sentenza 30 luglio 1981, n. 174 (gazzetta ufficiale 12 agosto 1981, n. 221); pres. gionfrida, rel....
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sentenza 30 luglio 1981, n. 174 (Gazzetta ufficiale 12 agosto 1981, n. 221); Pres. Gionfrida, Rel.Elia; Regioni Toscana e Piemonte (Avv. Narese), Umbria (Avv. D'Onofrio), Emilia-Romagna(Avv. Galgano), Veneto (Avv. dello Stato Azzariti) c. O.n.a.o.s.i. (Avv. Sandulli); interv. Pres.cons. ministri (Avv. dello Stato Azzariti). Ord. Cass. 3 luglio 1980 (Gazz. uff. 28 gennaio 1981,n. 27)Author(s): Giuseppe VolpeSource: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 11 (NOVEMBRE 1981), pp. 2617/2618-2631/2632Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174081 .
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2617 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 2618
I
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 30 luglio 1981, n. 174
(Gazzetta ufficiale 12 agosto 1981, n. 221); Pres. Gionfrida, Rei. Elia; Regioni Toscana e Piemonte (Avv. Narese), Um
bria (Avv. D'Onofrio), Emilia-Romagna (Avv. Galgano), Ve
neto (Avv. dello Stato Azzariti) e. O.n.a.o.s.i. (Avv. Sandulli); interv. Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato Azzariti). Ord.
Cass. 3 luglio 1980 (Gazz. uff. 28 gennaio 1981, n. 27).
CORTE COSTITUZIONALE;
Regione — Assistenza e beneficenza pubblica — Enti pubblici nazionali ed interregionali operanti in materia — Trasferi
mento alle regioni dell'O.n.a.o.s.i. — Questione infondata di
costituzionalità (Cost., art. 76, 117, 118; legge 22 luglio 1975
n. 382, norme sull'ordinamento regionale e sull'organizzazione della pubblica amministrazione, art. 1; d. pres. 24 luglio 1977
n. 616, attuazione della delega di cui all'art. 1 legge 22 luglio 1975 n. 382, art. 22, 113, 114; tabella B n. 2).
È infondata la questione di costituzionalità degli art. 22, 113 e 114, tabella B, n. 2, d. pres. 24 luglio 1977 n. 616 nella parte in cui, nell'ambito della ridefinizione della materia della beneficenza pubblica, trasferiscono alle regioni funzioni e strutture degli enti
pubblici nazionali ed interregionali operanti nella materia e,
pertanto, anche dell'Opera nazionale orfani sanitari italiani, in
riferimento agli art. 76, 117 e 118 Cost. (1)
II
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 30 luglio 1981, n. 173
(Gazzetta ufficiale 12 agosto 1981, n. 221); Pres. Gionfrida,
Rei. Elia; Opera pia fondazione Rhodense (Avv. De Camelis) e
altra c. Comune di Rho; Opera pia fondazione Biffi e Opera pia don Adalberto Catena (Avv. Sandulli) c. Comune di Milano
(Avv. Marchese, Bassani), Regione Lombardia ed altro; interv.
Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato Azzariti) e Regione Lom
bardia. Ord. Trib. Milano 14 dicembre 1978 (Gazz. uff. 2 maggio
1979, n. 119), 22 marzo \1979 (id. 26 settembre 1979, n. 265).
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza — Istituzioni
operanti nell'ambito regionale — Trasferimento ai comuni —
Eccesso dalla delega — Incostituzionalità (Cost., art. 76, 77;
legge 11 marzo 1953 n. 87, norme sulla costituzione e sul fun
zionamento della Corte costituzionale, art. 27; legge 22 luglio 1975 n. 382, art. 1; d. pres. 24 luglio 1977 n, 616, art. 25).
E illegittimo, per violazione degli art. 76 e 77, 1" comma, Cost, per eccesso dalla delega rispetto all'oggetto ed alle finalità determi
nate dall'art. 1, 1" comma, lett. a, b ed e, legge 22 luglio 1975
n. 382, l'art. 25, 5° comma, d. pres. 24 luglio 1977 n. 616 nella
parte in cui stabilisce che le funzioni, il personale ed i beni delle
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza operanti nell'am
bito regionale sono trasferite ai comuni singoli o associati, sulla
base e con le modalità delle disposizioni contenute nella legge sulla riforma dell'assistenza pubblica e, comunque, a far tempo dal 1" gennaio 1979. (2)
Sono illegittimi di conseguenza, a norma dell'art. 27 legge 11 mar
zo 1953 n. 87: a) il 6" comma dello stesso art. 25; b) il 7" com
ma dello stesso art. 25 limitatamente alle parole: « L'elenco di
cui al comma precedente è approvato con decreto del presidente del consiglio dei ministri. Ove, entro il 1" gennaio 1979, non sia
approvata la legge di riforma di cui al precedente 5" comma »
e alle parole « nonché il trasferimento dei beni delle I.p.a.b. di
cui ai comma precedenti » ; c) del 9° comma dello stesso art. 25
limitatamente alle parole: « e delle I.p.a.b. di cui al presente ar
ticolo ». (3)
(1-3) L'ordinanza della Cassazione 3 luglio 1980 è massimata in
Foro it., Rep. 1980, voce Regione, n. 265; le ordinanze del Tribunale
di Milano 14 dicembre 1978 e 22 marzo 1979 sono massimate in
Foro it., 1979, I, 1915 e Rep. 1980, voce Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza, n. 14. Nella motivazione della sentenza n. 173 la corte ha in via pre
liminare dichiarato inammissibile la questione sollevata dal giudice istruttore del Tribunale di Milano con ordinanza emessa dopo che
era stato proposto dalla parte resistente ricorso per il regolamento pre ventivo di guirisdizione, conformandosi cosi alla sua costante giurispru denza: v. sent. 30 dicembre 1972, n. 221, id., 1973, I, 307; 6 giugno 1973, n. 73, id., 1973, 1, 1657; 11 giugno 1975, n. 135, id., 1975, I, 1901; 20
maggio 1976, n. 118, id., 1976, I, 1416; 22 luglio 1976, n. 186, id., 1976,
I, 2032, tutte citate in motivazione; alla suddetta regola la corte ha dero
gato soltanto per gli atti urgenti e per i provvedimenti cautelari, v. sent.
6 giugno 1973, n. 73, cit.; 19 dicembre 1973, n. 177, id., 1974, I, 1;
15 luglio 1976, n. 179, id., 1976, I, 2035; 22 luglio 1976, n. 186, cit.
Sulle questioni di costituzionalità degli art. 22, 113 e 114, nonché
dell'art. 25, 5° comma, d. pres. 24 luglio 1977 n. 616, v. la nota
che segue.
I
La Corte, ecc. — 1. - L'ordinanza delle sezioni unite civili della
Corte di cassazione propone due questioni di legittimità costitu zionale in ordine agli art. 22, 113, 114, tabella B, n. 2, d. pres. 24 luglio 1977 n. 616: la prima concerne la conformità o meno di detta normativa alle regole dell'art. 76 Cost.; la seconda ri
guarda la violazione o meno da parte della normativa predetta dei precetti contenuti negli art. 117 e 118 Cost, in ordine alla
ripartizione delle attribuzioni tra Stato e regioni di diritto co mune in tema di beneficenza e assistenza pubblica.
* ♦ *
Beneficenza, I.p.a.b., enti locali: le scorciatoie del legislatore delegato e la via maestra della Corte costituzionale.
Nelle due sentenze qui riportate la corte aflronta il tema della beneficenza pubblica e della sua organizzazione istituzionale dopo l'emanazione del d. pres. n. 616/1977, dipanando un ragionamento organico ed unitario, che tuttavia è opportuno analizzare partitamente prima di valutarne gli esiti complessivi, anche politici; e ciò soprat tutto al fine di non trascurare il rilievo di alcune indicazioni conte nute nelle motivazioni, suscettibili di dispiegare efletti importanti, anche di ordine metodologico, al di là del settore oggetto delle de cisioni.
Alla dichiarazione di infondatezza della questione concernente l'art. 22 d. pres. 616 la corte perviene riconoscendo la costituzionalità delia ridefinizione della materia « beneficenza pubblica » disposta dalla stes sa norma. Questa, infatti, « congiunge in una entità unitaria (ad ec cezione delle funzioni relative alle prestazioni economiche di natura previdenziale) le attività che la sentenza n. 139 del 1971 aveva netta mente separate »; e cioè, da una parte, l'assistenza sociale, la quale « implica una rigorosa delimitazione nella discrezionalità delle pre stazioni, sf da concretare il diritto all'assistenza, di cui è parola nel l'art. 38 Cost.; una predeterminazione delle categorie dei destinatari dell'assistenza, ai quali, per il solo fatto di appartenere a tali cate gorie, spettano le prestazioni assistenziali; la relativa uniformità di queste prestazioni che appaiono come sostitutive di un reddito di lavoro »; dall'altra, la beneficenza ed assistenza pubblica, « cosi come individuata a partire dalla legge organica 17 luglio 1890 n. 6972, si caratterizza per la discrezionalità delle prestazioni in denaro e in servizi che possono rivolgersi a favore di tutti coloro che comunque si trovino in condizione di bisogno » (da siffatta nozione veniva co munemente dedotto il carattere « complementare » della materia, os sia integrativo delle carenze dell'assistenza sociale rimessa ad organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato: cfr. D'Amelio, La be neficenza nel diritto italiano, 1931; Mazziotti, Assistenza (profili co stituzionali), voce dell'Enciclopedia del diritto, 1958, III, 749; Ba locchi, La qualificazione di povertà nel diritto amministrativo, Mi
lano, 1967; A. M. Sandulli, Manuale di dir. amm.u, 1974, 709). Al contrario, afferma ora la sent. n. 174, « la ridefìnizione operata
dall'art. 22 d. pres. n. 616 del 1977 (che include prestazioni di ser vizi gratuiti o a pagamento, prestazioni economiche a favore di sin
goli e di gruppi, individuati anche per categoria, quale che sia il titolo della individuazione) deve essere inquadrata in tale prospettiva che ricomprende (senza risolversi nelle forme già note di intervento) non solo la «beneficenza e assistenza pubblica» ex art. 117 ma anche l'« assistenza sociale » ex art. 38 Cost. L'ampliatio dei destinatari, che prescinde in taluni casi dallo stato di bisogno; la diversificazione delle prestazioni, congiunta all'estendersi del carattere di non discre zionalità nella loro erogazione; la tendenza a superare la tipizzazione
degli interventi a seconda delle categorie individuate dall'attività la
vorativa degli assistibili, facendosi riferimento ai diversi stadi della
vita umana (infanzia, vecchiaia) che maggiormente richiedono la frui
zione dei servizi sociali: questo insieme di elementi comporta il su
peramento dei presupposti sui quali si fondavano le distinzioni e le
contrapposizioni disegnate nella sent. n. 139 del 1972 » (Foro it., 1972,
I, 3350, con nota di Volpe; ma già in qualche sparsa decisione si
era talora profilata una concezione più unitaria delle materie in
questione: sent. 14 aprile 1965, n. 27, id., 1965, I, 1130; 20 aprile 1968, n. 29, id., 1968, I, 1107; e piti recentemente e relativa alle
regioni a statuto ordinario, sent. 21 maggio 1975, n. Ill, id., 1975,
I, 1914, con nota di richiami e osservazioni di Volpe; costante ap
pare invece la giurisprudenza costituzionale nell'escludere la materia
previdenziale dall'ambito della competenza regionale: v., da ultimo, sent. 20 maggio 1976, nn. 126 e 127, id., 1976, I, 2077, con nota di
richiami). Tecnicamente il riconoscimento da parte della corte della predetta
ridefìnizione sotto il profilo del riparto delle competenze tra Stato e
regioni poggia essenzialmente su un duplice ordine di considerazioni:
a) sulla discrezionalità del legislatore statale nell'adottare un disegno
organico di riforma dei servizi sociali ai sensi dell'art. 38 Cost., con
nessa alla costante possibilità dello Stato di incidere profondamente nei confronti delle regioni nella fase di attuazione del disegno, sia
attraverso l'adozione di una legge di riforma dell'assistenza classifica
bile come legge-cornice o di riforma economico-sociale, sia soprattutto con una incisiva manovra delle risorse finanziarie destinate agli
organi ed istituti regionali; b) sulla discrezionalità del legislatore sta
tale (nella fattispecie, delegato) nell'apprezzare « secondo i criteri in
dicati nell'art. 1, 3° comma, n. 1, della legge di delega n. 382 del
1975, la più stretta connessione esistente tra funzioni affini, stru
Il Foro Italiano — 1981 — Parte I-168
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2619 PARTE PRIMA 2620
Va senz'altro respinta la eccezione di irrilevanza delle questio
ni sollevate dalle sezioni unite proposta (come precisato in nar
rativa) dalle regioni costituitesi in questo giudizio e fondata
sulla natura di istituzione pubblica di assistenza e beneficenza
(I.p.a.b.), a carattere nazionale, che, a quanto si afferma, sarebbe
propria dell'Opera nazionale per l'assistenza agli orfani dei sa
nitari italiani (O.n.a.o.s.i.). In realtà questa eccezione attiene di
rettamente al merito del giudizio e non può dunque impedire
alla corte l'esame delle questioni proposte dal giudice a quo.
