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magazine n.20 1/2016 Blackstar Wars Il risveglio della Forza, Bowie e la nuova età dell'immaginario

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BLACKSTAR WARS – Il risveglio della Forza, Bowie e la nuova età dell’immaginario

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magazine

n.201/2016

BlackstarWars

Il risveglio della Forza, Bowie e la nuova etàdell'immaginario

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SOMMARIO

EDITORIALESono una forza del passato

L'Europa è tutta una tomba

STAR WARSIl risveglio della ForzaVerità mancateIo sono suo padre. George Lucas e lo scisma del pubblicoIl cinema che non (si) scartaLa Francia, Star Wars e la dipendenza CahiersUna nuova speranza L'Impero colpisce ancoraIl ritorno dello JediStar Wars UniverseLa minaccia fantasmaL'attacco dei cloniLa vendetta dei SithLa cena del profetaA Long Time Ago - Il risveglio del vintage

FACESL'intrepidoConversazione con Giovanni Cioni

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Quando Rey non accetta l'offerta di Maz Kanata e rifiuta di far sua la light saber di Luke Skywalker, diviene final-mente chiaro quale sia la posta in gioco e chi sia l'eroe in viaggio. La ragazza avverte per la prima volta, in ma-niera nitida, la Forza che vive in lei, quell'energia segre-ta dell'universo, finora sopita, che l'attraversa da parte a parte in un lampo. E ha paura, è sconvolta, non sa come gestirla. È il classico momento del rifiuto della chiamata all'avventura, dell'eroe riluttante, il primo nodo proble-matico del viaggio, così come individuato da Campbell, l'irrinunciabile nume tutelare di questa saga infinita, de-stinata a propagarsi a dismisura, in tutti i segreti recessi dell'universo.

Eppure il richiamo è ineludibile, la Forza deve risve-gliarsi. E quando Kylo Ren giocherà con i suoi poteri, la reazione di Rey sarà devastante... Eppure fa male. My brain hurts a lot, cantava Bowie in apertura di The Rise and Fall of Ziggy Stardust. In apertura, quindi al principio dell'ascesa, all'alba della (nuova) vita, a soli cinque anni compiuti. Ogni inizio fa male. Perché richiede una par-tenza, cioè un distacco, una frattura. Cioè il compimento definitivo di un altro viaggio. The Rise and Fall. L'inizio coincide con una fine. Comunque. Calvino diceva di pre-ferire gli incipit, quelli che delineavano i confini del mon-do narrato. Ma che differenza fa, infine? In un mondo circolare, come possono tracciarsi percorsi lineari? Ogni cosa deve adattarsi alle curvature della sfera, viaggiare in tondo e toccare più volte l'apice, più volte il fondo. Ma per avere la Forza di andare avanti, occorre forse imma-ginare che non sia così. Distinguere il passato dal futuro, proprio adesso, nella linea di confine del presente.

In effetti, tutto il "problema" emotivo di Rey sta nell'ac-cettare il suo destino, rinunciare all'attesa, al ritorno im-

di aldo spiniello

Sentieri selvaggi magazinen.20 - dicembre 2015/gennaio 2016

Bimestrale di cinema e tutto il resto...

Direttore responsabile Federico Chiacchiari

Direttore editorialeAldo Spiniello

RedazioneSimone Emiliani, Carlo Valeri, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo

Segretaria di redazioneElena Caterina

Hanno collaborato a questo numeroGiacomo Calzoni, Massimo Causo, Davide Di Giorgio, Emanuele Di Porto, Guglielmo Siniscalchi

Progetto GraficoGiorgio Ascenzi

RedazioneVia Carlo Botta 19, 00184 Roma. Tel. +39 06.96049768Mail redazione e [email protected]@sentieriselvaggi.it

Supplemento a www.sentieriselvaggi.it

Registrazione del tribunale di Roman.110/98 del 20/03/1998 (edizione cartacea)n.317/05 del 12/08/2005 (edizione on-line)

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Sono una forza del passato

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Il risveglio della Forza, Bowie e la nuova etàdell'immaginario

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possibile della famiglia d'origine, per abbracciarne una nuova. E rimettersi in cammino. Una questione non molto di-versa da quella che afflige Adonis Creed, chiamato a smarcarsi dall'eredità ingom-brante del sommo padre Apollo (che non a caso ha il nome di un dio). A lottare, letteralmente, con la sua ombra. Alla fine sembra riuscirci, per una pura intenzione del plot. Ma resta il fatto che al suo per-sonaggio non riusciamo mai ad affezio-narci sul serio e tutto il nostro desiderio sta nell'andare a salutare Rocky.

Ecco, Il risveglio della Forza e Creed sembrano due diverse declinazioni di un cinema che non riesce ad affrancarsi dal passato. J. J. Abrams non ci prova nemmeno. Ryan Coogler tenta, ma pare mancare il bersaglio. I riferimenti di par-tenza restano lì, enormi e mirabili, come le pale d'altare. Ma a che serve? Pensare alla linea evolutiva, questo confronto co-stante e snervante con le origini, i padri, rimpiangere o odiare la vecchia casa, quella a cui tornava Rambo (ancora lui,

Sly), quella a cui tornava Jeff McCloud ne Il temerario. In fondo è solo un attimo, un passaggio provvisorio. Il passato non tor-na, è inghiottito in una morte nera. Eppu-re sta là, come un'impronta impressa nel cuore e nella mente. Punto.

Mi vengono in mente alcune cose. Cose che mi girano in testa da giorni... Il mo-mento di Hatfields & McCoys in cui Ke-vin Costner dice "indurite i cuori", che mi sembra fare il paio con le parole che il vecchio Randall McCoy si sente dire dal-la moglie: "devi lasciare che il tuo cuore si spezzi". E mi sembrano la stessa idea. Solo se spezzi il cuore, puoi indurirlo. E solo se lo indurisci oltre modo, puoi spezzarlo. E poi un finale, non certo per contraddire Calvino. Sempre Il temera-rio, con Mitchum sul letto. "Broken bones, broken bottles, broken everything". E poi, "quelli come noi non muoiono mai". Non c'è Fall-imento, forse. La caduta dura un attimo, è vero. Come una morte breve nelle stanze d'albergo. Mentre la risalita è lunga. Eppure ci sarà sempre.

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Il sound di M:FANS, pubblicato a gennaio 2016, è spesso e volentieri talmente esaltan-te nella sua coriacea concezione di psych-pop avanguardista sciolto in strati di acido sintetico e sociopatia binaria, che uno finisce quasi per dimenticarsi le canzoni che si possono intuire sepolte là sotto, ovvero il rework, come si dice adesso, dei titoli raccol-ti nel 1982 in Music for a New Society, album all’epoca scarno e intellettuale dell’ex-viola e anima accademica nascosta dei Velvet Underground, il gallese John Cale. Il remix che Cale attua sulle hit del suo lavoro dell’82 come Close watch, Chinese En-voy, Thoughtless Kind è radicale e concettualmente così spinto in avanti da non essere ancora perfettamente decodificabile, come tutta la musica prodotta dal polistrumenti-

L'Europadi sergio sozzo

Appunti per un’estetica eversiva del rework, dal musical Lazarus di Da-vid Bowie a M:FANS di John Cale passando per il Philly soul "lisciato" da Creed: una pratica infedele e incestuosa come i personaggi di A bigger splash

è tutta una tomba

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sta negli anni 2000: eppure l’attitudine non è troppo lontana da quella dei successi di questo periodo ai botteghini dei multiplex, operazioni a metà tra il remake e il reboot, come è stato detto, ovvero Il risveglio della Forza e il deludente Creed di Ryan Coogler (che infatti è correttamente finito a dirigere uno dei prossimi Marvel movies, con i mi-gliori auguri). Anzi, verrebbe quasi da suggerire l’adottamento del termine rework per prodotti simili a cui Hollywood sembra puntare con decisione, espediente che il mondo della musica frequenta già da un po’, con conseguente tour dell’album eseguito dal vivo per intero, non lontano dalle distribuzioni sold out dei classici del cinema in sala

DAVID BOWIE

per un giorno solo (che il primo rework del grande schermo l’abbia allora già portato a termine Geor-ge Lucas quando rimise mano agli effetti speciali della Trilogia classica per ridistribuirla nei cinema a metà anni ’90?). If you were still around, I’d hold you: John Cale e David Bowie hanno sempre avu-to molti aspetti in comune, musicalmente e attitudi-nalmente, e infatti il thin white duke aveva lavorato a nuove versioni dei suoi classici come Changes o Heroes per il musical La-zarus del New York Thea-

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tre, quasi un sequel per il palco de L’uomo che cadde sulla terra messo in scena negli scorsi mesi. La traccia Lazarus è finita poi per essere una delle più pazzesche in un album visionario ed esplosivo tanto quanto M:FANS, lo strepitoso epitaph di Bowie, Blackstar, sorta di spiritual steampunk suonato dalla band da sala da ballo di uno dei bar del Pasto Nudo. Ultimo album a quanto pare giusto per contingenze della finitu-dine umana, dato che l’artista aveva già registrato le demo di cinque pezzi dell’opera che avrebbe dovuto far seguito a questa a breve termine, e programmato una serie di uscite antologiche con il solito carico di rarità per i prossimi anni. La lucidità e la preveggenza per orientare e anticipare il mercato non gli sono mai mancate, ma in queste settimane in cui ascolto ossessivamente Blackstar e M:FANS (interrotti solo da ripetute visite all’abissale The Bell di Ches Smith) mi sembra che l’arte di questi reve-nant renda tutti noi alieni, in misura mostruosamente maggiore di quanto si sia soliti indicare all’opposto queste popstar come i veri extraterresti. I turisti di questo pianeta siamo in realtà noi locals, come spiega benissimo il meraviglioso A Bigger Splash di Luca Guadagnino, che si permette lo screzio osceno e indicibile di pisciare sulle tom-be d’Europa, quelle archeologiche, quelle della ricotta fatta in casa dalla moglie del contadino, e quelle che galleggiano nel Mediterraneo: Ralph Fiennes se la ride con sacrosanta arroganza, suona e balla Emotional Rescue ma poteva tranquillamente essere un disco di Bowie dello stesso periodo, non sappiamo se alla fine la paga più cara lui che perde il ghigno in fondo alla piscina o la bowianissima Tilda Swinton (The stars are out tonight…) la cui cauzione per uscirne innocente è firmare un autografo in una barzelletta sui carabinieri. The european cannon is here, e allora compiti per

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casa: farsi fischiare le orecchie con David Bowie Live at Nassau Coliseum 1976, tour di Station to Station, quello su cui Lester Bangs scrisse uno dei suoi capolavori, John-ny Ray e la vasca per idromassaggio, in cui chiosava “come sappiamo tutti, gli hippy bianchi, e i beatnik prima di loro, non sarebbero mai esistiti se non ci fosse stata tutta una sottocultura generazionale tormentata dalla smania di essere nient’altro che i ne-gri più degradati e più tosti”… a proposito di #Oscarsowhite. Quanto del Philly sound che Bowie aveva frequentato per Young Americans e che la colonna sonora terrifican-te di Creed liscia completamente sarebbe stato molto più eccitante se Coogler avesse

– sogniamo! – utilizzato le rivisitazioni di classici del Philadelphia soul che gli “Young Philadelphians” di Marc Ribot hanno trasfor-mato in urticanti cavalca-te tra free-funk, chitarri-smo noise e harmolodics di memoria ornettiana (a supporto di Marc c’è non a caso la sessione ritmi-ca dei leggendari Prime Time) nel loro recente Live in Tokyo. Appunti for a new society per un’estetica eversiva del rework, infe-dele e incestuosa come i personaggi di Guadagni-no: white light returned with thanks.

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Qualsiasi parola su The Force Awa-kens è un terreno scivoloso che rischia di compromettere l’emozione a chi non ha ancora avuto l’occasione di vederlo. L’esistenza di un pericolo di questo tipo rappresenta già la promessa di un film avvincente e l’ammissione di questa diffi-coltà fuga almeno il primo dubbio.

L’attenzione a non rivelare i dettagli del-la trama deve rincuorare i devoti di Star Wars sul fatto che il loro timore di trovarsi davanti a The Phantom Menace è stato scongiurato. The Force Awakens è un film degno del suo complicato compito di in-taccare un universo narrativo esaustivo e che ormai ha i contorni di una religione

IL RISVEGLIO DELLA FORZAStar Wars - The Force Awakens (2015)

di J. J. Abrams

Tanto tempo fadi emanuele di porto

The Force Awakens è sia un reboot che un remake. Il film oscilla tra la tradizione e il suo superamento e affronta il tema dell'eredità lucasiana come fosse un padawan che potrebbe ribellarsi

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pagana.Il problema di capire se ci fosse veramen-te bisogno di riaprire il racconto trova la sua risposta nella consapevolezza con cui la Disney ha affrontato il peso dell’e-redità.Episodio VII è la prima esperienza etero-loga dopo che George Lucas ha vendu-to i diritti allo studio nel 2012. L’intento di dimostrare di poter procedere in au-tonomia e senza la sua supervisione si-gnificava anche avere il lasciapassare per sfruttare senza limiti il potenziale dei personaggi che aveva inventato. L’analisi non può andare avanti senza concedersi la licenza poetica di una piccola rivelazio-ne sulla trama del film. C’è una scena in cui alcuni dei personaggi principali si liti-

gano il possesso della lightsaber di Luke Skywalker. L’arma è una specie di exca-libur che riconosce le intenzioni di chi la rivendica e aspetta un nuovo proprieta-rio che possa stabilire una continuità con il passato. La Forza non può risvegliarsi senza la coscienza della sua natura allo stesso modo in cui Star Wars ha bisogno di qualcuno che conosca il suo segreto per riattivarsi. La ricerca del sostituto è la testimonianza della rilevanza lucasiana all’interno della formazione cinemato-grafica di tutta una generazione.J. J. Abrams è solo il primo di una serie di registi che si avvicenderanno nella pro-duzione e nel tentativo di estrarre la spa-da dalla roccia. Il comune denominatore che lo lega a Rian Johnson e a Colin Tre-vorrow è quello di essere un discepolo di-chiarato di George Lucas. Un legame di apprendistato che ritorna continuamen-te nella storyline quarantennale di Star Wars e che è al centro di tutte le scelte di The Force Awakens. Ogni inquadratura si pone il problema di essere all’altezza di un confronto impossibile sin da quando la giovane protagonista si aggira per le rovine degli incrociatori stellari della vec-

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chia guerra.Gli scheletri delle astronavi affondate sul suo pianeta sono i resti di un cinema su-perato dal digitale ma allo stesso tempo sono le sue origini.Lo stato d’animo di J. J. Abrams è quel-lo di chi vuole fare un reboot o un re-make esattamente come gli era capitato con l’aggiornamento di Star Trek. L’ibri-do che ne viene fuori è una sintesi in cui le prospettive future della saga e le basi del passato trovano un punto d’incontro tutt’altro che scontato. La messa in scena sfrutta il livello attuale della tecnologia ma non abusa mai del blue screen al con-trario di quanto accadeva nella seconda trilogia. Lo sforzo degli scenografi non è stato quello di inventare di sana pianta degli sfondi da ricreare in post-produzio-ne ma di cercarli intorno al mondo reale. Un salto all’indietro ad una metodologia antica che George Lucas aveva cercato per tutta la vita di oltrepassare con la In-dustrial Light & Magic.Il pregio di The Force Awakens è quello di non puntare sulla digitalizzazione an-

che se potrebbe affidarsi all’implemen-tazione dell’effetto. Il rifiuto della regola bigger is better che muove tutti i sequel è lodevole anche se la successione degli eventi è la stessa di A New Hope.La nuova arma distruttiva del lato oscuro fa impallidire per grandezza la terribile Death Star ma la stella polare del film è chiaramente il comandamento del back to the basics. Il nuovo villain vive tutto lo schiacciante complesso dell’imitazione e del paragone con il grande esempio di Dart Vader. Invece, la diserzione iniziale di un stormtrooper marca una distanza con le convenzioni acquisite. La decisio-ne di dare un profilo umano ad un eser-cito che per decenni non aveva nemme-no un volto è significativa. George Lucas

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ne aveva fatti morire a centinaia senza mai far vedere nemmeno una goccia di sangue mentre un nuovo spettatore si ap-proccia a un soldato che ha una coscien-za.J. J. Abrams è certamente meritevole del-la sfida ma non ce l’avrebbe mai fatta senza l’aiuto di Lawrence Kasdan. Lo sce-neggiatore è il vero custode della magia di Star Wars e sparge per tutto il film del-le citazioni hollywoodiane di tanto tem-po fa. La sua scrittura è il vero garante della trasformazione e di un’operazione che sta sempre in bilico tra l’omaggio e l’azzeramento.La metamorfosi saprà andare avanti an-che quando l’entusiasmo e la commo-zione per le reunion si saranno affievo-liti? Il pubblico sente di essere tornato a casa quando il Millennium Falcon si alza in volo ma basterà il conforto dell’iper-spazio come stampella per le novità e i traumi degli episodi successivi? I prossi-mi registi saranno ugualmente rispettosi

o saranno dei padawan che si ribellano? Del resto, Star Wars non è la saga in cui l’equilibrio tra la luce e il lato oscuro è minacciato sin dalla notte dei tempi?

