certe battaglie però il desiderio è uno stratega infallibile.

Mentre ancora una volta mi ripete rabbioso: “Dormi o....” gli salto

addosso e gli strappo, ma non è che si difendesse in modo tanto

convinto, la gioia suprema. Il mio colpo di mano, ma dovrei dire

diversamente, non gli dispiacque affatto. Colse l'occasione per

lamentarsi a lungo e per rimproverarmi. Ciò che gli dispiaceva di

più era che gli avevo fatto fare una brutta figura con i compagni

con i quali si era vantato del puledro che non gli avevo regalato.

Dopo un po' di lamentele sussurrate quasi stando fra le mie

braccia, inopinatamente concluse: “Io non sono un imbroglione

come te. Se vuoi possiamo farlo ancora.” Facemmo la pace alla

grande e dopo essermi congiunto con lui altrettanto alla grande mi

addormentai ormai rasserenato in tutti i sensi.

L'efebo, come tutti quelli della sua età, aveva una gran voglia

di farsi fare e, non accontentandosi di quella splendida replica, mi

svegliò e mi sussurrò all'orecchio: “Non vuoi nulla?” La cosa non

mi era ancora del tutto sgradita e, tra sbuffi e sudore, gli diedi

quello che voleva ripiombando subito in un sonno profondo. Ma

era passata forse un'ora quando sentii di nuovo la sua mano che

mi vellicava la nuca. Aprii gli occhi e lui: “Lo facciamo un'altra

volta?” A quel punto non ce la feci più e gli dissi: “Senti: o dormi o

sveglio tuo padre!”

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La guerra di Troia.

La favola mi tirò sù e allora incominciai a consultare il saggio

poeta sulle date dei quadri e su alcuni soggetti che non capivo

bene e poi, una parola tira l'altra, il discorso andò a finire, come

era prevedibile, sulla decadenza della cultura ai giorni nostri e in

particolare sulla pittura che era ormai sparita anche dalle case più

ricche. “L'avidità di denaro ha rovinato tutto. Una volta gli artisti si

infischiavano del denaro e pensavano soltanto a lasciare le cose

belle, da loro create, alle generazioni future. E non solo gli artisti,

anche i filosofi e gli scienziati. Democrito passò tutta la vita a fare

esperimenti su piante e minerali per scoprirne le virtù

terapeutiche; Eudosso la passò tutta su una montagna per

scoprire la meccanica dei movimenti dei corpi celesti; Crisippo

assumeva infusi di erbe particolari per aumentare le capacità

percettive della sua mente. E gli scultori? Lisippo morì di fame per

potersi dedicare completamente a perfezionare le riproduzioni del

corpo umano invece che vendersi alle richieste volgari dei ricchi e

dei potenti; Mirone non trovò seguaci, lui che sapeva infondere

l'anima nelle creature che scolpiva. Noi oggi invece, tra fiumi di

vino e stuoli di puttane, non ci interessiamo neanche al bello che

le arti hanno già prodotto. E contro la moralità antica, impariamo

e poi insegniamo solo dissolutezza e vizi. Dov'è finita la dialettica?

Dove l'astronomia? Dove il sapere una volta inseguito da folle di

amatori? Chi si sogna più di entrare in un tempio per chiedere agli

dei la capacità di un buon oratore? o di essere un buon filosofo?

Pensa che ormai a Roma mica chiedono agli dei la salute del corpo

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e dell'anima. Macché. Pur di ascendere al Campidoglio

promettono doni a tutti: se gli muore un parente ricco o se troverà

un tesoro o se arriverà senza inciampi ad ammucchiare trenta

milioni di sesterzi. Perfino il senato, che dovrebbe essere il

custode della moralità promette oro a destra e a sinistra e

corrompe la gente rubando le elemosine che racimola con una

cassetta esposta nel tempio di Giove. Non c'è da stupirsi dunque

se la pittura è finita come è finita, visto che la gente ammira più la

bellezza di un lingotto d'oro che quella di quegli imbecilli di Apelle

e di Fidia.

“Vedo che ti piace molto quel quadro: rappresenta la

conquista di Troia da parte dei Greci. Tu sai come andò, vero?” E

senza aspettare la mia risposta cominciò di nuovo a sciorinare

versi:

Il decimo anno

“Già da dieci anni fra tristi presagi,

contrastanti fra loro, dei Troiani

insidiavan la fede ch'essi avevano

nei pronostici oscuri di Calcante

il nero dubbio e l'incertezza atroce,

quando i Greci obbedienti al dio di Delo

tosando d'Ida le cime boscose

fanno d'alberi un mucchio da portare

sulla spiaggia di Troia e costruire

il cavallo fatale alla città.

S'apre il suo enorme ventre e in sé gli oscuri

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recessi accoglie pronti a contenere

le schiere greche che per ben dieci anni

l'ira e il furore in campo hanno temprato.

L'ampio ventre dai Greci è costipato

del cavallo che in voto han dedicato

agli dei... e noi illusi che credemmo

di liberarti, Troia, dal nemico

e dalle mille minacciose navi:

questo leggevi nella scritta incisa

col ferro su di un fianco del cavallo

e questo confermò quindi Sinone,

genio del male e al male ammaestrato.

Già il popolo infelice dei Troiani,

spalancate le porte e senza guerra,

s'avvicina al cavallo per vedere

esaudito l'auspicio della pace.

Lacrime ignare rigano quei volti,

lacrime che alla gioia s'accompagnano.

Laocoonte

Il timore le asciuga e infatti il sacro

del dio Nettuno sacerdote arriva

con i capelli sciolti e tutto il popolo

assorda coi suoi gridi disumani.

E' Laocoonte: la sua lancia sferra

e il cavallo colpisce, ma il destino

raffrena la sua mano e indebolito

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il colpo torna indietro rafforzando

la fede che ormai il popolo in sé nutre.

Colpisce ancora la sua mano invalida

senza alcun risultato ma, lì dentro

chiusa, la meglio gioventù dei Greci

freme e mormora insieme, mentre quella

mole di legno sembra sospirare

non per il suo ma per l'altrui timore:

andava quella schiera prigioniera

a imprigionare Troia e tutta quanta

la guerra decennale a terminare

con un inganno mai veduto prima.

I serpenti

Altri prodigi a questo si aggiungevano:

da Tenedo rocciosa enormi gorghi

s'alzaron verso il cielo ma silenti

vennero verso Troia più di quanto

fanno in un mare calmo onde serene

se nella notte senza luna i remi

insieme con la chiglia cautamente

lo fendono ed a lor l'acqua risponde

con lamentoso flebile sospiro.

Noi ci volgemmo e i gorghi si mutarono

in due serpenti che spingevan l'onde

verso le rocce con due spire enormi

e come fanno le navi in alto mare

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suscitavano schiume spaventose

ai loro fianchi e le code squarciavano

l'acqua con dei rumori impressionanti

e le creste fiammanti al par degli occhi

spuntavano dall'acqua e uno splendore

accecante la piana pervadeva.

I figli di Laocoonte

Sbigottimmo perché sopra la spiaggia

stavano in sacre bende i due figlioli

del sacerdote Laocoonte come

impone il rito Frigio ai suoi cultori.

Con le piccole mani i due fanciulli

si copron gli occhi e poi con generoso

fraterno slancio invano si proteggono

l'un l'altro, ma la morte inesorabile

li rapisce che ognuno paventava

per la morte dell'altro inutilmente.

Il padre volle un altro lutto ancora

cercando di aiutarli disperato.

I due mostri assalirono anche lui

e lo misero a terra e sull'altare

sola vittima giacque il poveretto.

E violata ogni regola del culto

la città ch'era ormai predestinata

perse prima di tutto i propri dei.

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La strage

E già la luna piena dispensava

il suo raggio splendente conducendo

in cielo le altre stelle quando i Greci

uscendo dalla pancia del cavallo

se ne vanno tra i miseri Troiani

sprofondati nel sonno ed ubriachi.

Fan prova delle armi i capi, come

quando il puledro tessalo, disciolto

dalle briglie, la testa in alto scuote

e la criniera, prima di lanciarsi

nella sua corsa libera e sfrenata:

sguainate le spade, i loro scudi

brandiscono gagliardi ed alla strage

muovono inesorabili e a quel punto

chi sgozza gli ubriachi agevolando

il passaggio dal sonno nella morte,

chi si fa luce con le tede accese

dai fuochi degli altari e chi bestemmia

invocando gli dei della città

contro la città stessa ormai perduta.”

I fedeli che si erano attardati nel portico, non potendone più,

incominciarono a prenderlo a sassate. Ma Eumolpo che sembrava

già sapere la conclusione delle sue declamazioni si coprì

tempestivamente la testa col mantello e scappò via. Io, temendo

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di essere preso a sassate anch'io, seguo d'istinto la sua fuga

finché non arrivammo sulla spiaggia. E una volta arrivati fuori dalla

portata dei lanci gli dico: “Ma insomma, la smetti con questi versi?

Ci conosciamo da meno di due ore e hai parlato più in versi che in

prosa.” Mi rispose: “Ragazzo mio, sono abituato a questo

trattamento. Ma siccome vedo che anche tu non ami la poesia, da

adesso in poi mi conterrò.” “Ecco. Bravo. Così va bene. Se parli

come mangi ti invito a cena a casa mia.” “A casa tua? E dove?” “Non

è proprio casa mia. E' un alberghetto qua vicino dove si mangia bene e si

spende poco.” Come dio volle ci arrivammo. E debbo dire che nonostante

la fuga e la lunga corsa quel vecchio era ancora vispo come un grillo e si

preparava a mangiare alla grande. Pensai che era meglio non assecondarlo

troppo. Visto mai che me lo ritrovavo stecchito fra le braccia!? Perciò

entrato nella cucina ordinai alla cuoca di preparare una cenetta leggera per

due. Ero inspiegabilmente felice! Eumolpo era un conversatore infaticabile.

Volle sapere tutto di me, di Ascilto, di Gitone e soprattutto tutti i particolari

della maledizione di Priapo. “Allora, se non ti piacciono le donne, sei

soltanto passivo.” “Ma no!” gli risposi, “Con Gitone di tanto in tanto mi

riesce ancora e con Ascilto, se vuole, sono passivo, ma ora senza entrambi

sono rovinato.” Me ne stavo in piedi perché la cena non veniva ancora

servita: Eumolpo mi si avvicinò senza farmi capire le sue intenzioni, mi

prese alla vita, mi girò verso di lui e me lo mise in culo, senza tanti preamboli

e solo dopo averlo umettato con due dita piene di saliva. Mi fece un male

cane, ma non feci un fiato per non farmi sentire dalla cuoca. Non so quanto

tempo durò, ma a me sembrò un'eternità. E provai un piacere mai provato

prima, da passivo. Mi aveva sbragato sulla tavola e mi chiavava

magistralmente. Io speravo di liberarmi presto, visto che era vecchio; invece

il vecchio era resistente come una quercia e sfruttava tutti i miei tentativi di

resistenza per assestarmelo meglio. Che inebriante supplizio! Che gusto,

farlo senza poter emettere neanche un sospiro, per non farsi sentire dalla

cuoca intenta ai fornelli e lenta come nessun'altra mai.

Mi venne dentro, il porco, e per un po' sembrò placato, ma, visto che la

cuoca non arrivava mai tentò di nuovo di incularmi. Allora gli dissi

perentoriamente in greco, in modo che quella non capisse, “Smettila o lo

dico alla cuoca…. e annullo l'invito a cena.” e rivolsi l'indice verso la cucina.

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Pensai che mi avesse capito dalla mimica e invece quello parlava greco

meglio di me e in greco mi rispose: “Se non ti è piaciuto me ne vado. In caso

contrario, ti voglio per sempre. Mi sono innamorato di te appena ti ho visto

in pinacoteca e anche prima di farti mio, adesso; ma se mi dici di non

volermi più, esco e mi uccido perché tu sei forse l'ultima cosa bella che la

vita mi concede.” A modo mio, mi ero innamorato anch'io di lui,

profondamente, ma concedermi di nuovo non era possibile tanto era il male

che sentivo; perciò gli risposi sempre in greco: “Anch'io ti amo!” e così

dicendo gli presi il cazzo con la mano sotto la tavola per rassicurarlo. E ogni

volta che tentavo di lasciarglielo lui mi rimetteva la mano al suo posto. Che

resistenza, il vecchietto! Chi l'avrebbe mai detto? Alla fine sudavo più io a

masturbarlo in quella scomoda posizione che lui a godersi il servizio. Per

fortuna alla fine la cuoca arrivò. Lo ospitai per la notte come avevo fatto per

il soldatino ormai perso di vista e finalmente le instancabili fatiche d'amore

a cui Eumolpo mi sottopose per ore alla fine indussero in me il sonno e,

momentaneamente, l'oblio di Gitone.

Il ritrovamento di Gitone

Il mattino successivo quando mi svegliai Eumolpo era già in piedi e

mi disse subito: “Andiamo a cercare i tuoi amici?” Quel sonno profondo mi

aveva tolto la memoria. “Ah si, certo!” Uscimmo per Ercolano che Eumolpo

conosceva pietra per pietra e, guidato da lui, cominciammo a cercare i due

furfanti fuggitivi. Non credevo mai che sarei riuscito a trovarli e invece

all'improvviso la solita apparizione di Gitone, più bello di sempre e

più innamorato di sempre. Stava appoggiato a un muro con tanto

di asciugamano e striglia come se facesse l'inserviente in una

sauna prestigiosa. La cosa non gli doveva andare gran che a genio.

Non sembrava neppure che mi riconoscesse. Allora mi avvicino e

lui quando mi vede esplode nel suo solito sorriso radioso che

esprimeva sempre una gioia piena e sincera: “Perdonami,

Encolpio! Ora che non ci sono armi in giro ti posso dire tutta la

verità. Puniscimi pure con la massima severità per la colpa che ho

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commesso lasciandoti solo, ma portami via da quel bandito di

Ascilto, crudele e sanguinario: sarà bello per me morire per tua

volontà pur di sfuggirgli.” Gli dissi di smetterla subito con quella

lagna per non far capire a nessuno gli affari nostri e, gettati via

asciugamano e striglia, lasciamo Eumolpo che intanto, guarda

caso, stava declamando versi a dei poveri malcapitati dentro la

sauna, per cui noi ce la svignammo attraverso uno scomodo

pertugio naturale, sporco e puzzolente, dal quale però potemmo

correre verso il mio alberghetto. Nessuno dei due per un lungo

periodo poté parlare: io, perché non sapevo da dove incominciare,

e lui, perché irrefrenabili singhiozzi gli impedivano di parlare. Alla

fine mi decisi: “A quale umiliazione hai sottoposto l'uomo che ti

ama più della sua vita! Che ferita gli hai inferto nel cuore che mi

sembrava incurabile e che invece adesso appena ti ho visto si è

rimarginata. Ia ti amo, lo vuoi capire o no? E tu ti sei dato a un

bastardo che ti ha preso con la forza. Me la meritavo questa

vergogna, di'? Me la meritavo?” Quando capì che il mio amore era

sincero e profondo strizzò quei suoi occhi splendidi come faceva

sempre quando la sua mente capiva: stava elaborando la difesa.

Allora continuai: “Io non ho chiesto nessun intermediario per

dirimere la mia contesa d'amore, ma adesso, visto che ci siamo

ritrovati, mettiamoci una pietra sopra e non rivanghiamo più il

passato; a patto che tu mi prometti eterna fedeltà, altrimenti davvero

questa volta faccio uno sproposito. E lui: “Encolpio, cerca di ricordare

bene il giorno che ci siamo separati. Chi ha tradito chi? Non sei

stato forse tu ad abbandonare la contesa impaurito dalla violenza

di Ascilto? Io per conto mio lo ammetto: di fronte alle armi sono

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debole e allora pur di evitare quello scontro che sicuramente

sarebbe finito male ho preferito rifugiarmi dal più forte.” Era

proprio una creatura divina! Lo abbracciai con trasporto

baciandolo a lungo per fargli capire che il mio amore per lui non

era mai morto.

Il ritrovamento del fantolino

Il giorno successivo uscimmo di nuovo per Ercolano insieme ad

Eumolpo che era rientrato a notte fonda ma si era levato di buon ora come

un giovanotto nel pieno vigore dell'età. Bighellonammo tutto il giorno per

Ercolano e all'improvviso ci si para davanti il soldatino che avevo lasciato

in casa del suo amico davanti alla pinacoteca. “Ehi, che fine avevi fatto? Hai

ritrovato i tuoi amici?” “Si, uno almeno.” Il soldato già non mi ascoltava

più. Guardava estasiato Gitone e non riusciva a togliergli gli occhi di dosso.

“Ehi tu!” gli dico, “Smettila. Non è roba per te. Piuttosto perché non ci porti

da Lica che stiamo morendo di fame?” “Ma certo! Subito. Gliel'ho già detto

che sei qui e ti aspetta.” Gli indicai Gitone: “Ma figurati! Sarà felice di

accogliere anche lui.”

A casa di Lica.

Lica era sulle scale del tempio di Ercole che era di proporzioni enormi

e di un'imponenza straordinaria. Quando vide il soldato gli corse incontro e

finalmente venni a sapere il vero nome di quella checchina sfrenata. Si

chiamarono con nomi femminili “Lichina!” “Gaiuccia!” e si baciarono

delicatamente sulle guance e poi sulla bocca accarezzandosi lungo la

schiena e lodandosi il culo reciprocamente: “Come ti mantieni bene! Che

fai? Cazzi, non ne prendi più?” Insomma fu tutto un complimentarsi sulle

rispettive doti femminili. Ma Lica, Lica, non c'era proprio nulla di cui

complimentarsi. Era di una bruttezza indescrivibile. Non aveva solo un

occhio di vetro ma anche un accentuato strabismo che ne faceva una specie

di mostruoso Polifemo, anche per la sua statura del doppio superiore al

normale. “Suvvia, presentami questi tuoi amici, Gaiuccia. Sono tutte

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signorine come te?” “Non saprei. Coi tempi che corrono non ci si capisce

più nulla, chi è frocio e chi no. Fanno tutti finta che gli piacciono le donne,

ma poi di riffa o di raffa, se capita, lo pigliano in culo. Poi gli farai tu un

esame, no, Lichina? Io so solo che hanno bisogno di aiuto. Starnutiscono

per la fame. Dagli subito qualcosa da mangiare.” Quando Lica si accorse

che io e Gitone non ce la facevamo neanche a salire i gradini del tempio, ci

si avvicinò, aprì le sue manone facendone due sedili, ce le infilò da dietro

tra le gambe e ci portò su al tempio senza alcuno sforzo. Naturalmente

palpandoci brutalmente per darci, diciamo così, il benvenuto. Noi non

avemmo la forza di ribellarci. Lica spalancò con i piedi la porta della sua

casa che stava affiancata al tempio e, oh meraviglia! Non ti dico altro,

lettore: quella di Trimalcione era una capanna al confronto. File

interminabili di colonne! Un vero e proprio lago a posto della piscina con

tanto di pastori che pascevano pecore sui suoi bordi perché Lica quando

voleva latte o formaggio dovevano essere freschissimi. Uno stuolo di schiavi

tutti vestiti uguali e tutti belli si presentarono e gli si inginocchiarono

davanti. “Avvertite subito la padrona, belli! Ditele che abbiamo ospiti due

greci e che c'è un pischelletto che sembra fatto apposta per lei.” Poi non

contento cominciò a chiamare lui stesso la moglie: “Trifena! Trifenaaa!” La

moglie non tardò ad arrivare. Era proprio una vestale: esile e sottomessa,

parlava a voce bassa facendolo arrabbiare perché, come se non bastasse, era

anche un po' sordo. Quando vide Gitone fece cenno al marito di metterlo

giù e rimase estasiata davanti alla bellezza ormai diafana dell'amor mio

morto di fame. Lei, da madre mancata, ordinò agli schiavi di portargli subito

qualcosa. Uno di loro, chissà come, aveva in mano due pere coscia; gliele

diede; lei le offrì a Gitone che, voi non ci crederete, le inghiottì intere come

se fossero pilloline medicinali: tanto la fame gli aveva dilatato le fauci

all'amore mio affamato. Dopodiché, ovviamente, cadde a terra non sapendo

neanche lui che cosa gli stesse accadendo. Trifena fece un gesto con la mano

e gli schiavi accompagnarono lei e l'amor mio svenuto nelle stanze da letto

che li inghiottirono e non li rivedemmo che l'indomani.

Lica quindi mi depose, si girò verso di me e alzandomi il gonnellino

davanti mi disse: “Fammi vedere come ce l'hai!” La mia dotazione anche a

freddo era molto abbondante, perciò vidi Lica impallidire dall'emozione e

contemporaneamente esclamare con una battuta che doveva essere sempre

la stessa in circostanze simili: “Piacere, Lica! E tu come ti chiami?”

prendendomelo in mano. “Io mi chiamo Encolpio, ma lui non ha più nome

da quando il dio Priapo lo perseguita.” Al nome di Priapo Lica ebbe un

sussulto. E litaniò: “Salve, padre santo, divino Priapo.” Non era proprio

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questa la formula, ma lui evidentemente conosceva bene solo le preghiere

per Ercole. “Vieni, vieni, bello! E che ti ha fatto Priapo? Dimmelo, sù,

dimmelo!” E intanto mi tirava tenendomi per il pisello fino a quando non

arrivò nella sua stanza da letto dove trovammo sdraiati nei vari triclini

almeno una ventina di schiavi maschi, tutti possenti e tutti col cazzo in

erezione pronti a soddisfare le voglie di quella vecchia checca pazza che più

pazza non si può. Ero perduto. Quando Lica si sarebbe accorto che il mio

bischero, pur così grosso, davvero non funzionava, mi avrebbe fatto

uccidere; perciò cominciai di nuovo a pregare Priapo di assolvermi almeno

in quella circostanza in modo da potermi salvare la vita. L'eccitazione della

vecchia maiala intanto era già cresciuta oltre ogni dire. Mi aveva sollevato

fino a portare il mio bischero all'altezza della sua bocca e cominciò a

succhiarmelo avidamente come fosse il capezzolo della madre quando era

bambino. Necessità fa virtù: “Non hai del satirio?” Gli chiesi. “Il satirio!

Che ne sai tu del satirio?” “L'ho bevuto a Pompei nel tempio di Priapo ma

anche a casa di Trimalcione.” “Ah sì? Figurati se quel cafone ripulito non

faceva sfoggio delle ultime novità!” “Che ci fai col satirio? Questo non ti si

tiene in piedi neanche con le stampelle!” E come se i due schiavi più vicini

avessero capito subito le sue intenzioni, si presentarono con due fiale tutte

d'oro e Lica mi disse: “Bevi, scimunito. Vedrai. Altro che satirio!” Obbedii

soltanto per la paura di perdere la vita. Ma capitò una cosa che poi, lasciato

Lica, non potei sperimentare mai più. Improvvisamente i miei occhi si

appannarono e vidi Gitone; le mie orecchie ebbero dei rumorosi tintinnii

entro i quali mi pareva di udire la voce di Gitone; stringevo un culo che era

lì davanti a me e mi pareva di stringere quello di Gitone. E che baci

appassionati mi dava, l'amore mio! E che abbracci! L'amore mio era dunque

tornato a me e Priapo mi stava facendo la grazia di farmi guarire; ridiventai

il toro di sempre e sentivo la voce dell'amore mio che in un latino un po'

strano gridava “Prehèndeme, prehèndeme, càrpeme col tuo manicon de

tauro!” Non mi aveva mai parlato così, Gitone: evidentemente il ritorno alle

vecchie abitudini amorose gli ispirava questo linguaggio da checca burina

che cercava di eccitare l'amante con inconsuete trovate linguistiche. Non so

quante volte me lo inculai. Poi caddi in un sonno profondo che mi lasciò

soltanto nella tarda mattinata del giorno successivo.

Quando mi svegliai giacevo su un letto pieno di cuscini, circondato da

dieci schiavi, pronti ai miei ordini, che già mi avevano lavato e rivestito di

abiti lussuosissimi. Ai piedi del mio letto era seduto Lica in lacrime che mi

accarezzava la mano e mi guardava estasiato col solo occhio buono che

aveva, mentre con l'altro, diretto a destra in alto, sembrava ringraziare il

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cielo della grazia ricevuta. Era mostruoso, quell'energumeno, e io non

capivo niente: perché stava lì? Perché piangeva? E a me, che cosa mi stava

capitando? “Dov'è Gitone?” gli chiesi. “Eccolo!” mi disse e mi indicò il

ragazzo che né più né meno di me se ne stava sdraiato su morbidi cuscini,

lui però sotto lo sguardo amoroso di Trifena. “Mia moglie si è innamorata

di lui! Ma io non sono geloso perché tanto lei non si fa scopare da nessun

maschio, molte volte neanche da me, che poi maschio...” Quella battuta

lasciata in sospeso mi fece girare la testa. Quel quadrilatero non mi piaceva

affatto, ma quella vita era piena di divertimenti e soprattutto piena di

lusinghe. “Diventerai il segretario dell'imperatore. Vedrai. E potrai tenere

sempre con te Gitone. E anche io e Trifena verremo a Roma per aiutarvi.

Cesare è molto esigente. E noi dobbiamo consigliarvi su tutto quello che

dovrete fare.” Solo la sera, dopo cena, e solo a me, venivano offerte le due

fiale di quel dolce liquore che Lica sosteneva essere migliore del satirio.

“Bevi!” mi ordinava perentoriamente. Io bevevo ed era come se Gitone si

spostasse dal suo letto nel mio per offrirsi col suo latino malandato da checca

infojata pronta a tutte le mie voglie.

Che pacchia! Passavano i giorni. Ascilto e Gaio, cioè “Gaietta”, il

soldatino da culo, non si sa come, anzi lo si può capire bene, non si vedevano

più in giro. Intanto io e Gitone ricevevamo in continuazione messi imperiali

che dopo lunghi colloqui si complimentavano con lui per la bellezza e con

me per il mio latino forbito, visto che ero greco, e più di uno di loro mi

garantiva che Cesare prima o poi mi avrebbe convocato per inserirmi nella

segreteria del suo ministero degli esteri.

Ma un pomeriggio afoso di agosto, mentre me ne stavo stravaccato sul

mio letto ed almanaccavo sul mio radioso avvenire ecco che vengo colpito

ripetutamente da olive verdi evidentemente colte da un albero dell'orto

antistante la casa. Mi giro e vedo Ascilto che mi fa segno di tacere, poi si

avvicina cautamente e mi fa: “Ma sei impazzito? Per quanto tempo ti vuoi

scopare ancora quel mostro?” “Quale mostro?” “Lica! Quello ti droga con

satirio africano, potente al punto da toglierti la ragione per ridarti il cazzo e

ti fa credere di avere tra le braccia Gitone mentre è lui che ti stai inculando.”

“Sei il solito vigliacco invidioso del nostro amore.” gli dissi. “No. Ha

ragione Ascilto!” Era la voce di Gitone che questa volta mi aveva raggiunto

realmente e che mi spiegò qual era l'incantesimo a cui quei due vecchi pazzi

ci sottoponevano ogni notte. Improvvisamente si sentirono rumori di passi.

Alla svelta ci demmo un appuntamento per l'indomani e l'indomani stesso

organizzammo un piano di fuga, difficile da escogitare, difficilissimo da

organizzare e ancora più difficile da mettere in atto. Ma con l'aiuto degli dei,

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ci dicemmo, anche stavolta saremmo riusciti a venir fuori dall'imbroglio che

quel ricco sfondato aveva costruito sulle nostre teste a nostra insaputa.

Nell'ora dell'appuntamento concordato, quando i due si presentarono

con le fiale di satirio africano di ultima generazione io finsi di berlo e lo

versai nella coppa di Lica e altrettanto fece Gitone con Trifena. E quando

vidi che il mostro strabuzzava l'unico occhio buono mi sdraiai sul letto tutto

nudo com'ero, tirai su le gambe in modo che l'ano salisse all'altezza alla

quale di solito le donne hanno la fica e in un falsetto femminile molto

discutibile cercai di imitare la voce di Trifena: “Vieni amore, vieni dalla tua

Trifena. Facciamo un figlio, amore mio.” Il mostro già eccitato da quella

ovrerdose di satirio mi si gettò addosso convinto di stare a scopare la moglie.

Aveva un membro proporzionato al resto, enorme! Sentii un dolore

insopportabile, ma strinsi i denti per non gridare già pregustando la libertà

ormai a portata di mano. Non credo di essere stato più inculato in modo così

violento e selvaggio, tanto violento e selvaggio che alla fine, benedetti tutti

gli dei dell'Olimpo, quel mostro si accasciò come svenuto tra le mie braccia.

Lo scansai con grande sforzo con il culo che mi bruciava in modo

insopportabile e claudicando, ma di corsa, andai da Gitone.

Una nuova fuga.

Quel ragazzetto mi faceva innamorare sempre di più. Lo trovai che

fingendo di essere Lica si stava scopando Trifena con un membro di

cartilagine suina che la faceva godere come una maiala, scusate il gioco di

parole mancato, e che la induceva a credere alla promessa che quell'angelo

le faceva di volerla ingravidare a tutti i costi. Si capisce che con un membro

finto poteva resistere all'infinito e quella porca che era a digiuno da anni

ogni volta voleva ricominciare. Quando però vide me vicino al loro letto

subodorò qualche inganno e cominciò a gridare, ma Gitone che aveva

previsto quell'epilogo prontamente le sfilò il membro finto dalla fica e con

quello la colpì due volte sulla testa con una violenza tale che credei che

l'avesse uccisa. Invece solo tramortita Trifena perse i sensi e noi due ce la

demmo a gambe verso un balcone che dava sul giardino e che veniva

lasciato incustodito in quanto i guardiani venivano messi solo ai cancelli del

giardino stesso. Mentre correvamo come per prendere la rincorsa verso la

balaustra dissi scherzando a Gitone: “A me non mi scopi mai così!” E lui:

“Parla con Ascilto: io sono la tua donna e basta!”

Ascilto era sotto al balcone ad aspettarci. Con nostra grande sorpresa!

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Eravamo senza parole: “Come hai fatto ad arrivare fin qui?” “Ho corrotto i

guardiani. Da queste parti si può comprare tutto. Mi sono prostituito a tutti

e due e loro hanno accettato di prendere un colpo in testa per giustificare la

loro guardia mancata.”, poi aggiunse: “Via, via, niente chiacchiere!