mentali e complementari nel quadro dei trasferimenti di funzioni
amministrative alle regioni, trasferimenti finalizzati, iti questo caso,
alla ricomposizione dei servizi sociali su basi territoriali. « Rientra pertanto — conclude la corte — nella discrezionalità o po
liticità di siffatta iniziativa riformatrice dello Stato, comunque non
contrastante con i principi costituzionali, il disfavore nei confronti
della sopravvivenza di enti nazionali a carattere strumentale (non fondati sulla libera volontà associativa) costituiti per assistere sog
getti qualificati dal riferimento ad una categoria individuata secondo
l'attività lavorativa e per di più ispirati al principio della ' mutualità '
imposta per legge », come l'0.n.a.o.s.i.; disfavore del resto coerente
con l'indirizzo politico di fornire assistenza in base a standards co
muni a tutta la popolazione. In dottrina, sulla nuova concezione della beneficenza pubblica co
me servizio sociale e come attività rientrante nel quadro della sicu
rezza sociale (ora legislativamente sancita _ dall'art. 22 d. pres. n. 616),
Bassanini, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 325; Pototschnig, in Le
regioni, 1977, 1229; Stipo, Beneficenza, assistenza e previdenza nei rap
porti fra Stato e regioni, 1977; Colombo, Principi ed ordinamento
dell'assistenza sociale, 1977; F. P. Pugliese, in Foro amm., 1977,
I, 1308; Carlascio, in Regioni e comunità locali, 1977, fase. 6, I, 63;
Guerzoni, in Città e regione, 1978, 13; Id., in Dir. eccles., 1979, I,
340; Ancarani, in Iustitia, 1978, 398; De Siervo, in I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, 1978, 201, 208; Id., in Le regioni,
1980, 1168; Barettoni Arleri, Beneficenza e assistenza, voce del No
vissimo digesto, appendice, 1980, I, 715; Volpe, in Consiglio supe
riore della magistratura, Atti del convegno « Attuazione del d. pres. n. 616/1977 in materia di assistenza minorile e rapporti con gli enti
locali », 1980; Vignocchi, in Riv. amm., 1980, 557; Mor, in Le re
gioni, 1981, 135. Sul trasferimento alle regioni delle funzioni degli enti nazionali ed
interregionali dopo l'emanazione del d. pres. n. 616, Corte cost. 22
dicembre 1980, n. 179, Foro it., 1981, I, 953, con nota di richiami, sul trasferimento alle regioni di beni e personale dell'Ente gioventù
italiana; in dottrina, Onida, in Le regioni, 1978, 9, e 1979, 18;
Lewansky, ibid., 53. Mentre nella sent. n. 174, l'adesione della corte
alla nuova politica dei servizi che si esprime nella ridefinizione e
nell'avvio della riforma della beneficenza pubblica operato dal le
gislatore delegato risulta esplicita e diretta, anzi costituisce il fonda
mento dell'overruling, nella sent. 173 la scelta dei valori ideali e
politici posti a sostegno della decisione appare mediata da dirimenti
questioni di metodo.
Formalmente, infatti, il vizio di incostituzionalità dell'art. 25, 5°
comma, d. pres. n. 616 accertato dalla corte attiene al difetto di de
lega, e più esattamente all'eccesso dalla delega, « con la conseguenza che il nucleo della decisione consiste... nella semplice constatazione
che lo strumento previsto dall'art. 76 Cost, è stato in tal campo ma
lamente adoperato » (Paladin, Relazione al convegno « Corte costi
tuzionale e sviluppo della forma di governo italiana », Firenze, 17-19
settembre 1981); in un passo fondamentale della motivazione della
sent. n. 173 si legge appunto che « anticipare in sede di legislazione
delegata, senza un puntuale sostegno nella legge di delega, principi cosi innovatori di riforma (tali da comportare l'eliminazione genera lizzata delle I.p.a.b. infraregionali) significa prendere una scorciatoia
che la disciplina costituzionale della delegazione legislativa rende
del tutto impraticabile ».
Per quanto concerne la figura dell'eccesso di delega ed in genere i complessi rapporti tra legge delega e decreti delegati, la corte ha
in prevalenza interpretato restrittivamente i poteri del legislatore delegato, affermando sovente che ove i principi ed i criteri fissati dalla legge delega non innovino, si intendono confermati quelli della
legislazione precedente: sent. 26 gennaio 1957, n. 3, Foro it., 1957, I, 205; 31 maggio 1960, n. 35, id., 1960, I, 894; 23 febbraio 1970, n. 28, id., 1970, I, 683; 9 luglio 1970, n. 125, id., 1970, I, 2291; 11 maggio 1971, n. 98, id., 1971, I, 1424; 15 marzo 1972, n. 43, id., 1972, I, 867; 15 luglio 1976, n. 179, id., 1976, I, 2035; 20 dicembre
1976, n. 243, id., 1977, I, 1584; 30 maggio 1977, n. 89, id., 1977, I, 1621; non mancano però casi in cui i giudici costituzionali, sotto lineando l'ampiezza della delega, hanno riconosciuto margini di in novatività al legislatore delegato: sent. 20 gennaio 1971, n. 3, id., 1971, I, 318; 22 marzo 1971, n. 56, id., 1971, I, 820; 6 marzo 1975, n. 41, id., 1975, I, 789; 20 aprile 1977, n. 63, id., 1977, I, 1621.
In generale, sui problemi della legge delega e delegata, anche
per ulteriori riferimenti bibliografici, Cervati, Legge di delegazione e legge delegata, voce dell'Enciclopedia del diritto, 1973, XXIII, 939; Paladin, La formazione delle leggi, in Commentario della Costitu
zione, a cura di Branca, 1979, 1; con specifico riferimento all'art. 25, 5° comma, d. pres. n. 616, della cui costituzionalità la dottrina aveva in prevalenza almeno dubitato, A. M. Sandulli, in Dir. eccles., 1978, I, 489; Mascione, ibid., 536; Colombo, in Nuova rass., 1978, 744
(con postilla di A. Morelli); Cosi, in Città e regione, 1978, fase.
2. - Quanto alla violazione dell'art. 76, per l'eccesso di delega che sarebbe determinato dal diretto contrasto tra le norme ci tate del d. pres. n. 616 del 1977 e l'art. 1 legge n. 382 del 1975, la questione deve ritenersi non fondata.
Che la delega al governo fosse diretta a trasferire alle regioni funzioni attinenti alla beneficenza ed assistenza pubblica secon do una ridefinizione della materia, contestuale al trasferimento, si trae senza ombra di dubbio dalla lettera b) ora richiamata: infatti è proprio agli enti pubblici nazionali ed interregionali
11-12, 100 (l'intero fascicolo è dedicato ai problemi delle opere pie tra Stato, Chiesa e autonomie locali); I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, cit. (in particolare, De Siervo, cit.; D'Onofrio, 600); Amorth, in Iustitia, 1978, 416; Mazziotti, id., 1979, 354; Morini, in Sicurezza soc., 1979, 662; Vandelli, in Le regioni, 1978, 354; Dalla Torre, L'attività assistenziale della Chiesa nell'ordinamento italiano, 1979, 195; Staderini, in Nuova rass., 1980, 667; Mazziotti, Pastori ed altri, Libertà dell'assistenza, 1980; Cardia, Opere pie, voce dell'£n ciclopedia del diritto, 1980, XXX, 319, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche; Di Giacomo, in Queste istituzioni, 1980, n. 33, 2.
Ritornando alla decisione n. 173, non è difficile notare come «essa non si risolve in un puro discorso sul metodo, ma involge nella sua motivazione anche l'esame dei valori che in questa sede devono essere comunque tutelati dal legislatore ordinario » (Paladin, Rela zione, cit.).
Ed è a questo punto che appare significativa una lettura unitaria e complessiva delle due sentenze in epigrafe, poiché saldando le af fermazioni ideali che si stagliano sullo sfondo della sent. n. 173 ai definiti concetti contenuti nella sent. n. 174 va delineandosi abbastan za nitida una organica e coerente « filosofia » della corte sul tema dell'organizzazione dell'assistenza sociale; più esattamente, una serie di fondamentali principi-guida per i legislatori statale e regionali sia di carattere generale relativi ai rapporti Stato-regione sia specifici per il settore dell'assistenza.
Un primo gruppo di principi riguarda l'annoso e dibattuto tema della definizione delle materie regionali.
Il superamento della distinzione tra i concetti di beneficenza e assistenza sociale (e quindi del vecchio criterio di separazione delle competenze Stato-regioni) è ritenuto ammissibile in quanto elemento integrante di un organico disegno statale di riforma dei servizi sociali, imperniato sulla ricomposizione di essi su basi territoriali e scatu rito da una nuova e razionale analisi e distribuzione delle funzioni sociali, tali da giustificare la ridefinizione della materia regionale; anzi, la corte appare preoccupata di suggerire agli organi statali anche gli strumenti corretti per vincolare gli operatori pubblici all'attuazione dell'» arduo » e « cosi ambizioso » programma riformistico (in par ticolare per le regioni e per gli enti locali essi sono essenzialmente individuati nelle leggi-cornice o di riforma economico-sociale o nella manovra finanziaria).