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Dramma dell'identità distratta: a partire dal dover, a un certo punto, rinominare nel-la memoria il titolo, da Guerre stellari a Star Wars, quando tutto ha un nuovo inizio e la rinumerazione degli episodi palesa un passato che è molto più di un epilogo... Nemmeno il logotipo resta invariato, perde più o meno quella inclinazione prospet-tica nella profondità di campo (stellare), che poi giocava con le tue diottrie quando era applicata al didascalico – e giallo – proemio che scorre sull'ouverture di John Williams e ci spiega antefatti e situazioni di una saga che è già stata nel momento in cui sta iniziando, persa in una genesi senza origine.

Fatto sta che il continuo slittamento di segno, lo spiazzamento del principio in un centro fluttuante, il disequilibrio elevato a sistema che scaturisce da Star Wars, è il punto di contatto tra la cosmogonia inventata da George Lucas (che già di per sé

Verità mancatedi massimo causo

J. J. Abrams sente, comprende e riutilizza nel Risveglio della Forza un vissuto adolescenziale, l'insistenza su un universo affabulatorio che ri-cicla se stesso

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nasce per forzoso spostamento dell'universo di Flash Gordon negatogli dagli aventi diritto...) e l'approccio semantico a una disfunzionale conoscibilità del vero. La rive-lazione prospettica delle genealogie che procedevano di padre in figlio (l'un l'altro negati, reciprocamente rifiutati) materializzava, nell'immaginario di una fantascienza riscritta in tutti i generi del cinema (western, commedia, bellico, slapstick, ecc.), lo sco-stamento del velo malinconico che ricopriva il languore di Tatooine, dissimulazione di una provincia incisa dentro la coscienza lucasiana come un American Graffiti o, se volete, un tattooaggio che era già un logotipo da destinare all'Impero dell'immagina-rio a venire, eppure ancora recalcitrante (perché obsoleto e vanamente dominante).

Guerre Stellari (inteso come Episodio IV...) aveva, del resto, una semplicità che già L'Impero colpisce ancora avrebbe perso. Eppure nello schema di Lucas, magari in-consciamente, la saga serbava già l'illusione di una tragedia arcaica in cui i mate-riali archetipali si consumavano nel gioco – molto exploitation – dell'esistere oltre lo schermo, come funzione sociale, come evento che attanaglia le flebili coscienze di un sistema in cui tutto era connesso: la Forza che tutto tiene insieme, il sentire a distan-za, la connessione che fa rete, ovvero web... Sarà poi un caso se gli annali del 1977 appuntano, oltre all'uscita di Star Wars anche la fondazione della Apple e il primo utilizzo della fibra ottica per le comunicazioni telefoniche?

E soprattutto questa idea di un universo che ingloba e tiene insieme creature dif-ferenti, esseri da mondi separati eppure fusi in una sorta di jam session (la Cantina Band, certo, ma non solo ovviamente...) di linguaggi, suoni, culture, che chiaramente

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anticipa di molto il senso di un mondo globalizzato ora acquisito. Oggi più di ieri, in fondo, ci si ritrova stupiti a vedere personaggi che interloquiscono con altri parlando semplicemente la loro lingua (suoni, fonemi, grugniti...), senza che Lucas si preoccupi di tradurre e sottoti-tolare... lasciando ai compagni di scena

il compito di mediare ciò che dicono, le loro parole, la loro cultura... I duetti robotici tra R2-D2 e C-3PO e poi Han Solo, il finto individualista residuale della Frontiera, e il wookiee Chewbacca, in transito su un legame quasi empatico, vissuto nella comunio-ne con quell'oggetto transazionale per eccellenza che è il Millennium Falcon: strane coppie wilderiane, insomma, che superano la loro immediata identità per celebrare un senso di intrusione nella consolidata diffidenza (dello spettatore) per il dissimile.

Che tutto ruoti, poi, attorno a un padre perduto è un dato limpido come un archeti-po già posto in essere, soprattutto se senti in Darth Vader l'assonanza con quel “dark father”, padre oscuro, che innegabilmente era... Il fatto è che nella saga lucasiana è proprio e sempre l'evidenza a sfuggire di mano, un po' come il messaggio della Principessa Leia consegnato alla memoria di R2-D2, che circola libero senza esser visto, o meglio è mostrato solo in parte, in un proditorio loop innescato dal robot in cerca del destinatario esatto. È questo continuo smistamento di verità mancate che incide la sostanza di una saga destinata a celebrare il senso di una resistenza che appartiene non già all'illusione della politica (l'Impero è tutto sommato una minaccia fantasma, questo ce lo dice lo stesso Lucas...), ma alla sostanza ingenua del nostro essere. Luke Skywalker è l'eroe infante per eccellenza, la fabula che scopre il proprio

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ordito e lo celebra come una vittoria sul-la verità che gli appartiene... Incrocerà la spada (laser) col padre solo quando avrà penetrato il ventre di quella grande madre che è la Morte Nera, in un (video)gioco di precisione che è epitome edipica finanche banale... Che non ci sia conflit-to nel padre oscuro lo sappiamo bene, o quanto meno possiamo immaginarlo, perché l'età adulta è quella che purtrop-po, arrogantemente, non ha dissidi in sé stessa. È l'infanzia che confligge con la propria fine, la materia ludica del so-gno che si inarca verso la verità oscura-ta, protesa in direzione di un sentimento di sé che è adulta fiducia nel fare (“Fare o non fare, non c'è provare” ammonisce Yoda al povero Luke prostrato nell'infan-tile impotenza di non riuscire a sollevare

la sua astronave impantanata su Dagobah...). E, venendo all'oggi, vien voglia di dire che sia proprio questo vissuto adolescenziale

che J.J. Abrams sente, comprende e riutilizza nel Risveglio della Forza, l'insistenza su un universo affabulatorio che ricicla se stesso, la reiterazione del vissuto nella nar-razione rivoluta (involuta diranno, magari a ragione, i detrattori) di una fiaba che si replica da sé e si incarna nel lato opposto del suo essere. Trovando, questa volta, un figlio oscuro opposto a un padre di luce, mentre l'eterno irrisolto Luke Skywalker – non più infante, non più ipotesi sospesa sulla sua realizzazione – assurge a corpo etereo in astrazione di potenza e evidenza d'assenza. Inconizzato nella sua verità ac-quisita e obnubilato nella sua sfera arcaica.

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Io sono suo padre

di davide di giorgio

Da un lato un autore che ha sempre inteso la saga come terreno di confronto per la ricerca di nuove soluzioni, dall'altra un fandom che non ha potuto (voluto) seguirlo invocando la purezza perduta. C'è an-cora spazio per la creatività nella galassia?

Non è facile essere George Lucas. Non è mai facile quando una tua creazione diventa pezzo dell'immaginario popolare e viene pertanto cristallizzata in una forma assoluta. Diventa altro dal suo autore, autosufficiente e immutabile. Di qui, naturalmente, la crisi, che è quella lungamente dibattuta sulla liceità delle “edizioni speciali” (con in-nesto di nuovi effetti digitali e qualche cambiamento qua e là) e l'eterna diatriba sugli esecrati Prequel. È la crisi per un autore che rivendica non solo la necessaria libertà d'azione su un materiale che da lui discende, ma anche il diritto di portare avanti un'idea primigenia, forse solo abbozzata nella parte fino a quel momento narrata.Il punto è stabilire se Guerre stellari (e usiamo il titolo “vintage” non a caso) sia un punto d'arrivo per un'opera di sintesi che conclude la parabola di un immaginario la-sciato sino a quel momento libero di serpeggiare nelle opere più diverse fino a trova-re asilo nel composito racconto di una galassia lontana lontana; oppure se Star Wars sia, all'opposto, un enorme mosaico in perenne divenire, una sorta di laboratorio cui il suo autore può sempre tornare per ampliarne i confini e continuare così ad aprire frontiere tematiche, visive e stilistiche. Nell'immaginario globale il primo punto centra la sostanza del progetto, e gli permette di trovare una felice sintesi fra innovazione e tradizione, catturando in tal modo l'affetto di una generazione che lo consegna al

George Lucas e lo scisma del pubblico

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rango dei classici e lo fa suo personale vessillo fantastico (“cult movie di massa” scris-se con intelligenza qualcuno).

Per Lucas, invece, è vera la seconda ipotesi: per rendersene conto è sufficiente os-servare dall'esterno la progressione del disegno galattico, attraverso la direttrice che dalla Trilogia Classica porta agli spin-off, alle edizioni speciali, ai Prequel, fino alla serie animata di Star Wars: The Clone Wars (fra gli esperimenti più esaltanti della fase finale lucasiana, dove il decollo qualitativo che si registra dalla terza stagione in poi coincide con il passaggio in pianta stabile dello stesso Lucas a capo del gruppo di sceneggiatori, e l'autore che mette a disposizione dello staff le sue idee e i suoi desiderata circa le ulteriori direzioni da far intraprendere all'universo narrato). Tutto è orientato a cercare sempre nuove vie, affastellando generi e stili, dalla fanta-scienza al western, fino al melodramma al thriller politico, all'horror con zombi, streghe e magia. L'evoluzione del rac-conto si accompagna a quella umana e artistica del suo autore, che attraversa le varie fasi della sua vita: la Trilogia Clas-sica è allineata alle prime opere del regi-sta, al tema della fuga da un microcosmo limitato quando non addirittura oppres-sivo che affligge tanto L'uomo che fuggì dal futuro, quanto i ragazzi di American Graffiti, destinati a essere sintetizzati nel-la voglia d'avventura di Luke Skywalker.

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È un tema perfettamente sentito dallo studente di cinema cui stanno strette le maglie di Hollywood, ma che nonostante questo non smette di sognare in grande e vuole essere protagonista di un'avven-tura dove pure si potrà infine tendere la mano al padre-nemico per ottenere le-gittimazione a portare avanti il mondo (e il cinema).

Viceversa, l'epoca dei prequel è quel-la del regista-tycoon che elabora la sua trasformazione in mogul hollywoodiano, è un racconto che abbandona ogni ot-timismo e si riconosce nella caduta del suo eroe, in una parabola malinconica e a suo modo passionale. In entrambi i casi c'è la rilettura della Storia ameri-cana nelle sue varie fasi, dalla trasfor-mazione post sessantottina alla conser-vazione dell'era Bush Jr. L'elaborazione di un sogno che si rivela poi un incubo (e non a caso il sogno ha, nella trilogia prequel, un'importanza molto pregnan-te). La prospettiva dunque si rovescia e si mettono in crisi le percezioni acquisi-te sui personaggi: l'aura demoniaca del classico Darth Vader (soprattutto quello

Fenomeno transmediale per eccellen-za, la saga di Star Wars ha un rapporto ormai consolidato anche con l’anima-zione, che – negli anni più recenti – ha inteso allargare lo spettro emozionale delle singole avventure, approfonden-do i temi morali esplorati nelle pelli-cole maggiori, senza rinunciare alla classica forma dello spettacolo in bili-co fra ironia, azione e fantasy. Il rap-porto in realtà è di lunga data, sia in termini teorici che pratici: alcuni perso-naggi celeberrimi fanno la loro prima apparizione in forma animata (Boba Fett nello Star Wars Holiday Special); altri sono concepiti in tutto e per tut-to come figure da cartoon, si pensi a Jar Jar Binks ne La minaccia fantasma, il primo grosso personaggio animato in digitale della saga cinematografica (attraverso il motion capture), e dichia-ratamente ispirato al Pippo disneyano.Altri sono autentiche figure ponte fra il mondo in celluloide e quello dise-gnato: i droidi C3-PO e R2-D2, ad esempio, ricalcano dinamiche perfet-tamente da cartoon nell’opposizione di un carattere più macchiettistico con uno più furbo (la sequenza nell’arena de L’attacco dei Cloni sembra presa di peso da un cortometraggio della War-ner Bros o della MGM). Proprio i due simpatici eroi metallici sono i protago-nisti di Star Wars: Droids, la prima se-rie animata della saga, che, nel 1985 li vede vivere svariate avventure nel-la galassia. Lo stesso anno abbiamo anche Star Wars: Ewoks con gli orsetti pelosi de Il ritorno dello Jedi.È con gli anni più recenti, però, che la sperimentazione sul cartoon ottiene i suoi maggiori frutti, con le serie Star

Una galassia animata

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visualizzato da Irvin Kershner ne L'Impero colpisce ancora) si stempera nel dramma umano di un protagonista fragile e inna-morato, che provoca la sua discesa agli inferni nel tentativo estremo di preservare la purezza dei suoi affetti. Una trasforma-zione che ha il sapore di una rivoluzione interna, ma che a una visione generale diventa invece un'intrigante rilettura cri-tica del passato, in grado di dare nuova dimensione alla storia (in particolare al teso confronto finale fra Vader e Luke ne Il ritorno dello Jedi).

Dove invece si avverte non già lo scar-to quanto l'evoluzione diretta è nel ver-sante stilistico, che aggiorna al presente il montaggio cinetico e la plasticità delle inquadrature, di concerto con l'innova-zione degli effetti speciali e le spettaco-lari coreografie dei duelli con le spade. Il laboratorio, in fondo, è aperto anche per sperimentare nuove possibilità visive, l'uso espressivo del digitale, il passaggio dalla pellicola al pixel senza rotture del versante qualitativo.