Parliamo a Pompei. Adesso dobbiamo allontanarci il più possibile da qui.”

Corremmo a perdifiato per tutta la notte per tornare all'albergo e raccogliere

le idee, ma quando arrivammo, con mio grande piacere mi accorsi che

ancora una volta avevamo seminato Ascilto. Dopo

un po' arrivò invece Eumolpo spaventatissimo perché era sfuggito ad una

specie di massacro nel foro: uomini, presumibilmente di Lica, avevano

ucciso un giovane soldato e un altro che stava con lui e nel quale lui aveva

creduto di riconoscere il nostro amico. Ascilto? Oh Ascilto, no! Non mi

lasciare così. Io ti odiavo per via di Gitone ma ti amavo anche. Oh, amico

mio, non mi lasciare, così bello, così giovane, oh no no! Gitone mi abbracciò

piangendo anche lui convulsamente. E diceva tra i singhiozzi: "E l'altro sarà

quel bel soldatino con cui si era eclissato." Povero Ascilto, povera Gaia.”

Ma Eumolpo non ci si filava: era terrorizzato e non vedeva l'ora di lasciare

Ercolano. “Andiamo, andiamo: si sta facendo tardi e potremmo non trovare

più navi al porto. Perciò pagammo, raccogliemmo le nostre cose e quindi di

corsa al porto di Ercolano per vedere se potevamo trovare un'imbarcazione

diretta a Pompei.

Edile.

Ci disperdemmo per arrivare il prima possibile alla soluzione del

problema e cercando informazioni per un eventuale nolo venimmo a sapere

che nel porto di Ercolano era quasi costantemente ormeggiata una nave con

sopra la statua di Iside, il piccolo tempio che ospitava la statua della dea e

le sacerdotesse addette al suo culto. “E' vero. L'ho vista anch'io. Proprio sul

ponte ha una statua della dea a grandezza naturale che mi ha rapito e sapete

perché? Perché sembra che lo scultore abbia avuto me come modello. Quella

statua è uguale identica a me.” Tutti ridevamo increduli e al tempo stesso

divertiti, ma Eumolpo stava già elaborando il suo piano. “Tu, fannullone,”

mi disse, “hai mai spinto sui remi?” “Per chi mi hai preso, vecchio?” gli

dissi: “Io sono nato libero. Non so neanche cosa sia un remo. Se mai, armato,

posso immobilizzare il capociurma e costringere i rematori a remare

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frustandoli e minacciandoli.” “Bene.” disse Eumolpo: “E' fatta. Andiamo

subito al porto, studiamo i particolari della statua e facciamo in modo che

Gitone si mascheri esattamente come lei, al resto ci penso io.”

Ci disperdemmo tutti, in giro per il mercatino del porto, in modo da

trovare quanto serviva per addobbare Gitone esattamente come Iside.

Intanto avevamo scoperto che la sacerdotessa si chiamava Edile. Appena

scese la sera, Eumolpo mi raccomandò di aspettarlo là sull'imbarcadero e

poi chiese al capociurma se per favore lo faceva salire perché voleva adorare

la dea. Il capociurma chiamò la sacerdotessa che venne fuori dalla stiva e

chiese ad Eumolpo chi era e come osava fare una richiesta così inusuale.

Eumolpo le rispose che c'era un motivo grave: “La dea è discesa in terra dal

cielo e vuole che tu tolga via la statua perché da adesso in poi sarà lei a dover

essere onorata sulla nave di Lica.” La sacerdotessa lo guardò come se fosse

matto anche se abbastanza perplessa perché Eumolpo le aveva fatto il nome

di Lica; così quando Gitone avanzò lentamente uscendo dall'oscurità e

seguito da alcune straccione velate che Eumolpo aveva assoldato per pochi

denari la donna rimase come folgorata. Cadde in ginocchio, cominciò a

chiedere perdono alla dea per non aver creduto subito agli ordini di quel

santo vecchio e piangendo la invitava ripetutamente a salire sulla nave.

Gitone che era un attore nato con largo gesto mi invitò a “seguirla”; poi, una

volta saliti sulla nave e gettata in mare la statua, prese il suo posto

ordinandomi di arrestare il capociurma, ciò che feci agevolmente; poi ad

Eumolpo di neutralizzare Edile che si era messa a gridare come una pazza e

al militare, messosi al timone, di partire subito dando il ritmo ai rematori.

La piccola trireme schizzò via dal porto e puntò dritta su Baia.

Qui giunti, saccheggiammo la nave di tutto quello che potemmo e in

particolare, Gitone, dei preziosi oggetti di culto della dea come

legittimamente suoi; quindi sbarcammo dopo aver slegato la sacerdotessa a

cui Gitone, sempre nella veste di Iside e in un falsetto androgino che

suscitava un intenso orrore religioso, ordinò di tornare ad Ercolano e di

riferire a Lica che aveva avuto un incidente di mare per cui aveva perso la

statua e i suoi ori e le intimò anche di non rimettere mai più la sua statua su

quella nave perché “lei” ogni volta che glielo avesse chiesto nei modi dovuti

sarebbe discesa dal cielo per assisterla personalmente.

DI NUOVO A POMPEI.

Da Baia a Pompei ci volle un giorno. E a Pompei, ormai di casa,

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affittammo il solito alberghetto, tra le lacrime di Gitone, che si ricordava di

Ascilto.

Depositati i nostri bagagli, uscimmo e ci disperdemmo tutti per la città

in cui Gitone era nato e alla quale perciò mi ero ormai affezionato. “Io vado

al tempio a salutare i miei sacerdoti. Ci vediamo a cena all'albergo; chi arriva

prima si dà da fare per ordinare un bel menu e festeggiare il rientro.” disse

Gitone ed io ed Eumolpo bighellonammo un po' per vedere che aria tirava a

Pompei in quel momento ma non notammo niente di particolare. La città

sembrava essere tale e quale l'avevamo lasciata. La gente correva qua e là

come se dovesse fare cose della massima importanza, gli indovini agli

angoli delle strade promettevano a tutti un radioso avvenire, le prostitute si

affacciavano con i loro volti imbellettati e tristi alla ricerca di qualche

passante in vena di trastulli, sulle scalinate dei templi i sacerdoti bruciavano

viscere di poveri animali sacrificati a questo o a quel dio. Solo tardi una

lettiga lussuosissima si fece largo tra la gente preceduta da un cavaliere che

urlava come un pazzo invitando a lasciar passare il console. Il console! Per

quello che valeva quel console! Figuriamoci se aveva messo l'allarme

perché doveva fare qualcosa di urgente! Si recava di sicuro da quella puttana

che gli rubava anima e cuore e in continuazione; tutta Pompei sapeva che

per quella ragazzetta aveva perso la testa, un vecchio come lui, e si stava

rovinando tra le risate della gente. Eumolpo raccolse un sasso e glielo lanciò

senza colpire la lettiga. “Sei impazzito?” gli dissi. “Non ti preoccupare. Un

console ormai non ha più alcun potere, specialmente qui. Anche se lo avessi

colpito farebbe finta di niente. Lo sa che davanti a Cesare un console è come

un cittadino privato.” E così ci mettemmo a discutere animatamente della

politica romana di cui noi greci capivamo molto poco, e alla fine gli diedi

ragione perché per ovvi motivi non volevo contrariarlo. Ma ero stato troppo

ottimista. Da lontano vedo due guardie e sento una di esse che dice: “Eccolo:

è lui quello che ha tirato il sasso!” Fulmineamente Eumolpo scomparve.

Vidi i due che correvano in una certa direzione, ma secondo me quella era

esattamente la direzione contraria. Dopo un po' riapparve Gitone e dopo

aver vagato qua e là decidemmo di tornare, noi due soli, in albergo.

Gitone piace anche ad Eumolpo.

Quando arrivammo era già notte e l'albergatrice aveva già

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provveduto ad eseguire le istruzioni per la cena. Ma ecco che

bussa alla porta Eumolpo. Prendo tempo e chiedo: “Quanti siete?”

E intanto mi metto a spiare da una fessura della porta se non abbia

portato con sé qualcun altro. Resomi conto che era solo, lo faccio

entrare alla svelta. Quello si mette seduto sul letto e avendo visto

Gitone che stava apparecchiando fa: “Complimenti, Ganimede.

Stasera ci divertiamo.” Quelle parole e tanto meno il nome del

giovinetto amato da Giove non mi piacquero per niente e cominciai

a pensare che avevo fatto entrare in casa un degno compare di

Ascilto buonanima. Ma non fu il solo ad interessarsi a Gitone. Dopo un

po' si unirono a noi due avventori di quell'hotel che l'albergatrice ci presentò

come due personaggi importanti e che avrebbero potuto esserci molto utili,

essendo noi stranieri. Due persone educate ma non insensibili al fascino di

Gitone che Eumolpo continuava a corteggiare senza ritegno. E infatti,

scolandosi un bel bicchiere di vino, insisteva: “Preferisco te ai

bagni. Una cosa penosa. Solo vecchie checche in cerca di

avventure. Nessuno che volesse ascoltarmi. Mentre mi stavo

lavando ho rischiato di prenderle perché cercavo di recitare una

bellissima poesia a quelli seduti sul bordo della piscina. Fui

cacciato in malo modo come al teatro e allora incominciai a

cercarti e a chiamarti: “Encolpio! Encolpio!” Mi rispondeva

facendomi eco un tizio che tutto nudo chiamava invece te, Gitone.

E naturalmente mentre una schiera di ragazzini attorniava me

sfottendomi e facendomi il verso quello veniva accolto da una

selva di applausi non per lui ma per il suo aggeggio che, perdinci,

è così grosso da far apparire lui una sua povera appendice. Che

roba, ragazzi! Con un aggeggio simile quello incomincia oggi e

finisce domani. E infatti tutti si fecero avanti per aiutarlo. Un

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cavaliere romano, così dicevano, un tipo dal culo molto

chiacchierato, come si dice, gli gettò addosso il suo mantello e se

lo portò a casa per godersi tutto da solo quel po' po' di bottino.

Quando si dice il potere! Lui poté uscire subito anche coi panni di un

altro; io, i miei, non li avrei mai riavuti indietro dal guardarobiere

se non avessi trovato un galantuomo che mi fece da garante. A

quanto sembra è meglio spremersi i testicoli che le meningi a

questo mondo.” Il fatalismo di quel vecchio rimbambito aveva una sola

definizione: vesuviano. Se tu gli obbiettavi un rischio reale lui ti rispondeva

sempre: “Eh, che vuoi che sia? E allora se erutta il Vesuvio!” Era incredibile

come si stava godendo quella serata con due sbirri alle calcagna e due

sconosciuti come convitati. Aveva, della vita, beato lui, una concezione

assolutamente unica, e della morte non si curava affatto, come si vedrà nel

prosieguo del mio racconto. Lui parlava parlava ammiccando sempre più o

meno velatamente a Gitone e io cambiavo espressione ad ogni

passaggio del suo racconto: se era lui a soffrire, gioivo io; se era

lui a gioire, io soffrivo. Feci finta comunque di non conoscerlo né

lui né gli altri personaggi delle sue storie e descrissi il menu della

cena che quello scroccone professionale commentò in modo poco carino,

al punto che stavo per cacciarlo via. Alla fine, accorgendosi lui stesso di star

esagerando, si scusò e concluse col solito moralismo stucchevole: “Ormai

tutto ciò che è permesso viene disprezzato come la peste e perciò

gli animi, fuorviati da questo andazzo, cercano solo ciò che è

illecito.” detto soltanto per ricominciare con i suoi versi:

“L'uccello che catturano sul Caucaso

e costa un occhio quindi ed i pennuti

provenienti dall'Africa al palato

sono graditi e invece l'oca bianca

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o l'anatra con penne variegate

sanno di poveraccio al giorno d'oggi.

Da spiagge lontanissime arrivato

piace lo scauro e dalla scandagliata

Sirte ci arriva il pesce che si compra

al prezzo stesso a cui acquisteresti

quello scampato ad un naufragio. Insomma

le triglie oggi fanno schifo a tutti.

Le amanti hanno la meglio sulle mogli

e temono le rose la cannella.

Il meglio è solo quel che è ricercato.”

“Questo mi avevi promesso, disgraziato? Di continuare a far

versi? Risparmia almeno noi che siamo tuoi amici. Perché se

qualcuno degli ubriachi ospiti di questo albergo entra in sospetto

che qui c'è un poeta, ci rovina tutti, non solo te, avvisando il

vicinato. Non infierire e pensa a quello che ti è capitato alla

pinacoteca o al bagno.” Gitone, che evidentemente è un ragazzo

educato a dovere, mi rimproverò: “Non si tratta così una persona

più anziana rischiando per di più di rovinare con inutili discussioni

una tavola che ho apparecchiato con tanta cura.” Ed Eumolpo:

“Beata 'a mamma che t'ha fatto! Bello e assennato: raramente

accade. Perciò non credere di aver sprecato tempo a parlare così

bene. Hai trovato l'amatore. Canterò coi miei versi le tue virtù. Sarò

il tuo pedagogo e la tua guardia del corpo dovunque tu vorrai che

io ti segua. Tanto Encolpio che fa: lui ama un altro!”: meno male

che il soldatino mi aveva requisito la spada altrimenti avrei sfogato

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contro di lui tutto l'astio che covavo contro Ascilto, anche se morto,

forse. Gitone capì al volo e uscì subito dalla camera per

stemperare la tensione che quelle parole avevano creato. Mi

calmai un po' e gli dissi, a Eumolpo: “Quasi quasi è meglio che

parli in versi, disgraziato, se in prosa riesci a dire tutte queste

sciocchezze. Lo devi capire: tu sei un volgare pedofilo e io sono un

tipo fumantino. Come possiamo andar d'accordo? Quindi fai conto

che io sia pazzo e assecondami, altrimenti è meglio che te ne vai

da qui.” Eumolpo, più furbo di una volpe, si alzò come per obbedire

al mio invito; e invece uscì al volo e chiuse fulmineamente la porta

della camera con mia grande sorpresa. Lo sentii che toglieva

anche la chiave e pensai che sarebbe andato subito da Gitone,

quel porco, per spassarsela con lui.

Ero proprio un cretino. Decisi di farla finita e di impiccarmi. I

due ospiti non capivano bene cosa stesse accadendo e restavano lì

imbambolati ad osservare. Alzai il letto appoggiandolo alla parte, ci

legai la cintura e stavo per infilarmi il cappio quando la porta

improvvisamente si aprì e i due rientrarono. Gitone non ne poteva

più della mia gelosia ed esasperato cominciò a gridare dando

contemporaneamente una spinta al letto per rimetterlo giù e

impedirmi di compiere l'insano gesto. “Amore mio, come ti sbagli

se credi di potermi precedere nel morire! Io te l'ho già dimostrato

in casa di Agamennone: se non ti avessi ritrovato lì mi sarei gettato

in un burrone. E per farti capire che la morte è un attimo se te la

cerchi, guarda me ora.” Strappò al servitore di Eumolpo un rasoio

e colpendosi la gola con due fendenti netti si accasciò al suolo. Io

mi metto a gridare come un forsennato e tento di fare la stessa

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cosa con lo stesso rasoio. Ma Gitone era integro e senza ferite e

io non sentivo alcun dolore per quelle che mi ero inferto: infatti il

rasoio, che il servitore aveva già rimesso nella custodia era senza

filo perché serviva per far esercitare gli apprendisti. Per questo

Eumolpo e il suo servitore non si erano mossi né quando Gitone

né quando io avevamo messo in atto i rispettivi insani gesti.

Per il gran casino l'albergatore si insospettisce, arriva con una

portata e incomincia a insolentirci col sospetto che volessimo

svignarcela senza pagare. Eumolpo non trovò di meglio che

mollargli uno schiaffone. Quello già mezzo ubriaco per i numerosi

brindisi offertigli dagli altri avventori gli lanciò contro una brocca

di terracotta, lo centrò in pieno sulla fronte e fuggì via a precipizio

dalla camera. Eumolpo si mette ad inseguirlo dopo aver afferrato

un candelabro che era a portata di mano. Un gran parapiglia: gli

schiavi, gli avventori privati, noi della camera, insomma tutti,

scateniamo una rissa in piena regola della quale questa volta io

approfittai per chiudere fuori Eumolpo e trattenere invece Gitone,

col quale, dopo aver finito di cenare, me la spassai per tutta la

notte.

La battaglia di Eumolpo.

Il povero Eumolpo, chiuso fuori, fu circondato dagli schiavi

della cucina: uno gli brandiva davanti agli occhi uno spiedo

fumante, un altro prese posizione di combattimento con un

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forchettone da macelleria, una vecchia laida e cisposa, con un

vecchio grembiule lercio, gli aizzava contro un enorme cane tenuto

al guinzaglio. Ma Eumolpo si difendeva bene. Il candelabro teneva

lontano tutto quell'esercito, cane compreso. Io e Gitone

guardavamo a turno da una fenditura della porta, apertasi quando

si era rotta la serratura. Io gioivo quando Eumolpo le prendeva;

Gitone invece, sensibile, l'amore mio, mi implorava di aprire la

porta e di andare a soccorrerlo. Allora, siccome ero ancora pieno

di rabbia contro quel fottuto pedofilo persi la pazienza anche con

Gitone e gli mollai un cazzotto in testa colpendolo con le nocche.

Lui quasi cadde sul letto e si mise a piangere e io tutto solo mi

saziai dello spettacolo delle botte che prendeva Eumolpo. Per

sfotterlo gli consigliavo una transazione legale, previo consulto di

un buon avvocato, quando arrivò, avvisato per tempo, il padrone

della locanda, un tale Bargate che a quanto pare conosceva

Eumolpo. Costui cominciò a inveire contro quella torma di

ubriaconi e di schiavi fuggitivi ordinando loro di astenersi da

quell'ignobile attacco al più nobile dei poeti viventi: “O dolce labbro

di Calliope, come osano questi avanzi di galera recarti offesa? Come osano

inscenare questa rissa ignobile? Non sei tu Eumolpo, il redivivo Omero? “

E quando si fu accertato della esatta identità del grande poeta,

continuò: “La mia donna mi tratta come uno stuoino e mi disprezza.

Perciò, per favore, scrivimi un'invettiva contro di lei e svergognala,

quella bagascia.”

Ad Eumolpo sembrò di sognare. Quando mai era accaduto che gli si

chiedessero dei versi in commissione? Esitò per far intendere a Bargate che

voleva essere pagato, ma quello che aveva già previsto tutto, più per

allontanarlo e por fine alla rissa che perché avesse veramente bisogno di

quei versi gli mollò un po' di monete e se ne andò. Ed Eumolpo che già

aveva cominciato “Tu sei / come la vipera / che mi avvelena / l'anima; / tu

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sei ….. ecc.” rimase con l'ispirazione a mezzo per la fortuna di quello

sconsiderato che sarebbe stato definitivamente lasciato dalla moglie se le

avesse fatto leggere i versi di Eumolpo.

Subito dopo ecco che entra nella locanda un banditore

accompagnato da una guardia e da un piccolo codazzo di gente. Il

banditore, scuotendo una torcia che faceva più fumo che luce

lesse questo bando: “Alle terme poco fa si è perduto un ragazzo di

nome Gitone, facilmente riconoscibile perché giovanissimo,

bellissimo e riccioluto. Ci sono mille sesterzi per chi lo

riconsegnerà al suo amico.” E indicò Ascilto che stava poco

distante, in piedi. Incominciai a tremare. Dunque non era lui quello che

Eumolpo aveva creduto di riconoscere in uno dei due uccisi nel tafferuglio

a cui era stato presente. Era avvolto da un mantello dai colori vari e

vistosi ed esibiva su un piatto d'argento la ricompensa promessa.

Dissi a Gitone di nascondersi sotto al letto infilando mani e piedi

nelle cinghie che tenevano legato il materasso per sfuggire così ai

palpeggiamenti di chi lo avesse cercato proprio come aveva fatto

Ulisse sotto l'ariete per sfuggire al Ciclope.

Gitone obbedì immediatamente ed io, messi dei panni sul

letto, vi impressi la sagoma di un solo occupante per allontanare

tutti i possibili sospetti. Ecco che arriva Eumolpo, il quale,

trovando la mia porta chiusa a chiave, nutrì più grandi speranze e

indusse la guardia a scardinarla. Anch'io quando irruppero nella

stanza risposi con un colpo di teatro. Mi gettai ai piedi di Ascilto,

gli abbracciai le ginocchia e lo pregai di farmi rivedere Gitone per

l'ultima volta prima di morire. Poi aggiunsi: “Lo so che sei venuto

per uccidermi. Eccomi: sono pronto! Uccidimi, tanto la mia vita per

me non vale più nulla senza Gitone. Mi scansò dicendomi che non

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era venuto per quello e che comunque non avrebbe mai ucciso

nessuno e tanto meno il suo primo amore, cioè io, a cui volva

ancora bene.

La guardia che lo accompagnava, immune da sentimentalismi

di questo genere, strappò la canna che l'oste aveva portato con sé

e con quella cominciò a esplorare le parti inarrivabili della camera.

Gitone, terrorizzato, per la paura divenne più agile e sventò tutti i

colpi che quello tirava sotto al letto trattenendo il fiato per non

essere scoperto. A quel punto, convinto, andò via ed Eumolpo, visto

che la porta scardinata non poteva fermare più nessuno rientrò

dentro e, come un forsennato, cominciò a gridare: “Ho vinto mille

sesterzi. Vado subito a denunciarti al banditore.” Io gli abbracciai

le ginocchia scongiurandolo di non uccidere due uomini morti e

poi, gli dico, la tua denuncia andrebbe a vuoto perché nel

frattempo Gitone è fuggito ed io non so dove possa essere andato.

Parole sprecate, infatti a quel punto Gitone sollecitato dalla

posizione scomoda non poté frenare gli starnuti, per cui quel

volpone di Eumolpo lo salutò cordialmente e scoprendo il letto

scovò quel povero Ulisse che avrebbe commosso anche Polifemo.

Poi rivolgendosi a me disse: “Come la mettiamo, disgraziato? Vuoi

negare anche l'evidenza? Tanto ti dispiace la verità? Se il ragazzo

non avesse starnutito starei ancora in giro a cercarlo.”

“Ah, sono io il disgraziato!? E tu? che vuoi fare la spia dopo esserti

intromesso in casa mia e avermici chiuso dentro per attentare al pudore del

mio fratellino?”

Gitone, più conciliante di me, prima gli curò la ferita sulla

fronte con ragnatele inzuppate d'olio, poi gli diede il suo mantello

per sostituire la veste che gli si era strappata nel casino generale

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della rissa e alla fine lo riempì di baci che lo convinsero più di tutto

il resto. “Siamo nelle tue mani, padre caro; tu solo puoi salvarci;

se vuoi, punisci solo me perché sono io la causa di tutte queste

sventure. La mia morte eliminerebbe qualsiasi motivo di lite.”

Eumolpo gli restituiva tutti i baci con mio grande disappunto, ma

dovevo abbozzare: eravamo nelle sue mani. Perciò gli dissi: “Non dargli

retta, Eumolpo! Sono io che ormai devo morire: anzi voglio morire sapendo

che lascio Gitone in buone mani e lontano da quel brigante di Ascilto.” Le

mie parole ambigue lo lasciarono perplesso e gli fecero intravvedere la

possibilità di godersi quel bocconcino senza di me. Poi sembrò riflettere

concentrandosi a lungo e alla fine disse: “Io ho vissuto sempre e

dovunque considerando ogni nuovo giorno come se fosse l'ultimo.

Dunque domani se sarò ancora vivo voglio esserlo insieme a voi

due. Voi siete adesso la mia famiglia e io non ho mai avuto

seriamente l'intenzione di denunciarvi.

A mia volta dopo aver versato un'enorme quantità di lacrime

lo pregai di fare la pace; doveva capirmi – gli dissi - chi ama non

può nulla contro la gelosia suscitata dalla passione. Gli promisi

che da quel momento in poi mi sarei guardato dall'offenderlo

nuovamente con parole o con atti e lui in cambio calasse una

pietra tombale su tutti i nostri dissapori passati. Non erano proprio

versi, ma riuscii a trovare parole molto ispirate per suggerirgli il

mio stato d'animo: “Nelle deserte lande, incolte e montagnose, le

nevi si raccolgono abbondanti e vi restano a lungo inattaccabili;

ma dove la terra dall'aratro è doma si dilegua ogni bruma in breve

tempo. Così nei petti deboli l'ira si installa stabilmente, assedia i

cuori grezzi e ineducati, sfiora appena appena quelli che han

finezza.”

“Parole sante” disse Eumolpo ed io paventai che ci avrebbe

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ammannito un'altra sfilza di versi. Invece continuò in prosa:

“Parole sante e ti do un bacio per suggellare la nostra rinnovata

amicizia. Niente più collera, solo amore fra noi due.” E mi strizzò

l'occhio per farmi capire quali erano le sue intenzioni di vecchio

maiale.” “Eumolpo,” gli dissi allora: “Io e Gitone dobbiamo andare via da

Pompei perché Ascilto se ci trova questa volta ci uccide.” “Ah, ma allora è

Mercurio che vi ha mandato da me. Sapete che vi dico? Che il dio ce la

mandi buona: si parte! Preparate i bagagli e seguitemi.”

Stava ancora parlando quando la porta si aprì e comparve un

marinaio con una bella barba: “Eumolpo, è tardi. Bisogna

sbrigarsi.” Aveva già preso accordi, il furfante! Ci alzammo in fretta,

pagammo il conto dell'albergo e, fatti alla meglio i bagagli,

andammo dietro a quell'uomo fino al porto. E lì, aiutato da Gitone

e affidandomi agli dei, salii con loro due sulla nave.

VERSO LA SICILIA

Mentre gli altri erano in attesa di imbarcarsi anche loro, Eumolpo si

appartò con Gitone sicuramente nel tentativo di trovare un posticino in cui

incularselo o qualche altra cosa gli fosse stato concesso di farsi fare da quel

ragazzo sempre così gentile ma non sempre disponibile alle avances di chi

non gli stava bene. Io intanto mi disperavo perché il mio bischero non dava

reazioni di nessun tipo anche quando erano fantasticherie a sfondo

violentemente sessuale. Mi immaginavo quel vecchio porco che costringeva

Gitone prima a prenderglielo in bocca in modo da bagnarglielo ben bene di

saliva e poi a girarsi e a prenderlo in culo, ciò che quel frocetto faceva molto

volentieri. Niente. Il mio fringuello non dava segni di vita. Allora lo incalzai

con una sequela di male parole, come se parlassi a me stesso: “Va bene:

non sopporti che quel vecchio porco cerchi di farsi Gitone. Lo

capisco. Ma che c'è di male? Non hanno tutti il diritto di godersi il

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meglio che la natura crea? Il sole non risplende per tutti? La luna

e le stelle non illuminano anche le belve quando escono a caccia?

E l'acqua? Cosa si può pensare di più bello? Eppure non è di

nessuno e tutti possono goderne. E dunque? Solo l'amore

dovrebbe essere di proprietà, furtivo, riservato a pochi? Tu invece

non desideri avere altri beni che non siano quelli che suscitano

l'invidia della gente. Eumolpo è vecchio. Anche se gli viene in

mente di fare qualcosa, il fiatone gli impedirebbe di andare

avanti.”

Cercai con queste parole di convincere il mio animo, ma il

mio animo non ne voleva sapere; allora al primo riparo dal vento

che riuscii a trovare, mi sdraiai, mi tirai giù il cappuccio e cercai di

addormentarmi, senza neanche aspettare né accertarmi che gli altri

fossero saliti a bordo. Ma la mala sorte volle evidentemente mettere

alla prova i miei propositi di fermezza contro la gelosia: due voci,

maschio e femmina, che mi pareva di conoscere, cominciarono a

sferzare il mio cuore già in tempesta per Gitone; gridavano: “E'

riuscito a farmela una seconda volta!” E quella femminile: “ Se mi

riesce di acchiappare Gitone gli tiro il collo a quel traditore!” Il

sospetto stava per divenire certezza. Andai da Eumolpo e gli dissi:

“Per amor del cielo, caro, di chi è questa nave?” Quello che si era

quasi addormentato si arrabbiò e mi disse: “Hai cercato un posto

riparato per non farci dormire, di' la verità! Che ti importa adesso

a te se ti dico che questa nave è di Lica di Taranto e che sta

portando a Taranto sua moglie Trifena mandata in esilio dal

pretore?”

Gitone mi si gettò addosso piangendo come una fontana e io

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tornai a maledire la malasorte che aveva voluto annientarmi in

quel modo. Poi, dopo avergli raccontato i fatti, mi gettai ai piedi di

Eumolpo e lo scongiurai di trovare il modo di tirarci fuori da

quell'impiccio. E, se no, di ucciderci lui prima di consegnarci nelle

mani di quei due delinquenti.” “E che mostro sarà mai, questo

Lica, che io conosco per uomo rispettabilissimo e padrone di una

flotta intera e ricco sfondato? Annibale? Polifemo? Alla fin fine

viaggia per mettere al riparo la moglie, Trifena, una donna

bellissima che ha solo avuto un incidente con la legge. Facciamo

così: ognuno di voi esponga un suo piano di uscita da questa

incresciosa situazione.” Cominciò Gitone: “Corrompi il timoniere,

Eumolpo, fagli credere che uno di noi, tuo fratello, sta malissimo e

convincilo ad attraccare in modo che io ed Encolpio possiamo

sbarcare di nascosto e filarcela.” “Non se ne parla proprio!” disse

Eumolpo: “Non è credibile e poi così ci mettiamo dritti dritti nelle

mani di Lica che sicuramente vorrà visitare il malato.” Allora io:

“Caliamoci con una fune in una scialuppa, rubiamola, filiamocela

e quello che sarà sarà. Così almeno non ti coinvolgiamo, Eumolpo.

Tu sei innocente e noi non vogliamo che tu paghi per colpe che

non hai.” “L'idea è ingegnosa,” disse Eumolpo: “ma non può avere

un esito felice. Se ne accorgerebbe il timoniere che sta sveglio

tutta la notte, se ne accorgerebbe la sentinella che sta sempre a

guardia della scialuppa, se ne accorgerebbero gli altri marinai

perché l'operazione è rumorosa anzichenò. Se riuscisse, lo

dovreste solo alla vostra audacia che non mi pare proprio

all'altezza. State a sentire, invece! Vi chiudo in due sacchi, vi

faccio passare per bagagli e mi metto a gridare che due uomini

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sono caduti in mare, così allo sbarco il conto torna.” “Sì!” dissi

io,“come se noi fossimo creature senza buchi che non mangiano e

non vanno al bagno. Sentite invece questa: tu che sei un letterato

hai sicuramente dell'inchiostro: tingiamoci tutti e due di nero e

facci passare per tuoi schiavi etiopi.”

