seconda edizione favola originale in dialetto leccesedella vecchia donna, bussò con il piede alla...

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seconda edizione Favola originale in dialetto leccese

tradotta e adattata da Donato Bono

Mamma, mi racconti una storia?

LU CUNTU DE OMBROSA SORO’ MI C’era na fiata nu maritu, nna mugliere e tre figlie. Morse la mamma e lu sire e rimasero le tre figlie sule. Una sera le tre orfanelle stavano sedute davanti al camino di casa… la prima filava, la seconda mangiava un pezzo di pane, la terza era seduta senza far niente. Quella che stava filando disse: “Io con questo filo, con cui sto filando, sarei capace di vestire tutto l’esercito del re”; e la seconda: “Ed io con questo pezzo di pane, che sto mangiando, sarei capace di sfamare l’intero esercito del re”; e infine la terza disse: “Ed io se stessi una notte soltanto con il re sarei capace di concepire due gemelli, uno maschio e l’altra femmina; la bimba con una stella d’oro in fronte e il maschio con una palla d’oro in mano. Quando ridono escono dalla bocca rose e fiori e quando piangono perle e rubini”. Le guardie, all’esterno, ascoltarono questi discorsi e riferirono il tutto al re, il quale ordinò che le tre fanciulle fossero portate al suo cospetto. Giunte che furono davanti al trono, il re chiese alla prima: “È vero che tu hai detto che con il filo, con cui filavi ieri sera, saresti capace di vestire tutto il mio esercito?”. “No, Maestà!” -rispose la fanciulla- “L’ho detto tanto per dire, tanto per passare il tempo”. “Va’ e non dirlo più!” –rispose severo il sovrano- “Chiamami l’altra tua sorella!”. Quindi il re si rivolse anche a questa: “È

vero che tu con quel piccolo pezzo di pane, che stavi mangiando ieri sera saresti capace di sfamare tutto il mio esercito?”. “No!” -rispose la fanciulla- “L’ho detto tanto per dire, tanto per passare il tempo”. “Va’ e non dirlo più! Fammi venire la sorella più piccola”. Quindi il re chiese alla piccola: “È vero che se tu stessi una notte con me saresti capace di concepire due gemelli, la femmina con la stella d’oro in fronte e il maschio con la palla d’oro in mano; quando ridono dalla bocca cacciono rose e fiori e quando piangono perle e rubini?”. “Sì!” –rispose decisa la ragazza. “Guarda –intervenne adirato il re- “che se non sarai capace, pena la testa! Ma se le tue parole si realizzeranno, io ti sposerò e diventerai regina”. Fu così che le prime due vennero assunte come serve nel palazzo, mentre la fanciulla fu fatta trasferire nelle stanze reali e viveva accanto al re. Il sovrano era gentile con lei e questa ricambiava l’affetto con altrettanta gentilezza Allora, le due sorelle furono prese da grande invidia e si dissero: “Vedrai che presto partorirà, diventerà regina e noi dovremo fare le serve a lei”. Scrissero, così, una lettera falsa al re, affinché si presentasse urgentemente presso un altro regno. Nel frattempo, mentre il re era ancora lontano, giunse il tempo del parto e le due sorelle dissero alla loro sorellina, rimasta incinta e in procinto di partorire, che le avrebbero dovuto bendare gli occhi. Ella partorì due bei bambini, uno maschio e l’altra femmina, ma le due