L'ultima fase, quella delle Clone Wars, è ancora più intrigante in quanto modu-lata su temi più intimi: sullo scenario del conflitto globale, va in scena il terzo atto della vita, quello del passaggio di conse-gne, in cui l'eroe Anakin si fa maestro e padre putativo per una giovane allieva, mentre il racconto generale approfondi-sce ancora di più la componente mistica garantita dalla Forza, in una serie di in-triganti archi narrativi che svelano la cifra più personale e, non a caso, per questo anche criptica, filosofica, sempre lucida-mente politica del discorso lucasiano. A posteriori possiamo includere nel muc-chio anche i racconti paralleli degli autori che si affacciano sulla scena attraverso

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Wars: Clone Wars, Star Wars: The Clone Wars, Star Wars: Rebels, prodotte dalla stessa Lucasfilm, e gli esperimenti “altri” di LEGO Star Wars o le parodie dei Grif-fin o di Phineas e Ferb, segno di come la saga sia ormai un patrimonio in grado di spaziare al di fuori di se stessa, ribaden-do la propria centralità nell’immaginario contemporaneo globale. (d. di giorgio)

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altre forme espressive, dai giochi ai ro-manzi, ai fumetti, fino a tutte le derivazio-ni raccontate anche in questo speciale (il cosiddetto Universo Espanso), che pure stanno al gioco lucasiano del cercare nuovi orizzonti, dalle invasioni di civiltà aliene al racconto degli inizi ambientati nel passato o alle nuove lotte del futuro.

Come conciliare dunque tutto que-sto con le esigenze di un pubblico che ha maturato una personale percezione dell'opera, principalmente nostalgica e autoreferenziale? Il risultato è la crisi, il distacco, la rimozione (letterale: il cam-bio di proprietà produce come primo atto la cancellazione di una fetta amplissima del già fatto e la rifondazione del Cano-ne).

Da un lato troviamo così un regista che

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ha ragionato in termini differenti, dall'altro un pubblico che non lo ha seguito più e che ha anzi invocato il salvataggio, per sentirsi nuovamente legittimato nella sua idea. Un rito destinato a essere officiato, non casualmente, nell'era post-Avengers, dove le subculture geek hanno determinato lo spostamento dell'asse creativo dall'autorialità al rispetto di regole interne ai singoli racconti e per questo immutabili. A contare ormai

"C'è una generazione che è cresciuta con i capitoli realizzati a cavallo del millennio e sta valorizzando la visione lucasiana attra-verso l'analisi non banale dei suoi spunti tematici"

non è la particolare visione generale, ma l'ossequio del modello già sedimentato: reiterazione più che evoluzione.

È dunque un mesto finale quello che si profila all'orizzonte? In realtà, a ben ve-dere, qualche crepa la dicotomia sopra elencata la presenta eccome. C'è una ge-nerazione che è cresciuta con i capitoli

realizzati a cavallo del millennio e, senza troppi clamori, sta valorizzando la visione lucasiana attraverso l'analisi non banale dei suoi spunti tematici, raccogliendosi at-torno a siti come Star Wars Ring Theory, progetti come The Prequels Strike Back, blog come Star Wars Prequel Appreciation Society o pagine Facebook del calibro di Star Wars – The Prequel Trilogy e Cinema of George Lucas: Great Shots of the Saga. Senza contare, naturalmente, il seguito appassionato delle Clone Wars, silenzioso perché comunque articolato sul fronte animato, meno “in vista” e dove è in corso un fecondo dialogo tra la base e la personalità artistica di Dave Filoni, dichiaratamente attento a portare avanti le linee guida concordate con lo stesso Lucas, e già in corso di evolu-zione nella nuova serie Star Wars: Rebels. Forse un seme è stato piantato lo stesso e sarà possibile presto creare un ponte fra le due opposte visioni della storia, guardan-do ancora una volta a nuove prospettive.

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Il cinemache non (si)scarta

di pietro masciullo

J. J. Abrams ha conservato intatto il ricordo di Star Wars, rinnegando totalmente la seconda trilogia-prequel di Lucas, per rifugiarsi nell’uni-verso del fandom anni ‘70 visto come l’unica Forza possibile del cinema contemporaneo

Premessa. A meno di un mese dall’uscita di quest’attesissimo Il risveglio della Forza si sono già sprecate un’infinità di parole, scritte un numero record di recensioni e postati un numero incalcolabile di frettolosi giudizi, tanto da sentirci ormai tutti in dovere di “dire la nostra sul film del decennio” stando sempre attenti a non spoilerare – neolo-gismo ormai sdoganato su grandissima scala proprio in questi giorni –, perché tutti invas(at)i da una campagna pubblicitaria monumentale che non ha eguali in 120 anni di storia del cinema. Insomma siamo di fronte evidentemente a un fenomeno raro, un evento di massa epocale che probabilmente riscriverà le regole distributive dei film. E in un certo senso, diciamolo subito, è sicuramente confortante che la Sala cinematografica così in crisi (e su cui tanto riflettiamo) riesca ancora a produrre un’at-tesa e un’attenzione di tale portata. Ma in che modo?

La mia breve riflessione, allora, parte dalla provocazione lanciata da un caro amico (grande appassionato di Star Wars) subito dopo la visione del film: «non sono deluso da questo Il risveglio della Forza, è che mi sembra di averlo già visto. Oppure di non averlo visto affatto. È un po’ come il fenomeno dei nuovi dischi in vinile che stanno spo-polando tra i cultori della musica: molta gente li compra ma non li scarta nemmeno, li compra come oggetto-feticcio da tenere intonso… tanto le canzoni le sentiranno in file sugli mp3. Ecco, questo mi sembra un film-vinile che non va scartato». È interessante questa riflessione perché a pensarci bene tutto l’impianto filosofico e produttivo dietro il film di Abrams è improntato programmaticamente a un effetto molto simile: un film

"Chube, siamo a casa"

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da attendere spasmodicamente proprio perché già-visto, in un ricalco programmati-co del modello che non deve mai produrre scarti. Non deve farsi mai teorica serigra-fia (alla Van Sant), non deve ammiccare mai al pastiche postmoderno (alla Tarantino) e non deve riflettere mai sul salto di paradigma delle nuove-immagini (alla Michael Bay), perché deve far percepire tutto lo sforzo conservatore di una riproduzione “per-fetta” che tenga conto solo di ciò che il cinema è stato. Siamo a casa.

Continuando su questa metafora, a me sembra che J. J. Abrams non abbia voluto o potuto scartare il pacco regalo che la Disney e i fan di tutto il mondo gli hanno af-fidato. Ha tenuto intonso il ricordo di Star Wars, rischiando pochissimo nel trapasso in un nuovo millennio, rinnegando totalmente la seconda trilogia-prequel di Lucas (ogni riflessione teorica sull’immagine digitale o sulla “clonazione” dei corpi qui è consapevolmente caduta), per rifugiarsi nell’universo del fandom anni ‘70 visto come l’unica Forza possibile del cinema contemporaneo. Episodio VII usa con parsimonia gli effetti speciali digitali, è girato in pellicola Kodak, ha una sceneggiatura ricalcata su quella di Una nuova speranza (con qualche opportuno e calcolato cambiamento), il setting è strategicamente ricostruito con filologica attenzione, ecc., ecc. Insomma la scena cardine del film mi sembra veramente quell’ologramma della nuova Mor-te Nera messo a confronto con la vecchia: “la ricordate? Questa è identica, ma più grande e potente”, si dice in sostanza. E il personaggio centrale in tal senso diventa Kylo Ren, costretto da Abrams e Kasdan a mascherarsi e parlare con la celeberrima voce artefatta perché “c’è troppo Vader in lui”. Senza avere una plausibile ragione né per quella maschera, né per quella voce… se non quella (appunto) di imitare il nonno in tutto e per tutto.

Sia chiaro, queste sono riflessioni a posteriori. Il film è per buona parte riuscito, intrattiene, non delude nelle sue configurazioni visive e presenta anche due ottimi innesti come Rey e Finn. In più mi sono personalmente emozionato nei primi trenta secondi, quando l’immortale musica di John Williams fa capolino sul cielo del Gran-de Schermo e riporta tutti nella dimensione parallela di Guerre Stellari. Quindi, da

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moderato fan della saga, il mio primissimo giudizio è stato alquanto possibilista: Abrams ha fatto il suo mestiere degnamente. C’è un qualcosa, però, che ancora non torna. Il fatto è che riflettendo attentamente sui destini del cinema si rimane un po’ perplessi da questa totale (e totalizzante) pre-visione del prodotto, tanto da associarlo curiosamente alla ri-uscita in sala di un Classico. Sembra non esserci più il minimo spazio per quel fattore di rischio (a livello puramente narrativo, ma anche registico) che il cinema ha nel suo DNA quando guarda al futuro e che lo stesso Lucas immetteva sia nella prima rivoluzionaria trilogia, sia nella seconda sorprendente riscrittura dei mondi di Star Wars. Qui in-vece ci si lascia dolcemente cullare dal ricordo di quanto fosse bello quel Cine-ma che vedevamo da bambini, tanto da spendere miliardi di dollari solo per ri-girare egregiamente un classico che non (si) scarta mai rispetto all’originale. J. J. Abrams, insomma, ci ha regalato un pre-zioso e perfetto vinile contemporaneo che ci guarda costantemente e consapevol-mente da una galassia lontana-lontana: il passato. Domanda: questa è una forza o è un lto oscuro per il medium-cinema che sta lottando nella giungla mediale del nuovo millennio?

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Forse la nostra autonomia nei giudizi si sta ridimensionando nel corso degli anni. Oppure siamo stati spesso condizionati da qualcosa di oscuro e invisibile che nel tempo ci ha divorato. C’è voluto un articolo di Le Monde sugli embarghi di Star Wars per svegliarci all’improvviso da quello che stava accadendo già da tempo in molte anteprime stampa di blockbusters statunitensi. Dalle iniziali richieste di non far uscire il pezzo prima di una certa data, al fatto di non rivelare il finale, si è passati di colpo alla richiesta di non parlare di alcuni dettagli della trama per non rivelare la sorpresa agli spettatori. Si teme che non passerà molto tempo dalla richiesta di sottolineare la prova di un attore, di soffermarsi sulle qualità di quel regista, di pompare il film con sempre più articoli diventando inconsapevolmente uno strumento in mano al marke-ting del film. Con Star Wars non ce ne siamo neanche accorti, ma sul sito forse siamo stati anche in qualche modo vittime di questa macchinazione che ha mosso le nostre mani come burattini.

La Francia, Star Warse la dipendenza Cahiers

di simone emiliani

Ogni nostro giudizio diventa sempre più relativo. E sembra non esserci altra pos-sibilità che adattarsi ai diktat degli uffici stampa e ai gusti delle Istituzioni

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Le richieste, alle anteprime, diventa-no sempre più insistenti o particolari. Si chiede tutto con gentilezza, garbo, edu-cazione, magari ti premiano con una tazza per fare colazione. Ma ci stanno. Come quelle di non pronunciare una pa-rola particolare di un film giapponese o anche un ufficio stampa che dalle pagine facebook promuove già il prodotto con recensione accorpata (quasi un regalo come un kit natalizio) di un film di pros-sima uscita sostenendo come questo film non sia bello, ma di più, non sia stra-ordinario, ma di più, prendendosi anche una marea di "mi piace" da colleghi di importante testate. E se tu provi ad anda-re fuori dal coro, diventi come Sylvester Stallone in Sorvegliato speciale.

Questa è la nuova dipendenza. Ma in realtà già da quando abbiamo iniziato

l’attività critica, sin da piccoli, siamo stati sempre dipendenti da qualcosa. Dalla no-stra famiglia che ci faceva vedere film pallosissimi perché Repubblica ne aveva par-lato bene (e quindi anche il giudizio di rifiuto non era neanche del tutto sincero, visto che diventava una reazione/provocazione a un’imposizione), alle cattedre di cinema che ci hanno imposto film imperdibili mettendo nel mucchio veri capolavori e opere sopravvalutatissime e anche lì ci sono voluti diversi anni per togliersi di dosso le croste accademiche.

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Ma la dipendenza-vera, di cui perso-nalmente sono stato più vittima sono le imposizioni dei Cahiers du cinéma. Sem-bra che per anni solo Bazin, Truffaut e i suoi eredi potevano insegnarci il cinema. Cosa vedere, cosa non vedere, presen-tandoci come necessaria una politica de-gli autori che ci ha portato a considerare Shyamalan come un genio. Ebbene, an-che quest’anno siamo caduti nel tranel-lo proponendo la classifica dei 10 film dell’anno del celebre mensile francese. Abbiamo visto che in testa c’è Mia madre di Nanni Moretti (perché non lo abbiamo amato così tanto?) e ci siamo ringalluzziti vedendo che c’erano Apichatpong We-eresethakul e Mad Max: Fury Road. Poi andando a guardare meglio sei film su 10 erano a Cannes. Sono lontani i tem-pi in cui Truffaut era ospite indesiderato sulla Croisette. Si sta creando quell’asse critico Festival-Cahiers-Les Inrokuptibles che ci sta imponendo nuovi autori e cine-matografie. Dolan lo abbiamo rifiutato ma è una loro creazione. Ma tanto sia-mo noi che passiamo per i soliti provo-catori e non capiamo il talento cristallino del ventiseienne cineasta canadese, l’e-rede digitale di Godard (anche su di lui troppi inchini) che fa capire quanto è fico il cinema, quanto è moderno il nostro sguardo e quantro siamo giovani. Così giovani che dobbiamo trasformarci nel critico gadget alla Star Wars, che vi dice che il film l’ha visto, non ne può parlare, ma ripete che sì, l’ha visto, quindi siamo tutti in attesa che dall’oracolo social esca qualcosa.

Quindi ogni nostro giudizio diventa sempre più relativo. Se si seguono le re-gole marketing siamo dei venduti. Se si segue la dittatura culturale francese (loro

C’è un legame a doppio filo che uni-sce i film della saga di Star Wars all’u-niverso dei videogame: è facile com-prendere come l’attacco finale alla Morte Nera nel Guerre stellari origi-nale costituisca di per sé un modello estetico per tanti games a venire, da collegare idealmente alla corsa degli sgusci ne La minaccia fantasma – qua-si una sorta di epigono, con cui Lucas ricontestualizza quell’estetica che nel frattempo ha dato i suoi frutti e viene così “riportata a casa”: un’autentica ri-elaborazione critica sui concetti della profondità di campo, della visione in soggettiva, di tutto ciò che contribui-sca a rendere immersiva l’esperienza e si avvicini all’immaginario di una generazione giovane che ha magari imparato a conoscere la Saga spa-ziale attraverso i joystick o i joypad. Non stupisce perciò, che già nel 1982, quando la Trilogia Classica è ancora in fieri, venga creata la LucasArts, il ramo preposto alla realizzazione di videoga-me, inizialmente in collaborazione con Atari, e poi da sola.