“Come no?” disse Gitone, “circoncidici anche e facci passare

per ebrei. Non se ne parla proprio. Basta uno spruzzo d'acqua per

diluire l'inchiostro e tutto il piano andrebbe a monte. No, no, non

se ne parla.” Prevalse alla fine l'idea di Eumolpo: il suo cameriere

ci avrebbe rapato a zero e lui ci avrebbe disegnato un marchio

sulla fronte in modo da renderci irriconoscibili e farci passare per

due suoi schiavi. Seguì tutto un balletto per compiere queste

operazioni e tutto sarebbe andato per il meglio se... uno che si

stava vomitando l'anima appoggiato al bordo della nave non

avesse intravisto nell'oscurità il barbiere di Eumolpo che ci stava

radendo le teste. Apriti cielo! Cominciò a gridare come un

forsennato e a fare gli scongiuri perché, secondo lui, sulle navi si

radevano solo i naufraghi come sacrificio estremo per ottenere la

salvezza dagli dei. Poi si ritirò nella sua cabina, ma noi, pur

cercando di non dare importanza alle sciocchezze di quel cretino,

passammo una notte agitata in un dormiveglia denso di oscuri

presagi.

Lica scopre tutto.

“Trifena, senti un po' che sogno ho fatto. Ho sognato Priapo

che mi diceva di cercare Encolpio su questa nave dove lui lo ha

fatto capitare a posta.” “Nooo!” disse Trifena, “Sembra quasi che

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abbiamo dormito insieme. A me è venuto in sogno Nettuno che mi

ha detto che su questa nave c'è Gitone.” Eumolpo che era

presente a questo scambio di battute intervenne prontamente:

“Da questo potete capire quanto abbia ragione Epicuro quando

bolla come stupidaggini i sogni premonitori.” Lica, un bacchettone,

non lo degnò neanche della minima attenzione. Fece compiere i

riti espiatorii richiesti dal sogno di Trifena e quanto a lui disse:

“Nessuno ci vieta di ispezionare la nave. Non dobbiamo

contrastare la volontà degli dei quando essi si degnano di

esternarcela.” Il destino è destino, ragazzi! Quando ti vuole crocifiggere

lo fa, qualsiasi cosa tu faccia per impedirlo. Che poi sia la volontà degli dei,

o la Sfiga, poco importa: il destino ti aspetta al varco e ti si fa senza tanti

preamboli. Aveva appena finito, Lica, di parlare che ecco

quell'imbecille che ci aveva scoperto mentre ci rapavamo a zero.

Rivolto a Lica gli chiese: “Chi sono quelli che stanotte si sono fatti

rapare a zero quando è noto a tutti che non è consentito a nessuno

di tagliarsi né capelli né unghie sulla nave perché ciò porta iella?”

Lica non esitò neppure un istante: “Portatemi subito i colpevoli.

Voglio i colpevoli qui davanti a me o vi faccio crocifiggere tutti.”

Eumolpo capì al volo l'emergenza e come al solito intervenne

prontamente: “Lica, sono stato io a dare quell'ordine. Sono due

manigoldi che mi hanno derubato e che io portavo con me per

consegnarli alla giustizia; ma per il decoro della nave gli ho fatto

aggiustare un po' i capelli anche perché altrimenti gli avrebbero

coperto i marchi che gli ho fatto imprimere sulla fronte.”

Lica, preso dal terrore del cattivo presagio, non stette troppo

a cavillare su queste dichiarazioni di Eumolpo e si dette subito ad

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eseguire quanto poteva placare lo spirito della nave offeso da

quella rasatura. Quaranta frustate a ciascuno di noi due. I marinai

pronti con le corde ci legarono e incominciarono. Io ressi fino alla

terza frustata. Gitone già alla prima cominciò a gridare disperato

più per il suo corpo che veniva rovinato che per il dolore che

provava. Trifena riconobbe la sua voce; Gitone con la sua divina

bellezza aveva ipnotizzato i marinai supplicandoli di non infierire e

le ancelle di Trifena cominciarono a gridare: “E' Gitone, padrona,

fermateli, fermateli!” Lica aveva riconosciuto la mia voce perciò

Trifena corse verso Gitone e Lica verso di me. E mica indagò il mio

volto o la mia persona per identificarmi, ma come al solito stese

la sua mano verso il mio bischero e lo strinse dicendomi:

'Bentornato, Encolpio!' Io dico: c'è più da meravigliarsi che la

nutrice di Ulisse lo abbia riconosciuto dopo vent'anni da una

cicatrice al polpaccio? Trifena, povera donna, prendendo per veri

i marchi che Eumolpo ci aveva disegnato in fronte ci chiedeva

premurosa in quale carcere fossimo stati detenuti e chi avesse

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avuto l'ardire di infliggerci una tale punizione anche se, fuggendo,

una punizione l'avevamo meritata! Allora Lica si incazzò con lei:

“Ma sei proprio scema! Magari i marchi fossero davvero solchi

provocati dal ferro rovente! Sono dei volgari trucchi da teatro con

cui questi imbroglioncelli volevano fregarci.” Ma Trifena ormai era

di nuovo caduta sotto il fascino irresistibile di Gitone e mostrava

di essere propensa a non infierire. Lica invece ancora incazzato

per gli affronti subiti sotto al portico d'Ercole, cominciò ad urlare:

“Ma non capisci, Trifena, che gli dei immortali ci hanno avvisato

congiuntamente dell'inganno che questi due manigoldi ci avevano

preparato? E ora tu gliela vorresti far passare liscia? Così facendo

inganneresti gli dei stessi che si sono dimostrati così favorevoli a

noi in questa vicenda. Neanch'io voglio infierire, ma non vorrei

subire le ritorsioni degli dei che quando si adirano divengono

implacabili.” Queste parole furono molto convincenti per cui

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Trifena cambiò parere e si dichiarò favorevole ad una punizione

che vendicasse anche il suo onore tradito e infamato in pubblico.

Il processo.

A questo punto ebbe inizio un vero e proprio processo a cui

partecipava tutto l'equipaggio e tutte le persone che si trovavano a bordo,

tanta era la bellezza di Gitone anche così conciato.

Prese la parola Eumolpo e la tirò così per le lunghe che alla

fine Lica lo fermò ribattendo punto per punto tutte le sue

argomentazioni per altro assai deboli. Lica sembrava invasato: che

vuol dire che sono venuti da soli a costituirsi? Che vuol dire che

sono gente per bene? Che vuol dire che sono stati nostri amici?

Chi fa del male a chi non conosce è un delinquente comune; chi

fa del male agli amici è un assassino degno della peggiore morte.

Allora Eumolpo cambiò discorso: “Devo dedurre che la colpa

peggiore che questi ragazzi hanno commesso è l'essersi fatti

tagliare i capelli la notte scorsa? Io vi assicuro che essi avrebbero

voluto farlo a terra, prima di imbarcarsi, però il vento affrettò

l'imbarco e li costrinse a farlo sulla nave: essi non sapevano che

questo potesse essere un motivo di malaugurio.” Ma Lica era

implacabile: “Farsi tagliere i capelli per presentarsi come supplici!

Ma che c'entra?”, ma poi rivolto ad Eumolpo: “E' inutile ch'io cerchi

la verità per interposta persona. Dimmelo tu, impostore: quale

salamandra ti ha mangiato le sopracciglia? A quale dio hai offerto

in dono i tuoi capelli?” Io cominciai ad essere terrorizzato che non

ci toccasse il supplizio estremo a me e a Gitone. E lo fui ancora di

più quando ci lavarono il volto: l'inchiostro si sciolse, i marchi

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scomparvero e in compenso quella specie di acqua sporca che ci

colava in viso ci rendeva inguardabili come fossimo fantasmi. L'ira

di Lica si tramutò in odio. E tutti sembrarono volersi schierare con lui.

Eumolpo a quel punto si rese conto della situazione e

dichiarò che non avrebbe permesso a nessuno di far del male a

delle persone per bene che si erano imbarcate con lui e prese le

nostre difese non solo con le parole ma anche con i fatti tenendo

lontani da noi i più accaniti. Ciò trovò qualche seguace. Io allora

presi coraggio e minacciando a pugni alzati Trifena dichiarai che

non le avrei permesso di far del male a Gitone. Lica allora si adira

ancora di più e Trifena, spinta dalle mie parole incomincia a

strillare come una pazza. Ma le due cose ebbero un solo effetto:

ciurma e passeggeri si divisero in due fazioni che incominciarono,

variamente armate, a passare ai fatti. L'unico che si era tenuto

fuori dalla mischia, il timoniere, alzò la voce e disse che avrebbe

abbandonato la nave al suo destino se non fosse finita quella

gazzarra dovuta solo a passioni innominabili di gente infojata.

Niente da fare. La battaglia infuria. Non ci furono morti, ma molti

si accasciarono sul ponte sanguinando.

A quel punto, grande Gitone! diede vita al suo solito colpo

di teatro: prese il rasoio senza lama, si scoprì i genitali e minacciò

tutti di reciderseli se non la facevano finita con quell'inutile casino.

Trifena si slanciò verso di lui per trattenerlo, ma né Gitone si

astenne dalle minacce né i litiganti si astennero dal

combattimento. A quel punto Trifena strappò un ramoscello di

ulivo dalla statua protettrice della nave e si fece portatrice di

proposte di tregua che alla fine ebbero la meglio. E giù anche lei a

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sciorinare versi non richiesti e di cui nessuno sentiva il bisogno:

Quale furore trasformò la pace

in guerra? Che delitto hanno compiuto

le nostre mani? Non l'eroe troiano

su questa nave porta la spartana

moglie di Menelao, la bella Elena,

né su di essa medita Medea

il parricidio dei suoi bimbi. Il solo

che scatena lo scontro è un vano amore.

Ahimè chi è dunque quello sciagurato

a cui non basta solo questa morte

e in mezzo ai gorghi suscita altri gorghi?

Non sperare, infelice, di convincere

il mare ad inghiottirti nei suoi flutti.

Eumolpo, molto furbescamente, fa intendere a tutti di

interpretare questi versi come rivolti contro Lica e dopo averlo

rimproverato aspramente stende velocemente un trattato di pace

nel quale Lica e Trifena si impegnavano a mettere una pietra

tombale sul passato e a non perseguitare più né me né Gitone per

rancori maldigeriti. I due firmano e si impegnano a pagare salate

multe qualora contravvenissero ai termini del contratto. Si

depongono le armi. Tutti invocano una riconciliazione piena. Tutti

si scambiano baci e il segno della pace stringendosi la mano e alla

fine si imbandisce un bel pranzo per tutti, equipaggio e passeggeri.

Tutta la nave risuona di canti e poiché la navigazione fu interrotta

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da un'improvvisa bonaccia ci fu chi si mise addirittura a catturare

con la fiocina i pesci che venivano a fior d'acqua. E chi, dandogli

una mano, una volta catturate, liberava le povere bestie dall'amo.

Qualcun altro, abile uccellatore, dispose delle canne invischiate

sul ponte e catturava in questo modo gli uccelli marini che vi

rimanevano attaccati. Una brezza leggera allora faceva mulinare a

fior d'acqua le piume che quelli perdevano.

La matrona di Efeso.

Tutti stavamo allegri grazie al vino e alla pace ristabilita.

Lica mi faceva le coccole sognando chissà quali avvicinamenti del

terzo tipo e Trifena brindava al ritrovamento di Gitone

accarezzandoselo come una reliquia. Eumolpo non volle perdere

l'occasione di raccontare un po' di barzellette sui calvi, ma alla fine

la sua mania di poeta ebbe la meglio e giù con la solita tiritera di

versi misti di cui nessuno capiva nulla:

“L'unico tuo ornamento è ormai caduto

e primavera i ricci ha consegnato

all'inverno implacabile, visetto

che nascondevi fra di essi il fiore

dei tuoi anni gentili: ora le tempie,

ormai prive dell'ombra naturale

che da essi cadeva e le copriva,

piangono, come piange la pelata

che tostata dal sole al sole brilla.

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O mente ingannatrice degli dei!

Le prime gioie che ci doni prime

ti porti via e non ritornan più.

Poco fa risplendevi assai più bello

di Apollo e di Diana, sua sorella,

ora più liscio d'una bronzea lastra

o di un fungo che spunta all'improvviso

su dall'umida terra, ti nascondi

e cerchi di sfuggire delle belle

il dileggio e lo scherno. E presto morte

arriverà: devi sapere, caro,

che per primi i capelli essa ti toglie.”

E non sarebbe finita lì: la vena di Eumolpo era inesauribile

se lo lasciavate fare. Un'ancella di Trifena però prese Gitone, lo

portò sotto coperta e gli restituì i capelli utilizzando una parrucca

della padrona e anche le sopracciglia, con dei trucchi che aveva in

una scatoletta. Quando Trifena lo vide e riconobbe l'antica

bellezza del ragazzo versò un fiume di lacrime baciandolo come

era solita baciarlo lei. Io, timoroso dell'ipotetico confronto, cercavo

di nascondere il mio viso che doveva essere veramente brutto se

Lica, un altro po', non mi rivolgeva neanche la parola. Ma il mio

sconforto durò poco perché l'ancella rimediò anche per me una

parrucca, e per di più bionda, per cui il mio volto riacquistò

accresciuto il suo antico splendore. Non capii bene il nesso logico

ma Eumolpo approfittò della situazione per una tirata

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interminabile contro le donne insistendo in particolare sulla

passione con cui si innamorano, quando si innamorano, talmente

incontrollabile da non temere neppure l'adulterio o di

abbandonare i figli. Sapeva lui dove voleva andare a parare. Aveva

già pronta la sua bella novella con cui deliziare l'uditorio tutto già

su di giri per il buon pasto e, ancora più buono, il vino di Lica.

“C'era una volta ad Efeso una matrona così rinomata per la

sua pudicizia da attirare la curiosità anche di donne straniere che

venivano da lontano ad ammirare la sua fermezza e la sua forza di

carattere. Questa donna straordinaria, quando il marito morì, non

si accontentò di piangerlo e di accompagnarlo alla tomba come si

fa di solito, no! Fece lasciare aperta la tomba sotterranea nella

quale il morto era stato adagiato e decise di passare lì giorno e

notte in compagnia dell'uomo amato, decisa a lasciarsi morire di

fame. A nulla valsero le parole dei genitori e poi dei parenti e poi

anche delle autorità chiamate a convincerla. Ormai dopo cinque

giorni di digiuno tutti con grande ammirazione la davano per

spacciata. La notte la assisteva un'ancella che aveva il compito di

rimettere l'olio alla lampada quando questa diventava troppo

fioca. Ormai in città non si parlava d'altro e tutti asserivano che

quello era veramente l'unico esempio di un amore che va anche

oltre la morte.

Al sesto giorno la sorte decise di far crocifiggere proprio nei

pressi di quella tomba tre criminali condannati a morte dal

governatore. La notte successiva il bel soldato messo a guardia

dei tre crocifissi affinché i parenti non sottraessero i loro corpi per

onorarli con la sepoltura, notando l'insolito chiarore tra le tombe e

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curioso di sapere che cosa fosse, discese nel sepolcro e vista la

matrona che era ormai di una bellezza spettrale prima ebbe un

sussulto e si fermò, poi, essendo intelligente, capì di che si

trattava e fu preso da compassione per quella poverina che

evidentemente non riusciva ad accettare la morte del marito. Andò

quindi a prendere la parca cena che gli passava l'esercito e

cominciò a pregare la sventurata di recedere dalla sua disumana

decisione. “A flere mortuos su lacremae iettate!” le diceva nel suo

latino da analfabeta. La donna invece di trovare un po' di pace

grazie agli argomenti del soldato ricominciò a strillare, a

massacrarsi il bellissimo volto con le unghie e a strapparsi i capelli

che spargeva sul corpo del marito.

Ma il giovane ormai era partito e non si dette per vinto.

Cominciò a mangiare lentamente facendo espandere il profumo

dei cibi e soprattutto del vino dal quale l'ancella fu sedotta

irreversibilmente. Accettò dal soldato vino e cibo e, riacquistate le

forze, tornò all'attacco con la padrona: “Che credi di fare

lasciandoti morire di fame? Che ti credi che qualcuno ti darà la

medaglia? Molti diranno: guarda quella scema! Bella com'è,

invece di fare la vedova allegra e di godersi la vita, si è lasciata

morire. Ma io non dico questo. Ti dico soltanto: non darmi questo

dolore, padrona mia. Che farò io se tu mi muori?” E a questo punto

ricordandosi, chissà come, un paio di versi di Virgilio che diceva sempre suo

padre, chissà perché, se li sparò sicura che avrebbero fatto effetto: “Credi

forse che ceneri e morti / tutto ciò apprezzeranno? Io non credo.”

E quindi ricominciò ad esortarla a recedere da quella decisione

che era dovuta a stolti pregiudizi femminili ormai in disuso: proprio

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il corpo di quel pover'uomo morto così giovane doveva insegnarle

che la vita è una e che non si torna mai più dall'aldilà. E' difficile,

quando si è digiuni da cinque giorni, non lasciarsi convincere a

mangiare e più in generale a non tornare a vivere. Alla fine la

matrona cedette e si ingozzò anche più dell'ancella. “Bene!” pensò

il soldato, “il più è fatto!”

Era arrivato il momento di aggredire anche la virtù della

matrona, tanto più che l'ancella si mostrava assolutamente

d'accordo visto che il ragazzo non era niente male e sapeva

esporre abbastanza bene le sue ragioni, anche se in un latino che non

si poteva sentire. E ancora una volta sfoderò il suo bel verso di

Virgilio: “Se l'amante è gradito come opporsi?” E' inutile che mi

dilunghi. Avete già capito. Scoparono quella notte e per parecchie

altre notti successive ovviamente chiudendo la porta del sepolcro

e prima rimpinzandosi con le prelibatezze che il soldato si

procurava oltre al rancio. E così, scopa oggi, scopa domani, i

familiari di uno dei banditi morti in croce si portarono via con tutto

agio il corpo del loro caro. Figurarsi la disperazione del soldato

quando se ne accorse: quando il governatore fosse venuto a

conoscenza della cosa, per lui sarebbe stata morte certa! Parlò

subito con la donna e fra le lacrime le disse che preferiva uccidersi

da solo prima di aspettare la condanna a morte e che a lei

chiedeva soltanto di consentire che fosse sepolto vicino al marito

di lei. Ma la donna, ormai scatenatasi verso la vita gli disse: “Ma

che sei scemo? E' meglio crocifiggere un morto che uccidere un

vivo, no?” E diede immediatamente l'ordine di sollevare il cadavere

del marito e di crocifiggerlo al posto del bandito sottratto dai

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parenti. In questo modo salvò l'amante che fu ben lieto di quella

trovata. Ma la gente del paese che conosceva l'uomo, si chiedeva

incuriosita: “Come avrà fatto il morto a salire da solo sulla croce?”

Il quadrifoglio di Eros.

I marinai si sganasciarono dalle risate, Trifena fece finta di

vergognarsi riuscendo addirittura ad arrossire e a nascondere il

viso pudicamente sul collo di Gitone. Ma Lica, Lica, incorreggibile

nel suo moralismo da quattro soldi: “Ha sbagliato il governatore!

Se era un uomo giusto doveva far togliere il morto e far

crocifiggere la donna al suo posto.” Chissà, forse gli era tornata in

mente Edile e lo scorno che aveva subito. Ma che c'entrava? I

termini del paragone non erano corretti né l'allegria ormai diffusa

giustificava quella sua rabbia eccessiva. Sempre fuori dalle righe il

mostro! Ma forse erano altri i motivi. Trifena letteralmente sbragata

su Gitone o gli riempiva il petto di bacetti bacetti a non finire o gli

riaggiustava la parrucca che gli aveva messo in disordine con tutti

quei baci. Anche a me come a Lica mi rodeva un po' il culo e non

sapevo se la gelosia che scatenava la mia rabbia era nei confronti

di Gitone che mi tradiva con Trifena o nei confronti di Trifena che

se la spassava con Gitone. L'una e l'altra cosa comunque mi

offrivano uno spettacolo per me più atroce dell'imprigionamento

appena subito. Oltre a ciò nessuno dei due mi degnava di uno

sguardo: Trifena inspiegabilmente, visto che in passato eravamo

stati amanti al satirio; Gitone, forse perché non voleva turbare

l'atmosfera di riconciliazione che avevamo tanto faticosamente

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costruito. A un certo punto fui vinto da un pianto irrefrenabile, da

singhiozzi irreprimibili e da sospiri così violenti che quasi mi

soffocavano. Quei due traditori non poterono non accorgersene e Gitone

che non c'era dubbio mi amava più di qualsiasi mignotta lo avesse sedotto

si mosse a compassione e mi invitò con un gesto discreto ad unirmi a loro.

Figuriamoci Trifena: voleva tenersi tutto per sé quel bocconcino e temeva

che se mi fossi sdraiato sul loro stesso letto il ragazzo non le avrebbe più

rivolto le sue attenzioni. Non capiva, la cretina, che invece sarebbe stato il

contrario. Era bella e seducente, ma Gitone stava malvolentieri con le donne

per cui se si abbandonava tra le loro braccia le poverine dovevano fare la

parte del maschio che però facevano volentieri grazie alla bellezza di quel

pischello divino. Ma se fossi intervenuto io, si sarebbe risparmiata la fatica,

quella scema; invece cominciò a mugugnare che il letto era troppo stretto,

che Lica si sarebbe arrabbiato, che lei si vergognava di fronte a tutta quella

gente ecc.; ma quando vide che Gitone si apprestava a lasciarla per venire

da me fece subito marcia indietro e accettò di buon grado che io mi

distendessi con loro. E buon per lei perché quando io abbracciai Gitone da

dietro e gli feci sentire il mio aggeggio che, modestia a parte, anche moscio

fa la sua cazzo di figura, Gitone si eccitò come un torello alle prime

esperienze e le diede così il modo di godere più e più volte fino a quando

non fu costretta a dire basta altrimenti mi fai morire. Non godeva, rantolava

come dieci gatte messe insieme. Perdeva completamente la testa, quella

porcona, e allora non c'era più pudore che potesse castigarla. Se lo fece

mettere dappertutto e quando Gitone sembrava voler gettar la spugna lei lo

riattizzava o col satirio o prendendoglielo in bocca come una furia. A quel

punto anche Lica si fece venire le fregole e cercava in tutti i modi

di essere ammesso a prendere parte al concerto e, deposta

l'arroganza del padrone, prendeva i toni del supplice che

elemosinava il mio assenso: un bacio, una stretta, un po' di spazio in

quel letto di goduria e cercava di convincermi a bere il satirio per far

dimenticare a Priapo la sua maledizione e per potermelo così inculare a suo

piacimento in modo da sostituire Gitone con Trifena. Io mi dimostrai più

incazzato di lui e gli dissi che se saliva su quel letto io me ne sarei andato.

E cosi feci, prendendo per mano l'ancella di Trifena, che era niente male, e

facendo intendere che me la sarei andata a spassare con lei. Ma Trifena e

Gitone si misero a sfottermi: è un povero cinedo, fa così perché non gli si

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addrizza e non vuole godere con la bocca e col culo. Io allora mi rivolsi a

Gitone dicendogli che era un traditore e che si era fatto irretire da quella

puttana bocchinara. Il ragazzo allora si spaventò e cominciò anche lui come

Lica a pregarmi con voce supplichevole: “Fallo per me, ti prego, Encolpio.

Non vedi che senza di te non riesco a godere. Non ti arrabbiare! Torna il bel

ragazzo di sempre: quello che io amo. Ti prego, torna indietro. Unisciti a

noi.” A quel punto mi convinsi, però chiesi una breve pausa per bere il satirio

che un'ancella mi aveva porto, ma con altre finalità: mi prese in disparte e

mi disse: “Non ci tornare con quei tre. Vedrai che Lica ti ha fatto un tiro

mancino e vuole che tu ti scopi la moglie mentre lui si fa fare da Gitone.

Quella è una ninfomane, una troia insaziabile come è insaziabile quel

frocione di Lica. Se, come dici, tu sei un uomo libero, se c'e in te

anche soltanto una goccia di sangue libero, non puoi andare con

una che va considerata per quello che è: una maiala insaziabile. E

se sei un uomo, non ci vai proprio con una che la dà a tutti.”

Ovviamente non le diedi retta perché diceva cose non vere dettate dal suo

personale interesse. Il suo discorso era falso e interessato. Anche un

bambino avrebbe capito che mi si voleva fare e che era gelosa della sua

padrona. Perciò bevvi il satirio che Trifena le aveva ordinato e tornai a

gettarmi su quei tre afferrando natiche e sessi col metodo “'ndo cojjo cojjo”.

Trifena godeva davvero come una porca se riuscivi a infilarle un dito nella

fica e a stimolarle con una certa rudezza la clitoride; ma godeva ancora di

più se un altro le faceva nello stesso tempo lo stesso servizio nell'altro buco.

Insomma nessuno fra noi riusciva più a capire che cosa ci si potesse

inventare più di quello che avevamo già fatto. Io mi volli rilassare un attimo

e ciò mi bastò per vedere che stava arrivando Eumolpo. Non c'era più

scampo: o gli permettevamo anche a lui di unirsi al quadrifoglio epicureo o

quello ci avrebbe scritto sù dei versi satirici terribili. E a me niente mi

dava più vergogna del fatto che quel bell'imbusto, avendo capito

che cosa era successo fra noi quattro fino al momento del suo

arrivo, ne avrebbe fatto, ciarlatano qual era, una terribile satira in

versi. Non mi sbagliavo: quando ebbe messo a fuoco il ruolo che quei tre

mi avevano riservato sparò subito dei versi che ancora non colpivano me

direttamente ma che si capiva dove sarebbero andati a finire:

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Ma se Trifena, o Priapo, il puttanone

che ora sta agitando tutta spoglia

natiche e ventre in ogni direzione,

smuoverà sculettando in te la voglia,

non te soltanto, io penso, ecciterebbe,

Priapo mio, ché forse un'eccezione

perfino il casto Ippolito farebbe.

Indovinate chi era Ippolito nella testa di quello scellerato? Naturalmente

quel maiale, andando oltre, avrebbe fatto sicuramente riferimento alla mia

impotenza e alla maledizione di Priapo mettendomi in bocca a tutti. Con un

duro cenno gli dico di avvicinarsi e quando si fu avvicinato gli dico

sottovoce che se avesse continuato su quel tema non gli avrei più concesso

la minima intimità. Lui si mette a ridere e allora io in sovrappeso lo minaccio

di svelare a Lica tutti i dettagli del nostro stratagemma. Smette di ridere,

allora, il pusillanime, e giura con formula solenne che avrebbe posto fine

alla sua declamazione e che se ne sarebbe andato a dormire nella sua cella

dove, strizzandomi l'occhio, mi disse di raggiungerlo.

Non ci pensavo proprio, ma non pensavo neanche di dare retta

all'ancella o a quei tre zozzoni insaziabili che mi invitavano ad avvicinarmi

con gesti osceni di lingua e di mano e facendomi capire che Lica aveva

finalmente fatto venire altro satirio e che perciò ci saremmo divertiti. Non

avevo più scampo. Dissi all'ancella di smetterla di tirarmi, tanto non c'era

niente da fare e mi avviai a malincuore verso quel trio di depravati. Non feci

in tempo a raggiungerli però.

La tempesta e il naufragio.

Il mare è traditore. Avevamo appena doppiato Scilla e Cariddi

lasciandoci sulla destra Messina e a sinistra Reggio e già navigavamo in

mare aperto sognando l'Africa, quando all'improvviso scoppia una tempesta

dalla quale mai avremmo creduto di poterci salvare. Il mare

improvvisamente incominciò ad incresparsi e le nuvole

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raccogliendosi fecero la notte su di noi. I marinai, terrorizzati,

corsero ai loro posti e cercarono di ammainare le vele per sottrarle

al vento che soffiava vorticosamente. Ma non soffiava in una

direzione certa per cui il timoniere non sapeva a quale rotta

affidarsi. A volte sembrava che il vento volesse sospingerci verso

le coste della Sicilia, ma più spesso l'Aquilone, che la fa da

padrone sulle coste italiche occidentali, faceva vorticare la nave

completamente in sua balia e le tenebre ormai avevano talmente

oscurato la luce che il timoniere non riusciva più a vedere neanche

la prua della nave. Ormai era chiaro che saremmo morti tutti e

allora Lica tremando stese le mani supplici verso di me e mi

implorava: “Encolpio, aiutaci in quest'ora di pericolo: restituisci

alla nave la veste sacra e il tirso che tu ben conosci. Abbi pietà di

noi, in nome degli dei. Tu sei generoso, aiutaci!” ma un terribile

colpo di vento lo spazzò via e la burrasca lo inghiottì in un vortice

repentino. Trifena invece fu trasportata dai suoi schiavi, ormai

mezza morta, su una scialuppa in cui misero anche i suoi bagagli

cercando di sottrarla ad una morte ormai certa. Io mi strinsi a

Gitone e piangendo gli gridavo: “Questo gli dei ci hanno riservato:

di unirci di fronte alla morte. Ma la Sorte forse non ci concederà

neanche questo. La furia delle onde sta per ribaltare la nave e il

mare forse non consentirà agli amanti di rimanere abbracciati.

Dunque baciami finché ci è permesso: rubiamo al destino

quest'ultima gioia.”

Gitone mi diede subito ascolto. Si spogliò e infilatosi sotto

la mia tunica fece spuntare in alto la testa per coprirmi di baci. E

per impedire ai flutti di separarci rafforzò il legame della mia

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tunica con una cinta che fece girare intorno alle nostre vite

legandola strettamente. “Se non altro”, disse, “il mare ci porterà a

lungo allacciati e, se vorrà, ci depositerà uniti sulla stessa spiaggia

dove un passante misericordioso ci ricoprirà di sassi o il mare

stesso ci seppellirà sotto la sabbia, come spesso avviene.” Io

accetto gli estremi vincoli di quel nostro amore con cui il mio

amore mi legava in quel momento tragico e mi rilasso come su un

letto di morte aspettando l'epilogo che ormai non mi appare più

tanto insopportabile. La tempesta intanto compie l'opera voluta

dalla Sorte e distrugge quel poco che restava della nave: un relitto

informe senza più né albero né timone né funi né remi, che vagava

in balia delle onde che però inaspettatamente incominciavano a placarsi.