Con la sent. n. 174 la corte sembra essersi finalmente e piuttosto bruscamente sbarazzata della consolidata tendenza ad interpretare le funzioni regionali secondo il criterio oggettivo, in base al quale la delimitazione delle competenze legislative ed amministrative deve essere fissata per contenuti normativi tipici e storici e non in riferi mento ai fini che il legislatore regionale abbia inteso perseguire (cri terio teleologico).
La novità ermeneutica, che dovrebbe ormai sopire le vecchie di spute sulla scelta dell'uno o dell'altro criterio di indagine degli ambiti effettivi delle materie regionali, è di indubbio rilievo ed attesta chia ramente che i giudici costituzionali hanno colto in maniera repentina una delle principali innovazioni strutturali del d. pres. n. 616, quella contenuta nella norma dell'art. 3, che ripartisce i trasferimenti e le deleghe di funzioni amministrative in quattro fondamentali settori
organici, in cui i successivi art. 12, 17, 50 e 79 del decreto inseri scono le singole materie elencate nell'art. 117 Cost. In tal modo le frammentarie materie regionali separate e sconnesse tra loro hanno trovato un'aggregazione razionale ed una adeguata finalizzazione pro prio in quanto unificate nell'ambito dei quattro fondamentali progetti globali e funzionalizzate al perseguimento di obiettivi definiti.
Appare, tuttavia, altrettanto evidente che all'accettazione del cri terio ermeneutico teleologico (il quale porta ad attrarre nelle materie
regionali le funzioni affini, strumentali e complementari in quanto finalizzate al progetto globale in cui la materia stessa è inquadrata: nella fattispecie, la ricomposizione dei servizi sociali su basi terri toriali) la corte perviene nei limiti in cui il progetto medesimo risulti concretizzato dal legislatore statale attraverso il varo di leggi di riforma che funzionino da legge-cornice o da norme fondamentali delle riforme economico-sociali nei confronti rispettivamente delle re giorni ordinarie o speciali.
In sostanza, secondo la corte, la « naturale » tendenza espansiva delle competenze regionali, in sintonia del resto con l'evoluzione del l'ordinamento complessivo, deve essere regolata e finalizzata dal legislatore statale e non prodursi come l'effetto di dirette iniziative legislative delle regioni; l'accettazione del concetto della inarrestabile « mobilità » delle materie regionali e della necessità di una costante ridefinizione delle medesime è accompagnata dalla riserva esclusiva allo Stato del potere normativo definitorio attraverso l'uso di corretti strumenti legislativi, nonché, in pratica e ad ogni buon conto, della manovra finanziaria.
La corte sembra finalmente convinta che le competenze regionali non vanno considerate una « pagina bianca » riempibile ad libitum, ma nemmeno la stasi di canoni storico-normativi e la cristallizzazione delle
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
svolgenti attività nel campo dell'assistenza pubblica che era di
retta, in primo luogo, l'attenzione del legislatore delegante, come
risulta anche dai lavori preparatori della legge n. 382 del 1975.
In particolare tali lavori confermano che trasferimento delle fun
zioni degli enti nazionali e «definizione della materia facevano
tutt'uno nella volontà del governo e dei parlamentari; è signifi
cativo in tal senso l'ordine del giorno presentato dal sen. Buc
cini ed altri (ed accolto dal governo come raccomandazione) nel
quale si proponeva testualmente: « nelle funzioni regionali in
accezioni giuridiche vigenti al tempo in cui furono compilati gli elenchi costituzionali e statutari; il loro contenuto si definisce attra
verso la ricerca di un equilibrio che richiede progressivi assestamenti
secondo l'evoluzione dell'ordinamento complessivo dello Stato; ma
a dominare l'instabilità la corte tratteggia la figura ideale (o imma
ginaria?) del legislatore statale impegnato nel varo e nell'attuazione
di organici e coordinati disegni di riforma. Attraverso un secondo gruppo di affermazioni viene sufficientemente
delineata nelle sentenze la tesi del paritario e programmato coordina
mento dell'iniziativa pubblica e privata nell'attuazione del sistema di
assistenza sociale; è necessario che la riforma assicuri il giusto equi librio tra l'intervento pubblico articolato attraverso molteplici enti
e la valorizzazione della libera volontà associativa mediante istituti
dotati di effettivo ed autonomo sostrato di soggetti interessati (e non
meramente strumentali dell'apparato pubblico). Sono i principi del
pluralismo, di cui in questa sede non interessa accertare la matrice
cattolica o liberale o di altra ispirazione, che costituiscono la radice
profonda della « filosofia » della corte e dei suoi giudicati sul tema della beneficenza-assistenza: «... Ma, dopo l'entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, intraprendere una riforma del sistema come
è configurato dalla legge Crispi, comporta che si faccia debito conto dei precetti contenuti negli art. 18, 19, 33 e 38 Cost, e che sia affron
tato, alla luce dell'art. 38, ultimo comma, il tema del pluralismo delle istituzioni in relazione alle possibilità di pluralismo nelle istituzioni
(XXIII proposizione normativa commissione Giannini) ».
È applicando tali valori che la corte perviene nella sostanza alla dichiarazione di incostituzionalità del trasferimento ai comuni delle
I.p.a.b. infraregionali, anche se nella motivazione predomina la que stione tecnica e neutrale dell'accertamento del vizio di eccesso dalla
delega (accertamento, invero, opinabile, a voler disquisire sul piano formale). In realtà, si comprende agevolmente che, secondo i giudici costituzionali, la soppressione delle I.p.a.b. infraregionali non ha com
portato una mera violazione dei limiti della delega, ma una sostan ziale trasgressione di principi fondamentali della Costituzione; sicché è del tutto illusorio pensare al rimedio di ampliare i criteri della
delega per raggiungere l'esito ora respinto. Il discorso della corte non è soltanto di metodo e non pertiene solo
all'uso degli strumenti formali, ma è di contenuto e di merito poli tico. La via maestra che la corte prospetta contro le scorciatoie del
legislatore delegato non termina nell'indicazione di un corretto iti nerario formale, ma è lastricata di principi e valori ben determinati da rispettare e attuare.
Sembrano veramente finiti i tempi in cui nella suddivisione delle
competenze fra Stato, regioni ed enti locali la corte si poneva « a ri morchio della legislazione statale erigendola a parametro della in
terpretazione delle stesse norme costituzionali » mediante l'« accet tazione dei nuovi indirizzi legislativi espressi dal Parlamento o dal
governo non solo per mezzo di leggi di grandi riforme, ma anche
attraverso opzioni settoriali » (Paladin, Relazione, cit.). Alle prese con il d. pres. n. 616, un testo normativo non più set
toriale e limitato, ma, sia pur tra luci ed ombre, dotato di forte ca rica riformatrice dell'assetto degli enti locali anche infraregionali e
degli apparati centrali e periferici dello Stato, la corte mostra di al zare la guardia e di non accettare passivamente le scelte legislative come intangibile parametro di riferimento relegandosi in posizione residuale o marginale.
Chiari segnali che il giudice della costituzionalità stesse abbando nando il ruolo di garante delle norme statali sulla ripartizione delle
competenze per trasformarsi, anche in questo settore, in protagonista delle riforme legislative erano già venuti da qualche decisione, che sia pure indirettamente e talora ad abundantiam aveva preso in con siderazione determinate norme del d. pres. n. 616 (in proposito, v., le osservazioni di Volpe alla sent. 23 luglio 1980, n. 123, in Foro it., 1980, I, 2655).
In queste due sentenze, le prime che affrontano direttamente que stioni di costituzionalità di alcune fra le più qualificanti norme del d. pres. n. 616, la corte fa emergere chiaramente concezioni proprie delle autonomie e degli interessi e funzioni da esse gestibili nei di
versi livelli territoriali e istituzionali; concezioni che testimoniano una nuova attenta e peculiare riflessione sul ruolo degli enti locali, e che
possono assecondare ma anche contrapporsi, talora clamorosamente e su questioni decisive, agli indirizzi tracciati dal legislatore statale (il quale, sia esso Parlamento o governo o commissione intercamerale per le questioni regionali, viene all'occorrenza ammonito severamente a cambiare strada).
Nella consapevolezza dell'opinabilità degli indirizzi politici, non è il caso di passare a valutare nel merito gli orientamenti di politica dell'assistenza e dei servizi sociali elaborati nelle decisioni annotate; è opportuno soltanto sottolineare che nei confronti di testi realmente « significativi » la corte ha immediatamente denotato una notevole ca
pacità di prendere le distanze dagli orientamenti del legislatore sta
materia di beneficenza andranno comprese, ferma restando la
competenza statale in materia di previdenza sociale, tutte le fun zioni relative ad attività e interventi socio-assistenziali, sia attra verso la creazione di infrastrutture che attraverso l'erogazione diretta o indiretta di prestazioni anche a carattere continuativo e previste in via generale dalla legge per determinate categorie di assistibili, nell'ambito della progressiva realizzazione di un sistema di sicurezza sociale » (Sen. Rep., VI leg., res. sten. 6
giugno 1974, pag. 14438 e 4 luglio 1974, pag. 14895 e 14896). 3. - Circa poi la violazione, in modo per cosi dire indiretto,
dall'art. 76 (per non essere le funzioni esercitate dall'O.n.a.o.s.i. inerenti alle materie indicate nell'art. 117 Cost., secondo la let tera b dell'art. 1, 1° comma, legge n. 382 del 1975), la questione viene a coincidere con l'altra relativa al contrasto tra la norma tiva del d. pres. n. 616 del 1977 (art. 22, 113, 114, tabella B, n.
2) e gli art. 117 e 118 Cost.
La difficoltà di determinare il preciso significato della formula « beneficenza pubblica » inserita nell'elenco delle materie di spet tanza regionale dell'art. 117 Cost, dipende oltreché da ragioni sto riche (che conducono di regola ad una interpretazione di segno evolutivo) anche da ragioni sistematiche, derivanti dalla neces sità di coordinare in sede ermeneutica i precetti dell'art. 38 con
quelli dell'art. 117 Cost. La giurisprudenza di questa corte ha talvolta posto l'accento sulla coincidenza tra la materia dell'as sistenza e beneficenza attribuita alle regioni a statuto speciale da varie norme degli statuti costituzionali e quella cui si riferi sce il 1° comma dell'art. 38 Cost. (sent. n. 27 del 1965, Foro it., 1965, I, 1130, e n. 29 del 1968, id., 1968, I, 1107). In particolare, secondo la sentenza n. Ili del 1975 (id., 1975, I, 1914) «non è da escludersi che ai compiti preveduti » dall'art. 38 Cost. « lo Stato possa provvedere anche attraverso l'ordinamento regiona le ». Lasciando da parte alcune pronunzie che, come hanno esat tamente notato le sezioni unite nella loro ordinanza, riguardano la materia previdenziale (sent. nn. 126 e 127 del 1976, id., 1976, I, 2077), è però necessario soffermarsi sulla sent. n. 139 del 1972
(id., 1972, I, 3350), che, contrariamente all'orientamento ora ri
cordato, ha ritenuto di dover distinguere con contorni molto ni tidi l'« assistenza sociale » dell'art. 38 Cost, dall'assistenza e be neficenza pubblica, considerata quest'ultima, a livello costituzio
nale, come di competenza di tutte le regioni (di diritto comune o ad autonomia speciale). In questa sentenza del 1972, che è senza dubbio la più impegnata nell'elaborazione interpretativa dei rapporti tra art. 38 e art. 117 Cost., la corte ha cosi delineato le differenze tra i due tipi di assistenza: quella sociale implica una rigorosa delimitazione nella discrezionalità delle prestazioni, sì da concretare il diritto all'assistenza di cui è parola nell'art. 38 Cost.; una predeterminazione delle categorie dei destinatari
dell'assistenza, ai quali, per il solo fatto di appartenere a tali ca
tegorie, spettano le prestazioni assistenziali; la relativa unifor mità di queste prestazioni che appaiono come sostitutive di un reddito di lavoro. Mentre la beneficenza ed assistenza pubblica, cosi come individuata a partire dalla legge organica 17 luglio 1890 n. 6972, si caratterizza per la discrezionalità delle presta zioni in denaro e in servizi che possono rivolgersi a favore di tutti coloro che comunque si trovino in condizioni di bisogno. La beneficenza e assistenza pubblica, dunque, si affiancherebbe
e, ove necessario, integrerebbe le carenze dell'assistenza sociale
(cui fa riferimento, con specifico riguardo ai cittadini inabili al
lavoro, il 1° comma dell'art. 38 Cost.), assistenza sociale rimessa ad organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato.
