sinergie di scuola - anno 2, numero 15 - gennaio 2012 ... · sindrome da fatica cronica. l. a crisi...

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12 GENNAIO 2012 | SINERGIE DI SCUOLA TELE OBIETTIVO BIMBI DISABILI NEI PAESI POVERI | PISA 2009: RAPPORTO GENITORI E FIGLI | SINDROME DA FATICA CRONICA L a crisi che araversiamo ci stimola tut - ti a cercare nuove strade, razionaliz- zazioni più efficaci, strategie vincenti per riorganizzare il nostro lavoro, migliorarci, cogliere frui troppo a lungo trascurati. Nella didaica fortunatamente, sal- vo poche eccezioni, si è sempre cerca- to di non lasciare troppo indietro gli “ultimi”: ragazzi demotivati, privi di stimoli e con famiglie e contesti sociali alle spalle spesso assenti o incapaci di sostenerne gli sforzi scolastici. La rete si è rivelata come un pre- zioso strumento per chi si occupa della questione, consentendo lo scambio di riflessioni, consigli, esperienze. Proprio di questi tempi su Education Week, uno degli spazi più seguiti a livel- lo internazionale, è stato posto il tema: “Come stimolare l’apprendimento dei ragazzi demotivati?”. L’argomento ha acceso la discussione, che si è arricchita di interventi, anche molto autorevoli, provenienti da molti paesi, Italia inclusa. Uno dei punti fermi della discus- sione è la consapevolezza che, qualsiasi mezzo coercitivo o del tipo bastone-e- carota si usi, i risultati non possono es- sere altro che temporanei, e dunque inefficaci nel lungo periodo. Non è realisticamente possibile – è la presa d’ao – pretendere di motivare un’altra persona ad imparare; tuavia, si può e si deve aiutarla a scoprire dentro di sé ciò che può essergli di stimolo. Alla discussione sono stati invitati due ricercatori noti per i loro studi sul compor- tamento, Daniel Pink (autore di “Drive – La sorprendente verità su ciò che ci motiva nel lavoro e nella vita” , Etas 2010) e Dan Ariely ( “Prevedibilmente irrazionale” , Rizzoli 2008). Pink ha sostenuto che ovviamente non esiste una soluzione univoca, ma è sempre utile partire dal chiedersi per- ché: perché lo studente non è motivato, e perché dovrebbe imparare quello che gli viene presentato a scuola. Riguardo al primo aspeo, il sug- gerimento agli insegnanti non è di tra- sformarsi in terapisti, ma di cercare di individuare quelle cause su cui è possi- bile intervenire per rimuovere l’ostacolo (plausibilmente non i problemi familiari, ma certamente la noia per certe lezioni o il timore di non essere in grado di padroneggiare la materia). Sul perché studiare certi argomen- ti, Pink invita a rifleere sul fao che spesso agli studenti si spiega come si fa qualcosa, ma raramente ci si sofferma sulle ragioni a monte per cui è impor- tante farlo. Perché nell’ora di matematica devo imparare gli insiemi? Perché ci in- teressa sapere cosa facevano gli uomini del Neolitico, e perché leggiamo a scuola l’ Eneide o I Promessi Sposi? Evidenziare i collegamenti della lezione faa oggi con ciò che si è già studiato in precedenza, con l’aualità in cui siamo immersi, con gli interes- si già manifestati dagli studenti può offrire quel quid che può marcare la differenza nella loro partecipazione. A supporto di questo punto di vi- sta giunge uno studio recentemente pubblicato negli USA. Ad un gruppo di studenti è stato chiesto, nel corso di un anno scolastico, di scrivere un breve paragrafo al termine delle lezioni di scienze, per spiegare come pensavano di potere applicare le nozioni appena apprese nella loro vita quotidiana o nel futuro. Le differenze nell’appren- dimento sono risultate significative rispeo agli studenti dispensati dalla partecipazione all’esperimento. A sua volta Dan Ariely ha sviluppato il conceo di coinvolgimento aivo , parlan- do di quello che lui chiama “Effeo Ikea”: le persone tendono a dare un valore ag- giunto alle cose su cui hanno investito de- gli sforzi per portarle a compimento; idea suffragata da diversi studi nel tempo, che hanno dimostrato che gli studenti mostra- no meno interesse a imparare qualcosa di nuovo quando pensano che l’insegnante gli abbia già deo tuo quello che c’è da sapere. Ariely suggerisce diverse strategie per stimolare gli alunni ad “appropriarsi” di ciò che studiano, in particolare per le materie scientifiche: usare un approccio induivo all’apprendimento, per cui agli studenti si forniscono esempi da cui pos- sono ricavare ipotesi e formulare tesi; in- trodurre strategie di cooperazione, basate sulla risoluzione di problemi; consentire agli studenti di scegliere compiti, proble- mi, progei su cui cimentarsi. Lo spazio a disposizione non consen- te di dare conto di tui gli interventi più interessanti, ma il messaggio che traspa- re è in definitiva confortante: la scuola è in crisi, ma continua a interrogarsi con passione sul proprio ruolo. S Quando l’alunno sbadiglia Della scuola e di chi ci lavora si parla spesso male, eppure non esiste altro ambito professionale in cui i lavoratori si interrogano e analizzano il proprio operato con altrettanto impegno verso il miglioramento. Per esempio, come coinvolgere gli studenti demotivati? Cronaca sintetica di un interessante scambio di opinioni.