Io è come se mi risvegliassi da un incubo. Guardavo incredulo Gitone e poi

il mio sguardo vagava sulla superficie del mare, che piano piano si stava

calmando: casse, pezzi di legno, corpi senza vita, insomma i resti di un

naufragio pauroso che aveva voluto risparmiare, almeno sembrava, me e il

mio amore. Gitone, bianco per la paura e ormai senza capelli e senza trucco

sembrava ancora più bello dopo il lungo non voluto bagno. I miei occhi

percorrevano su e giù quel giovane corpo tostato dal sole e dilavato dal sale

che appariva più come quello di un dio che quello di un uomo. Fui preso da

un pianto convulso mentre il sole che tornava a risplendere tra quei pochi

stracci di nuvole rimasti illuminava Gitone in tutto il suo splendore e come

incredulo mi gettai su di lui abbracciandolo e baciandolo furiosamente e,

miracolo! il mio fringuello tornò anche lui alla vita e così su un relitto di

nave squassata dal mare e ormai in balia di onde dolcissime che ci cullavano

ci unimmo finalmente in un amplesso che lui mi concesse pienamente

sollevando le sue belle gambe in avanti e lasciandosi penetrare, esperto

com'era di tutte le posizioni amorose degli efebi. Sentii una dolcezza infinita

e lui ansimava sotto le mie spinte cercando di correggere il ritmo che io

imprimevo loro tenendomi per le natiche e aiutandomi ad entrare ed uscire

da lui finché con un grido liberatorio gli venni dentro mentre lui piangeva

di un pianto altrettanto liberatorio. Gli leccai il pianto dal viso dicendogli

parole di incoraggiamento. “E' finita, amore mio! E' finita! Non piangere

più!”

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Non so quanti giorni il mare ci trasportò dove voleva, forse uno, forse

tanti. Ci nutrivamo di pesciolini crudi che riuscivamo ad agguantare grazie

ad una retìna da pesca che eravamo riusciti a recuperare in mezzo a tutti qui

pezzi di nave che ondeggiavano con noi oppure di cibi ormai maleodoranti

che la nave portava con sé e che la tempesta aveva risparmiato. Una mattina,

forse proprio la mattina successiva al giorno della tempesta, mentre dormivo

profondamente fiaccato dalla stanchezza sento la voce di Gitone che

annunciava la terra. Apro gli occhi e lo vedo sbracciarsi a fare dei segni

stando in piedi su quello che restava del ponte. Mi alzo in piedi anch'io e

vedo delle piccole imbarcazioni che non lontano dalla costa di davano un

gran da fare, non capivo bene a che scopo.

Quando capirono che sul relitto c'era qualcosa da recuperare, subito

erano accorsi, a bordo delle loro piccole imbarcazioni, dei

pescatori chiaramente intenzionati a fare bottino di quanto

restava della nave. Quando però capirono che sul relitto più

grande c'erano persone capaci di difendere le loro cose, mutarono

il loro atteggiamento spietato in offerte di soccorso. Ma Gitone,

intelligente com'era, rifiutò recisamente e mi disse: “Guarda che ci sono altri

sopravvissuti. Se ci mettiamo tutti insieme riusciremo a portare sulla

spiaggia non solo questo relitto ma anche tutto quello che ancora galleggia

e che le onde hanno portato fin qui. Approvai senz'altro quello che

proponeva e mi misi anch'io a far cenno a quegli sciacalli di tornarsene

indietro perché se si fossero avvicinati di più sarebbe finita male per loro.

Per fortuna riuscii a spaventarli ed essi ritornarono tranquillamente verso la

spiaggia. Gitone si gettò in mare, mi invitò a fare altrettanto e nuotando con

un braccio solo, aiutati anche dagli altri superstiti, riuscimmo a portare in

secco il relitto più grande che ci aveva salvato la vita, a me e a lui. Giunti

sulla spiaggia, sentiamo una voce d'uomo brontolare non so che

contro qualcuno. Proveniva dalla cabina del timoniere e pareva il

ruggito di un leone in gabbia che voglia uscire al più presto dalle

sbarre. Era Eumolpo e non voleva affatto uscire. Semplicemente

farfugliava versi intento a riempire una enorme pergamena con

qualche suo poema tanto impellente da fargli dimenticare la morte

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che era stata a un passo dal portarselo via. Lo tiriamo fuori di lì,

mentre lui protestava furiosamente, invitandolo ad essere

ragionevole e a prendere atto della realtà. E lui: “Lasciatemi

correggere la frase: il carme è manchevole nel finale!” A quel

punto gli metto le mani addosso e ordino a Gitone di aiutarmi a

trasportare sulla spiaggia il poeta ragliante. Poi, sistemato lui, ci

portammo faticosamente verso una capanna di pescatori e

nutrendoci coi cibi ormai andati a male della cambusa della nave

passammo una notte tristissima. Il giorno successivo discutevamo

di dove andare a ripararci e a quale luogo affidare la nostra Sorte,

quando vedo un corpo umano trasportato dalle onde verso riva.

Nessuno può comprendere lo stato d'animo di un naufrago appena

sopravvissuto ad una tempesta che non lasciava speranze. Fui sopraffatto

dal dolore come se si trattasse di mio padre o di mio fratello. Guardai con

gli occhi pieni di pianto l'enorme distesa di quel mare inaffidabile

e come se mi rivolgessi a lui incominciai a gridare come un pazzo:

“In qualche parte del mondo c'è una donna o un uomo a cui costui

prima di imbarcarsi ha dato un bacio per salutarli e andare in cerca

di fortuna. Questa è la volontà degli dei, questi sono i progetti degli

uomini: ecco come l'uomo sa stare a galla!” Il mio era un vero

compianto, anche se dedicato ad uno sconosciuto; ma

all'improvviso un'onda spinge sulla riva una testa senza corpo

nella quale riconosco l'occhio storto di Lica fino a poco prima

arrogante e sprezzante e ora ai miei piedi senza più volontà. A quel

punto le lacrime cominciarono a sgorgare ancora più copiose e il

mio compianto dedicato a Lica si fece ancora più esplicito: “Dov'è

ora la tua ira, la tua prepotenza, Lica? Eccoti qui in balia delle onde

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e dei pesci. Tu che prima vantavi il tuo dominio su una nave tanto

grande ora non hai neanche un pezzo di legno a cui aggrapparti.

Coltivate, uomini, le vostre grandi idee; programmate per mille

anni il consumo di ricchezze ammucchiate con la frode!

Sicuramente costui ieri faceva il bilancio dei suoi averi,

sicuramente progettava il viaggio di ritorno. Com'è lontano ora dai

suoi progetti, o dei! E non parlo solo del mare e delle sue

tempeste. E' la stessa cosa per quello che combatte armi in pugno,

per chi compie sacrifici agli dei e gli crollano addosso le statuette

dei suoi antenati; chi è ucciso dal cibo; chi dall'astinenza, chi

caduto dalla sua lettiga resta senza fiato e muore. C'è un naufragio

dovunque tu guardi!” Il mio compianto preludeva alla sepoltura che

volevo dare a Lica, ma mi resi conto che mi si sarebbe potuto obbiettare

che chi muore in mare non ha diritto alla sepoltura sulla terra. Allora

continuai: “Non è importante per un corpo destinato a decomporsi

se chi lo consumerà sarà la terra o il mare o il tempo. L'epilogo è

lo stesso. L'unica vera follia è questo nostro darci da fare perché

nulla di noi resti dopo la morte.” Ricomponemmo dunque il corpo di

Lica e lo lasciammo sulla spiaggia perché gli schiavi superstiti potessero a

loro volta compiangerlo. Poi cercammo di capire da quella gente che non

parlava nessun linguaggio minimamente comprensibile quale fosse il posto

in cui eravamo capitati e come si chiamasse. “Voi siete a Capo Rizzuto.” Ci

dissero e intanto ci chiesero il permesso di racimolare le cose che

eventualmente il mare avesse ancora restituito alla spiaggia. Quando ci

ebbero spiegato la strada per arrivare alla città più vicina, demmo loro il

permesso e ci organizzammo per partire alla volta di quella celebre città.

Lica fu deposto su un rogo organizzato dalle mani ostili degli

abitanti di lì che avrebbero preferito piuttosto spogliarlo dei suoi vestiti e lì

bruciava. Eumolpo, chiamato a comporre un epitaffio in onore del

morto, rimase a lungo assorto con un sguardo lontano spinto verso

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il mare, come se l'ispirazione gli dovesse provenire di lì.

Verso Crotone con la guerra civile.

Dopo aver reso gli onori funebri a Lica, ci incamminiamo

verso la città più vicina e arriviamo sudati come asini in cima ad

una collinetta dalla quale si poteva ammirare poco lontana una

città adagiata su un rialzo scosceso. Noi, naufraghi dispersi, non

sapevamo di che città si trattasse finché un contadino non ci

informò che era Crotone, città antichissima e un tempo una fra le

più fiorenti d'Italia. Poi gli facemmo domande più precise per

sapere che tipo di gente fossero gli abitanti e a quali attività

generalmente si dedicassero specialmente dopo che l'ultima crisi

dovuta alle incessanti guerre civili aveva devastato l'economia di

tutta la penisola. Al contadino non parve vero di poter parlare con

qualcuno: “Cari stranieri, se siete uomini d'affari qui dovete

cambiare mestiere e cercarvi un'attività diversa per sostentarvi.

Se invece siete di quelle persone che hanno la lingua sciolta e

sanno dire bugie una appresso all'altra allora Crotone fa al caso

vostro. Incamminatevi pure che state andando verso la ricchezza.

Lì onestà e sobrietà non hanno corso, le belle lettere e l'eloquenza

manco a parlarne. I cittadini si dividono in due categorie: quelli che

imbrogliano gli altri e quelli che dagli altri sono imbrogliati.

Nessuno riconosce i propri figli perché chi ha eredi legittimi ai

quali dovranno lasciare la loro eredità non vengono invitati né a

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cene né a spettacoli e in genere vivono una vita sordida in

completa solitudine. Quelli che ottengono gli onori più alti sono

quelli che non prendono moglie, che non hanno né figli né parenti

prossimi: essi soli sono considerati dei bravi militari, uomini dotati

di ogni qualità positiva come la fermezza e l'ineccepibilità. Crotone

è una specie di castello fortificato durante un'epidemia: ci sono o

cadaveri che vengono fatti a pezzi o corvi che li fanno a pezzi.”

Io mi sentii il sangue ribollire nelle vene e proposi subito di tornare

indietro e di aspettare sulla riva un'occasione per riprendere il mare verso

l'Africa. Ma mi calmarono le sagge riflessioni di Eumolpo e le preghiere

irresistibili di Gitone. Come avrei potuto rifiutare qualcosa a quell'angelo

che mi aveva fatto rinascere dal naufragio con uno degli amplessi più

straordinari che io ho nella memoria? E poi mi fecero ridere i versi con cui

Eumolpo commentò la situazione:

“Affinché tu non possa negare

che ne eri già stato avvisato:

se ti provi a incularmi e ad entrare

di sicuro ne esci inculato.”

Si riferiva ai crotoniati ovviamente con uno dei suoi soliti voli pindarici

che mi mise di buon umore. “Perciò, ragazzi, sotto!” disse, “Qui c'è da

cuccare!” Più accorto di me, Eumolpo aveva già messo a fuoco la

situazione e disse subito che quel modo di fare soldi non gli

dispiaceva affatto. Io pensai che il vecchio rimbambito volesse

continuare a scherzare e invece disse: “Se potessi avere a

disposizione un apparato più appariscente, cioè un abbigliamento

più sfarzoso e dei bagagli più lussuosi per rendere credibile la

finzione che ho in mente, per Ercole, non rimanderei a domani il

mio progetto e vi porterei di filato verso la ricchezza.” Gli dico che

ero in grado di accontentarlo se si accontentava di certi abiti che

avevamo portato via dalla villa di Licurgo la notte della rapina. E

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quanto al denaro, dissi, certamente ce lo farà trovare la madre

degli dei.” Nel dire questo guardavo argutamente Gitone che come

Cibele/Iside aveva convinto perfino la sacerdotessa Edile; in realtà pensavo

che all'evenienza non ci si poteva sottrarre neanche alle soluzioni più

estreme: ci saremmo prostituiti io e lui fino a raggiungere la cifra richiesta

dalla circostanza. “E allora che aspettiamo?” disse Eumolpo,

“Mandiamo subito in scena lo spettacolo. La parte più importante

è la mia: io sarò il vostro padrone, se il progetto vi piace.” Nessuno

se la sentì di bocciarlo. La situazione era veramente particolare e

noi non avevamo niente da perdere. Perciò su indicazione di

Eumolpo giurammo tutti che avremmo subìto qualsiasi cosa se lui

lo avesse ordinato. Insomma ci consacriamo a lui, nostro padrone,

come fanno di solito i gladiatori veri. E fatto il giuramento e

salutato in veste di schiavi il nostro capo passiamo

all'apprendimento della trama.

Eumolpo è un vecchio africano ricchissimo che ha seppellito

da poco l'unico figlio, un giovane dal radioso avvenire, e che perciò

ha lasciato la sua casa e la sua città d'origine per non assistere

alla vita dei clienti e degli amici del figlio e soprattutto per non

avere più davanti agli occhi la tomba in cui il giovane era sepolto,

fonte per lui di continuo dolore. Il destino ha voluto che mentre

fuggiva per mare da quel dolore un altro dolore si è aggiunto al

primo: un naufragio in cui ha perduto ben 2.000.000 di sesterzi.

Cosa di cui non gli importava nulla se non fosse per il fatto che

non era più in grado di procurarsi la servitù necessaria per

mostrare quale fosse in realtà il suo rango. Egli proviene dall'Africa

dove possiede tra terreni e soldi un capitale di 30.000.000 di

sesterzi e quanto a schiavi ne possiede tanti nelle sue tenute

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numidiche che gli sarebbero sufficienti per conquistare Cartagine.

Sulla base di tutta la finzione noi gli raccomandiamo di

tossire spesso, di accusare diarrea, e di proclamare sempre in

presenza di gente il suo disgusto per ogni genere di cibo; di

preferire nelle conversazioni temi riguardanti l'oro, l'argento, la

incostante produttività dei terreni, e la sterilità del suolo; di stare

ogni giorno per un po' seduto a fare i conti dei suoi averi; di

rinnovare ogni mese le disposizioni dell'ultimo testamento e, per

completare, la farsa di chiamarci ogni volta che ci chiamava con

un nome diverso dal nostro per dare l'impressine di avere un

numero così grande di schiavi da confondersi continuamente sui

loro nomi.

Fissate queste regole e fatte le dovute preghiere agli dei

affinché ci aiutino a far riuscire bene la cosa, ci incamminiamo

finalmente verso Crotone. Strada facendo qualcuno di noi annoiato dal

percorso troppo lungo si rivolse ad Eumolpo chiedendogli quali fossero le

ragioni per cui lui era così attratto dalla poesia al punto di dimenticarsi

perfino della vita, come era successo il giorno prima nel naufragio. Io non

potei fare a meno di esternare il mio sgomento per una iniziativa come

quella. Mi son detto: vedrai che questo adesso per rispondere a quella

domanda banale attacca come al solito a cianciare di letteratura e alla fine ci

ammollerà pure dei versi come fa sempre. E infatti! “Vedi,” disse, “non tutti

possiamo essere poeti perché la poesia è come il colore dei capelli: se nasci

biondo non puoi essere moro e viceversa. E così se nasci poeta non puoi non

esserlo e se non nasci poeta è inutile cercare di diventarlo. La poesia viene

direttamente da Apollo che quando trova il tipo predisposto per questo o

quel tema poetico incarica la musa addetta, sua figlia, e le ordina di entrare

dentro quello. Così quando il poveretto parla, non parla lui, ma la musa che

ha dentro ed è per questo che quasi tutti i poeti hanno una sensibilità

femminile che li fa sembrare spesso delle fanciulle vaganti nel mondo con

una maschera da uomo che non si addice loro. “Ma tu” disse Gitone, “a me

non sembri uno con la sensibilità raffinata di una dona. Tu mi sembri

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piuttosto un gran maiale che quando si tratta di mangiare o di scopare non

stai tanto a fare versi. Ti butti subito sulla preda e via.” “Caro ragazzo, sei

intelligente ma questa cosa forse non la puoi capire. Non è che la musa può

stare sempre dentro allo stesso poeta, perché al mondo i poeti sono tanti. Lei

ci sta quando il poeta entra in crisi di astinenza in fatto di versi e lei deve

essere presente affinché la sua ispirazione vada a buon fine. Perciò quando

la musa sta nel corpo di un altro poeta quello che ne è libero si può dedicare

tranquillamente ai piaceri della vita che egli ama molto più degli altri perché

sa che la vita è breve e la giovinezza lo è ancora di più e che perciò se non

carpisce al volo i piaceri che essa gli offre poi tutto passa e l'occasione si

perde. Hai capito?

Insomma perché venga fori il poeta ci vogliono tre condizioni: (i) che egli

abbia una sensibilità predisposta; (ii) che Apollo decida di fargli sviluppare

questa sensibilità; (iii) che la musa addetta alle sue tematiche (le Muse sono

nove, mica una!) abbia tempo per entrare in lui quando una di quelle

tematiche preme per essere messa sulla pergamena. Voi capite che, se non si

danno queste tre condizioni, vengono fuori quei poeti illeggibili e

noiosissimi che credono di essere tali ma che sono soltanto degli

imbrattacarte. La poesia, cari ragazzi, ha tratto in inganno molti. Non

appena qualcuno mette su un verso coi suoi bravi accenti e la sua

brava rima, conferendogli anche un significato profondo esposto

con morbida eleganza, si crede subito di aver raggiunto la sublime

vetta della poesia. Gli avvocati per esempio quando stanno lontani

dal foro si rifugiano spesso tra le sue braccia convinti che è più

facile fare una poesia che scrivere un'arringa composta di

perioducci agghindati con parole luccicanti. Sono degli illusi,

poveretti, e le posie che scrivono sono quasi sempre delle brutture! In realtà

c'è anche un'altra condizione che non vi ho detto, perché è ovvia.

Nessuno spirito di alto livello culturale né alcun intelletto

predisposto per la poesia possono dedicarsi ad essa se prima non

passano attraverso la cultura e soprattutto attraverso la cultura

letteraria corrente.

Altrimenti rischiano di fare la scoperta dell'acqua calda e di annoiare

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mortalmente gli ascoltatori. Bisogna scegliere parole appropriate con

significati lontani dall'uso corrente in modo da rispettare

l'insegnamento oraziano: “odio il volgo profano / e me ne tengo

lontano.” La poesia è il frutto, come la tela, di una trama e di un

ordito e questa tela è una sorta di organismo che si autoregola per

cui non sono ammesse frasi o espressioni che vadano al di là dei

limiti imposti da essa. Omero e i lirici in Grecia, Virgilio e Orazio a

Roma sono la testimonianza più convincente di ciò. Gli altri o non

capirono o se capirono non ebbero il coraggio di dedicarsi ad una

attività così difficile ma anche così gratificante.

Prendiamo per esempio il tema della guerra civile. Non puoi

raccontarla in versi se non possiedi una conoscenza profonda

delle astuzie letterarie che su di essa la cultura ha scovato fino a

quel momento. Non si tratta di mettere in versi avvenimenti politici

che gli storici, fra l'altro, racconterebbero meglio di te. Si tratta di

accogliere la musa Clio dentro di sé e poi di lasciarla libera di

suggerirti sentenze enigmatiche, interventi divini, pensieri

profondi, tipici delle narrazioni mitologiche, in modo tale che il

risultato appaia all'ascoltatore/lettore più la profezia di un animo

invasato che non un discorso chiaramente e linearmente

argomentato. Il modello per esempio potrebbero essere questi

versi che ho composto di getto sul tema della guerra civile e che

spero vi piacciano anche se non sono ancora del tutto rifiniti.

E ti pareva, mi dissi; comunque, mi dissi, anche l'ascolto di versi su un

tema ancora così attuale era meglio di quel silenzio assordante, per

ingannare la noia e la fatica di quel viaggio estenuante. Ed Eumolpo attaccò

(ci ho messo dei titoli per guidare un po' il lettore in mezzo ai numerosi

eventi che quel poetastro ammucchiava confusamente senza la minima

vergogna):

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LA CORRUZIONE DI ROMA

“Già Roma tutto il mondo dominava / per mari e terre da là dove nasce /

il sole fino a dove si inabissa. / Ma non era ancor sazia: le sue navi /

ancora perlustravano ogni dove: /se un qualche porto o un angolo di terra /

c'era che le facesse guadagnare / dell'oro ancora, suo nemico era: /

un destino crudele e ineluttabile / la spingeva alla guerra per cercare

sempre nuove ricchezze e nuovi averi. / Non più le gioie solite, banali,

dell'amore e del cibo quotidiani. / Un qualsiasi soldato ora voleva

piatti e coppe di bronzo da Corinto, / pietre preziose, dalla terra estratte,

il cui splendore gareggiasse a prova / coi bagliori accecanti della porpora.

Niente paura! Ci pensava l'Africa: / Nùmidi, Cirenaici, Egizi ed Arabi

saccheggiavano a gara i loro campi / per dare a Roma più ricchezza ancora.

Ma erano soltanto gravi offese / e attentati alla Pace e al quieto vivere!

Si catturano in Africa le belve / vendute a peso d'oro sui mercati

della città perché facciano strage / di poveri infelici nelle arene:

elefanti di cui si collezionano / le zanne note per i loro morsi

mortali ed infallibili e le tigri / viaggiano in gabbie d'oro sulle navi

su cui regna la fame in modo tale / che affamate le belve faccian scempio

degli uomini ad esse destinati / per farli divorare in mezzo a folle

sanguinarie che applaudono in delirio. / Ahi, che vergogna a rivelare e a dire

quale orrendo destino aspetta Roma! / Secondo un uso in voga tra i Persiani

anche da noi si uccidono dei maschi / nel pieno della loro giovinezza

per strappargli le viscere col ferro / e impiegarle poi in pratiche di sesso

affinché il corso rapido del vivere / cessi per una tregua circoscritta

rimandando il trascorrere degli anni: / così se stessa la natura insegue

senza prendersi mai. E dunque tutti / cercano di imitare le puttane

camminando con passo sculettante / e molli movimenti delle anche

lunghi i capelli e sciolti sulle vesti, / ultima moda insieme a tutto quanto

attiri sguardi virili assatanati, / ciechi di desiderio e di passione.

Ecco, alla terra d'Africa strappata / s'apparecchia una tavola di tuia

con macchie che all'oro rassomigliano / per servi e senatori perché attragga

i loro sguardi. Intorno a questo legno / che non dà frutti e ingiustamente viene

considerato un legno assai pregiato / si siede una congrega di ubriachi

e in giro per il mondo i nostri eserciti / cercano, armi in pugno, tutti i beni

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che appaghino la loro cupidigia. / Fame e gola aguzzano l'ingegno.

Lo scauro delle coste siciliane / viene servito vivo sulle tavole

e, strappate agli scogli del Lucrino, / le ostriche le paghi una fortuna

per risvegliare spasmi ormai sopiti. / Son le acque del Fasi deprivate

dei mirabili uccelli che ci vivono / e sulle rive silenti odi spirare

solo le brezze fra le verdi fronde. / La follia ormai si spande dappertutto.

A Roma, in Campo Marzio, i cittadini / votano solo chi promette lucro

e denaro sonante. Sono in vendita / i Quiriti, signori, siano popolo

o siano gli stessi senatori. / Il voto ormai è solo una questione

di chi offre di più, solo di prezzo. / Sì, anche i padri nostri, i senatori

hanno dimenticato ormai per sempre / cos'è la dignità libera d'ogni

costrizione. Perduti i patrimoni, / hanno svenduto ad altri quel potere

che una volta era solo del senato. / Ma oramai è ben chiaro che il fior fiore

dei senatori è sensibile all'oro. / Catone, sì, Catone, quel Catone,

a scacciarlo è bastata un'elezione! / Povero! Ma è più povero il romano

che si è venduto per strappargli i fasci. / Ma ora si vergogna, questo popolo,

capendo che Catone c'entra poco / e che con lui ha distrutto ed annientato

il potere e il prestigio ch'era in Roma. / Che ora messa in vendita nessuno

di riscattarla è più capace, oggetto / e preda al tempo stesso del denaro.

E neanche questo, perché ormai l'usura / con i suoi tassi esagerati mangia

rendite e capitali senza tregua. / A Roma ormai non c'è una sola casa

sicura, non c'e' più un uomo solo / che non sia contagiato dalla peste

che sta erodendo tutta la città / subdola serpeggiando nelle fibre

più recondite e ascose e fa morire / tra spasmi insopportabili e alte grida.

E miseri ricorrono alla sola / soluzione che sanno adoperare:

le armi, e credono col sangue / di riscattare i soldi sperperati

coi vizi, il lusso e con la corruzione. / Rischio alcuno non c'è per chi infelice

non ha nulla da perdere impugnando / armi che ben conosce. E solo armi

e furori e passioni, scatenate / dalle armi in pugno, ormai posson salvare

Roma che annega nella corruzione / e nel sonno e nel fango e il disonore.

L'IRA DI ADE

Tre grandi generali aveva dato / la Sorte a Roma e tutti li disperse

chi qua chi là sotto montagne d'armi / Marte crudele: Crasso in mezzo ai Parti,

Pompeo nel mare libico e il gran Giulio / in Roma che coprì di stragi e sangue,

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per cui la terra non ce la faceva / a contenere tante sepolture.

Tra Napoli ed i Campi che si chiamano / Flegrei proprio nel fondo d'una vasta

voragine bagnata dal Cocito / esala i suoi vapori portatori

di morte il vento gelido dell'Ade. / Non verdeggia d'autunno questa terra

né nutre prati di fertili zolle / né a primavera melodiosi cantano

virgulti mossi dalle dolci brezze / ma scoscesi dirupi di terragne

pomici e intorno cumuli su cumuli / su cui sorgono lugubri cipressi.

Seduto in mezzo all'orrido scenario / Ade nero in volto ma bianco di capelli

convocò a sé la Sorte e la spronò / ad annientare Roma e il suo potere:

“Signora del destino a cui soggiacciono / uomini e dei senza discussione,

tu che subito crei ed altrettanto / velocemente quel che crei distruggi

poiché è solo il nuovo che ti aggrada, / non vedi che oramai ti pesa troppo

la grandezza di Roma che tu stessa / hai voluto finora? Anche la nuova

generazione di Romani è stanca / di portar sulle spalle tanto peso.

Dovunque vedi facili bottini / e patrimoni dissipati al vento,

segni che ormai la fine si avvicina. / Costruiscono case che si spingono

fin su nel cielo sperperando d'oro / mucchi enormi ed indietro si respingono

le acque dei fiumi per formare laghi / ed il mare è portato in mezzo ai campi

L'ordine delle cose è ormai sconvolto / e si fa guerra alla natura stessa.

Alche i miei regni temerari assalgono / che le profonde viscere proteggono.

S'apre la terra per fornire marmi / utili solo a far sfoggio di lusso

in crepacci mostruosi e sotto i monti / s'aprono buchi oscuri che risuonano

d'echi profondi e mostruosi. Le anime / di ritornare sperano alla luce.

Perciò, Sorte, signora del destino, / muta il tuo volto e dalla pace in guerra

gira il tuo sguardo ed istiga i Romani / a procurare morti al regno mio.

Da tempo, vedi, il volto mio biancheggia / perché il sangue non scorre su di esso

né la mia Erinni lava le sue membra / da lungo tempo in esso, cioè da quando

per le armi di Silla dalla terra / non spuntò grano concimato a sangue.”

L'IRA DELLA DISCORDIA

Quindi irato concluse con un gesto / che congiungendo destra a destra ruppe

la terra in un abisso senza fondo. / Spaventata la Sorte allora disse:

“Padre, pur se la legge non consente / di svelare il futuro io ti prometto

che le tue volontà saranno tutte / soddisfatte entro breve che tu sei

il padre dell'Inferno e a te obbediscono / lo Stige, l'Acheronte ed il Cocito.

Dentro questo mio petto non è l'ira / della tua men violenta né più lieve

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ardore infiamma in me i miei precordi. Tutto ciò che io diedi a questa grande

città, tutti i miei doni ora mi fanno / rabbrividire d'odio e di vendetta.

Lo stesso dio che la fece grande / ora l'abbatterà: questo colosso

crollerà su se stesso indegnamente. / Ed io personalmente brucerò

tra le fiamme i suoi uomini infedeli / e annegherò nel sangue la lussuria

in cui ignari si rotolano ed inermi; / vedo Filippi, vedo i numerosi

roghi che in Tessaglia si preparano / e le uccisioni e i lutti della Spagna.

Tremano ormai le mie povere orecchie / al rimbombo delle armi strepitanti.

E già ti vedo, o Nilo, contrapporre / le tue correnti agli eserciti che marciano

verso la Libia e vedo il golfo d'Azio assistere impotente alla rovina

che le frecce d'Apollo ovunque spargono. / Apri dunque i tuoi regni, santo padre,

alle anime dei morti perché plachino / quelle lande da tempo ormai deserte.

Non basterà la barca di Caronte / a trasportarne tante: il gran nocchiero

ti chiederà una flotta alla bisogna. / E tu pallida Erinni finalmente

potrai saziarti della strage immensa / e di sangue, insaziabile, appagarti.

Ai morti dello Stige perverrà / il mondo fatto a pezzi dalla guerra.”

PRESAGI DIVINI

Parole sante. Finì di parlare / e il cielo si squarciò che da una nube

da un fulmine solcata il suo bagliore / proiettò sulla terra. Il padre Dite

nei recessi dell'Ade si nascose / paventando la furia del fratello.

I presagi di Giove erano chiari: /stragi d'uomini e danni incalcolabili

si sarebbero avuti sulla terra. / Si oscurò il Sole ricoperto tutto

di sangue e di vergogna, si poteva / dire che ormai la guerra fratricida

era già incominciata. D'altra parte / anche la Luna si oscurò negando

luce allo scempio. Da sui monti i gioghi / rovinavano a valle e le correnti

dei fiumi fuoruscendo dalle rive / andavano a morire in mezzo ai prati.