Non v'è dubbio che la «definizione della beneficenza pubbli ca, quale è disposta dall'art. 22 d. pres. n. 616 del 1977, con
giunge in una entità unitaria (ad eccezione delle funzioni relative alle prestazioni economiche di natura previdenziale) le attività che la sentenza n. 139 del 1972 aveva nettamente separato. Anche se non si può dimenticare il margine di incertezza che, in ordine alle linee di demarcazione tracciate in quella pronuncia, provo cava l'attesa del riordinamento degli enti di assistenza a carattere
nazionale o interregionale (« a seguito del quale soltanto potreb bero eventualmente enuclearsi ulteriori settori di materie attri
buibili alle regioni »), è di tutta evidenza che la comprensiva so
luzione accolta nell'art. 22 si colloca ben oltre l'aggiunta di ta
luni settori dell'assistenza.
Le finalità e l'ampiezza della ridefinizione rappresentano certo
il frutto di una nuova analisi delle funzioni razionalmente su
scettibili di essere riunite nella materia, ma costituiscono innanzi
tale, rispolverando senza alcuna remora il suo ruolo di indicare, non solo sotto il profilo formale, ma anche in termini di contenuto, la via maestra a quanti si avventurano per sbrigative scorciatoie.
Giuseppe Volpe
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2623 PARTE PRIMA 2624
tutto i primi risultati di una nuova linea di politica sociale, come è attestato anche dalle proposte di legge presentate in questa le
gislatura dai gruppi parlamentari più numerosi (Cam. dep., Vili
leg., proposte nn. 166, 193 e 998). In particolare i servizi sociali
dovrebbero essere rivolti a mantenere i cittadini nel loro am
biente familiare e sociale con interventi di carattere domiciliare
o con centri diurni. Il recupero e il reinserimento nel nucleo fa
miliare e nel normale ambiente di vita di tutti i cittadini che
per qualsiasi causa ne fossero stati esclusi costituirebbe un ulte
riore obiettivo previsto per i nuovi servizi, con la prevenzione e
rimozione degli ostacoli di diverso ordine che si frappongono al
conseguimento di questi obiettivi.
La ridefinizione operata dall'art. 22 d. pres. n. 616 del 1977
(che include prestazione di servizi gratuiti o a pagamento, pre stazioni economiche a favore di singoli e di gruppi, individuati
anche per categoria, quale che sia il titolo della individuazione) deve dunque essere inquadrata in tale prospettiva, che ricom
prende (senza risolversi nelle forme già note di intervento) non
solo la «beneficenza e assistenza pubblica» ex art. 117 ma an
che l'« assistenza sociale » ex art. 38 Cost.
L'ampliatici dei destinatari, che prescinde in taluni casi dallo
stato di bisogno; la diversificazione delle prestazioni, congiunta all'estendersi del carattere di non discrezionalità nella loro ero
gazione; la tendenza a superare la tipizzazione degli interventi a
seconda delle categorie individuate dall'attività lavorativa degli
assistibili, facendosi invece riferimento ai diversi stadi della vita
umana (infanzia, vecchiaia) che maggiormente richiedono la frui
zione dei servizi sociali: questo insieme di elementi comporta il superamento dei presupposti sui quali si fondavano le distin
zioni e le contrapposizioni disegnate nella sentenza n. 139 del
1972. Del resto, questo indirizzo era segnato, sia pure in forma
ellittica, nel primo dei criteri direttivi della legge di delega n.
382 del 1975 allorché nell'art. 1, 3° comma, n. 1, si prescriveva che il trasferimento delle funzioni amministrative doveva « essere
finalizzato ad assicurare una disciplina ed una gestione sistematica
e programmata delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle
regioni per il territorio e per il corpo sociale ».
È da chiedersi ora se la ridefinizione della materia ex art. 22
d. pres. n. 616 del 1977 sia in contrasto con gli art. 117 e 118
Cost, in relazione ai precetti dell'art. 38 della Carta costituzio
nale. Indubbiamente, adottare un disegno organico di riforma
dei servizi sociali nei termini sopra accennati, se rappresenta un
indirizzo politico diversamente valutabile in relazione a diffe
renti parametri (disponibilità di mezzi finanziari e di quadri pro fessionalmente adeguati, possibili standards di rendimento), non
può certo ritenersi in contrasto con la Costituzione; e non pro
voca, nella specie, incostituzionali alterazioni nel riparto di com
petenza tra Stato e regioni. Infatti, a parte il richiamo alle sen
tenze già citate (nn. 27 del 1965, 29 del 1968 e 111 del 1975), che ammettevano il concorso delle regioni all'attuazione dell'art.
38, 1° comma, Cost., è sufficiente rammentare che lo Stato è
senz'altro in grado di incidere profondamente sull'attuazione di
questo arduo programma sia con l'adozione di una legge di ri
forma dell'assistenza (che sarebbe insieme legge-cornice ai fini
dell'art. 117 Cost, e legge di riforma economico-sociale ai sensi
degli statuti speciali) sia, e soprattutto, con l'integrazione finan
ziaria degli organi ed istituti (regionali), che debbono provvedere ai compiti previsti nell'art. 38. È evidente, infatti, che un pro
gramma di servizi sociali cosi ambizioso non può essere realiz
zato che con il sostegno finanziario proveniente dalle entrate tri
butarie dello Stato (cosi come si è provveduto nell'ambito del
servizio sanitario nazionale mediante il fondo annuale da ripar tire tra le regioni di cui all'art. 51 legge 23 dicembre 1978 n.
833). E va da sé che l'attuazione del disegno riformatore non po trebbe realizzarsi che nel rispetto delle altre norme costituzionali ed in particolare dell'art. 81 Cost.
In questa prospettiva assume rilievo non dirimente accertare se la distinzione nell'art. 117 Cost, tra beneficenza, assistenza sa nitaria ed ospedaliera, e assistenza scolastica fosse determinata dalla esistenza di legislazioni di settore particolarmente comples se e dotate di una propria fisionomia o, piuttosto, dalla presenza di enti assistenziali a carattere nazionale, non certo costituzio nalmente garantiti, che concorrevano a caratterizzare l'assistenza sociale ex art. 38. Né è necessario rispondere alla domanda se l'« assistenza sociale », affiancata in taluni statuti speciali alle
competenze aventi ad oggetto il « lavoro » e la « previdenza so
ciale », abbia o meno lo stesso significato della formula dell'art.
38, 1° comma, Cost. [art. 5, lett. b), legge cost. 26 febbraio 1948 n. 3, statuto speciale per la Sardegna; art. 6, n. 2, legge cost. 31
gennaio 1963 n. 1, statuto speciale per la regione Friuli-Venezia
Giulia e, sostanzialmente, art. 17, lett. g), statuto della regione
siciliana approvato con r. d. 1. 15 maggio 1946 n. 455, convertito in legge cost. 26 febbraio 1948 n. 21].
Invero, non può disconoscersi che spetta al legislatore dele
gato apprezzare, secondo i criteri indicati nell'art. 1, 3" comma, n. 1, della legge di delega n. 382 del 1975, la « più stretta con
nessione esistente tra funzioni affini, strumentali e complementa ri » nel quadro dei trasferimenti di funzioni amministrative alle
regioni, trasferimenti finalizzati, in questo caso, alla ricomposi zione dei servizi sociali su basi territoriali.
Conclusivamente, l'art. 22 ex d. pres. n. 616 del 1977 non viola
gli art. 117 e 118 perché non eccede i limiti della materia intesa nel quadro della legislazione vigente, avuto riguardo al concetto di « beneficenza pubblica », quale fu presente al legislatore dele
gante all'atto del trasferimento alle regioni delle funzioni relative
(sentenza n. 89 del 1977, id., 1977, I, 1621).
4. - È chiaro come nell'iniziativa riformatrice avviata dall'art. 1 legge n. 382 del 1975 non trovi favore la sopravvivenza di enti
nazionali costituiti per assistere soggetti qualificati dal riferimen
to ad una categoria individuata secondo l'attività lavorativa (per
quanto benemeriti possano essere tali enti come è sicuramente
nel caso dell'O.n.a.o.s.i.). Meno ancora è apprezzabile, secondo il nuovo sistema, il ricorso alla « mutualità imposta per legge »
qual è prescritta fin dal 1901 per quest'opera: è chiaro che si
tende invece ad una assistenza fornita in base a standards co muni a tutta la popolazione. D'altro canto cittadini liberamente
associati possono, con contributi volontari, migliorare le condi
zioni dell'assistenza (art. 113, 114 e 115 d. pres. n. 616 del 1977). La soluzione accolta negli art. 114 e 115 ora citati corrisponde
inoltre alle linee di indirizzo emergenti dai precetti costituzio
nali, perché, mentre permette di valorizzare la libera volontà as
sociativa — tenendo ben distinta la situazione degli enti nazionali
con sostrato di soggetti interessati rispetto a quella degli enti a
carattere strumentale nei confronti dello Stato — dà attuazione
alla norma dell'art. 38, ult. comma, Cost. Si apre cosi la via ad
un sistema di sicurezza sociale in cui possono coordinarsi (con la
programmazione degli interventi) gestione pubblica e gestione
privata dei servizi, come è previsto anche dalla già citata legge n. 833 del 1978.
Le considerazioni svolte a proposito dell'art. 22 e quelle rela
tive agli art. 113 e 114 d. pres. n. 616 del 1977 comportano ov
viamente la non fondatezza della questione sollevata nell'ordinan
za delle sezioni unite civili della Cassazione rispetto alla inclu
sione della O.n.a.o.s.i. al n. 2 della tabella B dello stesso d. pres.; anche a prescindere dalle difficoltà di inquadrare l'attività di que sta opera nello schema dell'assistenza sociale, come delineato
nella sentenza n. 139 del 1972, cit., per la relativa discrezionalità
delle prestazioni da essa fornite.
Perde infine ogni rilievo, nel quadro della presente pronunzia, la caratterizzazione o meno della O.n.a.o.s.i. come I.p.a.b. a ca
rattere nazionale.