sorelle li sostituirono con due cagnolini, appena partoriti da una cagna. Quando le tolsero la benda dagli occhi le dissero: “Ecco cosa hai partorito al re, due cagnolini! Appena giungerà, ti ucciderà!”. Giunto che fu, le due sorrelle invidiose dissero al sovrano: “Guarda, maestà, che cosa ha fatto! Invece di due bambini, ha partorito due cagnolini”. Il re, ucciderla gli dispiaceva, e decise di farle vivere il resto della vita chiusa in un tremendo sotterraneo. Quando si ricordavano le due arroganti sorelle le portavano appena una fetta di pane e un bicchiere d’acqua. Ma quando non si ricordavano, la poveretta restava completamente digiuna. Lassamu de isse e pigliamu de sti doi vagnoni (lasciamo queste e andiamo a vedere i due bambini). I due bambini, appena nati, furono posti dalle due sorelle in una cassettina e li gettarno nel mare, finché sbatti di qua e sbatti di là non giunsero presso l’altra sponda del mare, dove viveva il vecchio Nanni. Vista la cassettina, si chiese: “Che cos’è mai?”. E aperto il misterioso cassetto, vide due bei bambini, piccolini, ripieni di rose e fiori e di perle e rubini. “Bellezza di Dio!”. –esclamò il Nanni. E li portò nella sua casa. Ma sedutosi, cominciò ad essere assalito dal pensiero di come recuperare il latte, ed ecco all’improvviso presentarsi una prodigiosa cerva. All’inizio questi cominciò ad allontanarla, ma vistola risoluta, disse tra sé: “Forse è qui per sfamare i due piccoli”. E postili sotto l’animale, questi cominciarono a succhiare. La

cerva si presentava puntuale tre volte al giorno, finché i piccoli non vennero svezzati. Il vecchio li accudì come suoi veri figli, facendoli crescere belli e robusti, finché non giunse il giorno della morte. Ma prima di morire, il vecchio Nanni chiamò a sé i due ragazzi e disse loro: “Ecco io sto per morire” –“Che cos’è questo morire? –chiesero stupiti i due gemellini?”. “Quando vedrete che io non parlo più, sono freddo e irrigidito, significherà che sono morto. Mi seppellirete qui vicino, in questo sepolcro, scavato da me, presso la mia vecchia casa. E quando avrete bisogno di aiuto basterà che veniate a pregare davanti alla mia tomba, dicendo: Anima del Nanni, aiutaci. Ed io, se lo potrò, verrò in vostro soccorso”. Passato del tempo, il buon Nanni morì e i due ragazzi fecero come egli aveva loro raccomandato. Ma alla fine della giornata ebbero fame. Allora si ricordarono delle ultime raccomandazioni del loro vecchio benefattore. Si recarono davanti alla sua tomba e dopo aver recitato le preghiere dissero: “Anima del Nanni, aiutaci”. Si presentò allora un bel cavallo bianco e si chinò davanti a loro, inginocchiandosi e facendo intendere di dover salire in groppa. All’inizio i due bambini cominciarono ad aver paura, ma il maschietto, più coraggioso, disse: “Chissà se non è qui per farci salire sul dorso?”. Avvicinatisi che furono, il cavallo si inginocchiò di nuovo e i due intesero che dovevano montare sull’animale.

E galoppa galoppa, galoppa galoppa, dopo lunghissime ore e lunghe giornate, giunsero nel luogo dove si trovavano i loro due genitori. Qui viveva una vecchia signora, chiamata mescia Rosa, che tesseva il tiraro, senza figli, ma desiderosa di averne qualcuno. Il bianco cavallo, giunto alla casa della vecchia donna, bussò con il piede alla porta. Uscita che fu, ella vide due bei bambini sul bianco cavallo e piena di gioia li raccolse a sé, portandoli nella propria casa. Ella sussurrava tra sé: “Che gioia avere con me due bei figlioli!”. Il marito, tornato in casa, condivise la gioia della moglie, ma quando si recò fuori per legare in stalla il cavallo, tornò dentro casa, dicendo alla moglie che il cavallo era scomparso. E lei di contro gli disse: “Che pensi ormai al cavallo! Abbiamo qui due bei figlioli!”. Passarono gli anni e al maschietto fu permesso di andare a scuola e affrontare gli studi, mentre la ragazza divenne esperta di filaro (mescia de filaro). Nel frattempo le due tremende sorelle si erano sposate e avevano avuto un figlio ciascuna. Un giorno, tornati al castello, questi mostrarono alle rispettive madri rose e fiori, perle e rubini, usciti dalla bocca di un misterioso ragazzo. Al sentire la notizia, le malvagie donne si indignarono e pensarono che era il figlio della loro povera sorella. Decisero allora di agire con inganno. Si rivolsero ad una vecchia cattiva e astuta, chiedendole di recarsi presso la casa di mescia Rosa e