Rimbomba il cielo al rimbombar delle armi / e la tromba di guerra Marte chiama

e l'Etna fiammeggiando scaglia al cielo / bagliori enormi e massi incandescenti.

Spettri d'uomini morti si rincorrono / tra i campi insanguinati e mesti gridano

minacce contro tutti in mezzo ai mucchi / d'ossa insepolte e ai tumuli di pietre.

Una cometa fiammeggiante seguono / torme di stelle mai vedute prima:

spande Giove dovunque vasti incendi / e dal cielo discende come pioggia

che non è pioggia ma soltanto sangue. / Ma il dio tali presagi presto scioglie.

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Perché Cesare al fin desideroso / di vendicarsi delle gravi offese

recategli da Roma. Pone fine / agli indugi e lasciate le armi galliche

impugnò quelle che lo conducevano / contro color che a Roma gli eran contro.

Sulle alte Alpi là dove digradano / in modo da lasciar passare gli uomini,

là dove passò Ercole e dove ora / c'è un tempio che gli è stato consacrato

c'è un luogo che l'inverno seppellisce / sotto una neve dura e insormontabile

e al ciel lo innalza con la bianca vetta. / Sembra che il cielo lì precipitando

alla neve si unisca e sbarri il passo / a chiunque tentasse di passare.

Non lo addolcisce il sole coi suoi raggi / né le tiepide brezze a primavera

ma tutto giace sotterrato sotto / la neve che l'inverno prende e ghiaccia

in un gelido manto irremovibile. / Quella mole da sola sosterrebbe

il mondo intero sulle proprie spalle.

L'ARRIVO DI CESARE

Quando Cesare calca questi gioghi / coi soldati festanti e vi si accampa

dalla cima più alta e si sospinge / verso i campi d'Italia e le sue terre

e da quel luogo al cielo rivolgendo / le palme e le preghiere così dice:

“ O grande Giove e tu, terra d'Italia, / un tempo lieti delle imprese mie

e dei trionfi con cui vi onorai / oggi vi invoco come testimoni:

non per mia volontà io oggi chiamo / Marte sul campo di battaglia e alle armi.

Ma è la vergogna che a questo mi spinge / d'esser stato da Roma esiliato

mentre per Roma combattevo contro / quei Galli che l'afflissero in passato

e che di nuovo stavano mirando / al nostro Campidoglio; mentre cerco

di trattenerli al di là delle Alpi / e proprio mentre accumulo vittorie

su vittorie mi vedo più costretto / ad un esilio che mi è insopportabile.

Ben sessanta trionfi riportai / sui Galli e diventò questa la colpa

l'unica colpa che mi si potesse / attribuire... ma da chi? da gente

vile ignobile rozza mercenaria / di cui Roma è matrigna, non è madre.

Ma non sarà un codardo ad imbrigliare / questa mia destra senza la vendetta

che poi dovrà subire certamente. / Soldati miei, correte dunque verso

la vittoria che attende e che voi soli / ottenere potrete combattendo.

L'accusa infatti ci riguarda tutti /e su tutti ricade il disonore

della sconfitta. Che non ci sarà / perché onore io rendo al vostro merito:

da solo certo non avrei mai vinto. / E poiché la vittoria meritata

sventa la punizione che sovrasta / chi perde ed è sconfitto, il dado è tratto:

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deciderà la Sorte il vincitore. / Guerra vogliono? Ebbene guerra sia!

Affidate la vita al vostro braccio. / Il fatto è certo. E' inutile discutere.

Avendo al seguito voi sono invincibile!” / Detto ciò, su dal cielo alto levato

fendendo l'aura con ampie volute / il falco del dio Apollo mostrò a tutti

che l'Olimpo era tutto favorevole. / E da un bosco vicino sterminato

voci mai udite prima si levarono / a incoraggiare il prode condottiero

a cui una fiammata spaventosa / fece seguito tanto che persino

il Sole ebbe accresciuto il suo splendore / e il disco suo adornò d'ampi bagliori.

CESARE PUNTA SU ROMA

Incoraggiato dai presagi Cesare / muove le insegne e a capo del suo esercito

compie imprese fulminee inenarrabili. / Dapprima passa il valico innevato

perché né il ghiaccio né la neve possono / fermare quell'esercito guidato

da un generale tanto coraggioso. / La resistenza dei monti fu crudele:

carri e cavali caddero inghiottiti / dal ghiaccio inesorabile e qua e là

si vedevano corpi ammonticchiati / d'uomini morti uccisi dal rigore

di un freddo insopportabile, ma Cesare / con la sua lancia si faceva largo

fra ghiacci e neve e brume insormontabili / come Ercole o anche come Giove

corrucciato che ostacoli disperde / col divino potere incontrastabile

per discendere in terra e sotterrare / i superbi Titani a lui ribelli.

TERRORE A ROMA E FUGA DI POMPEO

E mentre varca impavido e furente / le rocche alpine che la neve chiude

la Fama vola verso Roma rapida / dove ogni statua per sua bocca parla

e dice che sul mare navigando / flotte arrivano a Roma e che le Albi

grondano ormai di sangue transalpino. / Agli occhi dei Romani si presentano

immagini di sangue, stragi, incendi, / di armi e di catastrofi e di morte.

I cuori martellati dal terrore / si scindono in due schiere: sceglie l'una

di fuggire via terra mentre l'altra / di affidare a una nave il suo destino

perché il mare oramai è più sicuro / del patrio suolo. Però c'è qualcuno

che affida ormai alla Sorte, / armi in pugno, la vita. In conclusione

quanto più teme ognuno tanto più / fugge lontano dalla propria terra.

Il popolo travolto dal frastuono / di voci che si intrecciano abbandona

la città non sapendo dove andare. / Basta una diceria senza costrutto

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e tutta Roma fugge impaurita / abbandonando case beni e amori.

Chi trascina per mano il figlioletto, / chi le ceneri porta dei suoi cari

abbandonando casa ed ammazzando / nel pensiero il nemico che già avanza.

Chi scoraggiato piange tra le braccia / della propria consorte ed a lei lascia

il vecchio padre. E i giovani, ignorando / ogni fatica, portano con sé

sol ciò a cui si sono affezionati. / L'incauto porta invece proprio tutto

ma lo trasporta ahimè per consegnarlo / al nemico che intanto si avvicina.

E come quando l'Austro imperversa / e trascina la nave in mezzo ai gorghi

e ognuno cerca di porre riparo / correndo chi ai remi e chi alle vele

e chi al timone e chi alla zavorra, / così.... Ma che sto io qui ad insistere?

Insieme coi due consoli Pompeo, / lui un tempo terrore del Mar nero,

lui baluardo in mar contro i pirati, / lui celebrato con ben tre trionfi,

a cui si genuflessero sconfitti / il Caucaso ed il Bosforo ed il Ponto,

abbandonato il titolo di capo, / si rassegnò alla fuga perché il Fato

la sua viltà mostrasse al mondo intero.

FUGA DELLE DIVINITA' PACIFICHE

Chi mai aveva visto una rovina / così grande e cruenta da creare

spavento negli dei oltre che agli uomini? Una schiera di dei terrorizzati

abbandonò la terra sola e inerme / allo scempio di fronte e a tanto sangue.

La bella Pace dalle nivee braccia / nascondendo nell'elmo il capo vinto

guida la schiera delle dee e la porta / a rifugiarsi nell'inesorabile

regno di Dite ed è a lei compagna / la Fede silenziosa e coi capelli

sciolti piangendo segue la Giustizia / e affranta la Concordia con le vesti

lacere; ma di contro ecco la schiera / guerrafondaia degli dei degli Inferi

che segue Dite: la terrificante / Erinni minacciosa e la tremenda

Bellona con Megera che s'è armata / di torce e la Sciagura che decreta

morte a chi incontra e poi il Tradimento / e lo spettro crudele della Morte.

Libero e a briglie sciolte va il Furore, / solleva a tratti la sua testa lorda

di nero sangue e il volto devastato: / innumeri ferite sotto l'elmo

nasconde, anche questo insanguinato. / E Marte stesso lascia penzolare

lo scudo appesantito da migliaia / di frecce e va brandendo con la destra

una torcia che sparge dappertutto / incendi e distruzione dove arriva.

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LA CADUTA DEGLI DEI

Cadono sulla terra gli dei affranti, / perdon le stelle il loro peso antico,

precipita l'Olimpo e si divide / schiantandosi in due parti. Nel frattempo

Venere guida Cesare e con lei / lo guidano Minerva con Quirino

che libbra l'ascia sua terrificante. / Apollo e la sorella invece stanno

con Pompeo Magno insieme con Mercurio / e con Ercole sire di Tirinto

simile al dio in tutte le sue imprese. / Rimbomba il suono delle trombe

e allora la Discordia leva il capo / verso gli dei Superni. Aveva sangue

rappreso sulla bocca ed i cisposi / occhi copiose lacrime riempivano,

digrignava i suoi denti arrugginiti / mentre il sangue scorreva sulla lingua

circondato era il volto di serpenti / e una veste cenciosa le copriva

il petto mentre lei brandiva in alto / con la destra tremante una fiammante

torcia dalle scintille insanguinate. / Appena ebbe lasciato il regno d'Ade

s'incamminò cercando l'Appennino / e dall'alto del monte volse gli occhi

verso le terre e i lidi dell'Italia / dove caterve d'uomini sconvolti

c'erano senza meta né orizzonte. Di lì discese e il petto furibondo

queste parole emise dal profondo: / “All'armi, cittadini, all'armi, all'armi:

scagliate in alto torce e i cuori ardenti / date alla furia della guerra contro

la città che rovina. Sarà vinto / chiunque si nasconde sia che esso

sia una donna o un bimbo oppure un vecchio / che gli anni hanno già vinto;

tremi la terra e insorgano le case /ad una ad una anche se dirute.

Tu Marcello la legge imponi a tutti / ma tu Curione eccita la plebe

e tu, Lentulo, Marte non frenare. / Divino Giulio, perché mai tentenni

e raffreni il furore che alle porte / della città ti spinge ed alle mura

e non le radi al solo per razziarne / i tesori nascosti? Se non sai

proteggere di Roma i sette colli / vai a Epidamno e fai scorrere il sangue

per tingere di rosso i litorali / della Tessaglia.” Così disse quella

e tutto quel che disse si avverò.

Sembrava che li avesse misurati quei versi orrendi scopiazzati da Virgilio e

da Lucano. E infatti quando ci annunciò che la sua ispirazione era

venuta meno entrammo finalmente a Crotone. Ci ricoverammo nel

primo alberghetto che trovammo con l'intenzione di cercarne in

seguito uno migliore. E il giorno successivo, rinfrancati, ci

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mettemmo in cerca, ma ecco venirci incontro un gruppo di

cacciatori di eredità. Vedendo che eravamo stranieri ci

subissarono di domande sulla nostra provenienza e sulla nostra

identità. Noi rispondevamo secondo gli accordi presi il giorno

prima ma con tali coerenza ed enfasi che nessuno dei presenti

ebbe il minimo dubbio sulla verità delle nostre informazioni.

Naturalmente incominciò subito il corteggiamento ad Eumolpo. I

più cretini lo riempivano di doni con la speranza di accattivarsi le

sue simpatie; i più furbi insieme ai doni solleticavano la sua vanità

chiedendogli di dare una prova della sua bravura letteraria. Non si era mai

visto un uomo così ricco e nello stesso tempo così colto. Eumolpo non si

fece pregare molto. Io tremai al pensiero di una altra gragnuola di versi

inascoltabili. Eumolpo dichiarò che avrebbe raccontato loro una novella

divertente, che in realtà aveva scelto per comunicare a quegli ingenui i suoi

gusti sessuali nella speranza che qualche cacciatore di eredità pur di

conquistarlo, insieme ai doni, gli portasse qualche bel figlio giovinetto.

E incominciò: “Quando militavo nelle fila del centurione Tito Quinzio

Aulente, un energumeno, che si chiamava così perché non si lavava mai, mi

aveva dato l'incarico pericolosissimo di esploratore, per fortuna insieme al

mio amico Tullio, che era anche lui una specie di montagna capace di

sbaragliare anche venti uomini tutti in una volta. Ci faceva fare, quello

stronzo, ventimila “passi” al giorno, dieci all'andata e dieci al ritorno, a

cavallo naturalmente, sicché quando ci capitava di acchiappare un giaciglio

ci addormentavamo senza obbligo di rendere conto a lui del tempo

impiegato. L'importante per lui era che, quando ci aveva assegnato un

sentiero da esplorare noi tornassimo con tutte le osservazioni che gli

occorrevano per spostare lungo quel sentiero l'accampamento, se glielo

ordinava la sua centuria. Capitò una volta che il percorso da esplorare fosse

particolarmente lungo e molto accidentato, per cui avremmo potuto

incappare in una grande quantità di tranelli e perciò ci vollero giorni e giorni

di esplorazioni prima che Aulente si sentisse al sicuro nel caso di uno

spostamento lungo quel tracciato. A noi la cosa non dispiacque affatto

perché giusto a metà strada c'era una taverna dove si mangiava bene e a poco

prezzo e dove c'erano anche donne, diciamo così, disponibili, che, se

dormivamo lì, Tullio se le portava a letto con pochi soldi.

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A quel porco piacevano le donne, ma io sbavavo per Tarcisio, il giovane

figlio dell'oste, di una bellezza tale che mi aveva fatto innamorare come un

adolescente alla prima esperienza. Non parlava la mia lingua e ciò mi

intrigava ancora di più. Se veniva lui a prendere gli ordini gli dicevo in

latino, accompagnandomi con la mimica, per far ridere Tullio: “Io voglio il

tuo culetto, ma senza vino né zucchero, perché voglio mangiarmelo così

com'è al naturale.” Tarcisio non capiva, rideva come se invece avesse

capito, e regolandosi dal mio gesto mi portava mezzo cocomero che era

dolce sì ma non come ciò che io volevo da lui. Una volta, poiché non mi

vedeva nessuno, a parte Tullio, che conosceva bene i miei gusti in fatto di

sesso, fingendo di spiegargli cosa volevo, gli misi entrambe le mani su

quella meraviglia e lo attrassi a me per baciarlo. Si divincolò adirato, sbatté

la scodella di legno sul tavolo e se ne andò. Dissi a Tullio: “Sfodera la spada

che stavolta so' cazzi!” Tullio non se lo fece dire due volte e vedendo

arrivare padre e figlio, balzò in piedi e sfoderò davvero la spada. Ma il padre

fece subito capire a gesti che aveva intenzioni pacifiche. Fece inginocchiare

Tarcisio e gli fece abbracciare le ginocchia di Tullio come per chiedere

perdono. Allora balzai subito in piedi anch'io e l'amore mio fu costretto ad

abbracciare in ginocchio anche le mie gambe. “O dea Venere,” pregai in

silenzio, “fa che ciò accada anche quando siamo da soli in camera da letto.”

E così dicendo lo presi per le ascelle, lo feci alzare e prima di lasciarlo lo

strinsi a me baciandolo sulle guance, non senza una leccatina. Avrebbe

potuto schivare le mie labbra lascive ma capiva che ormai non c'era niente

da fare. Il padre avrebbe interpretato quei baci come un segno di perdono e

non di lussuria e qualsiasi sua resistenza sarebbe stata inutile. Ma c'era di

più: quel ragazzetto aveva ormai ceduto al mio corteggiamento. Aveva paura

del padre; anche spiegandosi con lui, il padre non gli avrebbe creduto;

insomma era costretto, poverino! a concedermisi. Ormai si trattava solo di

aspettare l'occasione. Che però non veniva mai.

Tullio mi voleva bene, ma incominciava a stancarsi. “Basta!” mi diceva,

“Sei un buono a nulla; se era una ragazza da mo' che me l'ero scopata.” “Ma

io lo amo!” gli dicevo, “non voglio fargli violenza né esporlo al dileggio

della sua famiglia.” Non so quante notti feci dormire Tullio in quella piccola

taverna che aveva solo una stanza da letto nella quale l'oste ci ricoverava

quando glielo chiedevamo restringendo la famigliola tutta nell'altra camera:

lui e la moglie nel letto grande, Tarcisio in un lettuccio a fianco al letto, la

culla di un altro figlioletto che essi avevano avuto da poco dall'altra parte

del letto e... basta, perché la stanza già così era piena come un uovo.

Una sera però... Venere aveva ascoltato le mie preghiere e quella sera

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finalmente potei raggiungere il culmine dei miei desideri. Di ritorno da una

faticosissima esplorazione, ci fermammo a mangiare in quella taverna e,

dopo aver cenato, essendosi fatto molto tardi, chiedemmo all'oste di

ospitarci come sempre. L'oste che era un fifone e bastava parlare latino con

un accento imperioso per farlo cacar sotto si inginocchiò come aveva fatto

fare al figlio e piangendo coi gesti ci fece capire che aveva già affittato la

stanza non pensando che noi quel giorno a quell'ora saremmo ripassati.

Tullio mi fece capire che ci dovevamo rimettere a cavallo e marciare verso

l'accampamento. Ma lo disse ovviamente molto incazzato per cui l'oste si

spaventò ancora di più e sempre a gesti ci fece capire che se avessimo

accettato di dormire in due nel lettino di Tarcisio avrebbe improvvisato un

giaciglio per il ragazzo in fondo al loro letto nuziale. Era intelligente, Tullio!

Capì al volo che quella era la volta buona per far passare anche a me una

notte ruggente. Mi strizzò l'occhio e accettò senza discutere, dicendo che

eravamo molto stanchi e che perciò una sistemazione qualunque ci stava

bene.

Durante la notte tutto sembrava tranquillo e né io né Tullio avremmo

potuto immaginare che... a un certo punto si sentì un rumore nell'altra parte

della casa e la donna, preoccupata per i suoi figli, si alzò per andare a vedere

di cosa si trattasse. Il marito russava beatamente e perciò lei, visto che era

tutto in ordine, approfittò anche per andare a fare i suoi bisogni nella latrina

antistante l'osteria. Era una notte tranquilla e forse il rumore che si era

sentito era solo la gatta che, spostandosi incautamente, era caduta dal

trespolo nel quale di solito si accoccolava per dormire.

Appena uscita la donna, visto che l'oste russava, mi alzai deciso, lasciando

solo Tullio, raggiunsi Tarcisio non dopo aver spostato dall'altra parte del

letto la culla del bambino che mi intralciava e lo trovai sveglio come se mi

aspettasse. Che baci, quali carezze e quali abbracci, quante volte estrassi la

spada dal suo fodero e quante volte l'elsa mi si drizzò di nuovo in mano.

Avrei voluto mangiare quel corpo delizioso e, non potendo farlo, quando

riuscivo a prendere tra le mie labbra la sua, di spada, lo facevo godere

succhiando il latte da quel prodigioso capezzolo turgido. Tarcisio miagolava

come una gattina in calore e sembrava che anche lui non avesse aspettato

altro che quella meravigliosa notte di equivoci per spassarsela a dovere. Il

padre russava e lui ansimava senza ritegno, sicuro di nascondere nel russare

del padre sospiri e gridolini di piacere. Quando però capì che la madre stava

tornando mi mise le mani a posto e mise una delle sue sulla mia bocca in

modo che anch'io ponessi fine ai miei sospiri lussuriosi. Che meraviglia

restare così avvinghiati senza poter godere e sentire solo il palpito del suo

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cuore come se fosse l'unico cuore a battere per entrambi!

La donna rientrò, cercò il suo letto, ma, poiché io avevo spostato la

culla del bambino, ingannata dal punto di riferimento cambiato, invece di

rientrare nel suo, di letto, rientrò in quello di Tullio dove c'era il posto da me

lasciato libero. E Tullio, senza porsi domande inutili, trovandosi gratis tra le

braccia quella splendida tardona, bella almeno quanto il figlio, anche lui

sfoderò e rinfoderò la spada più volte con grande meraviglia della donna, la

quale, pensando che fosse il marito, gli diceva godendo come una porca:

“Questa sera non russi come sta facendo Tullio, marito mio.”

Io naturalmente, approfittando dell'inaspettato secondo atto, non ci

pensai due volte a rinfoderare ancora la mia spada con grande piacere di

Tarcisio fino a quando tutto quel sollazzo non fu interrotto dall'oste che

svegliatosi e non trovando la moglie al suo fianco la chiamò dicendole:

”Vespa, quanto tempo ti ci vuole per tornare a letto?” Le donne! Vespa capì

al volo la situazione. Balzò in piedi e gli disse: “Eccomi, eccomi, sto

sistemando il bambino che piangeva.” e così dicendo rimise la culla al posto

suo e permise a me di ricoricarmi, ma ahimè questa volta con Tullio. A quel

punto ringraziai la dea e le dissi mentalmente: ”O grande provvidenza di

Venere che spargi nel mondo i piaceri della bellezza e dell'amore e dai a

ciascuno il suo senza che egli sappia che sei tu a darglielo né perché.” E

pensando alla dea mi addormentai tra le braccia di Tullio che mi conciliò il

sonno accarezzandomi delicatamente i capelli, pensando a sua volta, come

mi rivelò al mattino, di stringere ancora tra le braccia quella matrona

insaziabile.”

Finita la narrazione, ci fu una salve di applausi che provocò il diffondersi

della fama di Eumolpo nella città in men che non si dica. Arrivavano doni.

Arrivavano stuoli di ragazzi nudi che improvvisavano danze intorno a lui

nella speranza di essere prescelti da quel porco per i suoi piaceri. Ma il

porco, data l'abbondanza, faceva anche lo schizzinoso. Li rimandava

indietro dopo avergli palpato a tutti il sedere per fargli una specie di

preesame e commentava schifato: cos'è questa plebaglia, io cerco un

giovinetto come questo, e indicava Gitone, che sappia leggere e scrivere e

far di conto. Ho bisogno di un amasio ma anche di un contabile che mi faccia

anche da segretario: non posso riempire l'albergo di giovinetti che

schiamazzano e non fanno dormire nessuno.

E come arrivavano i ragazzi, così arrivavano doni su doni e questo

andazzo non sembrava voler cessare mai. Eumolpo al colmo del

successo selezionava i suoi seguaci fissi e si vantava con loro che

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nessuno poteva più di lui avere influenza sui più potenti della città.

Le sue conoscenze gli garantivano l'impunità, a lui e ai suoi

protetti, anche se si fossero resi responsabili di qualche illecito.

Noi, mangia e mangia, che non ci sembrava vero, eravamo tutti

diventati belli pienotti e io in particolare avevo acquistato peso in

eccesso cosicché pensavo che la Fortuna avesse distolto i suoi

occhi dalla vigilanza su di me, come faceva una volta per

mantenermi un fisico bello e sano. Ma il pensiero per me più

assillante era un altro. Mi chiedevo che cosa sarebbe successo di

noi se qualcuno fosse venuto a sapere la verità. Eumolpo aveva

selezionato tra i ragazzi più belli un servitore personale, un tale

Corace, innamoratissimo di lui e al quale sotto le coperte aveva

rivelato la nostra vera identità e il mio terrore era che il ragazzo

potesse anche involontariamente uscirsene con qualcuno. In

questo caso saremmo dovuti fuggire di nuovo e ci saremmo dovuti

di nuovo rassegnare ad una vita grama per sopravvivere alla quale

ci saremmo dovuti ridurre a chiedere l'elemosina. Pensavo: “O dei,

come è brutto vivere al di fuori della legge: non si dorme mai

tranquillamente e si sta sempre ad aspettare che prima o poi

qualcuno ci dia quello che ci meritiamo.”

Circe e Polieno/Encolpio

Intanto in mezzo a tutta quella gente che corteggiava Eumolpo si

trovava anche, non notata da me, una donna di bellezza straordinaria che

però stava cercando di prendere due piccioni con una fava. Come venni a

sapere in seguito io le piacevo moltissimo e quindi pensava, la furbetta, di

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venire a letto con me e tramite me arrivare al testamento di Eumolpo. Era

molto colta. Leggeva Omero in traduzione ma anche in greco ed era

talmente infatuata di quel grande poeta che rinominava tutti con nomi presi

dall'Iliade o, più spesso, dall'Odissea. Io non ho mai saputo come si

chiamasse veramente. Come Circe si era presentata e come Circe io la

ricorderò per sempre. E me, pensate un po', mi aveva chiamato “Polieno”,

cioè col nome dell'amante più amato da quella puttana di maga. E omerico

era anche il nome della sua ancella, Criside, incaricata da lei di avvicinarmi

e di fare da ruffiana fra noi due. La ragazza, a sua volta di notevole bellezza,

si fece notare da me con il trucco più banale che le donne hanno per attirare

l'attenzione dei maschi. Camminavamo entrambi nel mercato di Crotone che

è sempre così affollato e lei, che mi si era messa davanti, mi ostacolava,

avresti detto volontariamente, spostandosi sempre sulla direzione che io

ogni volta cambiavo per sorpassarla. A un certo punto, non potendone più,

la sollevai di peso e le dissi: “E lèvati, scema!” “E che maniere!” fece lei

continuando con una serie di insulti fra i quali 'maleducato' è il più ripetibile.

“E smettila, le dissi, che non ti ho fatto niente.” “Non mi hai fatto niente, ma

mi hai fatto cadere tutta la spesa. Guarda qua, ora mi tocca raccoglierla,

altrimenti chi la sente la mia padrona.” Adirata era ancora più bella e il mio

istinto mi spinse ad approfittare chissà perché di quell'occasione per

approfondire la conoscenza. “Dai che ti aiuto, tu però potresti stare più

attenta quando cammini.” A quest'ultima mia battuta lei rispose con un

sorriso ammiccante che mi fece capire subito la situazione. Che volete che

vi dica? Il bischero non voleva più funzionare ma l'istinto di maschio era in

me, nonostante ciò, così forte che non resistetti al fascino di quegli occhi e

di quel corpo mezzo nudo, tipico delle schiave: lei non sembrava essere una

schiava, e così intrecciai con lei una relazione fatta di parole, talvolta di

carezze che io però non spingevo mai oltre perché sapevo che il mio

fratellino non avrebbe apprezzato quanto me quel ben di dio che si

esprimeva con una voce ancora più incantevole dei suoi occhi. Lei d'altra

parte non sembrava molto interessata ad andare oltre. Sembrava piuttosto

interessata a farmi parlare e ad estorcermi la verità sulla nostra presenza a

Crotone e in ogni caso su tutto quello che mi riguardava. Eravamo, per così

dire, due sorelle; anzi no, due lesbiche alla prima esperienza che non sanno

bene quale strategia adottare per arrivare ad una intimità più profonda in cui

rivelarsi l'una all'altra per quelle che sono. A me la cosa piaceva molto e

sembrava piacesse anche a lei. Ma le donne la sanno sempre più lunga di

noi maschi. Come lesbica, che non era, Criside non aveva alcuna strategia,

ma come donna sapeva bene sempre dove doveva e voleva arrivare.

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E così un giorno, di punto in bianco, mentre sembrava essersi quasi

assopita fra le mie braccia mi fa: “Ormai ho capito tutto: tu lo sai di

essere bello, perciò te la tiri per prostituirti a caro prezzo: i tuoi

favori non li regali, come si dovrebbe, ma vuoi farteli pagare.

Perché ti cureresti tanto attentamente i capelli, perché avresti

sempre il volto truccato e, soprattutto, perché ostenteresti sempre

un molle ammiccare nei tuoi sguardi, un passo attentamente

studiato in modo che non travalichi mai l'andamento da te voluto

se non per fare in modo che la tua bellezza attiri degli ammiratori

e ti permetta di prostituirti? Io non sono una maga, ma non c'è

bisogno di essere una maga per capire una persona dal suo

aspetto, dai suoi sguardi e dal suo modo di comportarsi. Perciò, se

ho indovinato, sappi che io ho pronto l'amatore che comprerà i tuoi

amplessi; se invece tu, da gentiluomo, volessi offrirglieli

gratuitamente, sappi che te ne sarei infinitamente grata.

Considera che la tua ritrosia e il tuo frequente mettere avanti che

sei uno schiavo di basso livello che non può aspirare all'amore di

una signora attizzano ancora di più il fuoco di chi già arde dal

desiderio di averti tra le braccia. Ci sono donne, lo sanno tutti, che

si eccitano per la plebaglia e non riescono a lasciarsi andare se

non tra le braccia di schiavi o messaggeri che girano con la veste

tirata su e legata alla cinta. Ad altre piacciono gli acrobati del circo,

ad altre ancora mulattieri impolverati da un lungo viaggio, ad altre

infine i guitti di teatro che devono mostrare a tutti per mestiere le

loro doti. Questo è il temperamento della mia padrona: a teatro lei

abbandona la platea e va cercare nel loggione, fra i poveracci, il

lacché sessuale per farsi sbattere come piace a lei.”

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Più che lusingato da quel discorso inatteso, ma non tanto

corto da non consentirmi di riflettere, la interrompo all'improvviso

e le chiedo: “Non stai mica parlando di te?” Rise di cuore e mi

rispose: “Sei così sicuro di te e del tuo fascino? Non è proprio il

caso, almeno per quanto mi riguarda. Fino ad ora io non sono mai

andata a letto con uno schiavo e voglia il cielo che io non debba

mai spedire i miei amplessi sulla croce di qualche mio amante. Le

signore facciano pure se si divertono a baciare i segni delle

frustate sulle schiene dei loro amanti; io per me se non è almeno

un cavaliere a letto non ci vado, anche se sono una schiva.”

Non c'è che dire, la cosa mi colpì molto. Mi pareva strano che

le donne di Crotone avessero invertito le loro preferenze in fatto

di amanti: le padrone con gli schiavi e le schiave con i padroni. Ma!

Comunque dissi a Criside che mi facesse incontrare questa

signora in un bel bosco di platani che c'era allora a Crotone e la

ragazza accettò di buon grado la mia richiesta.