Per questi motivi, dichiara non fondata la questione di legit timità costituzionale degli art. 22, 113 e 114, tabella B, n. 2, d.
pres. 24 luglio 1977 n. 616, sollevata in riferimento agli art. 76, 117 e 118 Cost, dalle sezioni unite civile della Corte di cassazione
con l'ordinanza in epigrafe.
II
La Corte, ecc. — 1. - I giudizi promossi dall'ordinanza del
giudice istruttore del Tribunale di Milano e dalle due successive ordinanze del Tribunale di Milano hanno tutti ad oggetto l'art.
25, 5° comma, d. pres. 24 luglio 1977 n. 616 (cui si aggiunge, nel la seconda ordinanza del tribunale, l'art. 113 dello stesso decreto)
per violazione degli art. 76, 77, 1" comma, 117, 118 e 38, ult.
comma, Cost.; nonché l'art. 1 legge 17 luglio 1980 n. 6972, per violazione dell'art. 38, ult. comma, Cost. I tre giudizi vanno
pertanto decisi con unica sentenza.
2. - Dev'essere preliminarmente dichiarata inammissibile la que stione sollevata dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, con ordinanza emessa dopo che era stata proposta dalla parte resistente istanza alle sezioni unite civili della Corte di cassa zione per regolamento preventivo di giurisdizione.
A parte ogni questione circa la competenza del giudice istrut tore a norma dell'art. 673, 2° comma, cod. proc. civ., insuscetti bile di presa in considerazione in questa sede (sentenza n. 65 del 1962, Foro it., 1962, I, 123), deve confermarsi (sentenze nn. 221 del 1972, id., 1973, I, 307, e 135 del 1975, id., 1975, I, 1901) che è inammissibile la questione di legittimità costituzionale sol levata dal giudice di merito dopo la proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione giacché, a seguito della sospensione del processo in corso, non possono essere compiuti atti del pro cedimento ed è perciò preclusa al giudice ogni pronunzia anche
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
in tema di pregiudiziali (combinato disposto degli art. 41, 298 e
367 cod. proc. civile). Pur se a tale regola può derogarsi per gli atti urgenti e per i provvedimenti cautelari in ispecie (sentenze nn. 73, id., 1973, I, 1657 e 177, id., 1974, I, 1, del 1973), è altresì
indubbio che il giudice è legittimato a sollevare questioni di le
gittimità costituzionale soltanto quando si riferiscono esclusiva mente alle norme da applicare in quella sede e non rilevino, come
nel caso di specie, proprio per la risoluzione della questione di
giurisdizione (cfr. in particolare sentenze n. 73 del 1973, cit.; n.
135 del 1975, cit.; n. 118 del 1976, id., 1976, I, 1416 e n. 186 del
1976, id., 1976, I, 2032). 3. - In ordine alle questioni residue, la corte si è prospettata
il dubbio se, per il sopravvenire della legge della regione Lom
bardia 7 marzo 1981 n. 13 («modalità di trasferimento, ai sensi
dell'art. 25 del d. pres. 24 luglio 1977 n. 616, dei beni e del
personale relativi a talune I.p.a.b. operanti nell'ambito regiona
le», in suppl. ordinario al n. 10 — 11 marzo 1981 del bollettino
ufficiale della regione Lombardia), si dovessero restituire gli atti
al giudice a quo per il riesame della rilevanza. Ma il carattere
attuativo in ordine ai disposti del citato art. 25 enunziato nella
stessa legge lombarda e la portata parziale di essa in ordine al
complesso delle I.p.a.b. infraregionali prese in considerazione
dalla disposizione denunziata hanno indotto questa corte a rite
nere tuttora rilevanti le questioni sollevate.
4. - Occorre innanzitutto esaminare la censura di violazione
degli art. 76 e 77, 1° comma, Cost, per eccesso di delega rispetto
all'oggetto e alle finalità determinate nella legge 22 luglio 1975
n. 382. Secondo le ordinanze di rimessione la legge delega « non
contemplava, sotto alcun profilo, la possibilità di attuare trasfe
rimenti di funzioni precedentemente esplicate da enti operanti in un ambito infraregionale: e ciò con riferimento sia ai trasfe
rimenti contemplati dalle menzionate lett. a) e b) [dell'art. 1, 1°
comma] a favore delle regioni; sia con riferimento ai trasferi
menti previsti dalla lett. e) a favore delle province e dei comuni».
La questione cosi proposta è fondata.
5. - L'esame del testo dell'art. 1 legge n. 382 del 1975 fa emer
gere in modo assai chiaro che il legislatore delegante, per ciò che
concerne il trasferimento di funzioni amministrative alle regioni nelle materie di loro spettanza (trasferimento precedente, da un
punto di vista logico, ad ogni attribuzione di funzioni dello stesso
tipo agli enti locali di cui all'art. 118, 1° comma, Cost.) ha con
siderato soltanto enti pubblici nazionali ed interregionali, speci
ficando che il trasferimento stesso riguardava anche gli uffici, i
beni ed il personale indispensabile all'esercizio delle funzioni
trasferite. Ora, anche a voler assumere, in ipotesi, che il legisla
tore intendesse attribuire ai comuni funzioni di altri enti, per
cosi dire omissó medio e cioè senza premettere, nemmeno in via
di enunciazione, il trasferimento previo alle regioni, resterebbe
inesplicabile come mai di tali enti in ambito infraregionale non
si sia fatta menzione alcuna nella lett. e) dell'art. 1, 1° comma,
della citata legge di delega, e tantomeno risulti indicato il trasfe
rimento ai comuni dei beni e del personale di queste pubbliche
istituzioni. L'avvocatura dello Stato oppone che la formula della
lett. è) deve intendersi come comprensiva sia della ipotesi pre
vista nella lett. a) (funzioni già esercitate dalle amministrazioni
statali) sia di quella ritenuta nella lett. b) (funzioni già esercitate
dagli enti pubblici); e ciò perché solo per gli enti di carattere
nazionale ed interregionale era necessaria una espressa menzio
ne, dato che la precedente legge delega di trasferimento delle
funzioni amministrative alle regioni a statuto ordinario (art. il
legge n. 281 del 1970) limitava il trasferimento stesso alle fun
zioni già esercitate dalle amministrazioni statali; mentre l'attri
buzione agli enti locali di funzioni ex art. 118, 1° comma, dispo
sta solo con la legge n. 382 del 1975, non richiedeva la distinzione
tra funzioni delle amministrazioni dello Stato e quelle di altri
enti pubblici. Ma, al contrario, deve osservarsi che una espressa
indicazione sarebbe stata a fortiori necessaria, perché, come più
analiticamente si dirà in seguito, le istituzioni pubbliche di assi
stenza e beneficenza erano già state prese in considerazione dal
legislatore delegato del 1972, allorché aveva trasferito alle regioni
le funzioni concernenti le I.p.a.b. previste dalla legge 17 luglio
1890 n. 6972, e successive modificazioni ed integrazioni, ope
ranti nel territorio regionale (art. 1, 2° comma, lett. a, d. pres.
15 gennaio 1972 n. 9, « trasferimento alle regioni a statuto ordina
rio delle funzioni amministrative statali in materia di beneficenza
pubblica e del relativo personale»).
Né potrebbe, in via interpretativa, ritenersi, come afferma l'av
vocatura dello Stato, che l'indicazione degli enti nazionali « mag
giori » in rapporto alle regioni nella lett. b) dell'art. 1, 1" comma,
legge n. 382 del 1975, comporti, per una sorta di parallelismo,
che quella degli enti « minori » in rapporto ai comuni sia da sot
tointendersi perché logicamente implicata: a tacer d'altro, per
la profonda differenza che corre tra i caratteri più significativi
degli enti nazionali e interregionali, autentiche proiezioni, di re
gola, dell'organizzazione statuale, e gli enti infraregionali della
categoria I.p.a.b., non essendo sufficiente a unificarli, da questo
punto di vista, il carattere della comune «pubblicità». Chi sostiene la legittimità costituzionale dell'art. 25, 5° comma,
d. pres. 24 luglio 1977 n. 616, afferma che tale conclusione sa rebbe confermata dalle formule usate dal legislatore delegante nella lett. e) dell'art. 1, 1° comma, legge n. 382 del 1975; in ef
fetti questo testo parlerebbe di « attribuzione » in termini ampi,
contrapponendosi nettamente ai « trasferimenti » di cui alle pre cedenti lett. a) e b). Si può peraltro osservare che, a parte la
priorità logica dei « trasferimenti » sulle attribuzioni (che non
potrebbero comunque contrapporsi ai primi per maggior ampiez za), non si può conferire sicuro rilievo interpretativo ad una for
mulazione che ricalca pedissequamente quella contenuta nell'art.
118, 1° comma, Cost. Né è possibile ritenere con l'avvocatura
dello Stato che il criterio direttivo di cui al n. 1 dell'art. 1, 3°
comma, della citata legge delega (identificazione delle materie
da trasferire in base a criteri oggettivi e non alle competenze degli
organi centrali e periferici dallo Stato) rechi conforto all'opinione favorevole alla legittimità costituzionale dell'art. 25, 5° comma:
in realtà, parlandosi di « trasferimento » delle funzioni concer
nenti le materie identificate secondo il criterio oggettivo, si deve
escludere che il criterio stesso si riferisca anche alla lett. e) del
1° comma, nella quale, per l'esercizio organico delle funzioni « attribuite », è prevista la possibilità di attribuire ulteriori fun
zioni di interesse locale, rendendosi cosi ultroneo il richiamo alle
funzioni affini, strumentali e complementari contenuto nel n. 1
dell'art. 1, 3° comma. Senza dire che il «trasferimento» è ivi
espressamente previsto in rapporto alle « attribuzioni costituzio
nalmente spettanti alle regioni per il territorio e il corpo socia
le». Inoltre l'accenno, nell'ultima parte della lett. e), art. 1, 1°
comma, a discipline disposte dal legislatore delegato « per rego lare i relativi rapporti finanziari » — riferibile all'intera norma
tiva contenuta nella lett. e) — sembra alludere a rapporti con le
amministrazioni statali, determinati, appunto, dall'attribuzione di
funzioni amministrative esercitate fino allora da tali amministra
zioni. Infine, non appare ammissibile, per precetti che compor terebbero la soppressione di enti a caratteristiche peculiari come
le I.p.a.b. infraregionali, adottare canoni ermeneutici che, al fine
di determinare l'« oggetto » o gli « oggetti » la cui definitezza è
imposta al legislatore delegante dall'art. 76 Cost., darebbe asso
luta prevalenza al criterio oggettivo (definizione della materia) su quello soggettivo (tipo di enti considerati).
6. - Va pure sottolineato che la legge n. 382 del 1975 (al pari della legge 16 maggio 1970 n. 281) disciplina negli articoli che
qui interessano un particolare tipo di delega finalizzata al trasfe
rimento di funzioni amministrative dallo Stato e dagli enti pub blici nazionali e interregionali alle regioni di diritto comune, non
ché all'attribuzione, peraltro facoltativa per il legislatore dele
gante, di funzioni agli enti locali ex art. 118, 1° comma, Cost.