Se allarghiamo il nostro campo d’in-dagine a tutte le aree legate al gioco, possiamo inoltre comprendere come anche le varie controparti da tavolo o videoludiche non si limitino a un rap-porto parassitario nei confronti della saga maestra. Al contrario, proprio questi ambiti favoriscono la possibili-tà di espandere un universo che, per esigenze narrative, nelle pellicole cine-matografiche non può essere esplorato nella sua compiutezza. Buon esempio è lo Star Wars Roleplaying Game, pub-blicato da West End Games nel 1987, che, fra i primi, provò a dare sistemati-

Giochi stellari

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ci hanno detto che c’era Rossellini altri-menti noi lo consideravamo come un Carlo Campogalliani, che tra l’altro era un bel cineasta) siamo succubi. Se andia-mo contro, siamo solo degli ex-ragazzi-ni ribelli ora un po’ attempati che non vogliono rassegnarsi ad essere diventati vecchi, un po’ come Bobby Solo e Little Tony quando recentemente riproponeva-no i loro cavalli di battaglia con il look anni ’60, che quasi per dispetto vogliono urlare: “Non ci piace”. E gli altri che ci trattano come quelle zie comprensive che ti dicono: “Su buono, ora basta, siediti composto a tavola”. Ecco il giornalismo deve essere composto. Con una masche-ra moderna, giovane. Ma quello che c’è sotto non è bello per niente.

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cità alle informazioni sull’universo stel-lare, tanto da diventare poi un’ottima base d’appoggio per la creazione dei romanzi di Timothy Zahn (la trilogia di Thrawn) e, di conseguenza, dell’intero universo espanso fatto di libri, fumet-ti e altri giochi. Allo stesso tempo – e sempre per tornare ai videogame – la LucasArts stessa ha ampliato l’arco temporale della saga con il videogioco di ruolo Knights of the Old Republic, ambientato 4000 anni prima degli eventi a noi più noti, durante i primi scontri fra Jedi e Sith, introducendo la carismatica figura di Darth Revan (il cui design mascherato anticipa quello del Kylo Ren ne Il risveglio della Forza). La storia poi continua nell’MMORPG The Old Republic.

Nella saga action-adventure di The Force Unleashed (Il potere della Forza), in-vece, viene introdotto il personaggio di Starkiller, il sicario di Darth Vader, “inter-pretato” da Sam Witwer, autentico “milite ignoto” della Saga (sue anche le voci dell’Imperatore in Star Wars Rebels e del redivivo Darth Maul in Star Wars: The Clone Wars) – da notare che “Starkiller” era il nome originariamente pensato per Luke Skywalker, indice di una volontà che è sia votata all’esplorazione di nuove possibilità, che alla rielaborazione di altre già presenti nella mitologia. Sia The Old Republic, che The Force Unleashed si inseriscono in un flusso produttivo più ampio, fatto di fumetti, seguiti e derivazioni letterarie come le novelization pubblicate in Italia da Movieplayer.it.

Il rapporto procede quindi nei due sensi, con le creazioni originali di Lucas che influenzano e si lasciano influenzare dalle versioni ludiche: con l’avvento di Disney la LucasArts è stata chiusa, per assegnare i nuovi progetti a team esterni. Fra i primi titoli rilasciati c’è lo sparatutto Star Wars: Battlefront (pubblicato da Electro-nic Arts) che, seguendo l’impostazione nostalgica impressa dalla nuova dirigenza, si concentra sui soli luoghi della Trilogia Classica e sembra avverare davvero lo scenario parassitario evocato in precedenza, ponendosi in contraddizione con la volontà “espansionistica” dell’epoca LucasArts. Va un po’ meglio con la saga di Disney Infinity 3.0 (di Disney Interactive Studios) che comprende anche personaggi e scenari dei prequel e dell’amatissima serie animata Star Wars: The Clone Wars, con Anakin Skywalker e Ahsoka Tano. Ma l’impressione è che, per vedere qualche novità, bisognerà attendere un po’.

(Davide Di Giorgio)

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Cinema allo stato puro, movimento immersivo contro tempo contemplativo, dove l’attrazione del gioco di prestigio ha la meglio su ogni riflesso di realtà. Il capolavoro di George Lucas del 1977!

Il 1977 è una data importante nel-la Storia del Cinema Moderno. L’uscita di Guerre Stellari segna forse il declino della New Hollywood e la nascita di un movimento che guarda alla esigenze di un mercato globale dove la promozione pubblicitaria affianca l’effettiva fruizione del film. È vero che già William Friedkin con L’ Esorcista (1973) e Steven Spielberg con Lo Squalo (1975) avevano ottenuto trionfi straordinari al botteghino ma la fantascienza di George Lucas presenta un innovativo uso degli effetti visivi e una

particolare attenzione al merchandising (giocattoli, magliette, libri, dischi e altra oggettistica). Costato 11 milioni di dolla-ri, Guerre stellari ne incassa 300 milioni in sala (sarà il film con il maggiore incas-so di sempre fino al 1982 quando verrà superato da E.T.) e ancora di più con il commercio capillare di prodotti correla-ti alla saga che si arricchirà nel tempo di sequel e prequel. Su questa tendenza George Lucas già nel 1975 aveva fonda-to la Industrial Light & Magic per gli ef-fetti speciali ed è tra i primi a utilizzare la

UNA NUOVA SPERANZA Star Wars (1977)di George Lucas

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Computer Graphics proprio in una sce-na, precisamente quella della simulazio-ne dell’attacco della Morte Nera, mostra-to su uno schermo prima della missione dei ribelli.

A un avveniristico utilizzo di “visual ef-fects” si associa una particolare cura del sonoro (la voce ansimante di Darth Vader-Fener, i versacci animaleschi di Chewbecca, il Wilhelm Scream delle ca-dute nel vuoto, i suoni elettronici dei due robot androidi C-3PO e R2-D2, gli scon-tri delle spade laser) e un effetto dirom-pente della trama musicale composta da John Williams, Academy Award per mi-gliore colonna sonora originale. Con un comparto tecnico e post-produttivo così all’avanguardia (in tutto sei Oscar oltre alla musica: sonoro, effetti speciali, sce-nografia, costumi e riconoscimento spe-ciale a Ben Burtt per alieni, mostri e la voce dei robot) per George Lucas diven-ta semplice sviluppare il lato favolistico della storia compiendo una operazione di commistione di generi che alimenta il potere attrattivo sullo spettatore.

Il segreto vincente di Una nuova speran-za è riuscire a parlare del futuro in chiave passata attingendo dal western (Han So-

lo-Harrison Ford cita direttamente John Wayne, la scoperta del massacro dei pro-pri zii da parte di Luke-Mark Hamill è un omaggio a Sentieri Selvaggi), dal cinema giapponese (La fortezza nascosta e La sfi-da del samurai di Kurosawa sono l’ossa-tura diegetica del film), dalla commedia classica americana (gli scambi al vetriolo

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tra Han Solo e la principessa Leila-Carrie Fisher, tra C-3PO e R2-D2 veri mattatori della prima parte del film), dal war mo-vie (Cielo di fuoco del 1949, I guastatori delle dighe del 1955), dalla letteratura per l’infanzia (Il mago di Oz con C-3PO che assomiglia vistosamente all’uomo di latta), dal cinema di propaganda di Leni Riefenstahl (i guerriglieri dell’impero del male sono vestiti come gerarchi nazisti sul modello de Il trionfo della volontà), dai richiami alla fantascienza classica di Flash Gordon (il raggio distruttore), Star Trek (l’episodio TV del 1968 The Immuni-ty Syndrome ha ispirato la scena di Ben Kenobi che avverte telepaticamente la di-struzione del pianeta Alderaan) e 2001 ( i modellini delle astronavi, Chewbecca che sembra una evoluzione degli uomini scimmia di Kubrick), fino ad arrivare a Metropolis di Fritz Lang (C-3PO è dise-gnato sul modello del robot Maria).

È proprio questa archeologia del futuro che farà la fortuna di film come I preda-tori dell’arca perduta di Spielberg (1981)

e Blade Runner di Ridley Scott (1982) che prendono Guerre Stellari come modello di riferimento riproponendone l’attore fe-ticcio, un Harrison Ford in evidente stato di grazia. Pur sottolineando le novità del comparto tecnologico e i molteplici rifer-menti cinematografici, non dobbiamo di-menticare il talento visionario di George Lucas: l’immagine dei due androidi che vagano alla ricerca di Obi Wan Kenobi nel deserto (è quello della Tunisia), quella dei due soli al tramonto (una citazione di Dersu Uzala con sole tramontante e luna nascente), la performance Jazz nella ta-verna dei vari alieni “freaks” e la parti-ta di scacchi con i mostriciattoli in stop-motion. Anche lo sconfinamento nella metafisica e il prevalere della Forza della Mente sulla illusione dello sguardo con Luke Skywalker che si allena a colpire ad occhi chiusi bilancia il comparto tecnolo-gico con un certo afflato mistico.

Ma è soprattutto la capacità di pensare in tre dimensioni, privilegiando l’aspetto della profondità, a coinvolgere emotiva-

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mente lo spettatore: la scena della bat-taglia finale segue una particolare linea prospettica tesa a perforare lo schermo e a invadere la sala, il raggio dell’arma della Forza ha il suo punto di fuga pro-prio nella linea dello sguardo dell’osser-vatore, gli stessi combattimenti e insegui-menti sembrano travolgere la macchina da presa e varcare il limite della finzione cinematografica. Il travelling in avanti che apre e chiude il film diventa una eu-forica esplorazione dello spazio in cui il sublime si confonde con il perturbante, come un vertiginoso viaggio su un luna park iper-tecnologico in cui il desiderio e la paura sono la spinta allucinata della esperienza immersiva. Guerre Stellari di-venta così trionfo spettacolare che coin-volge tutti i sensi, stordisce con i suoni, seduce con le immagini e cattura defini-tivamente con lo sfruttamento della terza

dimensione, quella in cui il Once Upon a Time in the Galaxy si trasforma per 120 minuti in viaggio oltre i confini del reale, in cui è lo spazio dello spettatore a essere invaso come un set cinematografico. Ci-nema allo stato puro, movimento immer-sivo contro tempo contemplativo, dove l’attrazione del gioco di prestigio ha la meglio su ogni riflesso di realtà.CU

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Parliamo forse del blockbuster più au-toriale e importante tra quelli usciti nel post-’77. Se è vero che il secondo atto di un’opera è quello più incerto e tormenta-to, in cui l’eroe deve affrontare la crisi e il “problema” del viaggio, per poi risol-verlo nel finale, L’impero colpisce ancora – sequel di Una nuova speranza – ne è esempio emblematico, il capitolo mag-giormente cupo della “vecchia” trilogia concepita e realizzata da George Lucas. È l’episodio di mezzo. Quella della fuga e della sconfitta, dove tutto sembra per-duto per i Ribelli e per gli ultimi detentori della Forza, immortalato dalla imponen-te e wagneriana Imperial March di John Williams, forse uno dei temi musicali più

“allucinati” di sempre. Ne L’impero col-pisce ancora il Lato Oscuro ha la me-glio sugli eroi lucasiani, con quel colpo di scena finale che rimane forse uno dei momenti più conosciuti della storia del cinema. “Sono tuo padre” rivela Darth Vader a Luke Skywalker appena dopo avergli amputato la mano. Una soluzio-ne di sceneggiatura decisa dallo stesso Lucas, ma che fino all’ultimo momento rende insicuro l’autore di American Graf-fiti al punto da affidarsi – si dice – per-sino alla consulenza di psicologi per va-lutarne l’impatto emotivo e commerciale.Giocato quasi meccanicamente nel mon-taggio parallelo che segue la fuga del Millennium Falcon dalla flotta imperiale

La memoria moraleL'IMPERO COLPISCE ANCORA

Star Wars Ep. V - The Empire Strikes Back (1980)di Irvin Kershner

Nell'episodio più cupo il romanticismo sfrenato muove il Cinema verso una memoria collettiva che diventa Morale. Siamo ancora fanciulli, ma stavolta arriviamo a scoprire cos'è il dolore

di carlo valeri

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da una parte e l’addestramento di Luke con il maestro Yoda dall’altra, L’impero esplode nella prima parte in una straor-dinaria sequenza di battaglia tra i ghiacci del pianeta Hoth che è uno dei pezzi di bravura dell’intera saga e che cromati-camente delinea il film nella dicotomia bianco/nero su cui è incentrato il conflitto dei personaggi. Emergono per la prima volta nuove figure che entreranno presto nell’immaginario collettivo di Star Wars: il cacciatore di taglie Boba Fett, Lando Calrissian, l’imperatore Darth Sidious.

Rispetto al film del 1977 Lucas attenua il neoclassicismo western per puntare direttamente a un ritmo sfrenato in cui l’azione dialoga continuamente a distan-za con l’introspezione psicologica. Più spettacolare e “intimista” L’impero colpi-sce ancora deve attribuire i suoi meriti alla sceneggiatura del giovane Lawren-ce Kasdan – che lo stesso anno avrebbe esordito alla regia con Brivido caldo – e alla cupa fotografia di Peter Suschitzky, che aveva già illuminato il glam di The Rocky Horror Picture Show e che suc-cessivamente avrebbe fatto le fortune di David Cronenberg. Ma certamente un

ruolo non di secondo piano va attribuito a Irvin Kershner, già professore di Lucas all’università e qui chiamato dal suo pu-pillo dietro la macchina da presa per la sua affidabilità nella direzione d’attori. Raggiunge lo zenit della sua non eccel-sa filmografia (Mai dire mai, Robocop 2) e trova sfumature inaspettate non tanto nelle straordinarie soluzioni scenografi-che e visive di chiaro stampo lucasiano, quanto nei botta e risposta sentimentali tra la principessa Leila e Han Solo, for-se la storia d’amore più intensa mai vista su grande schermo in un film di fanta-scienza, mirabolante traiettoria melò che trova il suo sublime scenario favolistico nell’astrattismo pittorico che incornicia il set della Città delle nuvole. Ecco l’epi-logo di questo episodio V, esteticamente vicinissimo ai tableau digitali che tanto a fondo avrebbero marchiato due decenni dopo la seconda, più recente e sottosti-mata, trilogia lucasiana. Tra Freud, Ku-rosawa e Howard Hawks il romanticismo sfrenato muove lo spettacolo del Cinema verso una memoria collettiva che diventa Morale. Siamo ancora fanciulli, ma sta-volta arriviamo a scoprire cos’è il dolore.

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IL RITORNO DELLO JEDIStar Wars Ep. VI - Return of the Jedi (1983)

di Richard Marquand

Fiat Luxdi sergio sozzo

Film giubilare, uscì pochi mesi dopo che Giovanni Paolo II aveva aperto la Porta Santa per il Giubileo straordinario della Redenzione 1983: mercato universale, unione dei popoli, vetrina del divino...

Punto d’arrivo di un pellegrinaggio lun-go all’epoca 6 anni e sospiratissima vit-toria delle forze del bene contro la Morte Nera, Il ritorno dello Jedi è dunque un film giubilare. E infatti esce in sala po-chi mesi dopo che, a marzo 1983, Gio-vanni Paolo II ha aperto la Porta Santa per inaugurare il Giubileo straordinario della Redenzione, ultimo caso cronologi-camente precedente a quello indetto da Papa Francesco in questi giorni – guarda un po’, di nuovo in corrispondenza con un’uscita di Guerre Stellari sugli schermi, quella de Il risveglio della Forza (La Mi-

naccia Fantasma venne fuori invece nel secondo anno di preparazione al Giubi-leo del 2000, il 1998 che Wojtyla dedicò alla “meditazione sullo Spirito Santo”); e d’altra parte, con l’apertura del portone della dimora di Jabba per lasciar entra-re C-3PO e R2-D2 inizia di fatto questo Episodio VI.