Non ci volle molto. Si tirò un po' più su la veste e si dileguò

entro un bosco di alloro che fiancheggiava la passeggiata e dopo

un po' ricomparve tirando fuori da quel nascondiglio la sua

padrona... la donna più bella in assoluto che io abbia mai visto in

vita mia! Non credo che potrei mai riuscire a descrivere a pieno la

sua bellezza e infatti le mie parole non sono adeguate né sono

capaci di farlo. I lunghi capelli ondulati le ricadevano sulle spalle

coprendole completamente e partivano da una fronte minuscola

per ricadere graziosamente all'indietro, le sopracciglia coprivano

tutto l'arco dell'occhio arrivando fino all'inizio delle guance e

dall'altra parte arrivavano quasi a congiungersi all'altezza degli

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occhi, i quali erano più brillanti delle stelle quando non c'è la luna,

le narici erano delicatamente ripiegate verso l'interno e la

boccuccia doveva essere come quella di Diana scolpita da

Prassitele. Ma che dico, Prassitele? Il mento, il collo, le mani, i

piedi, le gambe adorne di una sottile catenina d'oro, il nitore della

sua pelle, tutto, tutto superava di molto il marmo di quel grande

scultore. Il bellissimo ricordo che avevo di Doride, un mio vecchio

amore, fu piano piano oscurato da quell'immagine stupenda di

donna. Perciò non potei fare a meno di declamare i versi che mi ispirò

all'istante:

“Ma che è successo, Giove, che tu, smesse

le tue armi d'un tempo, te ne stai

muto e silente fra gli dei del cielo?

Per costei ti dovresti trasformare

in un toro infojato o in un bel cigno.

Questa è la vera Danae: tu prova

solo a sfiorarle quel suo corpo splendido

e le tue membra tutte bruceranno

al fuoco ardente del tuo desiderio.”

Lusingata, la donna sorrise con tanta dolcezza che mi parve

di vedere la luna quando si affaccia dietro una nuvola. Poi

accompagnando le sue parole con delle mosse graziose mi disse:

“Se ti può piacere una donna distinta che ha solo da poco provato

l'uomo per la prima volta, io posso fornirti, bello, una sorella. E'

vero che tu hai già un fratello: ho preso le mie informazioni. Ma

cosa ti vieta di adottare anche una sorella? Io vengo allo stesso

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titolo di lui. Tu degnati soltanto di conoscere, quando ti pare, i miei

baci.” “Non ci siamo” dissi, “sono io che in nome della tua bellezza

ti prego di accogliermi, straniero, nella cerchia dei tuoi ammiratori.

Lasciati adorare: sarò il tuo servo più fedele! Lascia che io entri

nel tempio dell'Amore: non mi presenterò a mani vuote, ti porterò

in dono il mio fratellino.”

E lei: “Che dici? Mi vuoi offrire in dono la persona senza la

quale non puoi vivere, che ha legato il tuo cuore ai suoi baci, che

ami con la passione con cui io vorrei che amassi me?” Che voce,

ragazzi! Lei parlava e a me pareva di udire il coro delle Sirene. La

ascoltavo sedotto dalla sua grazia e dalla sua voce: la luce era

diventata così intensa che mi sembrava di non vedere altro che lei.

Chiesi il suo nome. “Ma come?” disse, “La mia ancella non ti ha

detto che mi chiamo Circe. Non sono, per la verità, figlia di dei,

però lo interpreterò come un segno degli dei se il destino vorrà

unirci. Sono sicura che già adesso il misterioso influsso di un dio

sta macchinando qualcosa. Non è senza motivo che Circe ama

Polieno: questi due nomi insieme fanno sempre scintille. Prendimi,

dunque, se vuoi. Non temere occhi indiscreti: il tuo fratellino ora è

lontano da qui.”

Stavamo davvero al riparo da sguardi indiscreti su un prato

ricoperto da una manto d'erba con fiori di vario colore. Lei mi

strinse tra le sue braccia delicate come una piuma e dolcemente

mi accompagnò facendomi scivolare a terra. Mi strinsi a lei e di

nuovo non potei fare a meno di declamarle i versi che quell'amplesso mi

dettava dal profondo.

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Quali furono i fiori che dall'Ida

la madre Terra riversò dall'alto

quando il suo amore a lei concesse Giove

col cuore e il petto ardenti di passione

(rose e viole e il cipero ed il verde

prato era tutto un luccicar di gigli)

così la terra ora alle dolci erbe

ci invita... e favorisce il nostro amore

segreto questo giorno luminoso.

Quanti baci allacciati su quel prato e che lusinghe di un

maggior piacere! Ma quali fiori, che baci, quali amplessi? Più glielo

strofinavo sulla fica più quello stronzo rimaneva moscio! Più le agguantavo

con le mani i glutei entrandole coi pollici nell'ano più la débacle stava sotto

gli occhi miei e di lei. Armeggiammo parecchio perché il gioco ci piaceva,

e anche tanto, ma si sa che qualsiasi bel gioco dura poco. Quando lei capì

che il mio fratellino era vittima di una irreversibile impotenza

mi guardò dritta in viso ed arrossendo mi disse: “Che succede? Per caso

i miei baci ti fanno schifo? Forse per il digiuno mi puzza l'alito? O

mi puzzano le ascelle per il sudore che vi ristagna? O non è forse

il pensiero di quel frocetto che ti rende inattivo ed impotente?”

Arrossii in un modo così violento che sentivo il calore spandersi

sulle mie guance e se un pizzico di forze ancora mi restava lo persi

tutto irrimediabilmente sentendomi le membra squinternate. Le

dissi: “Ti supplico, mia regina, non insultare la mia condizione

infelice. Sono vittima di una fattura.”

“Ma quale fattura, vigliacco? Tu sei un frocione. Col tuo amichetto

come ti si addrizza! Lo capisco da come ti sbava appresso aspettando che il

tuo bischero alzi la testa dietro alle sue natiche.” Poi, inviperita, si alzò su

di scatto, mi mollò un calcio su una gamba e in lacrime si allontanò da quel

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prato correndo. Andava verso Criside che per discrezione si era tenuta

lontana dal luogo del nostro amplesso. Mi alzai anch'io e le corsi dietro per

tentare ancora di darle una spiegazione. Ma quando vidi che le due erano

intente a discutere tra loro mi fermai, non visto, poco distante. Circe le

diceva: “Dimmi senza riserve, Criside: sono una racchia? Sono una

donna inelegante? Ho qualche difetto che deturpa la mia bellezza?

Non ingannarmi, ti prego. Non so in che cosa, ma in qualche cosa

o io o tu abbiamo sbagliato.” Criside non rispondeva. Allora lei le

strappò di mano lo specchio, lo girò in tutte le direzioni con

l'allegria di chi è innamorato e osserva specchiandosi le doti che

dovrebbero sedurre l'amato, si alzò la veste che strusciava sul

terreno e corse a rifugiarsi nel tempietto di Venere. Io ero inebetito

e forse nell'ebetudine, a cui nel mio caso si aggiungeva l'orrore di

chi ha avuto una visione mostruosa, è la radice dell'ispirazione

poetica. Mi vennero in mente dei versi in cui mi interrogavo sulla

reale natura di quel piacere che il mio “fratellino” mi negava.

Come quando di notte arriva il sonno

e i sogni illudono i tuoi occhi stanchi

facendoti sognare che tu scavi

la terra e che la terra oro ti rende

e che tu con la mano disonesta

ti prendi la preziosa refurtiva

ed il sudore addirittura bagna

il tuo viso perché hai timore

che qualcun altro, messo sull'avviso,

ti derubi a sua volta, così subito

appena quel piacere si allontana

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dalla mente delusa ed alla vera

forma della realtà la riconduce

l'animo ciò che ha perso torna ancora

a chiedere e di nuovo si concentra

sull'immagine ormai fioca e perduta.

Preso dall'ispirazione non mi accorsi che le due donne erano entrate

nel tempio di Venere lì vicino. Allora incominciai a cercarle qua e là

chiedendo un po' a tutti e finalmente un sacerdote che usciva dal tempio

recando in braccio una bimba seminuda e insanguinata in ogni parte del

corpo mi disse: “Ma sì, sono due donne giovani molto belle, stanno proprio

davanti all'altare.” Corsi per raggiungerle ma davanti all'altare non c'era

proprio nessuno. Ricominciai a chiedere ma alla fine stanco mi misi seduto

su un muretto di mattoni che divideva due ambienti destinati a coloro che

volevano dedicare i loro amplessi alla dea. Ma in quel momento non c'era

nessuno e io ne approfittai.

Stavo in preghiera col viso basso e le braccia incrociate sul petto

quando due mani delicate mi coprirono gli occhi e una voce femminile mi

disse: “Indovina chi è?” Io pensai subito a lei, ma nessun elemento della

situazione avallava quella mia supposizione. “Criside!” dissi. “Chi è

Criside, traditore fedifrago?” Non era Gitone? che, tolte le mani dai miei

occhi e svelatosi, mi si presentò in tutta la sua fulgente bellezza. Lo

abbracciai piangendo e lo trascinai senza indugi in una delle stanzette vuote

e ben riparate del tempio. Anzi, per nostra fortuna c'era anche un mucchio

di paglia di cui feci un giaciglio per distenderci. La bellezza di Gitone! Ve

l'ho già descritta ed è inutile che mi ripeta, ma non mi fece effetto. Me lo

prese in bocca, me lo strinse in mano, se lo mise fra le natiche

massaggiandolo da professionista, tutte pratiche considerate da tutti le

migliori offerte che si possono fare alla dea Venere. Niente! L'unica offerta

che quella porcona di una dea avrebbe gradito, cioè la mia erezione, non si

verificava. Gitone stava per piangere, ma poi, in un ultimo disperato

tentativo mi mise in bocca il suo per farsi fare un pompino, e poiché io lo

eseguivo svogliatamente non andò a compimento o per la mancata

partecipazione di entrambi o probabilmente perché la dea non lo gradì;

infatti poco dopo arrivò una coppia a guastare la festa e incominciò a

sbattersi, mentre noi due dormicchiavamo in attesa di riprendere le forze

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dopo tutto quell'inutile armeggiare. Gitone mi disse con feroce ironia: “Non

mi hai tradito. Non avresti potuto tradirmi. Per questo motivo io ti

ringrazio e ti ringrazio anche perché mi ami con la correttezza di

Socrate. Alcibiade non avrebbe potuto levarsi dal letto del suo

maestro più intatto di me.” Io ero disperato, il pianto mi impediva

persino di parlare, lo accarezzavo ma la sensazione di impotenza mi faceva

impazzire. Tutto quel ben di dio tra le mani e non poterne trarre il piacere

che se ne poteva trarre. Imprecai contro tutti gli dei e in particolare contro

Venere che neanche all'interno del suo tempio poneva un veto alle angherie

di un altro dio, per di più minore, come Priapo. Cercai di rassicurare Gitone

con promesse che non sapevo se avrei potuto mantenere. Gli dissi che sarei

rimasto senza toccarlo per tre giorni e per tre notti e che poi sarebbe tornato

tutto normale, me lo aveva detto una sacerdotessa di Venere che avevo

interpellato in proposito. Mentivo e si vedeva chiaro che il ragazzo non mi

credeva. Aveva un sorriso beffardo che voleva significare che non valeva la

pena di rovinarsi la reputazione per me. Temeva di diventare lo zimbello

della gente perfino se si fosse fatto trovare con me in quel luogo

dove si offrivano alla dea accoppiamenti tra uomini. Perciò si

allontanò di corsa ma verso l'interno del tempio. Anch'io mi

allontanai piangendo e pensando che forse il mio amore era andato dalla dea

per pregarla di restituirmi ciò di cui Priapo mi aveva privato.

Me ne tornai a casa e mi sdraiai sul letto incapace né di dormire né di

stare sveglio. Sentivo solo le lacrime che fluivano dai miei occhi bagnando

il giaciglio e non consentendomi di pensare a niente. Ma ecco che arriva

Criside e mi porta una missiva della sua padrona: “Caro Polieno,

se io fossi una ninfomane o una puttana, ora mi lamenterei di

essere andata in bianco. Invece ti dirò di più: io ringrazio la tua

impotenza. E' stato bello prolungare i preliminari e non arrivare

mai al culmine del piacere. Però desidero sapere come stai. Sei

arrivato a casa con le tue gambe? I medici escludono che possa

camminare con le sue gambe chi è sprovvisto di muscoli. Dammi

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retta, ragazzo, vai da un medico. La paralisi è una brutta bestia.

Tu sei malato. Dalla cinta in giù sei già perduto. Se la paralisi arriva

alle ginocchia, puoi cominciare ad organizzare il tuo funerale. Io,

nonostante lo smacco, non sono né gelosa né vendicativa. Ti dico

io come fare. Rivolgiti a Gitone. Digli di dormire lontano da te per

tre giorni e vedrai che i tuoi muscoli riacquisteranno il loro tono di

sempre. Per quanto riguarda me, sono sicura di aver trovato in te

l'amante a cui piaccio di meno: me lo dicono lo specchio e la mia

reputazione. Addio, Polieno.”

Quando ebbi finito di leggere, Criside mi disse: “Sono cose

che capitano, queste, in questa città in cui le donne sono capaci

di tirare giù dal cielo la luna pur di far tornare sù quello che

vogliono. Dunque io e la mia padrona ci prenderemo cura anche di

questo problema. Tu scrìvile una appassionata lettera d'amore,

piena di parole dolci e persuasive e cerca di riconquistare il suo

cuore con l'eleganza delle tue espressioni. Ti dico la verità: da

quando ha subìto lo smacco non è più in sé.” Le obbedii

immediatamente e scrissi a Circe questa lettera: “Padrona mia,

ammetto di aver sbagliato più di una volta. Sono giovane, mi si può

comprendere. Però almeno fino ad oggi non mi sono mai

macchiato di alcun crimine nefando. Ma eccomi ora davanti a te

per proclamarmi reo confesso. Qualunque punizione vorrai

infliggermi sarà per me meritata. Ho tradito? Ho ucciso? Ho

compiuto sacrilegi? Pensa tu a punirmi e se la condanna è a morte

eccoti la mia spada, e se ti accontenti delle frustate vengo di corsa

già spoglio per offrirmi a te. Ricordati però che questa volta non

ho sbagliato io, ma il mio bischero. Io ero un soldato già pronto

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alla battaglia ma non potei impugnare la spada. Chi mi abbia

tradito non lo so. Può darsi che sia stato il pensiero correndo più

del corpo, può darsi che il corpo abbia corso più del pensiero

esaurendo la mia passione in breve tempo. Mi consigli di curarmi

la paralisi. Come se me ne potesse capitare una peggiore di quella

che mi ha mutilato del mio uccello. Concludo: se mi darai una

seconda possibilità io saprò soddisfarti come si deve. Addio, Circe.

Io sarò per sempre il tuo Polieno.“

Dissi a Criside che il giorno dopo avrei aspettato lei e la sua padrona

nel boschetto di lauri che era stato il teatro del mio fallimento. E dopo

averla salutata consegnandole la lettera per la sua padrona decisi

di dedicarmi un po' a me stesso per vedere se potessi in qualche

modo resuscitare la parte che mi aveva fatto fare quella brutta

figura. Evitai un bagno completo e mi limitai ad una breve frizione

di tutto il corpo; poi consumai un pasto più sostanzioso del solito:

cipolle, teste di lumache senza salsa e poco vino. Poi una breve

passeggiata per digerire e conciliare il sonno e infine mi coricai

senza Gitone. Era mia intenzione obbedire a quella bellissima

donna e avevo paura che il mio fratellino mi sfiorasse perfino il

fianco dormendo accanto a me.

La maga Proseleno e il secondo fallimento di

Encolpio/Polieno.

Il giorno successivo in gran forma mi addentrai nel

boschetto di platani, anche se quel luogo sfortunato mi faceva un

po' paura e mi misi ad aspettare in mezzo agli alberi l'arrivo di

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Criside che mi avrebbe indicato la strada. Il luogo era bellissimo ma

per me ingrato; l'ansia mi strangolava e così l'ispirazione non tardò ad

arrivare:

Fresche ombre nell'estate i tremolanti

platani diffondevano all'intorno

e l'alloro di bacche incoronato

e i tremuli cipressi e intorno i pini

le cui cime stormivano nel cielo.

In mezzo a queste piante verdeggianti

gorgogliava con acque spumeggianti

un rapido torrente chiacchierino

che lambiva con spruzzi e mormorii

le lucide rocciose amene sponde.

Un vero e proprio luogo per l'amore!

Aveva testimoni la canaria,

aedo delle selve, e l'usignolo

che svolazzando intorno, per i prati

e sulle viole, alle dimore loro

gorgheggi dedicavano dolcissimi.

Feci qualche giretto e poi mi sdraiai proprio nel posto del

giorno prima. Criside arrivò quasi subito portandosi appresso una

vecchietta. Mi salutò dicendomi: “Come va, bel tenebroso? Hai

deciso finalmente di mettere la testa a posto?” Anche la vecchia mi

salutò con un sorriso laido che però significava chiaramente che era felice

di poter manipolare un giovanottone come me. Criside le fece cenno di

cominciare e lei subito si attivò. Tirò fuori da una piega della veste una

cordicella di fili colorati che mi legò intorno al collo; poi impastò la sua

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saliva con una polvere che aveva con sé, la tirò su col dito medio e me ne

segnò la fronte anche se io cercavo di sottrarmi. Poi recitò:

Santo Priapo, rustico custode,

guarisci questo membro derelitto

tu che te ne stai lì sempre a cazzo dritto.

Recitò più volte questa preghiera che nella sua boccaccia sdentata

sembrava piuttosto una formula magica; poi mi ordinò di sputarmi tre

volte sul pisello e di gettarvi sopra delle pietruzze, da lei

consacrate precedentemente, che aveva portato con sé avvolte in

un panno rosso. Poi allungò le mani e cominciò a testare la

resilienza del mio pene. Incredibile! Quello in un attimo balzò sù e

si distese con vistosi scatti nelle mani di quella vecchia

incantatrice di serpenti. Lei me lo teneva ma nello stesso tempo

faceva salti di gioia anche lei dicendo a Criside: “Eccolo, Criside,

lo vedi che ho stanato la lepre, ma purtroppo... per altre

cacciatrici!” Criside allora la pagò e poi, presomi per mano, mi condusse

di corsa dalla sua e mia padrona. La trovammo in casa ed era chiaro che ci

stava aspettando.

Era mollemente sdraiata su un morbido letto ed appoggiava

il collo marmoreo su un cuscino dorato facendosi vento con un

ramo di mirto fiorito. Quando mi vide, arrossì, naturalmente

pensando al mio smacco del giorno prima; poi dopo aver

congedato tutti i presenti mi disse di sedermi accanto a lei e mi

pose sugli occhi il ramoscello di mirto con cui prima fendeva l'aria

calda dell'estate. Era una specie di paraocchi che la rese più

intraprendente: “Come stai, bel paralitico? Sei venuto qui con tutti

i tuoi pezzi?” Le risposi: “Non fare domande. Fai la prova.” e così

dicendo mi tuffai tra le sue braccia e le diedi un'infinità di baci che

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lei ricambiava appassionatamente.

La bellezza stessa del suo corpo mi invitava prepotentemente

e mi spingeva a godermi senza remore i piaceri di Venere. Già le

labbra risucchiavano le une dalle altre infiniti saporosi baci, già le

mani intrecciate avevano in precedenza esplorato le carezze più

impudiche, già i corpi erano avvinghiati in un amplesso

inscindibile, già i nostri sospiri risuonavano all'unisono quando quel

disgraziato mi tradì per l'ennesima volta; disperato lo sentii ritrarsi e

abbandonare lentamente il turgore che quell'amplesso magnifico gli aveva

provocato. Maledissi mentalmente Priapo e mentalmente cercai una via

d'uscita. Mi venne in mente il mito di Endimione che la dea Artemide amava

solo quando lui dormiva e stava dunque, pensavo, col pisello inerte e decisi

di ingannare il disappunto di lei raccontandole quel mito a mia parziale

giustificazione. Ma non feci in tempo ad introdurre il racconto e il nome del

bellissimo ragazzo amato dalla dea, che lei, donna istruita e, secondo me,

anche navigata, capì al volo la situazione e la mia intenzione, si ritrasse, si

levò e cominciò ad urlare come una pazza. E, ferita da quell'ennesimo

flagrante oltraggio, decise di prendersi la giusta vendetta. Chiamò

i servi e diede loro l'ordine di frustarmi. Poi non contenta di

quell'umiliazione che mi si infliggeva senza pietà, chiamò a

raccolta tutte le schiave e gli schiavi di infimo rango e ordinò loro

di sputarmi tutti addosso. Io mi proteggevo gli occhi con le mani e,

senza preghiere, perché ero convinto che la mia colpa era

manifesta, mi feci buttare fuori dalla casa a forza di frustate e di

sputi. Lo stesso accadde alla vecchia e la povera Criside fu

picchiata selvaggiamente dalla padrona mentre tutta la servitù

mormorava chiedendosi chi mai avesse potuto farla infuriare fino

a quel punto.

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Il monologo di Encolpio.

Fuori dalla casa di Circe cercai di raggiungere velocemente la mia

cercando di rassettarmi alla meglio e di dare il meno possibile nell'occhio

alla gente che mi incrociava. Senonché a un dato momento sento chiamarmi

proprio quando la gente che mi incrociava era più numerosa. Era Gitone che

insieme ad Eumolpo probabilmente stavano tornando a casa anche loro,

carichi di sacchi. Mi resi conto che per la vergogna avevo sbagliato

direzione. Cosa trasportate? Chiesi. Regali. Avevano con sé ogni ben di dio

per mangiare e vestirsi e anche per vendere perché spesso si trattava anche

di gioielli; addirittura nel fondo di un sacco da me rovistato su due piedi vidi

che c'erano anche delle monete. Esternai a quel punto il mio stupore. Ma

quel furbone di Eumolpo non mi permise di parlare e chiamandomi con un

nome finto, Cecilio, mi disse a voce altissima in modo che tutti lo sentissero:

“Aiuta Mèmnone (che in realtà era Gitone) e non ti meravigliare: altro che

questo devono portarmi se vogliono un po' della mia eredità.” Fummo

raggiunti subito da una schiera di bei ragazzi coi loro visetti truccati che ci

seguirono inscenando un graziosissimo balletto. Me li sarei fatti tutti quanti

lì, seduta stante, e quella donna stupenda... invece... non mi riusciva neanche

di pensare di convincere il mio arnese a soddisfarmi! Comunque.....

rianimato da quella imprevista compensazione delle mie disgrazie,

cercai immediatamente di coprire i segni delle frustate in modo

che Eumolpo non mi sfottesse per le ferite inflittemi e Gitone non

se ne addolorasse. Appena arrivati a casa, l'unica cosa che mi

riuscì di fare per salvare il mio onore fu di simulare un forte mal di

pancia, così mi infilai nel letto per scaricare tutta la mia rabbia

contro colui che era l'unica causa dei miei mali.

Tre volte presi in mano il mio fringuello

inerte come un frustulo di tirso,

ma tre volte fui preso dal timore

che quello ahimè non desse più risposta

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a me che ero lì tutto tremante

perché più non potevo fare quanto

invece prima mi piaceva tanto;

e infatti lui costretto dal terrore,

più freddo della bruma in pieno inverno,

mi si era nascosto in mezzo agli inguini

rifugiandosi sotto mille rughe,

sicché io non potei trovarne il capo

a cui infliggere l'ultimo supplizio,

ma depistato da quel manigoldo

ricorsi alle parole più violente

che potessero nuocergli di più.

Mi alzai appoggiandomi sul gomito non interessato e,

continuando a cercare di stanarlo, quell'infame, gli dissi più o

meno così: “Che dici in tua difesa, infamone, vergogna degli

uomini e degli dei? Io ti dovrei ignorare parlando di loro. Mi

meritavo questo, io? Che mi facessi precipitare in questa

vergogna? Mi meritavo che tu mi prendessi gli anni migliori della

giovinezza e mi consegnassi a questa debolezza da vecchi? Ti

prego, ti scongiuro, fammi almeno capire che ci sei.” Niente da

fare. Dette queste parole...

quello l'occhio teneva fisso al suolo

senza guardarmi e non si commuoveva

né voleva ascoltarmi (e non avevo

neppure incominciato!) più di quanto

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farebbero dei salici piangenti

o i fragili pieghevoli papaveri.

Ciononostante, giunto alla fine del mio sermone, incominciai

a pentirmi di esso e nell'intimo ad arrossirne perché senza pudore

mi ero messo a discutere col mio arnese che le persone appena

un po' più civili non ammettono neanche di possedere. Quindi mi

riconduco alla ragione fregandomi a lungo la fronte e mi dico: “Che

cosa ho fatto di male rimproverando il mio arnese? Che differenza

c'è con chi se la prende con lo stomaco, la gola o la testa quando

gli fanno male? Che differenza c'è? Forse Ulisse non litigava col

suo cuore e certi personaggi delle tragedie greche non

rimproverano forse i loro occhi come se quelli potessero capirli? I

gottosi se la prendono con i piedi, i malati alle mani se la prendono

con le mani stesse, i cisposi con gli occhi, e chi riceve un calcio

alle palle scarica sui piedi tutto il dolore.

“Ipocriti Catoni, perché mai

mi imbruttite con fronte corrucciata

e condannate questo mio lavoro

ispirato ad inedita schiettezza?

Non splende in esso la grazia triste

d'un parlare pulito e raffinato

ma un linguaggio diretto qui racconta

ciò che il popolo fa. Chi non conosce

i dolci amplessi e le gioie di Venere?

Chi sotto le coperte mai proibisce

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che le membra si scaldino? Epicuro,

padre e maestro della verità,

ce l'ordinò e disse che la vita

ha questo solo come fine. Chiaro?

Così il cuore mi dettava, ma anche il pensiero mi diceva chiaramente

la stessa cosa: “Non c'è niente di più ipocrita al mondo di uno stupido

preconcetto né della finta moralità.” Mentre io mi intrattenevo come

ho detto col mio arnese in sciopero era rientrato Gitone e per non disturbarmi

si era fermato nel vestibolo dove stava mettendo in ordine le cose che si era

diviso con Eumolpo. L'angoscia dell'inerzia con cui il mio arnese rispondeva

alle mie rampogne mi metteva in un'ansiosa agitazione che si sfogava in

azione e in pensieri. Ebbi un'idea. Misi fine all'arringa accusatoria,

chiamai Gitone e gli dissi: “Fratello mio, raccontami per filo e per

segno la notte che Ascilto ti rapì a me, ma mi devi dire tutta la

verità: è stato sveglio fino a quando non ha compiuto il suo

oltraggio o si è addormentato trascorrendo la notte senza partner

né sesso?” Il ragazzo si mise le dita in croce sulla bocca e giurò e

spergiurò che Ascilto non era riuscito a fargli nessuna violenza. Mi

tornò il buon umore. In fondo, anche se non ci riuscivo con le donne, con

questo bellissimo ragazzo che mi amava così fedelmente sarei riuscito

ugualmente a costruirmi una storia d'amore. Lo tirai a me e lui mi guardò

stupito pensando alla malattia che mi aveva colpito. Ma io ero così eccitato

che anche se il mio arnese non si addrizzava Gitone si abbandonava estatico

tra le mie braccia e godeva godeva e cercava in tutti i modi di eccitare anche

me e, non riuscendoci, mi prendeva le mani e se le portava su quel culetto

delizioso facendomi intendere di fare con quelle ciò che non riuscivo a fare

col mio fratellino morto. Non mi feci pregare. Lo penetrai quasi con tutta la

mano mentre mugolava di piacere. Un piacere anche più intenso provavo io

ma non mi riusciva di trasmetterlo al defunto che avevo tra le gambe. Mi

pareva di impazzire: non c'era niente da fare e quando Gitone si mostrò pago

di quell'amplesso atipico ricominciai a piangere, ma lui che mi amava

davvero mi disse di non disperare e di accompagnarlo al tempio di Priapo

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per pregare il dio di guarirmi.

Con Gitone, Enotea e Proseleno nel tempio di Priapo.

Fummo là in un attimo perché Gitone conosceva bene il tempio e al

tempio lo conoscevano tutti e infatti salutava tutti lungo il breve viale che

conduceva all'entrata. Appena arrivati, senza inoltrarmi troppo, mi

inginocchiai e rivolsi al dio che mi si dimostrava così avverso la

seguente preghiera non senza aver prima vantato le sue parentele

divine e le città che gli erano devote e che gli dedicavano un culto:

“Accogli, Padre, questa mia preghiera.

Non sono un assassino né un sacrilego

ma solo un poveraccio che peccò

con una sola parte del suo corpo.

Un povero che pecca è men colpevole:

accetta dunque questa mia preghiera,

libera dal rimorso la mia mente

e la minore colpa a me perdona.

Poi un giorno, quando infine la mia sorte

vorrà concedermi un piccolo sorriso,

vedrai, sarò all'altezza del tuo nume

e ti dedicherò sopra l'altare

un capro ed un agnello ed un maiale

e col vino novello libagioni

di continuo a te dedicheranno

molte schiere di giovani festanti

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e inni sacri in tuo onore intoneranno.

Mentre pregavo, quel giovinetto impagabile era andato a comperare

dei fiori e li stava intrecciando per dedicarli alla statua del dio. Anch'io mi

misi ad aiutarlo e man mano che finiva mettevo le sue coroncine o al collo

o sulla testa o addirittura sul membro eretto del dio. E mente sbrigavo

queste faccende e osservavo attentamente il mio defunto arnese

per vedere se desse segni di resurrezione, entrò nel tempio

Proseleno con i capelli scompigliati e una veste nera, orribile: mi

afferrò e mi trascinò nel vestibolo. “Quali streghe ti hanno

mangiato le forze, quale merda o carogna hai pestato di notte in

qualche trivio per ridurti così? Neanche col tuo ragazzetto ci sei

riuscito; ma moscio, debole e sfiancato come un cavallino in salita

hai sprecato inutilmente sudore e fatica. E non contento di ciò mi

hai messo contro anche gli dei irati.” Poi, di nuovo, senza alcuna

resistenza da parte mia, mi trascinò nella cella della sacerdotessa,

mi buttò sul letto e di nuovo prese a bastonarmi le spalle con una

scopa che stava lì dietro la porta. Non reagii lo stesso, ma per

fortuna al primo colpo la scopa si spezzò, se no quella mi avrebbe

fracassato anche le spalle e la testa. Però strillavo come se mi

stessero impiccando e con lo sguardo oscurato dalle lacrime che

fluivano abbondantemente ripiegai il capo sul cuscino. La vecchia,

anche lei piangendo copiosamente, con la voce tremante cominciò

ad imprecare contro i fastidi della sua vecchiaia mentre si sedeva

dall'altra parte del letto. A quel punto arrivò la sacerdotessa che

ci ingiunse di smetterla con quei piagnistei e ci disse: “Siete venuti

nella mia cella per un funerale? E in un giorno di festa che anche

chi è in lutto si concede un sorriso?”. La vecchia prese la parola e

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disse: “O Enotea, questo ragazzo qui presente è nato sotto una

cattiva stella: non riesce a vendere la sua mercanzia né alle

ragazze né ai ragazzi. Uno sfigato cosi io non l'ho mai visto: al

posto dell'uccello ha un batacchio inerte. Pensa che si è alzato dal

letto di Circe senza essere riuscito a farsela!”