Tuttavia, a parte il carattere di delega per l'attuazione costitu
zionale (disp. trans, e fin. Cost. Vili e IX) che assumono queste
leggi, è da dire che in realtà le deleghe di trasferimento non pos sono non comportare, in situazioni come queste, anche una de
lega per parziale riforma delle materie e dei settori di materie
considerate; mentre riforme di carattere generale restano condi
zionate all'adozione da parte del Parlamento di leggi contenenti
i nuovi principi fondamentali ex art. 117 Cost. Del resto, più forte è la carica riformatrice contenuta nelle deleghe di trasfe
rimento, più evidente è la necessità che l'« oggetto » della rifor
ma sia in termini chiari previsto nei tratti normativi e fattuali che
le connotano e che siano previsti principi e criteri direttivi in
ordine al superamento della normativa vigente (nella fattispecie la legge 17 luglio 1890 n. 6972).
Se è vero che la legge n. 382 del 1975, a differenza della legge
n. 281 del 1970, ha valorizzato, per l'identificazione delle materie
da trasferire, accanto al criterio oggettivo anche quello teleolo
gico a favore delle regioni, è altresì certo che il fine complessivo
della delega consisteva nel « completare » il trasferimento delle
funzioni amministrative statali e parastatali, considerate per set
tori organici. Peraltro, l'art. 25, 5° comma, d. pres. n. 616 del
1977 non completa affatto la disciplina di trasferimento già rea
lizzata con il citato art. 1, 2° comma, lett. a), d. pres. 15 gen
naio 1972 n. 9, ma piuttosto la modifica radicalmente in quanto,
invece di mantenere i poteri delle regioni sugli enti previsti dalla
legge Crispi del 1890, attribuisce ai comuni le funzioni degli enti
I.p.a.b. a tal fine soppresse. È manifesto che un mutamento così
profondo nel regime di queste istituzioni, tale da determinarne
in via generale l'eliminazione (con la clausola di salvezza per
quelle attive precipuamente nella sfera educativo-religiosa), pre
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2627 PARTE PRIMA 2628
supponeva da parte del legislatore delegante una indicazione in
termini non equivoci del thema transferendum. 7. - Ulteriori sintomi di una effettiva forzatura realizzatasi, ri
spetto alla legge di delega, con l'art. 25, 5° comma, d. pres. n.
616 del 1977, possono poi ravvisarsi in due regole di carattere
collaterale. Non si intende in base a quale presunzione le fun
zioni delle I.p.a.b. infraregionali siano state senza alcuna distin
zione considerate di interesse esclusivamente locale (nella fatti
specie, comunale), quando è fin troppo noto che in numerosi
casi la loro funzione è ultracomunale. Mentre rimane priva di
ogni ragionevole spiegazione la differenza di trattamento adottato
a danno degli enti (quelli infraregionali) che avevano, diversa
mente da quelli nazionali, caratteristiche storiche e peculiarità attuali di autonoma gestione: non consentendo a questi ultimi di
poter valorizzare la struttura associativa che eventualmente aves
sero (art. 115 d. pres. n. 616 del 1977) per sottrarsi al trasferi
mento ai comuni.
8. - Dai lavori preparatori della legge n. 382 del 1975 non si trag
gono elementi di sostegno alla opinione favorevole alla legitti mità costituzionale dell'art. 25, 5° comma, d. pres. n. 616 del 1977; anzi emergono dati significativamente contrari.
Innanzitutto non si rinviene negli atti di entrambe le Camere, né in commissione né in assemblea, alcun cenno alla possibilità
per il legislatore delegato di addivenire alla soppressione delle
I.p.a.b. o di enti infraregionali con caratteristiche analoghe. Vero
è che una autentica discussione generale, come ci si attenderebbe
su disegni di legge di cosi grande rilievo politico e istituzionale, non ebbe luogo né al Senato della Repubblica né alla Camera dei
deputati: la singolarità della vicenda è da attribuirsi al modo nel
quale il testo del disegno di legge inizialmente sottoposto al Se
nato per prorogare una delega in materia di riordinamento del
l'amministrazione (Sen. Rep., VI leg., d.d.l. n. 114) fu in pratica accantonato con una serie di emendamenti integralmente sostitu
tivi sia del vecchio testo governativo che di quello elaborato nella
prima commissione del Senato. È appunto a tale commissione che
il ministro per l'organizzazione della pubblica amministrazione, d'intesa con il ministro per i problemi relativi all'attuazione delle
regioni, presentò gli emendamenti che contenevano le nuove nor
me sul trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative
dello Stato e degli enti nazionali (Sen. Rep., VI leg., res. somm.
5, 13 e 20 febbraio 1974). La successiva discussione, durante la
quale al Senato ma soprattutto alla Camera furono abbandonate
le parti più rilevanti del nuovo testo in tema di riordinamento
degli uffici centrali e periferici della pubblica amministrazione, lasciò in pratica intatto il complesso normativo predisposto per gli ulteriori trasferimenti di funzioni alle regioni di diritto comu
ne, confermandosi cosi la scelta decisamente regionalista matu rata nei mesi che precedettero la presentazione degli emenda menti (Camera dei dep., VI leg., d.d.l. n. 3157 e 3157 bis).
In particolare, tra gli emendamenti presentati allora dal mini stro per l'organizzazione della pubblica amministrazione, figurava una lettera e) dell'art. 1, 1° comma, relativo alla delega al governo per l'attribuzione ai comuni ed agli altri enti locali di funzioni di interesse esclusivamente locale: nella commissione senatoriale, ma senza successo, esponenti dell'opposizione proposero che la attribuzione delle nuove funzioni ai comuni ed agli altri enti lo cali riguardassero materie diverse da quelle indicate nell'art. 117 Cost. (Sen. Rep., VI leg., res. somm. 13 febbraio 1974, pag. 27). Il testo della lett. e), approvato dalla commissione, perveniva dunque all'assemblea del Senato in una formulazione che anti
cipava non solo nella sostanza, ma anche, per gran parte, nella
lettera, la redazione della lett. e), prima parte, quale è poi passata nella legge n. 382 del 1975. È peraltro da notare che il testo sotto
posto all'assemblea senatoriale conteneva al 2° comma dell'art. 1 un principio o criterio direttivo per l'assolvimento della delega di cui alla lett. e) cosi formulato: « 4) l'attribuzione diretta a pro vince, comuni ed altri enti locali di funzioni di interesse esclusi vamente locale obbedirà a criteri di omogeneità evitando la coe sistenza di competenze residue della regione; saranno altresì' re
golati i rapporti finanziari tra i vari enti ». Nella discussione in assemblea furono respinti gli emenda
menti presentati da esponenti dell'opposizione (emendamenti 1/19 e 1/20 in Sen. Rep., VI leg., res. sten. 6 giugno 1974) tendenti in via principale a far cadere per intero la delega della lett. e), ed in subordinata a limitare alle materie diverse da quelle previste nel l'art. 117 Cost, le attribuzioni agli enti locali. Emergeva chiara mente in tali proposte il timore che il governo potesse servirsi della delega della lett. e) al fine di perseguire un disegno di com
pressione delle attribuzioni regionali, attraverso lo spostamento agli enti locali di funzioni già trasferite alle regioni. Tra l'altro ve niva criticata la formulazione della delega nella lett. e) perché ri
produttiva, puramente e semplicemente, di quella dell'art. 118, 1°
comma, Cost. Del resto mentre risultava soppresso il criterio di rettivo n. 4, 2° comma, già citato, era approvato un testo più re strittivo della lett. e) perché il legislatore delegato poteva attribuire
agli enti locali solo le funzioni amministrative che alla data di en trata in vigore della futura n. 382 non fossero state trasferite alle
regioni (clausola limitativa cancellata dalla Camera); peraltro il
governo era pure delegato, ai sensi degli art. 5 e 128 Cost, (riferi mento poi venuto meno) ad attribuire le ulteriori funzioni di cui è parola nel testo definitivo della lett. e), seconda parte, cosi come
passata nella legge. È poi degno di nota che gli autori di tutti i disegni e proposte
di legge per la riforma dell'assistenza presentate dopo l'entrata in
vigore della legge n. 382 del 1975 (con i più diversi intendimenti verso le I.p.a.b.: dal riordinamento alla soppressione) siano par titi dal presupposto che le I.p.a.b. stesse, quanto alla loro soprav vivenza, non erano minimamente ricomprese nel raggio dei poteri conferiti al legislatore delegato. Né dalle relazioni dei presentatori
emerge in alcun modo che si tendesse, esplicitamente o anche im
plicitamente, a revocare una delega accordata in parte qua con la legge n. 382 del 1975 (Camera dep., VII leg., proposta Cassan
magnago ed altri, n. 19, art. 15; proposta Massari, n. 870, art. 5;
proposta Lodi ed altri, n. 1173, art. 12; proposta Aniasi ed altri, n. 1237, art. 14; proposta Cassanmagnago, n. 1484, art. 13). E
non è senza significato che le ultime quattro proposte di legge di cui si è fatto cenno siano state presentate nel periodo febbraio
maggio 1977, quando il dibattito sull'attuazione della legge di
delega n. 382 del 1975 aveva già trovato ampi sviluppi. 9. - Non si può poi trascurare — nella fattispecie — l'atteggia
mento della commissione ministeriale (commissione Giannini) in
ordine alle I.p.a.b. infraregionali. Il testo delle proposizioni nor
mative IV e XXIII allegato alla relazione per la parte relativa
alla sanità e servizi sociali è chiaramente indicativo dei limiti en tro i quali, secondo la commissione, poteva operare il legislatore
delegato. Nella proposizione IV, lett. d), tra le funzioni ammini
strative trasferite alle regioni era compresa quella relativa: « al
l'istituzione, modificazione e soppressione degli enti pubblici in
fraregionali, diversi da comuni, province e comunità montane, i
quali operino esclusivamente nelle materie di competenza regio nale»; e nella proposizione XXIII si aggiungeva: «Nell'esercizio
delle funzioni previste dal precedente art. 4, lett. d), le regioni si atterranno alle norme vigenti fino a quando non avranno disci
plinato con legge nuovi procedimenti per il riordino e la riorga nizzazione degli enti, ivi compresa la loro soppressione qualora il passaggio ai comuni delle relative funzioni sia necessario od
opportuno per assicurarne l'esercizio in modo integrato con le funzioni ad essi attribuite a norma del precedente art. 18.
« In caso di fusione o di trasformazione, in qualsiasi forma, di istituzioni pubbliche di assistenza o beneficenza, soggette alla
legge 17 luglio 1890 n. 6972, nel consiglio di amministrazione dei nuovi enti dovrà essere assicurata la rappresentanza degli interessi
originari dell'ente o degli enti fusi o trasformati ».
Sarebbe fuori luogo in questa sede ogni valutazione circa la ri
spondenza delle citate proposizioni normative ai canoni della legge di delega: ciò che importa è rilevare come esse presupponessero il permanere della disciplina dettata dalla legge 17 luglio 1890 n.
6972, e successive modificazioni, fino a quando non fossero inter venute leggi regionali ad hoc, vincolate comunque « ad assicura re » nelle nuove strutture « la rappresentanza degli interessi origi nari » dei vecchi enti.