di convincere la giovane ad avere con sé il misterioso uccellino d’oro. Approfittando dell’assenza di mescia Rosa, la quale tutte le mattine si recava alla Messa, la vecchia fu presto dalla fanciulla ed entrata che fu in casa, le disse: “Che sei bella, figlia mia! E come tessi bene pure! Però ti manca l’uccellino d’oro, che se fosse qui con te splenderebbe insieme alla tua bellezza”. La fanciulla, a queste parole, cominciò a piangere e strillare: “Voglio l’uccellino d’oro! Altrimenti mi ammazzo!”. Rientrata in casa mescia Rosa, non potette alleviare per niente il pianto della ragazza, e diceva: “Ma chissà mai chi è questa vecchiaccia che viene a portare fuoco in casa mia!”, finché non giunse il fratello da scuola e questi le disse: “Non piangere! L’uccellino d’oro vuoi e l’uccellino d’oro vado a prenderti!”. All’indomani, il fanciullo ritrovò davanti alla porta di casa il suo bel cavallo bianco e si recò alla tomba del vecchio Nanni. Inginocchiatosi che fu, dopo aver fatto le solite preghiere, disse: “Mia sorella vuole l’uccellino d’oro!”. Allora si sentì la voce del vecchio Nanni, che gli disse: “Figlio mio, l’uccellino d’oro è molto difficile da prendere! Molti sono andati e nessuno è tornato!”. Ma il ragazzo, ormai intestardito, gli rispose che lui non poteva non andare e per sua sorella era disposto a rischiare. Il Nanni, vistolo deciso e irremovibile, gli disse: “Entra da quel portone! Lì troverai tante statue di cavalli e cavalieri, tutte marmoree. Sono coloro che hanno tentato di prendere

l’uccellino d’oro. Tu cammina sempre dritto. Le statue ti diranno: Ragazzino, voltati! Se ti volterai diventerai anche tu di marmo. Passate tutte le statue, vedrai in alto una piccola finestra. Allora dovrai gridare più forte che puoi: Ombrosa, soro’ mi. Se questa non sentirà la tua voce, le tue gambe e quelle del cavallo diventeranno di marmo. Allora dovrai tentare per la seconda volta: Ombrosa, soro’ mi! Se neanche questa volta udrà la tua voce, diventerà di marmo tutto il tuo corpo e tutto il corpo del cavallo, escluse le teste. Allora ti resterà l’ultima possibilità, cercando di urlare con tutte le forze della disperazione, perché se neanche quella volta sentirà, allora diventerai tutto marmoreo”. Ascoltate le istruzioni del vecchio Nanni, il giovane deciso e tutt’altro che atterrito, si recò nel luogo misterioso. Enormi statue e tanti cavalieri urlavano: “Voltati, ragazzino, voltati!”. Ma egli non dava ascolto a quelle voci, camminando sempre per la sua strada. Giunse così davanti alla misteriosa finestra. “Ombrosa, sorò mi!” -urlò per la prima volta con tutte le forze, che aveva in gola. Ma dall’alto nessuna risposta. Subito le gambe sue e quelle del cavallo diventarono di marmo. “Ombrosa, soro’ mi!” -urlò per la seconda volta con tutte le forze che gli erano rimaste, ma dall’alto nessuna risposta. Subito il resto del corpo, eccetto le teste, diventarono di marmo. Preso ormai dalla disperazione, con un atto di coraggio, con tutta l’aria che gli restava in gola, emise l’ultimo disperato urlo: Ombrosa, soro’ mi”. “Eccomi,