Va da sé che i punti di contatto tra due eventi mondiali come la distribuzione in sala di un nuovo episodio di Star Wars, e la chiamata a raccolta di tutti i fedeli tra le mura di Roma sono molteplici, ed evidenti: lo intuiva con lucidità estrema

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un primo clash tra immaginario fantasy/misticheggiante/sciachimista e vetriniz-zazione papale com’era Angeli e Demoni di Ron Howard, non a caso un figlioccio lucasiano.

Basterebbe dare un’occhiata a Fiat Lux, lo spettacolo di luci proiettato sulla facciata della Basilica di San Pietro per inaugurare l’attuale Giubileo della Mise-ricordia, per trovarci davanti ad un effet-to speciale per le masse internazionali, i popoli del mondo unificati a glorifica-re la Misericordia come i festeggiamen-ti planetari posti in chiusura del film di Marquand (popolazioni continuano ad essere aggiunte alla sequenza ogni volta che Lucas ci rimette le mani). La Miser-cordia è il tema di questa annata fuori serie delle ricorrenze giubilari, come la Redenzione lo era di quella del 1983: e la spinta a redimersi era proprio il moto-re sottotraccia dell’intero copione di Lu-cas e Lawrence Kasdan, con Luke e Darth Vader che ritrovano un profondo legame padre-figlio che va al di là del Lato Oscu-

ro e delle manovrazioni di Palpatine (non credo ci sia bisogno di ricordare il diffu-sissimo meme che affianca l’Imperatore al Papa emerito Ratzinger: i find your lack of faith disturbing…).

L’aneddotica in questi casi aiuta moltis-simo, e la storia del monaco tibetano che la prima volta che va al cinema a Seattle è proprio per vedere Il ritorno dello Jedi, e riesce a capire senza alcun problema gran parte dei dialoghi nella lingua dei guerriglieri Ewoks (misto a quanto pare di tagalog, tibetano, e svedese), ci ricorda il senso di universalità insito in uno spetta-colo globale com’è il Giubileo, compreso questo in cui a febbraio 2016 il corpo di Padre Pio verrà esposto in Vaticano, alla stregua del sarcofago in cui Han Solo è in mostra ibernato, sempre nel palazzo di Jabba.

Da 30 anni i fan continuano a lamen-tarsi di quanto sia stato proprio il film del 1983 ad esplicitare una volta per tutte la strategia mercantile di LucasArts, tutta concentrata a inserire nella storia

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elementi facili da trasformare senza im-pegno in merchandising, come per l’ap-punto le creature pelosette poi protago-niste di due avventure-tv tutte per loro (L’avventura degli Ewoks, Il ritorno degli Ewoks). Ma il vero fulcro dello spettacolo della sacralizzazione rimane il corpo del pontefice che, “pur essendo un’incarna-zione del divino e della Chiesa (destinati a essere eterni), rimane allo stesso tempo pura carne mortale” (Vanni Codeluppi, che nel suo celebre saggio Bollati Borin-ghieri analizza poi a lungo la diretta tv dell’apertura della Porta per l’Anno San-to nel 1999).

E allora, più di tutto, Il ritorno dello Jedi si staglia così come il film della morte di Yoda: il maestro è però destinato a ri-comparire come angelo custode di Luke nel finale (e poi come versione digitaliz-zata di sé nella Nuova Trilogia), insieme a Obi-Wan Kenobi e a un mutevole Ana-kin (Sebastian Shaw o Hayden Christen-sen a seconda delle versioni del film), “conciliando l’angoscia provocata dalla

mortalità della carne con la rassicurante perennità del divino e della Chiesa” (an-cora Codeluppi sui funerali di Giovanni Paolo II).

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ULTIMI BAGLIORI

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UniverseRomanzi, fumetti, fan film e quant'altro. Un viaggio nella complessa galassia nata dal mito della saga di George Lucas, al centro dell'imma-ginario collettivo degli ultimi decenni

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Chi conosce l’universo di Star Wars uni-camente attraverso i film prodotti tra il 1977 e il 2005 (o, al limite, anche at-traverso le serie The Clone Wars e Re-bels), potrà forse rimanere sorpreso e confuso dall’enorme mole di materiale esistente su carta stampata: i romanzi pubblicati sin dalla fine degli anni Set-tanta sono tantissimi e vanno ad arric-chire in maniera incredibilmente esau-stiva i contorni del mondo fantastico creato da George Lucas. In Italia ne è stata tradotta solamente una mini-ma parte, dapprima da Arnoldo Mon-dadori Editore, per poi passare negli anni Novanta nelle mani di Sperling & Kupfer e infine, in tempi più recenti, in quelle di Multiplayer.it Edizioni. Esclu-dendo le novelization ufficiali dei sei film dell’esologia, i titoli più significa-tivi sono certamente La gemma di Kai-burr dello specialista Allan Dean Foster

I romanzi

a cura di giacomo calzoni

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potete leggere un intervento del nostro Davide Di Giorgio.

Dopo l’acquisizione dei diritti da par-te della Disney, come noto, l’intero Universo Espanso è stato cancellato dall’elenco delle pubblicazioni ufficiali e trasformato in non-canone (o Legen-ds). Dal 2014 è cominciata la pubbli-cazione del nuovo canone.

(scritto tra Una nuova speranza e L’im-pero colpisce ancora, quando ancora nessuno, nemmeno Lucas, sapeva del legame di parentela esistente tra Luke, Leia e Darth Vader, con conseguenze che oggi si potrebbero definire quasi involontariamente comiche) e la trilo-gia di Thrawn di Timothy Zahn (ovvero L’erede dell’impero, Sfida alla nuova repubblica e L’ultima missione). Proprio quest’ultima, a partire dai primi anni Novanta, ha contribuito in maniera determinante a risvegliare l’interesse sopito nei confronti di Star Wars, in un periodo in cui tutto sembrava morto e sepolto dopo l’uscita de Il ritorno del-lo Jedi. Per un approfondimento com-pleto sulla trilogia scritta da Zahn, qui

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È forse uno degli argomenti più vasti e strutturati dell’intero universo Star Wars, tanto quanto lunga è la cronologia degli avvenimenti interni alla saga, che copre infatti un arco temporale di circa 37000 anni. Da L’alba degli Jedi (prima della vecchia Repubblica) fino all’acclamata serie Eredità (con i discendenti di Luke, Han e Leia), i fumetti hanno raccontato e costruito da zero tutto quello che i sei film dell’esalogia hanno solamente lasciato intendere, gettando le basi di una vera

I fumetti

e propria mitologia millenaria e intro-ducendo nuovi personaggi che sareb-bero entrati di diritto nell’immaginario collettivo del fandom.

La storia editoriale dei fumetti di Star Wars si può suddividere in tre grandi periodi, dal 1977 fino ai giorni nostri. Nel 1977, poco prima dell’uscita di Una nuova speranza, Lucasfilm strin-se un accordo con la Marvel di Stan

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Lee per una serie di fumetti che si ri-velò un enorme successo commercia-le, salvando addirittura la Casa delle Idee dal pericolo – a quel tempo più che consistente – di bancarotta. Non si trattava solamente di adattamenti dei film classici, ma anche di storie scrit-te e pensate appositamente per il me-dium fumetto. Nel 1991 i diritti passa-rono invece nelle mani di Dark Horse Comics (la casa editrice americana più indipendente rispetti ai colossi Marvel e DC, e loro concorrente più temuta), e questo è certamente il periodo d’o-ro dei fumetti di Star Wars. Miniserie incredibili come Dark Empire, Tales of the Jedi e la saga dell’Impero Cremisi sono ancora oggi tra i vertici assoluti di tutta la produzione, e contribuirono in maniera determinante (insieme ai romanzi di Timothy Zahn) a resuscita-re l’interesse del mondo nei confronti di Guerre stellari, a quasi dieci anni di silenzio da Il ritorno dello Jedi. Dopo l’acquisizione dei diritti da parte della Disney, invece, dal 2015 le pubblica-zioni sono tornate in casa Marvel, con un nuovo corso di storie che si prefig-gono di cancellare l’intero Universo Espanso, creando da zero il nuovo ca-none.

Per chi volesse un approfondimento a 360 gradi sull’intera produzione fu-mettistica di Star Wars, vi rimandiamo alla rubrica Chrono Star Wars sulle pagine di badcomics.it, dove Fiorenzo Delle Rupi (fondatore della storica as-sociazione Cloud City, e oggi co-fon-datore dello Star Wars Club Perugia) ha recensito tutte le pubblicazioni in ordine cronologico.

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Nell’ambito del fandom relativo al mondo del cine-ma, dei fumetti e dei videogiochi, uno dei fenomeni più singolari tra quelli emersi negli ultimi anni è cer-tamente quello dei fan film (o fan movies). Opere audiovisive realizzate da appassionati (professionisti o meno), spesso autofinanziate o prodotte attraverso campagne di crowdfunding, aventi per protagonisti i personaggi delle saghe più amate. Un fenomeno in rapida ascesa, al punto che le maggiori case di produzione hanno deciso di non ostacolare questi progetti e di non rivendicare alcun diritto d’autore, a condizione che si tratti sempre e comunque di opere prive di scopo di lucro: tutti i fan film sono infatti di-sponibili gratuitamente su internet o, in alcuni casi, su supporti digitali ugualmente gratuiti. Si tratta ge-neralmente di cortometraggi o di mediometraggi (più raramente di lungometraggi), in ogni caso realizza-ti previa autorizzazione dei detentori dei personaggi originali. Tra i più famosi, Batman: Dead End di Sandy Collora (2003) e Predator: Dark Ages di James Bushe

I fan film

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(2015), ma ricordiamo anche l’esperimento italiano Vittima degli eventi di Claudio Di Biagio, basato sul personaggio di Dylan Dog e presentato addirittura al Festival di Roma nel 2014.

Non potevano ovviamente mancare i fan film di Star Wars, al punto che è stato addirittura istituito un festival interamente dedicato ad essi, The Official Star Wars Fan Film Awards, patrocinato dalla stessa Lucasfilm. Per farsi un’idea della mole immensa di titoli realizzati negli ultimi anni, è sufficiente andare su Theforce.net e guardare questo elenco. Vale la pena però ricordare l’importante risultato tutto ita-liano della saga di Dark Resurrection, progetto scrit-to e diretto da Angelo Licata (fondatore dello storico sito Guerrestellari.net) e composto finora da Dark Resurrection- Volume 1 (2007) e il prequel Dark Re-surrection – Volume 0 (2011). Attualmente è in corso la raccolta fondi per la post-produzione di Dark Re-surrection – Volume 2, le cui riprese hanno visto la collaborazione di nomi come Fausto Brizzi, Marco Martani e Gianmarco Tognazzi.

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La riedizione 3D della saga di Star Wars non scioglie il dubbio sulla sua necessità. La stereoscopia si dimostra una possibi-lità affascinante che non diventa mai un valore aggiunto: il film non lascia un'e-mozione diversa rispetto a quella dell'o-riginale ma non è chiaro se il merito sia da attribuire alle straordinarie qualità vi-

sive che aveva in partenza. In effetti, La minaccia fantasma è persino migliorato: sono passati dodici anni dalla sua prima uscita e il capitolo iniziale della seconda trilogia ha maturato delle qualità che al-lora non gli erano state riconosciute. La novità della terza dimensione non è deci-siva quanto lo è la sua ritrovata prospet-

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LA MINACCIA FANTASMAStar Wars Ep. I - The Phantom Menace (1999)

di George Lucas

Oltre il museodi emanuele di porto

Il primo capitolo della seconda trilogia non regala un'emozione originale ed è difficile capirne la necessità. Ma visto retrospettivamente, svela la sua funzionalità narrativa e il suo ruolo esplorativo di nuove modalità estetiche

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tiva narrativa.La sua collocazione in un contesto più

ampio ha finalmente svelato la sua fun-zionalità rispetto agli eventi de L'attacco dei cloni e de La vendetta dei Sith. Il lavo-ro di Geroge Lucas deve essere rivalutato come una costruzione narrativa che gioca dialetticamente con la saga precedente: il regista e sceneggiatore deve rinnovare gli ambienti e i personaggi ma non deve modificare la struttura del montaggio al-ternato e la dimensione epica. Tuttavia, la riproposizione non fa riscontrare una diversa percezione visiva: forse, il film era già maturo nel 1999 e il lavoro della Industrial Light & Magic era talmente in-novativo che adesso è stato appena pa-reggiato dagli eventi. Del resto, George Lucas ama farsi inseguire dalla tecnolo-gia e già allora aveva lanciato un'estetica che è stata solo completata dal 3D. Op-pure è solo un modo per adattarsi alla nuova tecnologia in previsione di un'ine-dita terza trilogia…

Eppure non si può nascondere come l'e-

sperimento sia deludente, specie se viene confrontato con i tentativi precedenti: nel 1997 venne distribuita la special edition de Il ritorno dello Jedi e la cesura di quin-dici anni si era dimostrata molto più am-pia: tra le due versioni del film sembra-va essere passata un'epoca indefinita. Il passaggio dall'effetto speciale analogico all'effetto speciale digitale aveva radical-mente modificato la natura stessa del film e quei pochi dettagli che non erano stati aggiornati appartenevano ad una specie di museo della visione che doveva esse-re definitivamente sostituito. Facevano lo stesso effetto di un film catastrofico in stop-motion: adesso, la corsa degli sgu-sci si mantiene intatta come era allora e il 3D sembra non farne parte. La domanda è allora se fosse possibile fare di più.

La minaccia fantasma ha l'indubbio me-rito di lanciare delle situazioni spettaco-lari estemporanee: la cura con cui Geor-ge Lucas mette in campo i suoi nuovi eroi lo ha costretto a regalare dei momenti di forte impatto che sono quasi slegati dal

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contesto narrativo: l'elaborata sequen-za della gara tra overcraft cita di nuovo i kolossal amati nella sua infanzia cine-matografica ed è un divertissement che non muove l'azione in modo significativo. Allo stesso modo, il viaggio sottomarino nelle acque di Naboo è solo un pretesto per testare le possibilità dello strumento tecnologico. La vera novità non è tanto il villain Darth Maul e il suo scontro con gli Jedi Obi-Wan Kenobi e Qui-Gon-Jinn: la potenza dei Sith e del lato oscuro era già evidente attraverso l'invincibilità di Darth Vader.

Il personaggio più discusso e lucasia-no è Jar Jar Binks, che deve sostituire la goffaggine di C-3PO: le sue qualità sono quelle dell'idiota storico che capovolge in vantaggi i suoi evidenti difetti. Il malde-stro gungan mette a disagio soprattutto Ewan McGregor e Liam Neeson: intera-

gire con lui fa capire come i due attori stiano in realtà in una stanza vuota, in attesa che la postproduzione faccia il mi-racolo dei pixel. George Lucas maneggia il suo universo con la sicurezza di chi sa di poter far credere qualsiasi cosa: spie-ga la natura della Forza attraverso la spericolata invenzione dei midichlorian e gioca la carta dell'immacolata conce-zione del prescelto Anakin Skywalker con affascinante disinvoltura.