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12 gennaio 2012 | sinergie di scuola

TELEOBIETTIVObimbi disabili nei paesi poveri | pisa 2009: rapporto genitori e figli | sindrome da fatica cronica

L a crisi che attraversiamo ci stimola tut-ti a cercare nuove strade, razionaliz-

zazioni più efficaci, strategie vincenti per riorganizzare il nostro lavoro, migliorarci, cogliere frutti troppo a lungo trascurati.

Nella didattica fortunatamente, sal-vo poche eccezioni, si è sempre cerca-to di non lasciare troppo indietro gli

“ultimi”: ragazzi demotivati, privi di stimoli e con famiglie e contesti sociali alle spalle spesso assenti o incapaci di sostenerne gli sforzi scolastici.

La rete si è rivelata come un pre-zioso strumento per chi si occupa della questione, consentendo lo scambio di riflessioni, consigli, esperienze.

Proprio di questi tempi su Education Week, uno degli spazi più seguiti a livel-lo internazionale, è stato posto il tema:

“Come stimolare l’apprendimento dei ragazzi demotivati?”. L’argomento ha acceso la discussione, che si è arricchita di interventi, anche molto autorevoli, provenienti da molti paesi, Italia inclusa.

Uno dei punti fermi della discus-sione è la consapevolezza che, qualsiasi mezzo coercitivo o del tipo bastone-e-carota si usi, i risultati non possono es-sere altro che temporanei, e dunque inefficaci nel lungo periodo. Non è realisticamente possibile – è la presa d’atto – pretendere di motivare un’altra persona ad imparare; tuttavia, si può e si deve aiutarla a scoprire dentro di sé ciò che può essergli di stimolo.

Alla discussione sono stati invitati due ricercatori noti per i loro studi sul compor-tamento, Daniel Pink (autore di “Drive – La sorprendente verità su ciò che ci motiva nel lavoro e nella vita”, Etas 2010) e Dan Ariely (“Prevedibilmente irrazionale”, Rizzoli 2008).

Pink ha sostenuto che ovviamente

non esiste una soluzione univoca, ma è sempre utile partire dal chiedersi per-ché: perché lo studente non è motivato, e perché dovrebbe imparare quello che gli viene presentato a scuola.

Riguardo al primo aspetto, il sug-gerimento agli insegnanti non è di tra-sformarsi in terapisti, ma di cercare di individuare quelle cause su cui è possi-bile intervenire per rimuovere l’ostacolo (plausibilmente non i problemi familiari, ma certamente la noia per certe lezioni o il timore di non essere in grado di padroneggiare la materia).