Enotea venne a sedersi in mezzo a noi e, dopo aver scosso

lungamente il capo, disse: “Questa malattia, io sono la sola che la

possa guarire. Perciò bando alle chiacchiere. Questo ragazzo

dorma con me una notte e al risveglio vedremo se non sarò riuscita

a renderglielo duro come il corno.” Poi anche lei incominciò a

recitare una sorta di formula magica:

“Quello che vedi tutto a me obbedisce.

Se io lo voglio la fiorente terra

subito inaridisce disseccata

delle sue linfe e l'acqua faccio nascere

dalle più dure rocce in abbondanza.

Al mio passaggio il mare si assoggetta

e fa inchinare i flutti più violenti.

Ed ai miei piedi i venti si distendono;

a me i fiumi obbediscono e le tigri,

e i serpenti soccombono al mio cenno.

Non basta? Allora sappi che la luna

discende giù dal cielo e suo fratello,

il sole, resta attonito a guardarla

e inverte la sua corsa al mio comando

i destrieri piegando che lo portano.

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Tanta é la forza delle mie parole

magiche! Ad esse i tori più furiosi

placano il loro ardore presto estinto

dai miei possenti riti verginali.

Con magiche parole un giorno Circe

sottrasse a Ulisse i valorosi eroi

per trasformali in porci grufolanti;

per esse Proteo sempre si trasforma.

Ed io che le conosco tutto posso:

far nascere nel mare erbe montane

e i fiumi far salire sopra i monti.°

Quando ebbe finito ordinò a Gitone di uscire e a Proseleno di fare un

piccolo impasto con la sua saliva e con varie polverine che conservava in

una teca; le ordinò di spalmarmele poi nell'ano massaggiandolo lungamente;

poi le ordinò di prendere un bicchiere di satirio, di scaldarlo al lume di una

candela e di mettervi dentro un cucchiaio di miele, una bacca di cipresso, tre

semi di zucca e i due occhietti di una lucertola che catturò all'istante; poi le

ordinò di farmi bere quel guazzabuglio senza tante storie, tenendomi il naso

turato. Io a sentire quegli ordini mi sentii morire: il programma mi

sembrava delirante e perciò mi misi ad osservare più

attentamente la vecchia per vedere se mi riusciva di impedirle di

attuarlo. Ma Enotea era implacabile: “Allora? Volete osservare o

no i miei ordini?” E lei stessa incominciò a trappolare fra vasi e vasetti

biascicando litanie incomprensibili che probabilmente invocavano

l'assistenza del dio. Strano che per guarire un maschio il tempio avesse

incaricato una sacerdotessa, ma l'obiezione ebbe subito la risposta perché

era evidente che Enotea era venuta lì per farmi fare l'amore con lei. Quando

ebbe finito, lavatasi accuratamente le mani, si piegò sul letto e mi

baciò più volte anche sul corpo. Poi si dedicò lungamente al mio bischero

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cercando di cavarne almeno qualche piccolo fremito, ma quello non aveva

alcuna intenzione di reagire a quelle labbra carnose e calde come un il fegato

di un animale appena immolato. Lei non se ne preoccupò minimamente. Era

chiaro che il rito appena iniziato avrebbe dovuto svilupparsi su un lungo

tratto di tempo. Perciò si alzò con tutta calma e dicendomi: “Dormi, bello,

non aver paura!” mi lasciò là sul letto già mezzo tramortito. Poi piazzò al

centro dell'altare una vecchia tavola cospargendola di carboni

ardenti, riparò con della pece calda una vecchia scodella di legno

crepata dal tempo; appese alla parete il chiodo che le era rimasto

in mano quando l'aveva staccata dal muro. Quindi, legatasi intorno

alla vita una parannanza, mise sul fuoco una pignatta enorme e

immediatamente trasse fuori dalla dispensa con un forchettone

un pacchetto contenente una manciata di fave e un pezzetto

muffito di testa di maiale che aveva i segni di numerosi tagli.

Slegato il pacchetto ne prese una manciata di fave e mi ordinò di

sbucciarli accuratamente. Io obbedii e separai i legumi dai baccelli

completamente marci. A un certo punto si infastidì della mia

lentezza, prese lei l'iniziativa, sbucciò le fave con i denti sputando

a terra le bucce che erano così marce e nere da sembrare mosche

stecchite.

Chissà quante volte quelle due avevano compiuto quel rito.

Sembrava che stessero facendo una specie di balletto tanto erano coordinate

nei movimenti e nello spostamento dei vasetti e delle fiale. Ma il tutto a me

non piaceva. Ero seriamente preoccupato. Avevano messo il chiavistello alla

porta e addio Gitone! Insomma non mi fidavo: il mio arnese aveva le stesse

probabilità o di essere guarito o di staccarsi e lasciarmi come una femmina.

Cominciai a pensare al solito piano di fuga, ma non era facile. Il tempio era

sorvegliato ed Enotea, a quanto pareva, doveva essere una delle sacerdotesse

più potenti all'interno di esso. Insomma per il momento preferii godermi

quella specie di balletto che era davvero inusuale per me. Certe cose solo in

provincia si riescono a vedere! Soprattutto osservavo stupito fino a che

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punto la povertà può essere creativa e ammiravo la grande abilità

che esse ponevano nei singoli dettagli.

Quello non era un tempio. Non vedevi

brillar da qualche parte indiano avorio

nell'oro incastonato né splendeva

di calpestati marmi il pavimento,

marmi portati via alla madre terra;

c'era, su un graticcio di salice distesa,

paglia di grano a Cerere rubato,

e c'eran tazze d'argilla appena fatte

da un vecchio tornio assai rudimentale.

Un vaso modestissimo per l'acqua

e cestelli di vimini pendenti

da un ramo fluttuante ed una brocca

maculata di vino. E la parete,

a sua vola imbottita tutto intorno

di paglia secca e d'argilla buttata

dove càpita càpita, mostrava

una fila di chiodi arrugginiti

su cui poggiava un'esile cannuccia

di giunco ancora verde. Poi provviste

che l'umile capanna conservava:

sorbe pendenti da un trave annerito

dal fumo degli incensi eran sospese

intrecciate in corone profumate

e santoreggia messa lì a seccare

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insieme ad uva in grappoli appassiti.

Pareva proprio la capanna d'Ecale,

la vecchia che ospitò l'eroe ateniese

che poi per ricompensa le concesse

d'essere accolta, morta, tra gli dei.

La vecchia Proseleno, dopo aver staccato una fettina di carne

dalla testa di un maiale che doveva avere la sua stessa età, salita

su uno sgabello di legno fradicio per accrescere la sua statura,

stava armeggiando con un forchettone per riporre la testa nella

dispensa quando lo sgabello improvvisamente cedette e la fece

cadere di peso nel focolare. Già il fuoco la stava per attaccare ma

per fortuna nella caduta si era rotta la pignatta dell'acqua che lo

spense. La vecchia va a sbattere con un gomito su un tizzone

ardente e la nuvola di fuliggine le ricopre il volto di nero. Io balzai

al volo e la rimisi in piedi non potendo ovviamente trattenermi dal

ridere. Proprio mentre la tiravo su, fuori del tempio si sentì un calpestio ed

un vociare che facevano capire che qualcuno là fuori stava litigando o che

stava inseguendo un animale riottoso fuggito dalla sua stalla. Non si capiva

bene. Proseleno uscì per andarsi a rimettere in sesto dopo l'incidente, o forse

per andare a procurare altri ingredienti per il sacrificio e perciò anch'io

decisi di andare a vedere e mi affacciai alla piccola porta di quella

capanna con pretese di tempio.

L'uccisione dell'oca sacra.

Ma non feci in tempo ad uscire perché la mia curiosità fu subito

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appagata. Tre oche del tempio, probabilmente affamate e che

perciò starnazzavano furiosamente per chiedere la loro razione di

mezzogiorno, mi si avventarono contro circondandomi e

terrorizzandomi con le loro grida raccapriccianti di animali

infuriati. Una mi strappò di dosso la tunica, un'altra si attaccò ai

lacci dei miei calzari e tentò di scioglierli evidentemente per

mangiarseli; la terza, probabilmente la capa di quel trio furibondo,

mi affibbiò un terribile morso alla gamba col suo becco a seghetto.

A quel punto feci marcia indietro rientrando nel tempio, ma le oche

inferocite mi inseguirono; allora staccai un piede del tavolo e

cominciai a combattere contro quella che era la più furiosa per

buttarla fuori. Ma ormai anch'io dopo il morso ero in preda ad un

indescrivibile furore bellico. Per cui non mi limitai ad assestarle solo

dei colpi leggeri per allontanarla, ma menai ripetutamente e con

violenza fino a quando la bestia non stramazzò a terra, morta.

Non fui diverso, immagino, da Ercole

quando i mostri di Stinfalo sconfisse

o da Fineo che massacrò le Arpie

che le mense ed il cibo gli smerdarono:

strida e grida inumane risuonarono

riempiendo di sé la terra e il cielo.

Mentre io uccidevo quella bestiaccia le due superstiti si

erano mangiate tutte le fave sparse qua e là sul pavimento. Tutto

contento per la vendetta compiuta, io nascosi l'anatra uccisa

dietro al letto e mi dedicai alla ferita inflittami disinfettandola con

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l'aceto. Poi, pensando che avrei dovuto affrontare un litigio per

quell'uccisione, prese le mie cose, mi mossi per andarmene. Ma

ecco che arriva Enotea con un vaso pieno di braci ardenti. Feci

dietro front e, gettato il mantello sul letto, mi piazzai sull'uscio

facendo la finta di starla ad aspettare già da un bel po'. Quella

mise la brace su uno strato di canne secche, vi ammucchiò sopra

un bel po' di legna e poi cominciò a scusarsi per il ritardo

adducendo come spiegazione che l'amica a cui si era rivolta aveva

voluto a tutti i costi bere con lei i tre bicchieri di vino previsti dalla

legge che regola l'ospitalità. “Tu nel frattempo che hai fatto? E

dove sono le fave?”. Convinto di aver compiuto un'azione

grandiosa le raccontai ordinatamente tutta la battaglia e per tirare

a lungo la sua curiosità scoprii solo alla fine la carogna dell'oca e

gliela offersi a titolo di risarcimento. Appena Enotea la vide

cominciò a strillare come un'ossessa; anzi, come le oche che mi

avevano assalito poco prima. Sconcertato da quella reazione e

ignaro di quale mai crimine avessi commesso, le chiedevo perché

stesse dando in escandescenze e perché si preoccupava più

dell'oca che della mia ferita.

“Disgraziato,” mi rispose sbattendo le mani e continuando a

sbraitare, “hai anche il coraggio di parlare? Tu non sai quale grave

infamia hai commesso: hai ucciso l'oca prediletta da Priapo, l'oca

preferita di tutte le matrone del vicinato. Non credere che sia una

cosa di poco conto. Se la legge ne viene informata, per un reato

simile si finisce sulla croce. E inoltre hai insozzato di sangue il

tempio, la mia casa, e perciò uno qualsiasi dei miei nemici, se lo

vuole, mi può far destituire come sacerdotessa. “Ti prego,” le dissi,

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“smettila di gridare; se no, lo vengono a sapere tutti: ho uno

struzzo da sostituire all'oca uccisa! Va bene?” Lei non colse il mio

umorismo per la verità un po' fuori luogo, anzi non mi ascoltò neanche. Con

mio grande stupore se ne stava accasciata sul letto tutta presa nel

compianto della cara estinta. Per fortuna tornò Proseleno con il

necessario per il sacrificio, capì la situazione e quando seppe

l'accaduto cominciò a piangere anche lei e a compatirmi come se

avessi ucciso mio padre. Non ne potei più di tutti quei piagnistei e

dissi: “Statemi a sentire: non è possibile risarcire il danno con del

denaro? Anche se vi avessi insultato, anche se avessi commesso

un omicidio ci sarebbe comunque il modo per rimediare. Son

sicuro che anche in questo caso un rimedio ci deve essere. Ecco

qua!” misi sul tavolo due monete d'oro e aggiunsi: “Con queste

potete ricomprare l'oca e, perché no? Potete comprare anche gli

dei.”

Enotea cambiò subito umore: “Abbi pazienza, caro, io mi

preoccupavo per te. La mia reazione deve essere per te una prova

del mio affetto. Io non ti voglio male. Come potrei? Neanche ti conosco,

un altro po'! Faremo in modo che non si sappia in giro. Tu però

pregali, gli dei, di perdonarti questo grave peccato.” “Co' 'no soldo

tunno tunno / vajo 'n cujo a tutt'jo munno.” diceva un vecchio adagio che in

latino sarebbe suonato cosii “Con un soldo tondo tondo / vado in culo a tutto

il mondo.” E come era vero!

Chi ha i soldi navighi sicuro

e pieghi ai suoi voleri la fortuna.

E se vuole in isposa una fanciulla

che il padre gli rifiuta lo sommerga

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con una pioggia d'oro e poi vedrà.

Faccia il poeta, faccia l'avvocato:

se ha i soldi gli applausi può comprare.

Stanno a zero le chiacchiere si sa:

quello che vuoi, se vai soldi alla mano,

sta sicuro che certo arriverà:

anche Giove se vuoi ti puoi comprare!

Enotea intascò i soldi e poi mi disse che prima di risolvere il mio

problema dovevamo compiere un rito propiziatorio per espiare la grave

colpa da me commessa uccidendo un'oca sacra. Mi mise sotto le mani

una ciotola con del vino, mi purificò le dita, che mi ingiunse di

tenere strette e ben tese, con porri ed apio; immerse nel vino delle

nocciole accompagnando ciascuna con degli scongiuri ed

emettendo pronostici ricavati da quelle a seconda che restassero

a galla o sprofondassero. Ma era evidente che alcune erano vuote

e perciò restavano a galla e altre più pesanti, perché avevano

conservato il frutto intatto, calavano a fondo. Finalmente prese l'oca.

La sventrò ne estrasse un fegato più che pingue e ancora fumante

e da quello mi predisse un futuro catastrofico. Poi però, per far

scomparire ogni traccia del delitto, fece a pezzi il resto dell'oca,

mise i pezzi in uno spiedo e in quattro e quattr'otto allestì un lauto

banchetto anche per colui, cioè io, di cui aveva poco prima

pronosticato la morte. Aspettammo che il fuoco facesse il suo dovere e

poi tutti a tavola. Le due vecchie mangiavano più di me e, se non mi fossi

affrettato, di quell'oca, non me ne sarebbe rimasto neanche un po'. E

cicalavano in continuazione mentre che i bicchieri di ottimo vino

volavano ripetutamente sulla tavola.

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Era chiaro che quelle due vecchiacce avevano deciso di divertirsi alla

grande. Ubriache com'erano non nascondevano per niente di essere infojate

come due scrofe in amore e io non riuscivo a staccarmi di dosso le loro mani

che mi frugavano dappertutto nel tentativo di farmi capire la loro intenzione

che fin dal primo bicchiere a me era stata più che chiara. Ma alla fine del

banchetto ero ubriaco anch'io e non riuscivo più ad opporre alcuna

resistenza tanto è vero che quelle due maiale mi trascinarono sul letto.

Enotea tirò fuori un fallo di cuoio, lo cosparse d'olio, di pepe

macinato e di semi di ortica pestati, e prese ad infilarmelo piano

piano nel culo. Non ricordo con precisione tutto quello che accadde. O il

mio ano, bruciando sotto lo stimolo dell'intruglio che la vecchia vi stava

introducendo, rilasciava qualche umore/rumore o la vecchia raccoglieva ciò

che il pene di cuoio lasciava fuori e lo impastava con la sua saliva; fatto sta

che con quella poltiglia quella vecchia crudele immediatamente

dopo mi spalmò da dietro anche le cosce. Più che dolore sentivo un

potente prurito, doloroso e piacevole al tempo stesso. Mi tenne a lungo così;

poi improvvisamente mi girò e mi cosparse l'arnese, con annessi e

connessi, con succo di nasturzo e abrotono; quindi afferrato un

fascio di ortica appena colta cominciò a staffilare con colpi

cadenzati tutta la zona sotto l'ombelico.

Incredibile! Il mio pene, nonostante quelle due vecchie mi facessero

schifo al cazzo, come si diceva allora tra ragazzi, si risvegliò, alzò la testa,

divenne turgido e duro come un corno di bue e si lasciava lavorare volentieri

non vendendo mai meno al suo dovere. Quelle due porche se lo litigavano

furiosamente: l'una lo strappava dalle mani o dalla bocca dell'altra e

viceversa per infilarselo dovunque le veniva più facile. Insomma mi si

stavano facendo, me complice. Ma io giuro che la mia complicità ci fu solo

all'inizio, perché ero ubriaco e frastornato dalla lieta sorpresa di

quell'erezione che sembrava essere l'inizio della mia guarigione. Ma poi

quando mi resi conto che quelle due mi si stavano facendo davanti, di dietro

e insomma dappertutto perché quella di esse che perdeva il mio bischero in

favore dell'altra si consolava con le mie labbra che succhiava a ventosa

perlustrandomi la bocca con la sua vecchia linguaccia di pompinara

professionale. Tornai in me. Che schifo! Ancora adesso se ci ripenso mi

viene da vomitare. Ma in quel frangente ci volle un po' prima che riuscissi

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a fare mente locale, come si dice. Le scaraventai lontano da me con una sola

aperta di braccia, afferrai il mio mantello, mi scaraventai a mia volta verso

la porta e cominciai a correre quanto più potevo per seminare quelle due

vecchie puttane assatanate che ovviamente mi inseguivano. Per fare meglio,

imbattutomi in un pendio non del tutto pericoloso, mi ci lasciai rotolare

aiutandomi mani e piedi; ma quelle, ahimè, per quanto ubriache e

infojate, riuscirono comunque a seguirmi. Allora, sempre

fuggendo, mi gettai nell'abitato gridando “Al ladro! Al ladro!”, per un

bel numero di traverse, riuscii finalmente a seminarle e a

squagliarmela anche se con le dita sbucciate per essermi lasciato

rotolare in quel pendio. Arrivai a casa, mi misi sul letto e con le mani

cercai il mio arnese che, non mi pareva vero, aveva ripreso il nerbo perduto

durante la corsa e ciò mi emozionò al punto che incominciai a piangere di

gioia e a rivolgere preghiere a Priapo per ringraziarlo e per chiedergli

perdono del mio incorreggibile agnosticismo.

Adesso anche Criside.

Dopo un po' arrivò Criside e mi dice: “Senti un po', ma è proprio vero

quello che mi ha detto Enotea? Che ti ha guarito e che tu poi sei fuggito

senza pagarla?” “E' vero tutto”, le dissi, “tranne che non l'ho pagata; l'ho

pagata in moneta sonante e in natura.” “Ma allora devi tornare da Circe, la

mia padrona: quella non fa che pensare a te e mi dice che se tu volessi si

farebbe penetrare anche da un fallo di cuoio. Ti prego, torna, falla felice. Da

quando ti ha cacciato non è più lei e nessuno di noi servi riesce più a

consolarla: ci tratta male a tutti.” Non sapevo che dire. La mia mente

turbinava nel ricordo degli abbracci di Circe. Che cosa ebbero meglio

di lei Arianna o Leda? Si potevano confrontare con lei? Cosa

avrebbero potuto fare in gara con lei Venere o Elena? Se Paride

l'avesse vista durante la gara avrebbe mandato a ramengo non

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solo Elena ma anche le altre dee. Se le potessi rubare un bacio,

toccare quel suo seno celestiale, divino, il mio corpo

riacquisterebbe subito il suo vigore e la parte che un sortilegio mi

aveva addormentato ora tornerebbe a svegliarsi, grazie alla

benevolenza del dio. Non mi importa niente delle offese, ho già

dimenticato le frustate; sono stato messo alla porta? E che fa?

Purché io possa ritornare nelle sue grazie. Mi girai verso il muro per

non far vedere a Criside che stavo piangendo. Lei restò in silenzio per un

po'; poi improvvisamente mi chiamò col mio nome e io come un cretino mi

volsi. Lei si mise a ridere e mi disse: “Lo vedi quante cose ho scoperto di te,

tenebroso mio! Tu non sei Cecilio come ti fai chiamare dal tuo padrone, ma

Encolpio ed Encolpio è il nome più adatto a te, come dice la mia padrona,

la quale prega sempre il dio di restituirti l'attributo per onorare un così bel

nome. Era così bella, Criside, che faceva dileguare dalla mia memoria anche

l'immagine bellissima di Circe. Mi volsi completamente e incurante delle

lacrime che mi bagnavano il viso, l'abbracciai e la baciai. Lei si divincolò

dicendomi: “Ehi, schiavo, sta al tuo posto!” “Ma quale schiavo?” le dissi,

“Io vengo da Atene dove sono nato libero e libero sono ancora e dove ho

studiato per fare l'avvocato e questa è tutta una messinscena di Eumolpo per

abbindolare i tuoi concittadini. Io parlo e scrivo bene il greco e il latino, lo

senti, lo conosco ormai benissimo. E vorrei uscire dalla pantomima di

Eumolpo e mettermi a lavorare onestamente e sposarti se tu vorrai.”

“Smettila di dire balle!” mi gridò e fuggì via. Era chiaro che non mi credeva.

Ma piangeva ed era altrettanto chiaro che anche lei mi amava. Ed infatti

dopo un po' arrivò un'altra schiava mandata da lei che mi disse sottovoce:

“Sei tu Encolpio?” e al mio assenso aggiunse: “Criside detestava la tua

precedente condizione, ma ora, in questa, che le hai rivelato, è

decisa a seguirti fino in fondo, anche a costo della vita.” Poi visto

che avevo capito bene aggiunse: “Inoltre ti chiede se vuoi lavorare come

scriba traduttore presso un suo amico architetto che commercia con la

Grecia.” Altro che innamorata, a quella le era proprio partita la brocca! La

raggiunsi subito, mi feci subito portare da Simone, il mio futuro datore di

lavoro, e d'altro, come vedremo, il quale appena mi vide gli si dipinse sul

viso un tale lieto stupore che io mangiai subito la foglia. Gli piacevo, ma

tant'è: se mi pagava bene avevo trovato anche il modo di spassarmela un po'.

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Tutto quel pepe che Enotea mi aveva messo nell'ano me lo faceva bruciare

di desiderio. E quel datore di lavoro era proprio un bell'uomo ancora

giovane. Salutò Criside amabilmente, ci fece accomodare e quando ebbe

sentito le mie referenze mi disse con la voce che gli tremava nella gola: “Se

vuoi, puoi cominciare anche subito. Ho tanta di quella corrispondenza da

sbrigare in greco! Per la paga non ti preoccupare. Ci mettiamo d'accordo

sicuramente.” Salutammo Criside che si congedò ringraziando e quindi

Simone mi disse: “Vieni che ti accompagno al tuo scrittoio!” Ma appena

fummo fuori dal vestibolo da dove Criside ci avrebbe ancora potuto vedere,

fingendo di cercare la mia mano per guidarmi, invece della mano mi

agguantò una natica con un piglio dal significato inequivocabile. Finsi di

credere a quell'errore e giunti allo scrittoio appena mi ebbe spiegato il lavoro

da fare mi misi subito seduto per incominciare a lavorare e nello stesso

tempo per togliergli ogni tentazione e spingere al massimo la seduzione che

operavo su di lui; ma quello mi salutò appioppandomi un bacio sulla bocca

molto più eloquente della tastata precedente.

Era un lavoro semplice: si trattava di tradurre in greco delle banali lettere

commerciali. Mi avrebbe pagato a cottimo, cioè tanto a lettera, perciò mi

sbrigai in modo da liberarmi il prima possibile. Verso le sei del pomeriggio

misi in bell'ordine tutti i rotoli di papiro che avevo riempiti e andai da lui

per dirgli che avevo finito. “No”, mi disse, “qui si lavora fino a tardi, anche

al lume di candela.” “Lo so” gli dissi “ma io non ho più niente da fare. La

corrispondenza che mi hai dato è tutta esaurita.” “Non ci posso credere!”

disse, ma poi verificò che avevo detto la verità, contò i papiri, mi diede la

giusta ricompensa secondo quanto pattuito e poi come fanno in amore tutti

gli uomini d'affari andò subito al dunque: “Ti va di guadagnare altrettanto

dormendo questa notte con me invece di andartene a casa?” “Non posso” gli

dissi, “il mio arnese è fuori uso, non vuole funzionare più.” “Con me

funzionerà.” mi rispose; “No, purtroppo no: è un dio che mi perseguita.”

“Vedremo. Tu resta. Ti pago uguale in ogni caso.” Fece preparare una cena

meravigliosa, ma io mangiai pochissimo e pregai anche lui di fare

altrettanto: non è mai bene affrontare una notte d'amore con la pancia piena.

“Bravo.” disse, ordinò agli schiavi di spegnare tutte le fiaccole e di ritirarsi

e appena l'ultimo fu uscito si buttò sul mio arnese succhiandolo avidamente:

aveva ancora fame evidentemente! ma quando dopo numerosi inutili sforzi

si convinse che quello non reagiva, mi girò e mi penetrò con una tale furia

che non ho mai goduto tanto. Sarà stato il pepe di Enotea ma io sentivo un

desiderio sfrenato di farmi inculare da qualcuno. E quello ogni volta che

veniva ricominciava a succhiarmelo non convinto e poi visto che di nuovo

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non mi si addrizzava tornava ad incularmi mordendomi furiosamente in ogni

parte del corpo ormai completamente denudato e a un certo punto anche

morso. E una! e due! e tre! e quattro!... alla fine temetti che non gli

prendesse un coccolone e gli dissi. “Dormi un po', bello! Chissà quante notti

abbiamo ancora davanti a noi!” “Non ti lascerò mai!” mi disse e si

abbandonò ad un sonno profondo. “Sarò io a lasciarti!” pensai, ma a lui

ovviamente non lo dissi.

La mattina successiva mi permise di tornare a casa (ma solo dopo avermi

fatto giurare che sarei tornato il prima possibile) per cambiarmi e farmi

bello, ma a casa ritrovai Criside che mi aveva aspettato tutta la notte. “C'era

un tale lavoro arretrato!” Mi giustificai (in realtà mi riferivo mentalmente al

mio datore di lavoro: doveva essere un bel pezzo che non scopava!). Lei

annuì e mi gettò le braccia al collo e io, sicuro per quanto era accaduto al

mio pene con quelle due vecchiacce, ero ben disposto, riposato com'ero, a

godermi quella dea che si era trasformata in schiava per il mio piacere. La

baciai e ribaciai, le morsi i seni fino a farle male, la manipolai fin dentro alla

fica; ma quel bastardo niente: continuava a restare inerte in un sonno

profondo. Di nuovo mi si riempirono gli occhi di lacrime per lo sgomento.

Lei mi guardò, capì, si rivestì furiosamente insultandomi al contempo:

“Frocione, rotto in culo, lo vuoi capire o no che sei frocio e che non devi più

molestare le donne per bene. Questa è l'ultima volta che ti fai vedere,

schifoso, traditore, non di me, ma di quel povero ragazzetto che abbandoni

continuamente per far la prova con le donne. Quante volte la devi fare questa

prova, frocione? Vuoi che ti rilasci un attestato, stronzo?” Allungai una

mano per una carezza, ma lei la scansò con violenza: “Ma vaffanculo, va!”

e se ne andò ancora una volta di corsa. Che aveva voluto dire con “traditore

di quel povero ragazzo”? Che io potevo amare solo Gitone? Com'era

possibile che lasciassi a tutti gli altri uomini la metà del genere umano senza

poter godermene neanche una. Gitone? Gitone! La sua immagine si

impossessò della mia mente. Dov'era Gitone? Perché non era in casa? Andai

da Eumolpo: non ne sapeva nulla. Lo cercai per tutta la città. Nulla. Che

cos'era accaduto? Fino a tal punto gli dei mi volevano punire? Era un'ipotesi

del tutto possibile:

Non sono il solo che un destino infame,

da un dio voluto, perseguita a morte.

Non fu perseguitato da Giunone

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Ercole, l'innocente figlioletto

nato dall'adulterio del dio Giove?

Non fu perseguitato Laomedonte,

il re di Troia, che non onorò

il debito contratto con due numi?

E la stessa Giunone non punì

severamente Pelia? E dal dio Bacco

non fu punito Telefo troiano

che impugnò l'arma ma non contro i Greci

bensì contro un tralcio verdeggiante

che il dio alle caviglie gli intrecciò?

E Ulisse poi non fu perseguitato

dal dio Nettuno per punire il crimine

con cui l'eroe aveva offeso il figlio?

E me, povero me, non mi perseguita

di Lampsaco quel dio che con due armi

protegge gli orti nelle notti illuni?

Tornai in albergo scoraggiato e disperato. Dov'era mai andato a finire?

Gitone, Gitone, chiamavo nella speranza che qualcuno mi rispondesse, ma

non accadeva proprio nulla. Mi misi a scuotere il letto da tutte le parti

come se sperassi di trovarvi l'immagine dell'amore mio. Era la tipica

goffa reazione dell'innamorato deluso. Ma perché tanta ansia di riaverlo

vicino a me. Era quello l'amore? Desiderare una persona anche se il pisello

non ti funziona più. L'amore era dunque prima di tutto la cura della persona

amata e non la ricerca del mezzo attraverso cui appagare i desideri

corporali? Mi venne un'idea. Come mi aveva risposto il sacerdote del tempio

non mi era piaciuto affatto. Dovevo tornare là. Era già notte, ma dovevo

tornare là a tutti i costi per verificare che quel nuovo rovello della mia mente

era infondato. Uscii di nuovo e di nuovo mi misi a correre verso il tempio.

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Arrivai in un fiato. Tutto spento. Tutto chiuso. Ombre sinistre della notte si

stendevano al di qua e al di là del colonnato. Dentro però si sentivano voci.