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È l’accumulo la cifra stilistica che segna inequivocabilmente la seconda trilogia di Star Wars – Guerre Stellari. Un’emergen-za di segni e simboli, icone e maschere riempie ogni centimetro dell’inquadratu-ra, satura il campo visivo dello spettatore in un carnevalesco gioco di colori e so-vrapposizioni, mutazioni e metamorfosi dello spazio filmico. L’immagine è una realtà stratificata, composta dall’incastro di superfici e strutture diverse ma perfet-

tamente compatibili: George Lucas sem-bra utilizzare la tecnologia digitale come lo scalpello di un futuristico demiurgo che strappa i contorni delle figure e la forma delle cose ad una materia liquida e proteiforme. Un humus organico che nutre questo cinema eccessivo e inconti-nente dove è facile smarrire lo sguardo, perdere la prospettiva fra i mille oggetti filmici creati dalla macchina da presa.

Ad una prima occhiata Star Wars: Episo-

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L'ATTACCO DEI CLONIStar Wars Ep. II - Attack of the Clones (2002)

di George Lucas

Il lato oscuro del fuoricampo di guglielmo siniscalchi

Il secondo capitolo della saga di Lucas torna a vibrare, riesce a regalare momenti epici ed eroici che si liberano dalle impalcature di celluloide e vivono di vita propria

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dio II – L’attacco dei cloni sembra ripetere perfettamente la disperata ed immobile estetica dell’abbondanza che aveva pe-nalizzato l’Episodio I, con quel tentativo di restaurare le coordinate di un immagi-nario collettivo (la fantascienza anni ’70-’80, e non solo) attraverso la costruzione di sofisticate architetture digitali. Un espe-rimento tecnologico che incanta la vista ma raffredda le emozioni, congelando il pathos di un’azione che fila via liscia sen-za curarsi troppo di personaggi e snodi narrativi. Un difetto che, in questa secon-da puntata, Lucas pare voler correggere immediatamente inserendo volti “nuovi” ed efficaci – soprattutto l’inossidabile e tenebroso Christopher Lee nei panni del nuovo cattivo di turno – e dedicando pa-esaggi psichedelici all’amore impossibile fra il giovane Anakin Skywalker e la se-natrice Padmé Amidala, in un intreccio di barocchismi visivi ed un’inguaribile pas-

sione che esplode lentamente. Ma, a ben guardare, neanche l’attrazione fra i due protagonisti – un po’ intimidita dall’opu-lenza della messa in scena, un po’ soffo-

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cata dalla logica dell’accumulo – riesce a restituire corpo e sangue alla storia.

Eppure l’ultimo capitolo della saga di Lucas torna a vibrare, riesce a regalare momenti epici ed eroici che si liberano dalle impalcature di celluloide e vivono di vita propria. Una vitalità che si for-

ma lungo i margini dell’inquadratura, in quelle regioni scarne ed essenziali abitate solo dalla parola, da un gesto linguistico che evoca, sogna, finalmente racconta. Ovvero “disaccumula” la concentrazio-ne di suoni e immagini spostando il fuo-co dell’azione sull’ a-venire del ricordo, della memoria, dell’allucinata visione. Tutto avviene in pochi minuti e lontano dall’occhio della m.d.p., in quel lisergico flash-back che accenna solo alla vendet-ta compiuta da Skywalker per poi subito ritirare lo sguardo, lasciando la tragici-tà dell’atto alla suggestione delle paro-le, alla potenza drammatica di ciò che può essere solo “detto” e non “mostra-to”. Paradossalmente è il fuori-campo il lato oscuro della forza di questo film, lo specchio invisibile che riflette la carne e le ossa dello spettro virtuale permettendo di guardare, o forse solo intuire al di là della filigrana digitale, lo spazio negato dove si distende l’appassionante e spie-tato gioco dei sentimenti e delle irrefre-nabili pulsioni.

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Gli abissi e la vertigine. È un film che vive frequentemente nella sua verticalità Star Wars – Episodio III: La vendetta dei Sith, che si trova in uno stato continuo di spro-fondamento, in un territorio che sembra trovarsi sempre sospeso in aria in ma-niera ancora più instabile dei due pre-cedenti episodi. Questo terzo episodio di

questa seconda trilogia di Lucas è dav-vero quello che visivamente va oltre, che narrativamente si ricongiunge temporal-mente al primo Star Wars del 1977 con la nascita nel finale di Luke Skywalker da parte di Padmé (Natalie Portman), ma dove dietro le scene dei combattimenti è presente un'avvolgente ombra nera in cui

LA VENDETTA DEI SITHStar Wars Ep. III - Revenge of the Sith (2005)

di George Lucas

Vertigine di passionedi simone emiliani

Opera abissale, funerea e passionale dove i colori dominanti sono il rosso e il nero e in cui il cinema di Lucas si reinventa straordinariamente ancora una volta andando oltre i limiti del genereCU

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la quale c'è solo quel vuoto da cui Lucas ci lascia avvolgere totalmente. Ma anco-ra, La vendetta dei Sith, ancora più che in La minaccia fantasma e L'attacco dei cloni, mostra veramente una mutazione assoluta, scivolando verso le tenebre con quel romanticismo assoluto e disperato di Dracula di Coppola con cui condivide la dominante dei due colori (il rosso e il nero, appunto), ma anche una trasfor-mazione del corpo con il cancelliere Pal-patine che, dopo il combattimento, è ve-ramente simile a quello di Gary Oldman. Forse La vendetta dei Sith si fa amare così tanto proprio per questa sottile linea che separa il cinema apocalittico dal melo-dramma, che esplode nell'immagine del volto di Padmé dopo aver scoperto di es-ser stata tradita da Anakin. La sua morte è quella di una malattia d'amore, il suo feretro portato ricorda la tragedia delle eroine dell'antichità o delle protagonisti di quei mélo funerei del cinema hollywo-odiano degli anni Trenta. Un'opera senza tempo, tra l'antichità preistorica e il futu-ro più lontano, la più bella, la più impre-vedibile della trilogia.

Lucas riesce a dare piena forma visiva al mondo delle tenebre.

In questo terzo capitolo, dopo che sono passati circa tre anni dalla guerra dei Cloni, e tutti i capi separatisti sono sta-ti eliminati tranne il generale Grievous e il Conte Dooku. Obi-Wan Kenobi (Ewan McGregor) e Anakin Skywalker (Hayden Christensen) si muovono così per cat-turarli. Intanto il Cancelliere Palpatine acquista sempre maggiore potere e as-sieme ai signori Sith ha ora lo scopo di eliminare gli Jedi e diventare sovrano dell'Impero Galattico. Ad aiutare Palpati-ne ci sarà anche Anakin dopo esser stato sedotto dalla promessa di un potere so-vraumano.

Un luogo sospeso quasi alla Metropo-lis, ma anche un film di straordinari con-trasti, dove le luci di Tattersall a un cer-to punto insistono perennemente su toni come il nero e il rosso, segni di un cinema funereo e passionale all'estremo, che di-segna una lotta di potere come una tra-gedia greca e in cui, soprattutto, le for-me del genere di fantascienza arrivano a un punto limite, a una barriera dopo

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Nel primo dei tre film distribuiti da Adam Sandler nel 2015, The Cobbler di Tom McCarthy, l’attore fa apertamente i conti con le sue radici yiddish, elemento centrale della sua comicità ma mai in primo piano come in questo caso. La storia del ciabat-tino del Lower East Side, fasciata da nu klezmer alla Paul Shapiro, prende il via pro-prio dalla leggenda per cui durante la cena della Pasqua ebraica è uso lasciare un piatto pieno e un bicchiere di vino vicino alla finestra o alla porta socchiusa di casa, nell’eventualità che il profeta Elia sotto le mentite spoglie di un senzatetto di passag-gio possa decidere di rifocillarsi e aggiungersi alla tavolata. Elijah walks in, suona il clarinetto di David Krakauer: proprio uno sconosciuto a cui gli avi del protagonista hanno offerto riparo e un pasto caldo lascerà alla famiglia la cucitrice magica che

La cenadel profeta

di sergio sozzo

Star Wars Episodio VII è davvero un film ossessionato dal rinominare, ribattezzare, usare parole nuove per il già noto, in modo così da rimet-tere in circolo un canone appesantito da un’iconografia senza dubbio ingombrante

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permette di trasformarti nel proprietario di qualunque paio di scarpe, solo calzan-dole. Il nostro calzolaio userà la magia appena scoperta per salvare la sua via di botteghe e piccoli negozi di artigiani dalla speculazione edilizia orchestrata ai piani alti dei grattacieli con ogni metodo e volta a trasformare anche quell’ango-lo di Manhattan nell’ennesimo quartiere residenziale per ricchi che vogliono fare gli alternativi. E sembra di essere tra la gente immortalata nell’ultimo Wiseman, lo straordinario In Jackson Heights, istanta-nea nervosa delle impalcature di una società parallela e nascosta, che ha innalzato le proprie istituzioni in reazione e opposizione a quelle ufficiali, nazione di underdog che si fa comunità per guardarsi le spalle a vicenda dai soprusi del potere (il copwatch). Il profeta potrebbe assumere le sembianze meno prevedibili, e venire fuori proprio da uno dei comitati di quartiere di Jackson Heights...

È più o meno quanto accade col personaggio di Finn introdotto da J. J. Abrams ne Il risveglio della Forza. Ha ragione chi scrive che il rovesciamento più importante e coraggioso nei confronti della filosofia lucasiana il nuovo film lo metta in atto quando decide per la prima volta di dare una storia e una coscienza sotto il casco bianco ad un trooper, i soldati dell’Impero che Lucas aveva sempre considerato sacrificabili a centinaia, fondando sulla loro natura di cloni senz’anima l’intero assetto dell’avan-guardista, insuperata Prequel Trilogy. L’ammutinato afroamericano Finn passa dal lato oscuro alle file della Resistenza perdendo il nome datogli dai padroni che lo

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strapparono alla famiglia, e guadagnandone uno nuovo, come gli schiavi libera-ti, l’ennesimo dell’era obamiana ad Hollywood: finisce così a corteggiarsi in stile screwball con la cazzutissima Rey, donna con la Forza che si aggiunge alla Black Wi-dow dei film Marvel e alla divina Furiosa di Mad Max – Fury Road a spianare la strada ai blockbuster governati da principesse virili e guerriere e personaggi maschili in crisi di machismo. La Resistenza è donna, e scopriamo che la Forza è matrilineare – anche questo lo hanno notato in molti (in attesa del team rosa del venturo Ghostbusters di Kristen Wiig & Co…). Star Wars Episodio VII è davvero allora un film ossessionato dal rinominare, ribattezzare, usare parole nuove per il già noto, in modo così da rimet-tere in circolo un canone appesantito da un’iconografia senza dubbio ingombrante: Kylo Ren è il nuovo nome di Anakin, e per sottolinearlo c’è bisogno che Adam Driver mostri il suo volto sotto la maschera nera più volte. I nuovi e fenomenali personaggi Finn e Rey finiscono così in una sorta di limbo che ricorda quei film in cui i protago-nisti piombano all’improvviso in una narrazione del passato assumendone all’istante la grana, tipo Pleasantville (gli Star Trek di Abrams sono in questo ancora più espliciti con il loro zapping tra gli universi-palinsesto): quell’effetto speciale che sfrigola la propria consistenza analogica di raggio laser sospeso a mezz’aria, coi classici riflessi che impallano l’immagine in stile Abrams, racconta già nei primi minuti ogni cosa della concezione dell’opera. In parecchie occasioni, le giovani new entry si troveran-no poi nella situazione letterale di spettatori esterni al film che si svolge, testimoni delle vicende dei protagonisti della saga classica, soprattutto dell’ultima avventura di

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Han Solo (che tra parentesi è strepitosa, puro Kasdan a 24 carati, e infatti Larry sta preparando lo spinoff tutto dedicato al pilota del Falcon). Un espediente straniante che porta Il risveglio della Forza ad assomigliare a certi esperimenti di bianconero contemporaneo, di muto dei giorni nostri (il cinema muto è infatti il dispositivo volto al tentativo di pronunciare il nome delle cose, alfabetizzazione tecnologica dei sen-timenti): torna alla mente la volontà dichiarata da George Miller (e chissà se prima o poi il suo desiderio non verrà esaudito) di distribuire Fury Road per l’appunto in bianconero e senza dialoghi, accompagnato unicamente dalla mirabolante colonna sonora hard rock. In quest’ottica assumono un senso nuovo i cromatismi accesi di quelle dune nel deserto, il buio da camera oscura della notte e della tempesta di sab-bia, e soprattutto quella fuga grottesca in apertura a velocità da comica muta, quasi un omaggio all’evasione di Tom Cruise vista dalle telecamere del carcere nell’incipit di Mission: Impossible Protocollo Fantasma, prodotto da J. J. Abrams e diretto da Brad

Bird (designato fino a qualche tempo fa come regista di uno Star Wars a venire).

Un Elia in esilio sul cucuzzolo del suo Si-nai privato, Luke Skywalker viene scovato alla fine di Episodio VII come un profeta che di partecipare alla cena e accettare il dono (della spada laser) non è poi così tanto convinto. C’è di mezzo una que-stione di padri e figli, e quelle sono sem-pre le storie più dolorose, come Adam Sandler sa bene, e racconta da sempre. Quello di Sandler è infatti fin dagli stand up e dagli sketch comico-musicali degli esordi il racconto infinito e ritornante del-la ricerca di un padre, e di come assu-mere la statura morale per poter esserne uno. The Ridiculous 6, farsa kolossal in

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salsa western realizzata per Netflix con la solita complicità di Frank Coraci, è il tentati-vo dell’attore di riallacciarsi alla tradizione yiddish di frontiera, segnata da vette come Mezzogiorno e mezzo di fuoco o Scusi dov’è il West. La girandola di sketch tra il de-menziale, lo scurrile e l’osceno da spogliatoio, non dissimile dall’operazione sull’An-tico Testamento portata avanti dall’Harold Ramis terminale di Anno Uno, va a segno una volta su tre e prende nuovamente il via dal sogno del protagonista di poter riab-bracciare il padre e perdonarne la condotta da grandissimo stronzo: con una regia più accorata, un’estetica meno frettolosa e soprattutto un’ironia meno greve potrebbe tranquillamente passare per il nuovo film picaresco dei Coen, come suggerirebbero le gag, dai tempi comici irresistibilmente diluiti, con i volti coeniani di Steve Buscemi e John Turturro. Ma fortunatamente Sandler preferisce andarci giù pesante con fellatio asinine e rocce dei canyon a forma di peni enormi. Tra questa banda di disadattati, perdenti e scarti della società, un finto pellerossa, una sorta di cavernicolo che parla quasi come Chewbecca, un nero che sa “suonare il piano con l’uccello”, un messi-cano “figlio di madre svedese”, un sex symbol del pubblico di ragazzine nel ruolo di un giovane ritardato (Taylor Lautner qui chiamato “MiniPitt”), e la guardia del corpo responsabile dell’omicidio di Lincoln, si nasconde ancora una volta il profeta della civiltà, che attraversa la wilderness per fondare l’America come nazione degli idioti (lo sketch in cui Herm strangola il riccone mugugnando lo star spangled banner), la stessa che secoli dopo si ritroverà come presidente il nerd inetto e impedito di Pixels. La gang dei fratelli Stockburn, capitanata da “Lama Bianca” Sandler, incrocia così ad un tavolo da poker i padri fondatori dell’epopea del romanzo popolare americano, il generale Custer e Wyatt Earp gomito a gomito con la versione rapper e stradaiola di Mark Twain, incarnata da Vanilla Ice che si mette a fare un free style su Huckleberry Finn.