Sul perché studiare certi argomen-ti, Pink invita a riflettere sul fatto che spesso agli studenti si spiega come si fa qualcosa, ma raramente ci si sofferma sulle ragioni a monte per cui è impor-tante farlo. Perché nell’ora di matematica devo imparare gli insiemi? Perché ci in-teressa sapere cosa facevano gli uomini del Neolitico, e perché leggiamo a scuola l’Eneide o I Promessi Sposi?

Evidenziare i collegamenti della lezione fatta oggi con ciò che si è già studiato in precedenza, con l’attualità in cui siamo immersi, con gli interes-si già manifestati dagli studenti può offrire quel quid che può marcare la

differenza nella loro partecipazione. A supporto di questo punto di vi-

sta giunge uno studio recentemente pubblicato negli USA. Ad un gruppo di studenti è stato chiesto, nel corso di un anno scolastico, di scrivere un breve paragrafo al termine delle lezioni di scienze, per spiegare come pensavano di potere applicare le nozioni appena apprese nella loro vita quotidiana o nel futuro. Le differenze nell’appren-dimento sono risultate significative rispetto agli studenti dispensati dalla partecipazione all’esperimento.

A sua volta Dan Ariely ha sviluppato il concetto di coinvolgimento attivo, parlan-do di quello che lui chiama “Effetto Ikea”: le persone tendono a dare un valore ag-giunto alle cose su cui hanno investito de-gli sforzi per portarle a compimento; idea suffragata da diversi studi nel tempo, che hanno dimostrato che gli studenti mostra-no meno interesse a imparare qualcosa di nuovo quando pensano che l’insegnante gli abbia già detto tutto quello che c’è da sapere. Ariely suggerisce diverse strategie per stimolare gli alunni ad “appropriarsi” di ciò che studiano, in particolare per le materie scientifiche: usare un approccio induttivo all’apprendimento, per cui agli studenti si forniscono esempi da cui pos-sono ricavare ipotesi e formulare tesi; in-trodurre strategie di cooperazione, basate sulla risoluzione di problemi; consentire agli studenti di scegliere compiti, proble-mi, progetti su cui cimentarsi.

Lo spazio a disposizione non consen-te di dare conto di tutti gli interventi più interessanti, ma il messaggio che traspa-re è in definitiva confortante: la scuola è in crisi, ma continua a interrogarsi con passione sul proprio ruolo. S

Quando l’alunno sbadigliaDella scuola e di chi ci lavora si parla spesso male, eppure non esiste altro ambito professionale in cui i lavoratori si interrogano e analizzano il proprio operato con altrettanto impegno verso il miglioramento. Per esempio, come coinvolgere gli studenti demotivati? Cronaca sintetica di un interessante scambio di opinioni.

sinergie di scuola | gennaio 2012 13

Durante un terremoto, il possibile crollo della casa è l’evento che fa più paura. Lo hanno dichiarato il 57% degli studenti delle scuole superiori, il 46% di quelli del-le elementari e addirittura il 64% dei ge-nitori, rispondendo ai questionari, i cui risultati sono confluiti nella III Indagine su “Conoscenza e percezione del rischio sismico”, presentata da Cittadinanzattiva e Dipartimento della Protezione Civile, in occasione della IX Giornata nazionale della sicurezza scolastica (www.cittadi-nanzattiva.it e www.protezionecivile.it).Diciassette le regioni coinvolte (tutte ad eccezione di Sardegna, Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige) e 50 le province. In totale sono stati intervistati 1.211 stu-denti della scuola primarie, 1.160 delle scuole secondarie di primo e secondo grado e a 1.477 genitori. Durante il terremoto i giovani sanno quali sono i comportamenti più corretti da as-sumere: circa il 90% tra coloro che hanno

risposto al questionario si ripara sotto il banco o nel vano di una porta, di poco inferiore la percentuale di genitori (84%) che adotta un analogo comportamento.Si è precipitato fuori dall’edificio in cui si trovava il 9% degli studenti delle scuole primarie e il 13% delle secondarie e il 30% dei genitori. E ben il 40% dei genitori dopo la scossa si precipiterebbe con la macchi-na a scuola dei figli – comportamento da evitare sempre in caso di emergenza, per non esporsi a rischi e non intasare le strade che devono invece restare libere per eventuali soccorsi – e la percentuale sale al 50% in Campania.Per quanto riguarda l’edificio scolastico, il 54% degli studenti delle elementari e il 67% delle scuole medie e superiori non crede che la propria scuola sia sicura. Innanzitutto, perché spesso si tratta di un edificio vecchio (65% studenti della primaria; 59% della secondaria) o perché presenta crepe (11% e 17%). Solo un