ragazzino mio!”, si sentì rispondere dall’alto della finestra e apparve una bellissima e misteriosa signora, che lo fece entrare nella sua casa. “Se vuoi l’uccellino d’oro da portare a tua sorella devi attendere tre giorni e tre notti in casa mia. Alla fine te lo darò” –rispose la buona donna. Quando le malvagie zie videro che il ragazzo non faceva ritorno, passati i tre giorni fecero salti di gioia, gridando: “Ce l’abbiamo fatta! Lui è rimasto intrappolato nella caverna e lei morirà di crepacuore!”. Ma al terzo giorno il giovane, ricevuto l’uccellino d’oro, intraprese il viaggio di ritorno e dopo due giorni potette finalmente consegnare alla sorellina il misterioso e bellissimo uccellino. Lei, soddisfatta e piena di allegria, lo pose sul suo bel tiraro, mentre egli cantava: “Tessi e fila! Tessi e fila! Che il tempo s’avvicina!”. Un bel giorno, i due ragazzi fecero ritorno dalle rispettive madri, annunciando loro che il misterioso ragazzo delle perle d’oro e dei ricchi rubini era rientrato a scuola. Allora, prese da grande indignazione, si dissero l’un l’altra: “Il diavolo in corpo ha questo ragazzo. Nessuno vi è mai ritornato!”. Decisero così di chiedere alla vecchia di riferire alla ragazza che l’uccellino sarebbe morto se non avesse avuto la gabbia d’oro, che gli apparteneva. Una mattina la vecchia si recò dalla ragazza, dicendole: “Che sei bella, figlia mia! Hai visto come sei diventata ancora più bella con l’uccellino d’oro innanzi! Ma,

figlia mia, l’uccellino presto morirà, se non avrà la sua bella gabbia d’oro”. Andata che fu, la bella ragazza, ingannata per la seconda volta, cominciò a piangere e a disperarsi: “Voglio la gabbia d’oro! Altrimenti mi ammazzo”. Rientrata in casa mescia Rosa, anche lei cominciò a urlare: “Che ti è successo, figlia mia! E chi è mai costei che viene a mettere fuoco in casa mia?”. Tornato da scuola il fratellino, le disse: “Che è successo ancora? Va bene -gli disse alla fine- “La gabbia d’oro vuoi e la gabbia d’oro andrò a prederti!”. Giunto nella famosa caverna, le statue cominciarono a urlare: “Voltati, voltati, ragazzino!”, ma il ragazzo non dette ascolto a quelle voci, finché non giunse al noto finestrino. “Ombrosa, soro’ mi!” –urlò con tutte le forze in gola, ma dall’alto nessuna risposta. Subito le gambe gli divennero marmoree, come anche quelle del suo cavallo. “Ombrosa, soro’ mi!” –urlò per la seconda e ultima volta. “Eccomi, ragazzino mio!” -rispose la buona donna. Il buon ragazzo la informò dell’ulteriore desiderio della sorella e la donna rispose: “Sì, sì! Come no? Io ti aspettavo, ma per avere la gabbia d’oro, dovrai attendere non tre, ma cinque giorni”. Al passar dei cinque giorni, le malvagie sorelle saputo che il ragazzino non era ancora rientrato a scuola, esultarono felicemente, dicendosi: “Ormai ce l’abbiamo fatta. Lui è rimasto nella caverna e la sorellina morirà di crepacuore”. Ma avuta tra le mani la gabbia d’oro, il bel ragazzino prese la via del ritorno