Il sabotaggio della leggenda è la scintilla per cui ha ancora senso oggi giocare sullo schermo ai cowboy o ai cavalieri jedi, e Mel Brooks si sta divertendo a raccontare in giro che potrebbe tornare dietro la mdp per il sequel del sublime Balle Spaziali…

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A long time ago

di carlo valeri

Il Risveglio della Forza è quel tipo di testo/mondo che possiamo definire vintage. Il grande (e furbo) intuito della Disney e di J. J. Abrams è stato proprio quello di recuperare vecchi oggetti e superfici, con l’obiettivo programmatico di rifarsi ai primi tre capitoli della saga

Il risveglio del Vintage

“Vintage” è qualsiasi oggetto che rimanda per produzione, stile o gusto a un’epoca passata, facendosene in qualche modo rappresentante. La definizione – con queste precise parole – ce la fornisce Daniela Panosetti nel suo bel libro Vintage, ed. Dop-piozero. Come prima cosa l’autrice sottolinea un elemento che inevitabilmente ha a che fare con il tempo, ma che si contrappone alla nostalgia. È vintage ciò che invec-chiando acquista valore e che quindi ha necessariamente bisogno di quel passato per definirsi e qualificarsi. Nel vintage c’è un legame indissolubile e ambiguo tra presente e passato che ad esempio il ricordo o l’elemento nostalgico non possiedono in quan-to fondati più o meno implicitamente sulla perdita e sul rimpianto. Il vintage per sua

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natura non può prevedere il dolore malinconico per un’epoca passata, perché la sua principale preoccupazione è quella di riprodurre, rivivere e rimodellare quella stessa epoca. Non contempla un distacco romantico, ma una completa immersione (altret-tanto romantica?) nei codici di un determinato oggetto/testo/mondo.

Il successo interplanetario del settimo episodio della saga di Star Wars – ideata da George Lucas nel 1977 – tra le righe racconta proprio una ricollocazione del blockbuster cinematografico in un’area che ha poco a che vedere con la sperimen-tazione e molto con il recupero di un modello già visto e conosciuto, già consumato, mappato, immediatamente riconoscibile. Il risveglio della Forza è quel tipo di testo/mondo che possiamo definire vintage. Il grande (e furbo) intuito della Disney e di J. J. Abrams è stato proprio quello di recuperare vecchi oggetti e superfici, ripudiando il digitale pittorico e saturo della trilogia prequel di Lucas, con l’obiettivo programmati-co di rifarsi ai primi tre capitoli della saga (i più vecchi Una nuova speranza, L’impero colpisce ancora, Il ritorno dello Jedi) con un look semi-artigianale, personaggi, dialo-ghi, situazioni e temi musicali recuperati dall’archivio mnemonico di fan e addetti ai lavori. È su questo campo di battaglia teorico ed estetico che si è così consumato un divorzio doloroso e paradossale. Per permettere di recuperare lo spirito e le immagini (pseudo)analogiche del passato il “padre” Lucas si è dovuto fare da parte, rinuncian-do a qualsiasi rilettura tecnologica o politica del testo di partenza (tentativo esibito nella discussa triade La minaccia fantasma, L’attacco dei cloni, La vendetta dei Sith) e dando libero accesso ai suoi archivi anni ’70 e ’80 da cui Abrams & co. hanno preso maschere, scenografie, pianeti, inquadrature, soluzioni narrative. Una volta svuotata

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la cantina è bastato poco per rispolverare tutto il vintage possibile e immaginabile. Stiamo parlando di due visioni e approcci in rapporto alla Storia e al Tempo sotto

molti punti di vista inconciliabili. George Lucas non è J. J. Abrams, nella misura in cui American Graffiti – caposaldo del filone nostalgico – non può essere Il risveglio della Forza – forse il concept-vintage mediatico più smaccatamente lucido e commerciale che universi cinematografici abbiano mai partorito. “Hanno voluto fare un film retrò. Non mi piace. Ho lavorato duramente per realizzare ogni film in modo completa-

"Nel rifare correttamente lo Star Wars del 1977, Abrams finisce con il distanziarsene

violentemente. Come se la precisione al modello originario arrivasse a tradirne il

potenziale immaginifico"

mente diverso, con diversi pianeti, diverse astronavi, per renderlo sempre nuovo” ha puntualizzato con fastidio Lucas all’Hol-lywood Reporter dopo aver visto il film. Ecco che, dopo l’allontanamento del pa-dre demiurgo (appunto Lucas), si delinea un secondo paradosso, forse ancora più spiazzante: nel rifare correttamente lo Star Wars del 1977, Abrams finisce con il distanziarsene violentemente. Come se la precisione al modello originario arrivasse a tradirne il potenziale immaginifico in cambio di un ritrovato matrimonio con la collettività. Se Lucas ragiona da artista/in-ventore, Abrams rilancia da imprenditore/sociologo. Nel pensiero di Lucas e di molti addetti ai lavori Star Wars VII non funziona proprio perché vintage e quindi incapace di opporsi al passato. Ma allo stesso tempo i soldi incassati dalla Disney in biglietti venduti e merchandising non fanno che dimostrare che gli spettatori hanno assolu-to bisogno di quel passato. Il vintage è questa sorta di dipendenza per un’antichità perpetua e sempre “nuova”, dove il presente è il passato e il passato è il futuro. Un blackout spaziotemporale che trascende un discorso meramente cinematografico per arrivare al cuore di quello che stiamo diventando.

Perché oggi il vintage sembra essere il modo preferito da tutti per amare o provare emozioni? Ce ne dobbiamo vergognare? Qual è il nostro mondo?

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a cura di aldo spiniello e sergio sozzo

Conversazionecon Giovanni Cioni

Abbiamo incontrato Giovanni Cioni in occasione del 40° Laceno d'Oro, ad Avellino, dove ha presentato due tra i suoi inclassificabili documentari, Nous/Autres, girato nel 2003 a Bruxelles e In purgatorio, del 2009, una discesa inarre-stabile nelle viscere profonde di Napoli. È un lavoro sulla materia bruta del reale,

quello di Cioni, una pratica filmica che sembra quasi darsi per caso, costante-mente smarginata e aperta all'imprevisto. Un vero e proprio "cinema corsaro" (per citare il progetto collettivo che lo ha visto protagonista con quello strano oggetto che è Gli intrepidi), apparentemente sen-za centro e senza regole. Eppure caldo,

L'intrepidoFA

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vivo, capace di raccontare, come pochi altri, l'umanità delle persone incontrate lungo il cammino. Un cinema in cui l'ela-borazione teorica sembra farsi da parte, per lasciar spazio alla densità delle cose.

Partiamo da Nous/Autres. È come se tu inventassi un dispositivo e poi lo mandassi sempre a monte, in qual-che modo. Come se il tuo cinema non disponesse più, non avesse la piena disposizione delle cose…La vedo così. Il dispositivo è un metodo per suscitare qualcosa, che mi permette di raccontare quel che voglio raccontare. Però, poi, mi piace che si vada oltre que-sto dispositivo. In Nous/Autres si trattava di un’idea molto semplice… Quando con Nedjma Hadj incontrai Helga, mi disse due cose. Io non sapevo niente della sua storia, lei era un’ebrea tedesca fuggita a

Bruxelles, mentre io credevo fosse un’an-ziana signora belga. Ecco, mi disse così: “sono fuggita qui con mia sorella”. E io chiesi “e sua sorella dov’è?”. “Mia sorella è scomparsa”. E mi disse “mi capisce?”, e io risposi “certo, capisco”. Ma in realtà il modo in cui si rivolse a me, intendeva dire che era impossibile capire. Che non si può capire fino in fondo cosa significa essere assolutamente soli di fronte alla scomparsa. L’altra cosa che mi disse fu: “quando penso alla mia storia, è come se fosse la storia di qualcun altro, è come se non fosse la mia”… “come se la leggessi in un romanzo” più precisamente. Ed è da qui che è nato il dispositivo: dall’idea di rendere questo straniamento attraver-so un racconto in prima persona da parte di due attori, a cui tra l’altro avevo chie-sto di non incontrare Helga e Yann prima delle riprese, in modo che fossero soli

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con queste storie e se ne appropriassero, le vivessero raccontandole. Come fosse-ro una loro testimonianza. Poi arrivano loro, Helga e Yann, ma senza che si ca-pisca necessariamente che si tratta delle stesse persone. E la loro storia si ricostru-isce a poco a poco, come piccoli tasselli di un puzzle. Poi c’era l’ambiente, il fat-to che questa prima parte si svolgesse in una casa abbandonata, secondo un’im-postazione teatrale. Facevamo finta fosse la casa in cui si erano nascosti... Ecco, una volta messo in piedi questo disposi-tivo, bisogna andare oltre. Cioè ci sono loro, c’è la vita e c’è il fatto di andare fino in fondo a questo. Penso che il dispositivo o, se vogliamo chiamarlo in altro modo, la scrittura sia una mappa che serve a un viaggio. Dopo c’è il viaggio. E sia chiaro che il dispositivo non è nato così... Perché all’inizio del progetto, non c’era l’idea di fare un film, ma un lavoro teatrale sul-la vita di persone anziane del quartiere. Nedjma mi ha coinvolto nel progetto. È

con lei che siamo andati in questo cen-tro sociale. Era lei l’interlocutrice. Anche perché lei stessa viveva la situazione di profuga a Bruxelles.

La vita, l’incontrarsi. C’è pure in Per Ulisse, questa dimensione. Tu sei molto presente, si vede il tuo deside-rio dell’incontro, ma è come se faces-si sempre un passo indietro. Anche In purgatorio, tu intervieni con queste frasi scritte su fondo nero. La tua pre-senza è forte, ma è in qualche modo invisibile. Qual è la tua posizione sul

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set, rispetto agli altri? Innanzitutto, cos’è il set, qualcosa da cancellare?Io non ho pensato di entrare nell’imma-gine… mi è successo. Però non ho mai pensato di mettermi in scena per signi-ficare la mia relazione con un’altra per-sona, nella misura in cui è lo sguardo la relazione con gli altri. Penso semplice-mente che la presenza non è mai univo-ca, non è mai a una sola dimensione. Tu sei lì con le persone, allo stesso tempo stai pensando, e poi, dopo, rivedi quel-lo che hai fatto, quello che è successo. E crei questi diversi livelli che possono an-che avere a che fare con una specie di intimità, nel senso in cui la scrittura gioca comunque col silenzio… E questo crea una scansione, un prendere le distanze, un mostrare che la parola è comunque immersa in uno strato di silenzio, cioè che tu sei lì con le persone ma sei an-

che fuori. Ne In purgatorio ci sono molte immagini in soggettiva, perché era come una specie di finzionalizzazione… come se io che filmavo fossi un’anima del pur-gatorio, un fantasma. Quando tu filmi sei lì perché, concretamente, ci sei. Però non sei lì, perché sei concentrato sull’im-magine. C’è dunque tutta una gamma di modalità di relazione con il mondo nel quale stai girando. Sei presente e sei as-sente allo stesso tempo e a me interessa che queste varie dimensioni coesistano. Non per confondere le acque, ma perché è nel passaggio tra le une e le altre che c’è la realtà del film. Che poi è sempre quella di uno spazio che costruisci con il montaggio.

Hai evocato quest’immagine della parola circondata dal silenzio. Un aspetto che unisce, ad esempio, In

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purgatorio e Nous/Autres, è che si tratta apparentemente di due film di parola, dove si parla molto e le pa-role sono importanti. Però mi sembra che tutte queste parole servano più a una tua personale ricerca dell’imma-gine, quasi fossero una sorta di evo-cazione. Quando penso a In purgato-rio che è pieno di sogni, di racconti, di apparizioni e poi vedo quei quattro borseggiatori, mi sembra che quello sia il purgatorio, che quei personaggi siano bloccati in esso e ne divenga-no effettivamente l’immagine. Ecco, come può la parola diventare un ele-mento concreto dell’immagine?Sì, non l’avevo pensato… quello che pen-

savo è che effettivamente c’è una messa in scena della parola. Cioè dell’ascolto. E dunque della risonanza che questa parola ha. Però la parola è importante. C’è una messa in scena anche nel senso di utiliz-zare qualcosa che è quasi un incidente. Per esempio un’improvvisa sovraesposi-zione sul viso di Helga, quando lei evoca la sua famiglia scomparsa a Auschwitz, è una luce che arriva davvero incidental-mente. Da lì mi sono inventato una scena con una sovraesposizione in questa casa abbandonata, dove l’immagine brucia. E questo, che potrebbe essere un effetto, anche un rischio, diviene per me l’oppor-tunità di rendere quasi fisica la parola, l’ascolto. Credo che l’immagini non sia-

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no immagini, ma debbano essere aper-ture verso altre cose. E che creano uno spazio nel quale tu ascolti delle storie, dei racconti con un’altra risonanza. Bah, io leggo molto, ma quando leggi le parole ti trasportano, è un qualcosa che ti apre l’immaginario… Per quanto riguarda In purgatorio, Sergio l’ho conosciuto fin dall’inizio, ci siamo frequentati, e subito mi son detto che casa sua era un luogo in cui poteva succedere qualcosa. Perché il punto non era fare di Napoli un meta-fora del purgatorio. Si trattava di cogliere il senso vissuto di questa attesa, di questa incompletezza, di questa solitudine terri-bile che è ciò che racconta In purgatorio. Che poi non è la solitudine di queste per-sone a Napoli, ma una solitudine di fron-te all’esistenza stessa. E dunque avevo la convinzione che, al di là di tutti i raccon-ti, i sogni, le apparizioni, mi trovavo lì, in quello spazio con loro. E che qualco-sa poteva succedere e farmi superare la metafora. Il racconto del sogno di Gesù era previsto, ne avevamo già parlato da tempo con Mauro. Il sogno dei carabi-nieri pure. Non era previsto che un al-tro venisse a mettere in dubbio tutto. Era previsto, però, che Gennaro cantasse. Questo canto è, praticamente, il canto del purgatorio…

È come se il simbolico, il metaforico non fosse mai una sovrastruttura a posteriori…No, infatti, lo devi cercare concretamen-te, lo devi suscitare…

Appunto, è un’invenzione, nel sen-so etimologico del termine, qualcosa che devi scoprire, tirar fuori, quindi è come se fosse già incorporato nelle

cose. Perché io credo che il set non sia tanto il luogo dove riprendere e fabbricare delle immagini. Il set è il luogo in cui deve suc-cedere qualcosa. L’invenzione, il disposi-tivo, la scrittura… servono a farli esistere concretamente.

Infatti mi sembra che tu rovesci di continuo ciò che normalmente acca-de nel cinema. Cioè il cinema è una finzione da cui, per caso, viene fuori il reale. Invece nei tuoi film c’è il re-ale, in cui, per caso, accade la finzio-ne. Non so se mi spiego… La finzione diventa il modo per scoprire ancora di più il reale. È un processo contrario a quello del cinema “canonico”.Sì, certo si possono moltiplicare i para-dossi, ma penso che non puoi scindere così facilmente la finzione dal reale, per-ché il reale è composto dalle tue finzioni. Io cerco di capire, di conoscere, di vede-re e di far vedere e uso tutti gli strumenti che ho a disposizione. Tutta la costruzio-ne, l’architettura di un film, di un’imma-gine, non è una cosa fine a se stessa, ma ti serve perché qualcosa accada e duri, no? E per questo dicevo che l’immagine non è chiusa ma apre su altro. Ciò che c’è di reale è quello che accade nel mo-mento in cui giri, punto. Le persone sono in carne e ossa, ma sono in carne e ossa anche nella finzione. La realtà sta nella concretezza del girare, nella pratica.