10. - Come è noto, il procedimento per l'attuazione della legge di delega n. 382 del 1975 era circondato da particolari garanzie: soprattutto era previsto un doppio intervento consultivo della commissione bicamerale per le questioni regionali. Tale innova zione dimostrava l'intento del legislatore delegante di recuperare cosi un contributo di particolare rilievo da parte di un organo parlamentare: contributo che per le note vicende politiche, cul minate nel voto della Camera dei deputati del 15 luglio 1977,
acquistava una importanza anche maggiore di quella prevedibile nel periodo di elaborazione della legge di delega. Ed è proprio in seno a tale commissione che, con qualche dubbio circa un pos sibile « eccesso di delega », si stabili di includere la norma sul trasferimento delle funzioni, del personale e dei beni delle I.p.a.b. infraregionali nell'art. 26 della legge delegata, divenuto poi art. 25 nel testo approvato dal consiglio dei ministri [Camera dei de
putati - Senato della Repubblica. L'attuazione della « 382 », 1977, II, pagg. 925 e 966-967; sedute della commissione 16 giu gno (prima lettura) e 19 luglio 1977 (seconda lettura)]. L'unico elemento evocato a sostegno della proposta (L'attuazione, cit.,
pagg. 865 e 883) è un richiamo alla disciplina della legge 20 marzo 1975 n. 70 (disposizioni sul riordinamento degli enti pub blici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), richiamo che non appare pertinente dato che l'art. 2 legge n. 70 del 1975
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
esclude in modo espresso le I.p.a.b. dall'applicazione della legge stessa. Piuttosto, risulta evidente l'intento di assimilare, nel tra
sferimento delle funzioni, del personale e dei beni, gli enti na
zionali e gli enti infraregionali, in quanto le funzioni ineriscono
alle materie indicate nell'art. 117 Cost. (L'attuazione, pag. 865). Circa l'autorevolezza del parere definitivo della commissione
intercamerale per le questioni regionali, essa è testimoniata dalla
mozione votata a larghissima maggioranza dalla Camera dei de
putati tra il 15 e il 16 luglio 1977, nella quale si impegnava il
governo ad attuare la legge n. 382 « sulla base delle conclusioni
definitive a cui perverrà la commissione interparlamentare per le
questioni regionali ». Nell'allegato, poi, che riproduceva il testo
dell'accordo tra i partiti, inserito negli atti parlamentari, le forze
politiche dichiaravano di impegnarsi « ad ogni livello di respon sabilità istituzionale, per una piena assunzione dell'intesa unita
ria » (raggiunta in commissione) « nel provvedimento definitivo
previsto dalla legge delega n. 382 ». Nella mozione programma tica già citata si riteneva tra l'altro necessaria, per l'attuazione
della legge n. 382, « la definizione conseguente del potere degli enti locali allo scopo di eliminare il disordine creato nelle istitu
zioni e per la incontrollata dilatazione della spesa pubblica, dal
proliferare di enti intermedi ai quali manca ogni raccordo istitu
zionale ».
Malgrado questi ulteriori elementi di non trascurabile rilievo, è però da confermare che il parere della commissione parlamen
tare, chiamata ad intervenire nel procedimento di attuazione della
legge di delega, non solo non è vincolante (sentenza n. 78 del
1957, id., 1957, I, 1121), ma non può esprimere interpretazioni autentiche delle leggi di delega. Tantomeno la « lacuna » della
legge di delegazione potrebbe essere colmata con l'approvazione di una mozione o di un ordine del giorno di una assemblea le
gislativa (come l'ordine del giorno 18 dicembre 1970 del Senato),
perché non è per queste vie che si può estendere l'oggetto della
delega.
11. - Da quanto si è esposto risulta con chiarezza che il Par
lamento, durante tutto l'iter della legge di delegazione (febbraio
1974-luglio 1975), non intese abbinare alla delega per il trasferi
mento di funzioni una delega per la riforma, sia pure parziale, del regime delle I.p.a.b. infraregionali; non riesce, cioè, di anti
cipare su questo punto la legge generale di riforma dell'assi
stenza. Tra l'altro, la realizzazione di un simile intento avrebbe
richiesto un esame sia pure sommario dei criteri di superamento del regime contenuto nella legge 17 luglio 1890 n. 6972. Non po teva essere ignorato lo spessore storico delle istituzioni discipli nate da questa legge organica né si poteva omettere una riconsi
derazione dei principi fondamentali che la ispirarono (rispetto della volontà dei fondatori, controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività svolta in situazioni di autonomia). Inoltre sarebbe sta
to motivo di riflessione la pluralità di forme e di modi in cui
l'attività assistenziale viene prestata, differenze non prese come
tali in considerazione dalla legge Crispi, preoccupata di unificare
sul piano delle figure soggettive (al fine di sottoporle al controllo
dell'autorità civile) i vari tipi di opere pie formatesi nel corso di
una vicenda di durata ultrasecolare. Ma, dopo l'entrata in vigore
della Costituzione repubblicana, intraprendere una riforma del si
stema, come è configurato dalla legge Crispi, comporta che si
faccia debito conto dei precetti contenuti negli art. 18, 19, 33 e
38 della Carta costituzionale e che sia affrontato, alla luce del
l'art. 38, ult. comma, il tema del pluralismo delle istituzioni in
relazione alle possibilità di pluralismo nelle istituzioni (XXIII
proposizione normativa commissione Giannini). Fin quando ciò
non sia avvenuto, è necessario che in sede di trasferimento di
funzioni amministrative alle regioni e di attribuzioni di altre fun
zioni agli enti locali si osservino i principi della legislazione sta
tale vigente, come aveva in realtà fatto, su questo punto, il le
gislatore delegato del 1972. Anticipare in sede di legislazione de
legata, senza un puntuale sostegno nella legge di delega, principi
cosi' innovatori di riforma (tali da comportare l'eliminazione ge
neralizzata delle I.p.a.b. infraregionali) significa prendere una
scorciatoia che la disciplina costituzionale della delegazione le
gislativa rende del tutto impraticabile.
In effetti, come dimostra la giurisprudenza di questa corte (in
particolare le sentenze nn. 35 del 1960, id., 1960, I, 894, e 243
del 1976, id., 1977, I, 1584), presentano carattere specifico, pur
nell'ambito della più comprensiva figura dell'« eccesso di delega »
(sentenza n. 3 del 1957, id., 1957, I, 205), quei vizi della legge
delegata che riguardano i cosiddetti limiti strutturali imposti in
via preliminare dall'art. 76 Cost, e dalla legge di delega: limiti
attinenti appunto al tempo determinato per l'attuazione della de
lega stessa ed all'oggetto o agli oggetti definiti sui quali dovrà
operare la nuova disciplina. In particolare, l'eccedere dai li
miti della delegazione configura piuttosto un difetto, sia pur par
ziale, di delega o meglio un eccesso dalla delega, che si distin
gue dalle ipotesi di relativa difformità della normativa delegata dai principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione o deducibili aliunde. Pur non potendosi trascurare situazioni di interferenza tra « oggetto definito » e « principi e criteri diretti
vi », vi sono fattispecie nelle quali l'eccesso dalla delega assume, come nel caso esaminato in questa pronuncia, autonomo, prelimi nare e dirimente rilievo.
12. - Assai serie sono le conseguenze della mancanza, a tut
t'oggi, della legge sulla riforma dell'assistenza pubblica. Com'è
noto, dopo l'entrata in vigore del d. pres. n. 616 del 1977, sono intervenuti nuovi provvedimenti e nuove iniziative non certo
ispirate ai criteri che hanno presieduto all'approvazione dell'art.
25, 5" comma, della predetta legge delegata. Innanzitutto il 17
maggio 1978 fu presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge del ministro dell'interno ad interim (riordinamento del l'assistenza sociale), poi rimasto senza seguito, che all'art. 15 esclu deva dal trasferimento ai comuni le I.p.a.b. « che non svolgono in modo precipuo attività inerenti la sfera educativo-religiosa e
che sono in grado, per l'efficiente organizzazione di strutture e di
personale, anche volontario, di continuare la propria attività».
Successivamente due decreti-legge non convertiti (d. 1. 29 marzo 1979 n. 113 e d. 1. 19 giugno 1979 n. 209 «norme per la disci
plina del trasferimento ai comuni delle istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza operanti nell'ambito regionale ») conte
nevano importanti esclusioni dal trasferimento di intere catego rie di I.p.a.b. diverse da quelle previste nell'art. 25 d. pres. n.
616 del 1977. In particolare, secondo i decreti-legge non conver
titi, sarebbero state escluse dal trasferimento ai comuni le I.p.a.b. aventi struttura associativa, quelle promosse ed amministrate da pri vati e operanti prevalentemente con mezzi di provenienza privata nonché le I.p.a.b. di ispirazione religiosa. Né ulteriori iniziative
per risolvere il nodo delle I.p.a.b., in sede di elaborazione della
legge per la riforma dell'assistenza, hanno avuto finora un esito
positivo. (Ma deve farsi menzione dell'art. 45 legge 23 dicembre
1978 n. 833, « istituzione del servizio sanitario nazionale », arti
colo che esclude dal trasferimento ai comuni le associazioni di volontariato che concorrono ai fini istituzionali del servizio sani
tario, anche se attualmente riconosciute come I.p.a.b.). La conseguenza più ovvia di questa situazione, a dir poco in
certa, è davvero paradossale: mentre il legislatore delegato del
1977 aveva utilizzato ultra vires come dato unificante la « pubbli cità » delle I.p.a.b., gli eventi successivi provocavano profonde
disparità di trattamento, del tutto ingiustificate, tra I.p.a.b. con
siderate in genere e, inoltre, tra I.p.a.b. di diverse regioni. Quanto al primo punto, basti ricordare come non si sia con
sentito alla commissione di cui al 6° comma dell'art. 25 di com
pletare la propria attività, risultando cosi non scrutinato, ai fini
della esclusione dal trasferimento (attività inerenti la sfera educa
tivo-religiosa), un numero cospicuo di enti.
Quanto al secondo punto, vanno rilevate talune differenze di
ordine non secondario tra leggi regionali adottate per una prima attuazione dell'art. 25 (leggi della regione Emilia-Romagna 8
aprile 1980 n. 25; della regione Piemonte 10 aprile 1980 n. 20; della regione Umbria 17 maggio 1980 n. 46; della regione Basili
cata 4 dicembre 1980 n. 50 e della regione Lombardia 7 marzo
1981 n. 13). Infine, si deve ricordare che il d. pres. 19 giugno 1979 n. 348 (norme di attuazione dello statuto speciale per la Sar
degna in riferimento alla legge 22 luglio 1975 n. 382 e al d. pres. 24 luglio 1977 n. 616) ha escluso dal trasferimento varie catego rie di I.p.a.b., adottando in pieno tutti i criteri di esclusione
accolti nei decreti-legge del 1979, peraltro non convertiti. E ciò
a tacere di situazioni ulteriormente differenziate in altre regioni a statuto speciale.
Tale stato di cose, se da un lato conferma una parziale ope ratività delle norme dell'art. 25, che non hanno dunque natura
meramente programmatica, dall'altro mette in luce gravi dispa rità di trattamento tra I.p.a.b. e I.p.a.b. in relazione a circostanze
che non dovrebbero influire sulla concreta applicabilità del prin
cipio d'eguaglianza alle persone giuridiche, comprese quelle pub bliche (sent. n. 25 del 1966, id., 1966, I, 613).
13. - L'accoglimento della prima censura di incostituzionalità
rivolta all'art. 25, 5° comma, per violazione degli art. 76 e 77,
1° comma, Cost., rende superfluo l'esame delle altre censure per contrasto con gli art. 117, 118 e 38, ult. comma, Cost.; nonché
il controllo sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 legge 17 lu
glio 1890 n. 6972. Quanto all'art. 113 d. pres. n. 616 del 1977,
esso non è richiamato a proposito in un giudizio promosso per
verificare la legittimità costituzionale dell'art. 25, 5° comma, d.
pres. n. 616 del 1977.