e giunto a casa la consegnò con orgoglio alla propria sorellina, la quale vi collocò il bel uccellino, raddoppiando lo splendore nella propria dimora. Rientrato l’indomani a scuola, i cugini comunicarono la notizia alle loro rispettive madri. “Povere noi!” -esclamarono le malvagie sorelle!. “Se il re saprà la verità, povere noi!”. Decisero, allora, di chiedere alla vecchia di convincere la ragazza a portare in casa la padrona dell’uccellino d’oro, altrimenti questi morirà, certe che la padrona non sarebbe mai e poi mai venuta. La vecchia, ricevuti gli ultimi cento ducati d’oro, si recò presso la ragazza e le disse: “Che bello splendore, figlia mia! Ma se non verrà qui la padrona dell’uccellino d’oro, questi presto morirà, perché, tu non sai cosa devi dargli da mangiare”. Uscita che fu, la ragazza cominciò a strillare e a urlare: “Voglio la padrona dell’uccellino d’oro!”. Giunta mescia Rosa e vistala nelle solite drammatiche condizioni, disse disperata: “Che ti è successo, figlia mia e chi è mai questa vecchia che porta fuoco a casa mia?”. Rientrato il fratello, disse alla sorellina in preda al pianto e alla disperazione: “La padrona dell’uccellino vuoi e la padrona dell’uccellino avrai!”. Gli disse mescia Rosa: “Anche tu sei testardo! La padrona dell’uccello d’oro potrà mai qui venire?”. Ma il ragazzo prese la strada della famosa caverna e si trovò subito sotto la nota finestra. “Ombrosa soro’ mi!” -urlò con tutte le forze in gola. “Eccomi, ragazzino mio! Io ti aspettavo!

Resterai qui con me tutto l’inverno e a primavera ce ne andremo da tua sorella”. Le malvagie zie, non vedendolo più tornare, fecero salti tripli di gioia, sicure che ormai il rivale ragazzino era morto. Giunta la primavera, la padrona dell’uccellino d’oro prese la sua bella bacchetta magica (perché dovete sapere che Ombrosa era una famosa fata!) e giunsero di notte di fronte al palazzo del re. “Bacchetta di comando” –disse decise la fata. “Comanda padrona!”, rispose sollecita la bacchetta magica. “Voglio che ci sia subito qui di fronte un bel palazzo reale simile a quello del re, e le finestre che si affaccino l’una sull’altra”. Chiamato il ragazzo, gli ordinò di sostare sul balcone della finestra, giocando con la sua bella palla d’oro, senza dare ascolto a chicchesia. Alzatosi di buon mattino, il re, stupito, vide di fronte a sé uno splendido palazzo e davanti alla sua finestra un ragazzo, che giocava con la stupenda palla d’oro. “Ragazzino, ehi, ragazzino”, gli gridava il re, ma questi non dava ascolto. Invitato a fare colazione, rispose alle due sorelle. “Andate! Se volete mangiare magiate; se volete bere, bevete”. Richiamato da Ombrosa, il ragazzo rientrò in casa, chiudendo la finestra. Il giorno seguente, il sovrano si recò nel misterioso palazzo e incontrata Ombrosa, chiese spiegazioni sul ragazzo: “Di chi è figlio questo bel giovanotto!”. “È mio figlio!” -rispose decisa Ombrosa. “Ma è sordo? È muto?” –replicò il re. “No, no! Parla, sente e fa’ tutto!” –gli rispose la fata. “Voglio che oggi