terzo dei genitori (32%) dice di sapere che la scuola è stata costruita secondo le norme antisismiche o comunque ri-strutturata secondo tali criteri. Va bene per le prove di evacuazione: il 90% degli studenti interpellati dice di aver partecipato a delle prove nella sua scuola, percentuale che sale al 97% in Toscana e al 95% in Calabria. Al di sotto della media la Campania, dove dichiara di avervi parteci-pato poco più dell’80% degli studenti. Tra i vari tipi di rischi per i quali ci si esercita, i più diffusi sono quelli per l’incendio e il rischio sismico, mentre il rischio idrogeologico è quello meno considerato (solo il 3% delle esercitazioni lo riguarda). Infine, poco coinvolti i genitori nelle iniziative di formazione e informazione sulla sicurezza a scuola: in media, solo un terzo dei genitori dice di avervi partecipa-to, male la Toscana, dove solo il 21% dei genitori è stato coinvolto in tali iniziative, al di sopra della media la Calabria (40%).

Paura del crollo e scuole considerate poco sicureQueste le percezioni di studenti e genitori intervistati da Cittadinanzattiva sul rischio sismico

I l “Rapporto sulla scuola in Italia 2011” della Fondazione Agnelli, quest’an-no dedicato alle secondarie di primo grado, ha messo in evidenza come sia proprio alle scuole medie che esplo-dono in modo drammatico i divari di apprendimento determinati dall’origi-ne socio-culturale degli studenti, che invece le scuole elementari riescono ancora a contenere con successo.I dati sono preoccupanti: le probabilità che uno studente figlio di genitori con licenza media sia in ritardo alla fine della scuola media è quattro volte superiore a quella del compagno figlio di genitori laureati. Va addirittura peggio per gli stu-denti stranier nati all’estero e scolarizzati in Italia, per i quali la probabilità è venti volte superiore a quella di un italiano. Non va meglio alle superiori, perché i divari sociali di apprendimento che emergono alle medie rischiano di compromettere il percorso scolastico, specialmente degli studenti di origine più svantaggiata, e sono la principale

causa degli abbandoni scolastici.Il Rapporto si sofferma anche sul corpo docente: gli insegnanti della scuola media sono i più anziani (età media oltre 52 anni, moltissimi nella fascia intorno ai 58 anni) e i meno soddisfatti della loro preparazione complessiva, oltre a essere coinvolti nel più vorti-coso turn over di cattedre di tutta la scuola italiana: 35 docenti di scuola media su 100 non insegnano l’anno dopo nella stessa scuola, con le pre-vedibili conseguenze negative per la continuità didattica dei loro allievi.Una situazione, questa illustrata dal Rapporto, che è sempre più grave e che richiede un intervento immediato.Per intervenire e tentare di invertire la situazione, la Fondazione Agnelli propone di ridare alla scuola media «una missione chiara (essere più efficace, innanzitutto perché più equa) aggiornan-do le sua offerta pedagogica e didattica, attraverso un forte orientamento alla personalizzazione dell’insegnamento da

realizzarsi attraverso un’estensione del tempo scuola con una vera “scuola del po-meriggio”; maggiore attenzione alla pro-gettazione comune degli insegnanti; un arricchimento della “cassetta degli attrez-zi” dei docenti che permetta loro soluzioni didattiche che integrino o sostituiscano la lezione frontale (ad es. il cooperative learning); una valorizzazione pedagogica del modello dell’istituto comprensivo (e del curricolo verticale), diffusosi e oggi generalizzato quasi esclusivamente per ragioni di contenimento dei costi, ma di cui le ricerche della Fondazione indica-no una evidente superiorità dal punto di vista degli apprendimenti; una seria riflessione nazionale sul tema dell’essen-zializzazione delle materie». Soltanto perseguendo queste priorità sarà possibile rendere le nostre scuo-le medie più adatte alle esigenze di allievi preadolescenti che si trovano a vivere nel pieno di una delicata tran-sizione dal punto di vista cognitivo, psicologico e relazionale.