Accertata la illegittimità costituzionale dell'art. 25, 5° comma,
decreto citato, si rende necessaria l'applicazione dell'art. 27, 1°
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2631 PARTE PRIMA 2632
comma, legge 11 marzo 1953 n. 87 al fine di dichiarare la conse
guenziale illegittimità di altre disposizioni dello stesso art. 25.
Per questi motivi, dichiara l'illegittimità costituzionale del
l'art. 25, 5" comma, d. pres. 24 luglio 1977 n. 616 « attuazione
della delega di cui all'art. 1 legge 22 luglio 1975 n. 382 »; di
chiara, inoltre, a norma dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87,
l'illegittimità costituzionale: a) del 6° comma dello stesso art. 25;
b) 7° comma dello stesso art. 25 limitatamente alle parole: « L'elenco di cui al comma precedente è approvato con decreto
del presidente del consiglio dei ministri. Ove, entro il 1° gennaio
1979, non sia approvata la legge di riforma di cui al precedente
quinto comma » e alle parole « nonché il trasferimento dei beni
delle I.p.a.b. di cui ai comma precedenti »; c) del 9° comma
dello stesso art. 25 limitatamente alle parole: « e delle I.p.a.b.
di cui al presente articolo ».
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 10 luglio 1981, n. 129
(Gazzetta ufficiale 15 luglio 1981, n. 193); Pres. Amadei, Rei.
Paladin; Pres. Repubblica (Aw. A. M. Sandulli), Pres. Se
nato della Repubblica (Avv. Crisafulli) e Pres. Camera dei
deputati (Avv. Barile) c. Corte dei conti. Conflitto di attribu
zioni fra i poteri dello Stato.
Corte costituzionale — Conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato — Conflitto fria presidenza della Repubblica, Camere e Corte dei conti — Assoggettamento degli organi co
stituzionali al giudizio di conto — Esclusione (Cost., art. 103,
134; r. d. 12 luglio 1934 n. 1214, t. u. delle leggi sull'ordina
mento della Corte dei conti, art. 44).
Non spetta alla Corte dei conti il potere di sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della presidenza della Repubblica, della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; vanno per tanto annullati i decreti emessi dalla sezione I della Corte dei
conti il 30 ottobre 1979 e depositati il 19 febbraio 1980, con
i quali è stato prescritto ai tesorieri stessi il termine di sei
mesi per la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977, nonché le corrispondenti note 21 marzo
1980 del direttore della segreteria presso la procura generale della Corte dei conti. (1)
(1) L'ammissibilità del conflitto era stata dichiarata da Corte cost., ord. 12 novembre 1980, n. 150, Foro it., 1981, I, 340. I decreti della
Corte conti 30 ottobre 1979 - 19 febbraio 1980, in relazione ai quali è stato promosso il conflitto d'attribuzioni, sono riportati, id., 1981, III, 84, con ampia documentazione sulla vicenda.
Ai riferimenti riportati nelle rispettive note di richiami adde A.
Nobili, Il controllo della Corte dei conti sugli organi costituzionali, in Riv. amtn., 1978, 828; e da ultimo, Buscema, Trattato di contabi lità pubblica, Milano, 1981, II, 251.
Sono rammentate in motivazione: Corte cost. 26 giugno 1970, n.
110, Foro it., 1970, I, 2064 (che ritenne non lesiva dell'autonomia del consiglio regionale della Sardegna la sottoposizione dell'economo del consiglio a giudizio di conto avanti la Corte dei conti); 21 mag gio 1975, n. 114, id., 1975, I, 1913 (invocata dalla Corte dei conti nei decreti che danno materia al conflitto); 22 ottobre 1975, n. 231, id., 1975, I, 2405 (sulla legittimazione passiva degli organi giurisdizio nali nei conflitti di attribuzioni); 2 giugno 1977, n. 102, id., 1977, I, 1607, con osservazioni di Pizzorusso (che dichiarò inammissibile la que stione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti in ordine alla sottrazione degli amministratori e dipendenti degli enti locali alla sua giurisdizione di responsabilità).
Sulla consuetudine costituzionale, alla quale fa riferimento la sen tenza considerandola tutt'uno con la prassi costituzionale, si consultino:
Ferracciu, in Studi senesi, 1913, 155; Ranelletti, in Riv. dir. pubbl., 1913, I, 146; Carbone, La consuetudine nel diritto costituzionale, Padova, 1948; Ferrari, Introduzione ad uno studio sul diritto pub blico consuetudinario, Milano, 1950; Pierandrei, in Foro pad., 1951, IV, 185; Caristia, in Scritti giuridici, storici e politici, Milano, 1953, I, 161; Esposito, Consuetudine (dir. cost.), voce de\\'Enciclope dia del diritto, 1961, IX, 456; Id., in Studi in onore di E. Betti, Milano, 1962, I, 597; G. Zagrebelsky, Sulla consuetudine costituzionale nella teoria delle fonti del diritto, Torino, 1970; Pizzorusso, Fonti del
diritto, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 365.
Per un cenno di diritto comparato si ricorda che, mentre nella
maggior parte degli ordinamenti a regime parlamentare gli organi costituzionali, e particolarmente le Camere, godono di piena auto nomia contabile, nella Repubblica federale di Germania ed in Au stria i bilanci delle assemblee sono assoggettati al controllo della Corte dei conti federale (cfr. Union interparlementaire, Les Parle ments dans le monde, Paris, 1977, 256).
Sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato v., da ultimo, Sorrentino (Pizzorusso, Volpe, Moretti), in Commentario della
La Corte, ecc. — 1. - I ricorsi per conflitto di attribuzione, pro
posti dal presidente della Repubblica, dal presidente della Came
ra dei deputati e dal presidente del Senato della Repubblica, nei
confronti della sezione I giurisdizionale della Corte dei conti, ri
guardano i contemporanei ed analoghi decreti, datati 30 ottobre
1979 e depositati il 19 febbraio 1980, con cui tale sezione ha pre scritto ai tesorieri della presidenza della Repubblica, della Camera
e del Senato il termine di mesi sei per la presentazione dei conti
Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1981, 436, e Piz
zorusso, Conflitto, voce del Novissimo digesto, appendice, Torino, 1981, II, 371 ss.
♦ * *
Con la sentenza qui riportata la Corte costituzionale acquisisce al
proprio « arsenale » un ulteriore strumento operativo (vedine altri sommariamente elencati da Modugno, Corte costituzionale e potere legislativo, relazione al convegno Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo italiana, Firenze 17-19 settembre 1981, 77
78), impiegato ora non più, come è spesso accaduto in passato, nei
riguardi dell'atto controverso o dell'atto introduttivo del giudizio di costituzionalità, bensì per l'individuazione della stessa norma fonda mentale da assumere a parametro della decisione. È la prima volta, a quanto consta, che per circoscrivere più esattamente il significato di una disposizione, formulata peraltro in termini generalissimi, s'in voca una consuetudine o una prassi applicativa indiscutibilmente vi gente da lungo tempo. La corte, non manca di affrontare il tema con una certa spregiudicatezza, saltando a pié pari le difficoltà, forse non decisive, collegate al dubbio circa la possibilità di utilizzare nella soluzione dei conflitti norme di origine consuetudinaria, o comunque non desunte dal testo costituzionale o da altre disposizioni formal mente costituzionali (per qualche indicazione in proposito, Zagre belsky, Sulla consuetudine, cit., 178, e Sorrentino, in Commentario, cit., 475).
Nel pensiero inespresso del collegio tale fatto normativo, che in terviene a delimitare la giurisdizione contabile della Corte dei conti, va reputato come consuetudine secundum legem: qualificazione non
espressamente formulata, ma presupposta soprattutto da quella parte di motivazione che approfondisce e sviluppa con accenti insoliti il
principio dell'autonomia degli organi costituzionali ricorrenti, princi pio cui la norma consuetudinaria è giudicata conforme. C'è anzitutto da chiedersi se la lettera dell'art. 103, capov., Cost, ammette una consuetudine intesa a sottrarre la presidenza della Repubblica e le Camere — nonché la stessa Corte costituzionale, a cui possono esten dersi le medesime osservazioni — al giudizio di conto. « La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica »: facendo assumere alla proposizione la sua massima portata espansiva, ciò astrattamente significa che tutte le controversie comprese nella classe cosi determinata devono essere deferite alla cognizione del giudice contabile. Non per questo la sfera della giurisdizione contabile ri mane esaurientemente delimitata, perché non vengono precisamente indicati i soggetti « passivi » della funzione, e l'attributo « pubbli co » è solito accompagnarsi a contenuti cosi disparati da non potersi desumere da esso un immediato significato precettivo. La locuzione stessa « contabilità pubblica », al momento in cui è stata introdotta nel testo costituzionale, non registrava precedente alcuno di diritto positivo (Bentivenga, Contabilità pubblica, voce dell 'Enciclopedia del diritto, 1961, IX, 598). Bisogna dunque concludere che la norma non si presenta munita di cogenza assoluta, bensì ammette una plu ralità di interpretazioni e di « realizzazioni » ad opera di fonti su
bordinate, ed entro questo raggio può trovare campo d'esplicazione anche la consuetudine invocata dai giudici della Consulta.
Occorre ancora brevemente soffermarsi non sul grado che occupa tale norma consuetudinaria nella « scala delle durezze », perché, com'è noto, la consuetudine non ha grado, ma piuttosto sull'indivi duazione della fonte abilitata a stabilire una corrispondente disciplina scritta del fenomeno. La norma-fatto, intervenendo qui in un cam
po materiale previamente delimitato, sia pure in modo imperfetto, si presenta come logicamente subordinata al disposto dell'art. 103, capov.., Cost., rispetto al quale si pone quale norma d'attuazione. Il rilievo non comporta, tuttavia, che la norma consuetudinaria tenga qui il
luogo di una previsione legislativa, perché è da negare la competen za della legge ordinaria a regolare un aspetto dello status degli or
gani supremi. A parte l'ipotesi di una legge di revisione costituzio nale — ammissibile a patto che non vengano modificati i caratteri essenziali dell'ordinamento — si manifesta piuttosto necessario l'in tervento della fonte regolamentare, espressione della posizione di au tonomia che costituisce il diritto comune di questi organi.
Se si condivide il ragionamento sin qui seguito, non si coglie al lora l'utilità per la Corte costituzionale di avallare con la propria interpretazione l'avvenuta affermazione della norma consuetudinaria. Se questa vale a titolo meramente confermativo di un principio giu ridico già presente nell'ordinamento, nel fenomeno non è da ravvi sare una consuetudine in senso proprio per la ragione che la norma, pur inespressa, appare preesistente al fatto storico, non scaturisce con esso. Si poteva tutt'al più, dunque, parlare di prassi costante mente seguita in osservanza di una regola di diritto positivo, e nulla più; e per vero la corte parla anche di prassi, ma senza dissociarla dalla consuetudine, anzi decisamente confondendola con questa.
Senza nulla togliere alla difficoltà concettuale che talora s'incon tra nel distinguere tra principi generali e precetti di derivazione con
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