L’incidente è un po’ la forma base del cinema, in qualche modo. Alcuni di-rebbero che non è vero… C’è il per-sonaggio di In purgatorio che parla di Dio regista e poi ti dice “Giovanni, tu sei un diavolo di regista”…

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No, allora, questo è come lavoro io, come riesco a lavorare io. Certo che ac-canto a ciò trovi Kubrick, Tarkovskij, Fritz Lang che hanno un controllo assoluto e che arrivano a una realtà e a una verità fortissime. Nel mio caso però, è quello che riesco a fare…

In questa assoluta mancanza di con-trollo, tu ritrovi un altro nome del passato a cui far riferimento?No… cioè, penso a quello che ho impa-rato, sono cresciuto vedendo molti film, di tutto. Alla cineteca a Bruxelles, per un periodo vedevo solo film muti. Ed essen-do autodidatta, ho cominciato a fare fil-mini in Super 8, giocavo al montaggio, con questa magia di riuscire a creare delle cose con le immagini. Comunque, certo, Pelešjan, che poi ho conosciuto a Bruxelles, negli anni ’90, è un nome che mi ha molto ispirato. Ma ti posso ci-tare Paradžanov, ma non c’è niente di Paradžanov in quello che faccio io. Un

periodo ero totalmente immerso nel ci-nema giapponese, Mizoguchi, Naruse, Ozu. Poi ho fatto la mia tesi all’universi-tà sul cinema nero americano degli anni ‘40. E sono tuttora un grande amante di quel cinema che… a parte Fritz Lang…

Fritz Lang non ti piace, quindi?Sì, ma Fritz Lang ha un controllo… fa il contrario di quello che farei io, nel senso che chiude tutto in un labirinto dal quale non c’è scampo, no? Mentre magari… però ti posso dire che quello che mi ha veramente fatto cambiare è Toute une nuit di Chantal Ackerman. Avrò avuto 18

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anni e mi sconvolse, perché dimostrava come si poteva fare un film che appa-rentemente non raccontava niente, dove non c’erano dialoghi, c’era solo una not-te, le coppie a Bruxelles. E poi direi altre cose sue, ma tra le meno citate, come Histoires d’Amérique o il film che fece su Pina Bausch, Un jour Pina a demandé. La Akerman metteva in scena, anche lì, i racconti, la presenza, ma creava uno spazio che era completamente altro.

Rossellini? Mi sembra un nome di riferimento. Eppure tu citi, in fondo, autori controllatissimi, Ozu, Mizogu-chi...Ma infatti, lo so… forse perché mi pia-ce vedere le cose in antitesi a quello che faccio io e… avrei potuto citarti tanti altri titoli… che ne so, La ricotta…

Del resto, ad esempio, in Ozu si ritro-va molto questa messinscena dell’a-scolto di cui parlavamo prima. Que-sto tentativo di creare uno spazio dell’ascolto, che il cinema canonico rifiuta a priori, perché i piani d’ascol-to devono essere calibrati. Tu invece sui piani d’ascolto fai un lavoro molto sottile, tipo quel fuoricampo impossi-bile di Nous/Autres. E pure In purga-torio è pieno di apparizioni fuoricam-po. L’ascolto diventa in qualche modo il campo. Non più il controcampo, ma l’immagine stessa. Sì… perché il piano d’ascolto diventa, la maggior parte delle volte, solo funziona-le a mostrare… lui sta ascoltando, quindi noi dobbiamo ascoltare... Io penso, per una specie di predisposizione mentale, che niente va da sé, che niente è sconta-to, che tu ascolti le cose in modo diverso.

Ripensavo a questo gioco con i cartelli di In purgatorio, dove, all’inizio, sembra quasi che siano i teschi a parlare. In real-tà non si sa chi sta parlando a chi, ma in questa incertezza rimane la parola.

Forse, se c’è una termine che può rac-contare tutto questo, è polifonia. Come rendere l’idea della polifonia che ci può essere in una sola persona… ma non per dire che c’è una parte di schizofrenia. In musica sono affascinato dalle polifonie, le polifonie vocali, tipo quelle georgiane.Però sul controllo, anche lì, c’è un po’ un paradosso… cioè io rivendico come mia questa tendenza a lasciar andare le cose al di là delle mie aspettative. E credo che il dispositivo debba andare oltre… cioè uno più uno deve fare tre, quattro, cin-que, non deve fare due. Però, è anche qualcosa di molto preciso in fin dei con-ti...

Nell’approccio, ma non nel risulta-to… nel senso che non c’è mai la pie-na predeterminazione di quanto può accadere...Io ho l’intuizione… che si può arrivare a qualcosa.

Sì, ma c’è sempre l’imprevisto che scompagina il piano. Ed è sempre ciò che ci piace di più, perché ci sembra la cosa più simile alla vita. Certo, lo scompagina, ma tu devi anda-re a cercarlo, cioè devi essere capace di capire che quella determinata cosa che

"Se c'è un termine che può raccontare tutto que-sto, è polifonia. Come rendere l'idea di polifo-

nia che ci può essere in una sola persona..."

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accade ti può servire. Per In purgatorio scrissi una specie di romanzo. Una specie di viaggio… non c’è niente di tutto que-sto nel film. Mi serviva come sceneggia-tura per trovare i finanziamenti, prendere i contatti ecc... Però, allo stesso tempo, mi è servito per capire che quando suc-cedeva un incontro inaspettato, ecco, era lì che dovevo andare. Per esempio Fran-co, il signore che parla di Dio regista... ecco, tutto questo, era qualcosa che do-vevo raccontare. Quando lo incontrai e cominciammo a parlare della sua teoria, dissi “Scusa, Franco, ma chi t’ha manda-to? Un produttore?”.

Ma questo mi porta a pensare che la scrittura è anche l’ancora di salvezza, e da un punto di vista economico e da un punto di vista metodologico, nel senso che è la cosa a cui ti aggrap-pi per non deragliare completamente con le immagini. Ma anche la traccia letteraria, tu adesso stai lavorando sui Canti orfici, poi c’è stato Salgari in

Cinema corsaro…Sì, ma la scrittura ti serve anche per chia-rire quello che non devi fare. Cioè le false buone idee. E poi perché ti serve per ave-re altre idee, per preparare tutto e porre rimedio. Riguardo In purgatorio c’era una scaletta di riprese, ma poi all’improvviso un appuntamento saltava perché qual-cuno scompariva, non si presentava. Hai bisogno di una mappa. Io so benissimo come prendere rischi, certo, però devo essere anche capace di andare al ter-mine di un progetto, di non naufragare. Anche per questo serve scrivere. Anche per capire che il film tu ce l’hai, perché se no continueresti ancora a girare a girare. A un certo punto occorre fare il punto. Io, fortunatamente, non sono abituato a girare molto. In un film come Per Ulisse alla fin fine avevamo una trentina d’ore di riprese.

E in questo discorso come entrano le tracce letterarie?Entrano come una traccia che ti permette

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di guardare in modo diverso. E di crea-re un rapporto. È un conto se tu dici alle persone “faccio un film su di voi o con voi”, un altro conto se dici “faccio Salga-ri, faccio le anime del purgatorio, faccio Ulisse”. Ti crea un altro sguardo, cioè ti crea il principio di un altro sguardo che poi devi costruire. Ti consente di capire cosa ti interessa, cosa vuoi fare davvero. Devi capire la regola del gioco che ti per-metta di fare un viaggio reale.

Una cosa molto interessante è il rap-porto con lo spazio. Tu vai a Napoli, ma non riprendi Napoli. Non ti sof-fermi più di tanto sui luoghi, sulle strade, i palazzi... Ma, comunque, lo spazio viene fuori da come te lo rac-contano i personaggi. Non è tanto un cinema di persone nello spazio, ma di spazio nelle persone. Mi piace questa formula, lo spazio nelle persone… Avevo pensato che la città di

Napoli fosse come un sogno. Effettiva-mente non c’è mai una veduta di Napoli. Quando sono sbarcato in città ho comin-ciato le ricerche per il film e non cono-scevo quasi nessuno, ho passato una de-cina di giorni a camminare, a errare… E allora lo spazio della città l’ho pensa-to nel film un po’ partendo da questo e lavorando sul montaggio degli sguardi. Dalle capuzzielle ai morti nelle edicole, al passaggio della folla. Per me questa era la rappresentazione dello spazio che

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poteva essere letta in modo polivalente, come fosse il sogno di una capuzziella.

Appunto. Tu viaggi, ma non sei mai un turista…Perché voglio fare un viaggio menta-le, nel senso che il film è qualcosa che ti cambia. Non sto dicendo che vedi un film e sei cambiato. Hai fatto un viaggio nel senso che sei partito da un punto e sei arrivato altrove, lì dove non ti aspettavi. E questo rimane. Nous/Autres era impre-gnato di Bruxelles, la città in cui vivevo. Ed era animato dalla volontà di scoprir-la. È come se tu vivessi da qualche parte,

ma in realtà hai l’impressione di vivere in una terra incognita. Ed è sempre un po’ un viaggio in una terra incognita quello che faccio.

Come vedi questo interesse sem-pre crescente per il documentario? E come ti rapporti ad esso? In purgato-rio, ad esempio, è un film che rifug-ge continuamente dall’antropologia, potrebbe essere un progetto alla Di Gianni e, invece, se ne tiene lontano, anche in maniera ostinata…È un bene che tanti documentari venga-no all’attenzione, escano dai confini del documentarismo, è un bene che passi finalmente l’idea che il documentario è cinema. O almeno dovrebbe essere ci-nema innanzitutto. Poi ognuno fa la sua strada. Io sono sempre un po’ quello che viene da fuori. Anche se ho fatto sicu-ramente di più in questi dieci anni che sono in Italia... Però la mia idea è sempre quella di non considerarmi un documen-tarista, ma un uomo che fa cinema e che può utilizzare modalità d’espressione di-verse… di certo c’è la crisi – ma lo diceva già De Sica nel 1953 – e bisogna rein-

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ventare anche i metodi di distribuzione che sono bloccati...

Ecco, rispetto a questo, quello che chiediamo sempre è: in un sistema produttivo come quello di oggi, ri-spetto al fatto che adesso tutti pos-sono girare, sono “produttori”, che senso ha parlare ancora di indipen-denza?Non ha più senso nella misura in cui an-che James Cameron può essere conside-rato tecnicamente indipendente quando produce da sé. Quando si parla di cine-ma indipendente bisogna capire di cosa si parla, così come quando si parla di cinema emergente. Cos’è? Emergi sem-pre per non affogare. Per cui il cinema indipendente cos’è? Uno parla di cine-ma indipendente e poi sogna di fare il blockbuster, dunque diventa un discorso di rivalsa. Che senso ha? Il discorso è che, tecnicamente, non costa più niente

fare un film perché ora si può girare con facilità… però bisogna vivere… cioè, ca-pito? Io sono convinto che il cinema esi-ste ancora, perché c’è sempre la voglia di vedere cose diverse da quelle abituali. Non ci sono più le modalità di produzio-ne e distribuzione a cui eravamo abituati, probabilmente uno come me è costretto a reinventarsi quasi a ogni film, dunque a reinventare anche i modi di produzione e distribuzione.

L’immagina prolifera all’infinito. Cos’è che distingue il cinema da ciò che non è lo è, nella massa delle im-magini?Io direi quasi poco importa. Importa che ci sia quella scintilla che ti dà, ti racconta qualcosa. Che ne so, vedi una videoin-stallazione, e ti chiedi se è cinema, non è cinema. Quello che importa è riconosce-re che qualcosa ti ha colpito. Allora tutto è cinema? No. Certo il fatto di utilizzare

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un linguaggio fatto di immagini, di spa-zio e di tempo, per raccontare qualcosa che non hai mai visto o che non poteva essere raccontato che in quel modo lì... Ora, il cinema si vede da soli, scaricato, sul computer, a casa… Questo non è ci-nema, perché non c’è la condivisione di uno spazio fisico con altre persone.

Ecco, anche nella pratica. Nei tuoi film hai sempre stabilito varie colla-borazioni. Quanto credi sia impor-tante, nel fare cinema, trovare delle corrispondenze, proprio a livello per-sonale?Ti risponderò banalmente che è essen-ziale. Che non puoi vivere senza gli altri, anche se poi ti piace anche startene da solo. Che i film che ho fatto sono sempre dei modi di mettermi in relazione con gli altri, con il mondo in cui vivo. Sono il mio

modo di contribuire…

Il rapporto con la tecnica sta cam-biando. Tu come lo vedi, come un’op-portunità o come un limite. Magari è un modo per ridurre proprio il con-tatto con gli altri…Tutti possono montare, io amo montare. Ma il lavoro con il montatore non è un semplice lavoro di tecnica, è uno scam-bio con qualcuno che ti aiuta a mette-re ordine nelle tue idee, che ti fa vede-re cose che non hai visto in quello che hai fatto. C’è sempre uno scambio, una relazione. Io penso che la tecnica vada saputa utilizzare. Ci sono delle opportu-nità da cogliere, qualcosa in più rispetto al passato, ma penso che non ti puoi se-dere. C’è una fiducia cieca nel fatto che basti padroneggiare la tecnica per fare una bella cosa. Alla fine si discute del-

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le macchine e via dicendo, ma si rischia di diventare prigionieri di un’estetica im-posta dalle novità. Devi essere anche un po’ anacronistico. Io rimpiango di sicuro il Super8 o il 16mm, ma adesso rimpian-go anche la Panasonic 100 MiniDV, con cui ho fatto Per Ulisse e In purgatorio e la pasta di immagine che mi dava. Però posso imparare anche a utilizzare i 4, i 5, i 10K, senza farmi rendere prigioniero dello strumento.

Quindi l’evoluzione dei mezzi non in-fluisce sul tuo lavoro, se non per un aspetto meramente pratico? Certo, non avrei potuto girare Per Ulis-se in pellicola, da solo. Ma nel modo di pensare all’inquadratura, al montaggio non cambia nulla. Ora sto facendo un laboratorio in Val d’Aosta, e ho visto al-cuni lavori d’animazione a partire dalle immagini fotografiche. E mi rendo conto come con la tecnica possano venir fuori cose che prima non pensavi di poter fare.

Ma il girare in digitale non ha cambiato la mia estetica. Io ho imparato a fare i film in Super8. Perciò giro poco. Spesso mi mancano delle cose. Però proprio questa mancanza crea un altro senso. Devi es-sere capace di vedere anche le immagini che non ci sono…

Ti mancano le copertura, dunque. Non ne hai?Mai…

L’esatta definizione di un cinema cor-saro...Eh (ride…)

FACES

Page 92: SentieriselvaggiMagazine n.20

Il mondo è un postaccio, meglio non fidarsi. Di questi tempi sembra che tv, cinema e videogiochi concordino: mai come oggi fu consigliabile spiare le spie (Homeland), processare le intenzioni (Person of Interest), o diffidare del vicino (The Americans). E quand'anche tutto sembri filare liscio, occhio all'alba dei morti viventi (The Walking Dead), o all'invasione aliena dietro l'angolo (Galactica). Sull'oscuro comun denominatore già qualche tempo fa si concentrava Premeditation. Buon anno!!!

Maggioranza illusoria

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