veniate a pranzare nel mio palazzo” –ordinò il re- “perché a me piace molto questo ragazzo”. Saputa la notizia dell’invito a pranzo da parte del re, le due perfide sorelle decisero di mettere il veleno nei piatti dei due invitati. Ma Ombrosa, che era una fata, dette il primo boccone al suo cagnolino. Preso il boccone, il bel cagnolino fece in tempo a fare tre giri su se stesso e morì. La fata, allora, indignata, urlò: “Questo cibo è velenoso!”. Il re, incredulo, insisteva a non andarsene, perché il bel cagnolino era morto per pura casualità, ma la fata, preso per la mano il bel ragazzo, uscì dal palazzo piena d’ira. All’indomani, il re tornò, porgendo le sue scuse. Ombrosa le accettò, a condizione che il pranzo venisse offerto da lei e che fossero presenti tutti gli abitanti del palazzo reale. Alle dodici in punto del giorno seguente, la fata ordinò alla sua bacchetta magica: “Bacchetta di comando!”. “Comanda, padrona!” -rispose sollecita la bacchetta magica. “Voglio tavola da pranzo aggiustata, con tutte le sedie degli abitanti del palazzo del re”. Chiamato il ragazzo lo istruì nel modo seguente: “Io e te serviremo a tavola. Al termine del gustosissimo pranzo, tu andrai a prendere le ciliege. E dirai: Signori e signore! Tutti gli altri cibi prelibati li avete assaggiati prima voi. Ma le ciliege le assaggerò per primo io. Quando io farò finta di averti schiaffeggiato, tu comincerai a piangere, a urlare, a gettare piatti, gettandoti anche tu per terra, senza smettere di piangere”.

Giunti gli invitati, presero subito posto, secondo le indicazioni della fata. Ma rimase vuota la sedia accanto al re. Ombrosa chiese: “E chi manca ancora?”. “Nessuno!”. Risposero gli invitati. Ma la bella fata assicurò al re: “Manca la persona che maggiormente è interessata a te”. Le sorelle si fecero innanzi e dissero: “Ah! C’è una donna nei sotterranei. Ma nessuno sa se è morta o è viva”. “Morta o viva, la voglio qui, accanto al sovrano” –rispose decisa Ombrosa. Presa la povera donna dai sotterranei, questa fece il suo ingresso nella sala da pranzo più morta che viva e sedette accanto a Sua Maestà. Il pranzo si svolse secondo il previsto, e la povera donna mangiava con molta difficoltà, dopo anni e anni penosi di sofferenza. Giunti alle ciliege, il ragazzo esordì secondo le raccomandazioni della fata: “Signore e signori, i precedenti cibi li avete mangiati voi, ma queste ciliege le assaggerò dapprima io!”. Gettate tre belle ciliege in bocca, Ombrosa gli dette il concordato schiaffetto e il ragazzino cominciò a piangere, sbattere e urlare. Piangendo gli uscivano dalla bocca perle e rubini, tanto che il sovrano restò a bocca aperta. Avvicinatesi le perfide sorelle, dissero alla fata: “A un ragazzo così bravo tu dai uno schiaffo?”. Allora la fata rispose: “Chi volesse male a questo bel ragazzino cosa gli si dovrebbe fare?”. “Bruciatelo, appicciatelo e la polvere sua gettate ai sette venti”. “Chi sole se la son data la sentenza, sole se la piangono la penitenza!” –rispose imperterrita la fata. Rivoltasi al re, ella gli

disse: “Questi è tuo figlio! Presso mescia Rosa c’è la figlia gemella, che questa povera donna ti partorì in tua assenza. Loro, le perfide sorelle, accecate dall’invidia, hanno scritto lettere false e hanno scambiato i due bei fanciulli con due cagnolini, mentre lei, bendata e ingannata, partoriva i tuoi bei figliuoli”. Raccontatagli la storia, il re infuriato ordinò che le due perfide spaventate sorelle venissero bruciate con quattro sarcine di legno sotto, tre di sopra e loro nel mezzo. Bruciate e appicciate, la loro polvere fu gettata ai sette venti. Presa la fanciulla da mescia Rosa, la famiglia reale finalmente si riunì. Divenuta regina, ella visse felice e contenta con i suoi bei figli e con il sovrano. La bella fata fece rientro nella sua dimora. Il palazzo scomparve ed essi vissero felici e contenti ca se mpizzi le ricche ancora li senti. E lu’ cuntu ’nun è cchiui, dicitene n’addhu vui (…che se tendi l’orecchio ancora li puoi ascoltare. E la favola è finita, ora raccontatene un’altra voi).

Finito di stampare nel mese di Aprile 2012

presso la Tipografia “MARTINA” Latiano