I sacerdoti cantavano prima di andare a dormire? No! Studiavano ancora a

quell'ora ? No! E poi le voci erano troppo alte. Mi avvicinai con

circospezione. Non sia mai che da qualche parte si nascondesse un

guardiano notturno. Nessun intoppo. A un certo punto da una fessura del

muro più interno sento voci che gridano animatamente. Attacco il mio

orecchio al muro e che sento? La voce inequivocabile di Gitone, di Gitone

mio. Aggirai il muro e cominciai a bussare con pugni e calci fin quando non

mi fu aperto. “Che vuoi?” “Restituitemi subito Gitone!” “Non è qui.” “Non

fare il furbo: ho sentito la sua voce. Liberatelo o dò fuoco al tempio.” Con

gesto fulmineo tentò di chiudere la porta ma non ci riuscì perché mi

aspettavo quella mossa. Avevo messo il mio piede fra la porta e il montante;

ebbi la meglio su quel sacerdote inerme e del tutto sorpreso dalla mia

irruenza; tanto più che sfoderai il mio pugnale, glielo misi sotto la gola e

“Non c'è due senza tre!” Gli gridai. “Che vuol dire?” dice; “Che ne ho

ammazzati già due e che mi manca il terzo per compiere l'opera. Fuori

Gitone o, quant'è vero il dio Priapo, dò fuoco a tutto il tempio col tuo

cadavere dentro.” Gli altri sacerdoti non meno sconvolti di lui mi portarono

l ragazzo. Io credetti che la questione fosse ormai definita ma quell'idiota,

che poi seppi essere stato il primo amante di Gitone, quello cioè che se l'era

goduto nel fior fiore della pubertà, si liberò dalla mia stretta, approfittando

del mio aver abbassato la guardia, impugnò una spada e mi assalì deciso a

finirmi. Troppo lento! Al suo colpo mi abbassai e gli infilai il mio pugnale

sotto al cuore. Stramazzò a terra all'istante: un colpo da maestro!

Approfittando della confusione, presi Gitone e, mano nella mano, fuggimmo

di nuovo verso l'albergo. Esausti ci mettemmo a dormire senza dire una

parola. Al risveglio credevamo di aver sognato ma lo credemmo per poco.

Mano a mano che i ricordi affioravano la realtà di quel mio terzo omicidio

si imponeva alla nostra memoria con tutta evidenza. Ma eravamo giovani:

che volete che fosse per due ragazzi la morte di un uomo? A volte ne

ridevamo anche. A un certo punto chiesi a Gitone: “Come sei andato a finire

nelle grinfie di quei corvi neri?” “E' stata Criside a convincermi. Si è

consigliata con Enotea ed entrambe hanno deciso che tu non ce la fai a

scopare con loro perché ami solo me, solo me desideri, solo per me esisti. E

allora io ho deciso di aspettarti al sicuro, nel mio tempio.” “Com'è vero che

sei tuo il mio solo pensiero!” pensai e poi lo dissi ad alta voce. Gitone aveva

le lacrime agli occhi. Lo abbracciai e subito il mio pisello venne su come un

fulmine. “Lo vedi?” dissi, “Funziona solo con te; non con le donne e

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neanche con gli altri uomini. Tu sei l'amore mio, Gitone. Non sono guarito,

non sono mai stato malato. Priapo se mai avrebbe dovuto perseguitare

Ascilto che quella notte lo offese veramente e forse così è stato perché quel

brigante non si è più visto in giro e più nessuno parla di lui.” Gitone piangeva

un po' per la gioia e un po' per la paura. Lo rassicurai e gli dissi di non uscire

per nessun motivo perché ormai guadagnavo bene e avrei comprato io quello

che serviva. E così tornai al lavoro da Simone. Quell'uomo, avrà avuto, sì o

no, una decina d'anni più di me, era insaziabile e siccome c'erano solo due

lettere da inviare, appena ebbi finito, mi trascinò in camera sua e mi si fece

senza tanti preamboli pretendendo che facessi gli straordinari anche per tutta

la notte e il giorno dopo. Alla fine del secondo giorno mi congedò

pagandomi il doppio. Io mi misi subito a correre per raggiungere Gitone ma

fui fermato dalla vecchia Proseleno che mi disse che Enotea mi aveva

denunciato per l'uccisione dell'oca sacra. Avevo ben altro per la testa e la

mandai al diavolo dicendole che quello era il minimo. Tornato a casa,

cominciai a interrogare Gitone: “E' venuto qualcuno? Mi ha

cercato qualcuno?” “Nessuno,” mi rispose “ ieri però è venuta una

donna niente male che si è fermata a lungo a parlare con me

tempestandomi di domande. Alla fine, quando ebbe chiarito che

eri tu quello che stava cercando, mi disse che avevi commesso un

grave sacrilegio e che saresti stato punito come si puniscono gli

schiavi se la controparte non avesse ritirato la querela.” Allora era

vero: quella puttana di Enotea mi aveva denunciato davvero. Dissi

a me stesso che se mi fosse stato imposto di andare in tribunale l'avrei

sputtanata raccontando tutto ai giudici e dicendo che mi aveva denunciato

non per l'oca, che ci eravamo beatamente divorato insieme, ma perché non

le avevo concesso di farmi un pompino dopo che lei me lo aveva tirato sù in

nome di Priapo. Io sarei andato sulla croce, ma lei avrebbe perso il posto!

Dati i tempi non era possibile stabilire se fose meglio morire di fame o sulla

croce.

Decisi di starmene rintanato anch'io: non si sa mai. Passò un giorno,

poi un altro e la mattina del terzo, mentre stavo lamentandomi delle mie

sventure con Gitone con cui conversavo sempre molto volentieri prima e

dopo e durante, insomma sempre, quando arrivò Criside, che finse di non

meravigliarsi della presenza di Gitone, ma ormai era inutile ogni

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recriminazione. Ormai avevo capito. Io amavo solo quel ragazzo che era

sempre pronto a darmi la donna comunque io la volessi e solo con quel

ragazzo il pisello mi funzionava e dunque era inutile andare in cerca non

solo di altri uomini, ma anche di altre donne. Ma Criside mi si buttò

addosso come se fossimo soli e come se fossimo soli parlò:

“Eccoti tra le mie braccia, amore mio, proprio come speravo di

trovarti: tu sei la mia voglia, il mio piacere, il fuoco di una passione

che non riuscirai a spegnere se non col sangue.” Mentre lei parlava

Gitone aveva guadagnato discretamente l'uscita. Allora io staccai Criside da

me e incominciai: “Senti, Criside, è inutile che...” ma non riuscii a finire.

Uno degli operai appena assunti da Simone arrivò di corsa e senza

neanche riprendere fiato mi disse che il padrone era

arrabbiatissimo con me poiché da due giorni mancavo al lavoro.

Dunque avrei fatto bene a prepararmi una giustificazione

adeguata. Altrimenti sarebbero state frustate. “Si, va be'!” gli dissi,

“di' al padrone che vengo subito.”

L'eredipeta e la guarigione definitiva.

Ovviamente non avevo alcuna intenzione di andare al lavoro. Le cose

si stavano aggravando seriamente ed io pensavo seriamente di andarmene

da Crotone insieme a Gitone e possibilmente anche con Eumolpo. Mi

cercavano tutti e tutti con intenzioni malevole, tranne forse il buon Simone,

che mi voleva tenere tra le braccia. Dissi dunque a Gitone di venire subito

con me da Eumolpo che aveva in quell'albergo una stanza molto più grande

e lussuosa della nostra, ma quello non volle riceverci subito e ci ordinò da

dentro, senza farci entrare, di tornare più tardi. Naturalmente in breve

venimmo a sapere tutto sui motivi di quel rifiuto.

C'era a Crotone una matrona di grande lignaggio, di nome

Filomela, che da giovane aveva estorto con le sue grazie un gran

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numero di eredità; ma ormai vecchia e rugosa non aveva scrupoli

a far fare lo stesso mestiere al figlio e alla figlia, due ragazzi di

notevole bellezza: compiacere i vecchi senza figli e senza eredi

diretti in modo da carpirne l'eredità. Grazie a questo passaggio di

staffetta la vecchia porcona continuava a fare il mestiere senza

soluzione di continuità. Naturalmente, avendo avuto notizia di

Eumolpo, si era recata da lui e aveva raccomandato i suoi figli alla

sua saggezza e alla sua bontà d'animo. Lei non esitava ad affidare

ad un uomo di tale reputazione se stessa e le sue ambizioni.

Diceva di essere convinta che Eumolpo era l'unico uomo al mondo

capace di educare giorno per giorno i giovani con insegnamenti

fondamentali per l'animo. Insomma gli voleva lasciare in casa i

ragazzi affinché quelli lo ascoltassero quando parlava perché

consiste solo nella parola l'eredità che si può lasciare loro. E così

fu: lasciò nella camera da letto di Eumolpo la figlia, che era uno

splendore, in compagnia del fratello, un efebo altrettanto bello,

con la scusa di dover andare al tempio per adempiere a certi suoi

voti.

Eumolpo, che era sempre così allupato da scambiare perfino

me per un efebo, non perse neanche un momento e invitò subito

la ragazza a celebrare i sacri misteri anali. Ma siccome in

precedenza aveva sparso la voce che lui era gottoso e debole di

lombi per dare credito al sua irreprensibile castità, adesso, se non

voleva rovinare il melodramma di quell'incredibile sodomizzazione

e per mantenere credibile quella rozza bugia, pregò la ragazza di

venirsi ad accomodare su quella fonte di saggezza, cioè lui, a cui

la madre l'aveva raccomandata e al servo Corace di sdraiarsi a

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pancia in giù sotto il letto e di fare le flessioni per imprimere con

la schiena al corpo del padrone, sdraiato sopra, quel movimento

che l'amore richiede e che uno debole di lombi non può dare. Lo

schiavo eseguiva l'ordine alla perfezione con movimenti lenti e

ricambiava con contraccolpi di uguale intensità la prestazione

assolutamente professionale della ragazza. Quando la cosa fu al

culmine, Eumolpo prese ad incitare Corace urlandogli di

accelerare il ritmo. E cosi senza fatica, sdraiato fra lo schiavo sotto

e la ragazza sopra, se la spassava come se andasse in altalena.

Già lo aveva fatto un paio di volte fra le risate generali, compresa

la sua. Gitone se ne andò disgustato, ma io rimasi, con la scusa di braccare

il vecchio per comunicargli il mio problema. E siccome ero divertito da

quella scena mi lasciai coinvolgere e per tenermi in esercizio mi

avvicinai al fratello della ragazza che guardava anche lui dal buco

della chiave. Era nella posizione giusta, lui, e adeguatamente

eccitato, io. Mi accostai con discrezione e cercai di capire se era

disposto a farsi inculare. Gli sollevai il gonnellino e lo trovai senza

mutande. Si girò verso di me con un sorriso invitante senza

sottrarsi alle mie carezze più che insinuanti. Era tutto pronto, ma

quel bastardo del mio bischero si ammosciò irrimediabilmente.

Dopo qualche secondo, visto che non succedeva niente, il ragazzetto si girò

per vedere cosa stesse accadendo alle sue spalle e quando adocchiò il mio

battacchio penzolante ed inerte gli si disegnò sul viso un punto interrogativo

grande come una casa.

Corsi via pieno di vergogna, raggiunsi Gitone che era già rientrato in

camera, lo abbracciai e facemmo l'amore senza problemi. Intanto era

arrivato anche Eumolpo e allora dissi ad entrambi: “Gli dei più potenti mi

hanno ridato la salute completa. Mercurio il grande traghettatore

di anime dalla vita alla morte col suo intervento divino mi ha

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restituito ciò che un'altra mano irata mi aveva reciso. Ora potete

toccare con mano che io da quel punto di vista sono più dotato di

qualsiasi eroe del passato.” E detto ciò sollevai la mia tunica e

mostrai ad Eumolpo tutti i miei gioielli. Quello prima si stupì e anzi

si spaventò; ma poi fingendo di accertarsi della verità di quello che

io avevo detto incominciò a palpare il mio bischero che l'intervento

divino gli faceva crescere tra le mani. Io però riabbassai la tunica e gli

dissi: “Fermo lì: questa è roba di Gitone.” “Lo so” disse lui “ma guardare e

toccare non significa portarsela via. “E' vero” dico io “ma non bisogna

neanche desiderare la roba d'altri e nessuno è destinato ad avere

una più brutta sorte di colui che lo fa. Cosa fanno i vagabondi e gli

scippatori? Buttano tra la folla casettine o portamonete con

monete sonanti in modo che i passanti siano adescati come i pesci

dagli ami. Così come i pesci si salverebbero se non abboccassero

a tali ami così gli uomini non finirebbero male se non

desiderassero cose che li inducono a più ardite speranze.” Subito

Eumolpo concluse con le sue conoscenze filosofiche: “Socrate si

vantava di non aver mai guardato una bettola né alcun altro

assembramento di gente. Per lui non c'era niente di più proficuo

di un colloquio costante con la filosofia.”

“Come hai ragione, Eumolpo!" gli dissi “Ma qualche volta

bisogna pure abbandonare tali colloqui se pericoli più gravi incombono.

Eumolpo, dobbiamo andar via. Io ho compiuto vari crimini e sono stato

denunciato. Ancora non è successo niente, ma se mi prendono finisco sulla

croce come il più disgraziato degli schiavi.” “Ho sentito qualcosa” mi

rispose “poi mi racconterai; ma le cose fatte in fretta non riescono bene quasi

mai. Adesso voi due riparate in un nascondiglio di tutta sicurezza e io

organizzerò un abbandono alla grande di questa città pure così simpatica.”

“Non ti fare illusioni, Encolpio. La tua nave che doveva arrivare

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dall'Africa carica dei tuoi soldi e dei tuoi schiavi, come avevi

promesso, non è arrivata. I cacciatori di eredità hanno cominciato

a ridurre i loro donativi. Perciò o io mi sbaglio o la fortuna che

finora sembrava assisterci adesso pentita sta facendo marcia

indietro. Perciò, Eumolpo, ti scongiuro: andiamo via il prima possibile o io

finirò sulla croce e chissà quale sarà la fine di questo ragazzo che io amo più

di me stesso.”

“Venite,” mi rispose “vi nascondo per bene e al massimo fra due

giorni salperemo da Crotone.”

Il cannibalismo.

Nasconderci! Era il solito Eumolpo: mi fece radere a zero, mi procurò

una parrucca bionda per cui se andavo in giro i maschi mi correvano dietro

per toccarmi dappertutto, soprattutto il culo, e mi disse: “Più nascosto di

così? E poi qui a Crotone non s'è mai vista l'ombra, non dico, del proconsole,

che non va neanche a Reggio, ma neanche di un soldato che faccia rispettare

la legge. Insomma, puoi ammazzare tranquillamente altri dieci sacerdoti

perché tanto nessuno oserà dirti niente per paura che ammazzi anche lui. “E

la denuncia di Enotea?” Gli obbiettai. “Ah, quella. O non è vero che ti ha

denunciato o ti ha denunciato al sindaco che è analfabeta e non parla

neanche calabrese. Non succede niente ma se succedesse qualcosa ci

penserei io a corromperlo. Figurati! Con tutti i soldi che ho guadagnato da

quando siamo arrivati!” Mi misi l'anima in pace e mi ripresentai dal mio

datore di lavoro che apprezzò molto la mia parrucca per cui il lavoro si

ammucchiava e anche noi due, ma in camera da letto.

Intanto sentite che cosa si era inventato quel matto. Visto che la nave

promessa, come era logico, non era arrivata, colse al volo l'occasione per

spargere la voce che sarebbe andato personalmente in Africa per caricare su

un'altra nave tutti i suoi beni e riportarli poi a Crotone; ma non sarebbe

andato via mare perché ci sarebbe voluto troppo tempo: lui conosceva un

metodo, molto in uso in Africa, che consisteva nel far rinascere una persona

morta immergendo in acqua bollente un pezzetto della sua carne a

condizione che parenti e amici mangiassero tutto il resto del corpo. Anche

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lui avrebbe fatto così per dimezzare i tempi del viaggio. Aveva già

programmato, il bastardo, l'uccisione di Corace, che aveva la sua stessa

corporatura ed una forte somiglianza anche del viso e mi aveva già fatto

prendere accordi con Simone per trasportare tre persone e tre sacchi di

indumenti (in realtà tutti i soldi guadagnati vendendo il ben di Dio che quegli

idioti dei crotoniati gli avevano regalato) su una sua nave che stava partendo

per l'Africa di lì a qualche giorno. Quando obbiettai ad Eumolpo che

nessuno avrebbe mangiato la carne di un morto, mi rispose col suo solito

cinismo: “Per soldi gli uomini fanno tutto, ricòrdati; ma per soldi investiti

di cui aspettano i proventi fanno anche di più. Suvvia, mangiamo e

brindiamo allegramente che il giorno della partenza sta per arrivare.”

E arrivò finalmente perché io e Gitone non ne potevamo più di

aspettare: un'ansia insopportabile ci avvelenava anche la notte per cui

dormivamo insieme, Simone permettendo, ma senza mai far l'amore perché

il pensiero assillante di dover uccidere Corace e dell'eventuale fallimento

dell'intera operazione bloccava ogni nostra emozione. Anzi, quando Simone

mi obbligava a restare anche la notte, per me era meglio, perché da passivo

lasciavo a lui ogni iniziativa: come sempre, mi succhiava instancabilmente

il cazzo ma senza successo per prendersi poi, una volta ccitato a dovere, la

parte di me che più gli piaceva, come ammetteva lui stesso.

Due giorni prima della partenza procedemmo all'uccisione di Corace

che fu sbrigativa e repentina. Eumolpo mi palpò un po' il culo per farselo

addrizzare e mi allontanò subito. Chiamò quindi Corace ordinandogli di

fargli un pompino che lo schiavo si affrettò a fargli perché la cosa gli piaceva

molto molto. Eumolpo durante il rapporto se ne stava tranquillamente seduto

sul triclinio e Corace, per prenderglielo in bocca, gli si era inginocchiato

davanti. Quando l'operazione stava sul punto di concludersi, Eumolpo, che

fingeva di ansimare mentre il poveretto godeva veramente perché con una

mano guidava il cazzo di Eumolpo dentro la sua bocca e con l'altra si

masturbava, estrasse rapidamente il pugnale che teneva nascosto sotto la

toga e con un colpo secco, sferrato sotto la gola di quell'infelice, lo sgozzò

senza alcuna esitazione; poi ci chiamò e ci ordinò di seguire gli ultimi

stramazzi del povero Corace in modo che non si macchiasse di sangue e

fosse pronto per il giorno dopo a sostituirlo sul catafalco.

Il giorno dopo radunò un po' di gente sulla pubblica piazza; pagò un

banditore perché desse l'annuncio di un suo comunicato importantissimo e

annunciò senza mezzi termini che aveva deciso di uccidersi perché il dolore

per la morte del figlio gli era diventato insopportabile. Spiegò quindi che

due suoi liberti sarebbero partiti per l'Africa il giorno dopo portando con sé

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un pezzetto della sua carne dalla quale sarebbe rinato e avrebbe portato a

Crotone tutta la sua ricchezza. Spiegò anche che in Africa per avere l'eredità

c'era l'uso obbligatorio di mangiare la carne del morto e che occorrevano

due testimoni del fatto che il rito era stato realmente compiuto dagli eredi di

Crotone e quindi concluse: “Coloro che possono vantare di avere il

loro nome nel mio testamento, tranne i miei liberti, percepiranno

ciò che io ho elargito loro a condizione di fare a pezzi il mio corpo

e di mangiarlo in presenza di tutto il popolo.” Fece una pausa, testò da

provetto oratore qual era la reazione del pubblico, che se ne infischiava di

quello che avrebbe mangiato pur di riavere i soldi investiti al fine di

comprarsi la benevolenza di quel “riccone”, e quindi concluse: “Lo sanno

tutti che in alcuni popoli vige ancora la stretta osservanza di

questa legge: i parenti, e in alcuni popoli anche gli amici, del defunto

ne debbono mangiare il corpo.” Poi esagerò com'era solito fare nel suo

ostinato egocentrismo: “Capita spesso che alcuni rimproverano i

malati perché con il loro pessimo stato di salute peggiorano la

carne che essi dopo dovranno mangiare. Perciò io esorto i miei

amici a non contraddire le mie volontà, ma con la stessa

disposizione con cui mi hanno succhiato l'anima ora provvedano a

cibarsi del mio corpo.” Ovviamente non tutti si convinsero seduta stante,

per cui si diffuse un certo mormorio sul come quando e perché e soprattutto

su quanto fosse l'ammontare della ricchezza di Encolpio. E siccome il

furbone aveva fatto circolare notizie mirabolanti sui suoi averi tanto grandi

da essere incalcolabili la fama di quella enorme ricchezza accecava

le menti di quei poveri disgraziati. Poi, si sa come vanno queste cose:

alla fine l'opinione più gradita prevalse e la voce che in fondo si trattava solo

di un momento e che bastava fissare alcuni dettagli del tipo “ma si può bere

vino dopo che uno ha ingurgitato il suo pezzo?” si impose nettamente su

quei pochi dallo stomaco delicato che insistevano nel dire che non è facile

accogliere così semplicemente alcune forme rituali di altre culture. A un

certo punto si fece largo tra la folla un energumeno con una pancia che

fuorusciva da sotto la tunica tanto era sbrindellata e noto a tutti perché si

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chiamava Gorgia, come il grande filosofo siciliano, e disse dal palco che

lui era pronto ad eseguire l'ordine di Eumolpo. Poi gli strinse un

braccio e disse: “Voi non avete mai mangiato una carne così buona. Si vede

che questo è un maiale ben pasciuto fin dalla nascita.” Eumolpo non

apprezzò quel “maiale” e glielo fece pagare caro perché Gorgia lo aveva

assoldato lui per fare quella dichiarazione. Qualcuno della folla gli gridò:

“Gorgia, sei il solito buffone. L'aspirante suicida non è un maiale e tu, lo

sanno tutti, ti ingoieresti anche le mestruazioni di tua moglie.” Risero tutti

meno che Gorgia il quale restò serio e sembrò aver mangiato anche le carni,

dell' antico filosofo, perché parlò con grande perizia: “La ripugnanza del

tuo stomaco non deve darti pensiero. Lo stomaco fa quello che gli

dici tu, specialmente se per un po' di nausea gli prometti che poi

lo compenserai con pietanze succulente. Devi solo chiudere gli

occhi, ingoiare e immaginarti che stai mandando giù dieci milioni

di sesterzi. E mettici che sto già studiando qualche spezia che

possa cambiare il sapore della carne umana e trasformarla in qualcosa

di simile alla carne di maiale, come ho già detto senza avere la minima

intenzione di scherzare. Nessuna carne è gradevole in sé: è la

manipolazione che la rende gradevole e accettabile al nostro gusto

che altrimenti la rifiuterebbe. Gli abitanti di Sagunto, assediati da

Annibale, mangiarono carne umana senza neanche avere la

speranza di prendere l'eredità. Gli abitanti di Petelia lo fecero

anche senza essere assediati, ma col solo fine di poter continuare

a vivere qualche giorno in più. Quando Scipione espugnò

Numanzia furono trovate delle madri con in braccio i corpicini dei

figli mangiati a metà.”

Il discorso di Gorgia sembrava scritto dal Gorgia vero di qualche

secolo prima. La folla applaudì, si allontanò e si ridusse a qualche crocchio

che ancora continuava a commentare e a lodare il discorso: alla fine la piazza

si svuotò dei cittadini di Crotone per permettere ad Eumolpo di lasciarli il

giorno appresso con l'ultima spettacolare esibizione.

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Mentre loro mangiavano e vomitavano il corpo di Corace, noi tre coi

nostri sacchi pieni di soldi ci avviavamo verso il porto dove l'imbarco fu più

facile di quanto pensassi. Temevo Simone soprattutto, ma preso com'era

dalle operazioni di carico e avendo in mente la mia prima immagine, quella

che gliel'aveva sconvolta, la mente! neanche mi notò. Lo lasciavo con

enorme dispiacere, ma non potevo fare diversamente. Mentre la nave si

allontanava piangevo come una fontana e allora Eumolpo per consolarmi

cominciò coi suoi soliti racconti.

“Appena arruolato, avevo diciassette anni, il mio comandante fu

spedito in Palestina. Quanti ricordi in quella terra calda e piena di sole e

soprattutto piena di giovani palestinesi abituati a vivere sui cammelli e

quindi pronti a cavalcare anche il mio senza fare tante storie! Non saprei da

dove incominciare, Encolpio, per consolarti e convincerti a non piangere

più. Ti racconterò quella di un grande profeta. In Palestina i profeti nascono

come le mosche, ma questo che ti voglio raccontare aveva un fascino e una

parola che provenivano da una grande ispirazione. E infatti lui diceva di

essere il figlio di Dio e che Dio gli comandava di portare tra gli uomini la

buona notizia di una nuova alleanza fra Lui e loro. Predicava l'amore tra gli

uomini, nient'altro; ma la sua storia è così bizzarra che ti farà dimenticare

Simone e Crotone.” “Solo tra gli uomini? Niente donne?” chiese Gitone

molto interessato. “Ma no, ragazzo; non alludeva all'amore che intendi tu;

intendeva dire che tutti, uomini e donne, avrebbero fatto bene ad amarsi l'un

l'altro, o l'altra, e a rinunciare a qualsiasi tipo di ostilità contro chiunque e di

cominciare anzi dai nostri nemici. Era un messaggio grandioso che colpiva

soprattuto la moralità romana, guerrafondaia com'è, e ancora di più quella

palestinese ancora più aggressiva e maschilista. E ciò gli costò caro, ma lui

diceva di saperla già qual era la sua fine e di esservi rassegnato. I Palestinesi

lo odiarono senza “se” e senza “ma” e i Romani si adeguarono a loro per

ragioni politiche, cioè per non suscitare scontento contro di loro che erano

pur sempre degli aggressori. Pensa che il proconsole della Palestina

nell'anno in cui il mio profeta fu crocifisso avrebbe voluto addirittura

salvarlo; ma il popolo palestinese fu irremovibile e lo mandò a morte.” “E

non disse niente dunque sull'amore tra uomini?” “No, ragazzo mio, ma se

non ne parlò, né di quello tra uomini né di quello tra donne, ciò significa che

lo considerava un fatto minore da includere senz'altro nel concetto più

generale di amore. Predicava l'amore contro l'odio, la guerra e l'aggressività

in genere, il che per Roma è una cosa gravissima: infatti l'impero oggi

perseguita i seguaci di quell'uomo ma essi pullulano già in tutto il territorio

dell'impero, ma nelle camere segrete del potere tutti hanno capito che quel

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grande messaggio è inarrestabile e che la parola di quel profeta erediterà per

intero le macerie dell'impero romano, quando cadrà, così com'è vero che i

cittadini scriteriati di Crotone non erediteranno niente da me.”

“Dunque sei sicuro che non ha condannato esplicitamente l'amore,

quello che intendo io, tra uomini?” “Ti dico di no. Non si sapeva nulla sulla

sua frequentazione di donne e molti facevano infondate chiacchiere

insinuanti sull'affetto straordinario che egli dimostrava verso il più giovane

dei suoi discepoli, bellissimo. Ma io dico che erano volgari insinuazioni;

semplicemente egli riteneva che un comportamento come quello amoroso,

di qualsiasi tipo fosse, fosse comunque accettabile e perdonabile e in ogni

caso talmente di poco conto da non meritare un suo giudizio.”

“Se è così, allora è anche il mio profeta; però per me l'amore non è

affatto di poco conto.” concluse Gitone. E così dicendo si staccò dalla

balaustra da dove stava ammirando il mare e venne a sdraiarsi in braccio a

me non senza prima essersi sollevato la parte posteriore della tunica in modo

che il suo culetto nudo aderisse direttamente sul mio fringuello ormai

guarito.

Avevamo lasciato da un pezzo le coste calabresi ed eravamo già in

alto mare e già l'Africa ci faceva di nuovo sognare.

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INDICE

A MARSIGLIA p. 1

Il furto delle mele p. 2

La vendetta di Priapo p. 3

Porfirione p. 3

La partenza da Marsiglia p. 4

Sulla nave per Roma p. 6

L'incidente del Giglio p. 6

A BAIA p. 7

A POMPEI p. 8

Gitone p. 8

Agamennone il retore p. 9

La fuga di Ascilto p. 11

Licurgo p. 12

In casa di Quartilla vicino al tempio di Priapo p. 13

Fuga da Quartilla p. 14

Gitone piange p. 14

A cena da Agamennone p. 15

Una notte indimenticabile p. 16

Al mercato p. 17

L'arrivo di Quartilla p. 18

La sorpresa p. 23

In casa di Quartilla p. 25

Il secondo giorno in casa di Quartilla p. 27

Il terzo giorno in casa di Quartilla p. 29

A cena da Trimalcione p. 30

La lite con Fortunata p. 47

Fortunata p. 48

Prove generali delle esequie di Trimalcione, fine cena p. 48

La seconda lite per Gitone p, 49

Il fantolin da culo p. 90

A ERCOLANO p. 94

Eumolpo p. 95

La guerra di Troia p. 100

Il ritrovamento di Gitone p. 105

Il ritorno del fantolino p. 107

A casa di Lica p. 107

Una nuova fuga p. 111

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Edile p. 112

DI NUOVO A POMPEI p. 113

Gitone piace anche ad Eumolpo p. 114

La battaglia di Eumolpo p. 118

VERSO LA SICILIA p. 122

Lica scopre tutto p. 124

Il processo p. 126

La matrona di Efeso p. 128

Il quadrifoglio di Eros p. 132

Il naufragio p. 135

Verso Crotone con i versi sulla guerra civile p. 140

Tarcisio p. 146

Circe e Polieno/Encolpio p. 154

La maga e secondo fallimento di Encolpio p. 163

Il monologo di Encolpio p. 166

Con Gitone, Enotea e Proseleno nel tempio di Priapo p. 169

L'uccisione dell'oca sacra p. 174

Adesso anche Criside p. 178

L'eredipeta e la guarigione p. 185

Il cannibalismo p. 188

N.B.: Questo lavoro sarà seguito relativamente a breve da due saggi: uno riguardante l'omosessualirà e i

numerosi temi che ad essa si connettono e l'altro, di natura formale, per chiarire alcuni punti che secondo me potrebbero

aiutare gli studiosi a mettere meglio a fuoco il romanzo dal punto di vista critico/letterario.