Scuola media anello debole dell’istruzione italiana?Secondo il Rapporto della Fondazione Agnelli è alle medie che emergono in modo evidente i divari di apprendimento determinati dall’origine socio-culturale degli studenti

14 gennaio 2012 | sinergie di scuola

[TELEOBIETTIVO]

Poca scuola per i bambini disabili dei paesi poveriEmarginati, isolati, pressoché ignorati dagli sforzi per portare tutti i bambini a ricevere un’istruzione primaria entro il 2015. Eppure anche in Africa, in Asia, c’è voglia di riscatto. E qualche paese prova timidamente a intervenire.

S econdo recenti dati dell’Unesco, un terzo dei

bambini che al mondo non ri-cevono un’istruzione primaria sono portatori di un qualche tipo di disabilità. In cifre, circa 23 milioni.

Questa realtà si scontra con l’obiettivo dichiarato di portare i bambini di tutti i paesi a completare il ciclo d’istruzione primaria entro il 2015. Con l’implicita am-missione che la condizione di bambino disabile nei paesi in via di sviluppo è stata tragicamente sottovalutata e trascurata.

Il mancato accesso all’istruzione, secondo il rapporto, è causato da fat-tori economici, sociali, culturali. Nella maggior parte dei casi, scarseggiano o mancano completamente strutture idonee con personale specializzato e, laddove esistono, le rette sono proibi-tive per la maggior parte delle famiglie interessate.

Spesso però sono le stesse famiglie a isolare i figli disabili. In molti paesi poveri con bassi tassi di alfabetizza-zione, e in particolare nelle zone rurali, l’handicap è uno stigma, e viene iden-tificato come il segno tangibile dello sfavore – o della punizione – delle divi-nità per qualche grave colpa commessa dai genitori.

Questo atteggiamento negativo è diffuso anche tra gli insegnanti e i com-pagni, al punto che talvolta anche i figli

“sani” di genitori disabili finiscono con l’essere emarginati.

La conseguenza è che nei paesi in via di sviluppo la percentuale di bam-bini disabili che completa il ciclo di istruzione primaria non supera l’1-3% del totale. L’esclusione da scuola può interessare il 15% di questi bambini in Mozambico, e toccare punte del 59% in Indonesia.

L’incapacità di tanti paesi di for-nire un qualche grado di istruzione ai bambini con handicap vede l’inter-vento crescente di organizzazioni che si battono per la tutela dei diritti umani.

Proprio di recente, Human Rights Watch (presente anche in Italia) ha espresso preoccupazione perché le Nazioni Unite e le agenzie che si oc-cupano di aiuti internazionali non stanno facendo abbastanza affinché i finanziamenti destinati a promuovere l’accesso all’istruzione coinvolgano an-che i bambini e ragazzi con disabilità.

Per esempio, secondo i dati e le informazioni in suo possesso, negli ultimi tempi in Nepal decine di migliaia di studenti disabili sono sta-ti allontanati gradualmente e definitivamente da scuola. La condizione di povertà delle fa-miglie, l’impreparazione degli insegnanti a gestire questi casi, la carenza di strutture scolasti-che e le difficoltà a raggiunger-le sono tra le cause degli allon-tanamenti, a cui si aggiungono fenomeni di emarginazione e

rifiuto da parte dei compagni e talvolta del personale scolastico.

Eppure non mancano i casi di paesi in cui si cerca di intervenire per af-frontare il problema. In Ghana, Nigeria, Zambia, Kenya, pur tra le mille diffi-coltà di strutture governative fragili, si cerca di introdurre un cambiamento adottando un modello comune, con il contributo entusiastico di formatori normodotati e disabili che si sono fatti promotori del progetto.

L’obiettivo è di superare il sistema delle poche “scuole speciali” per disa-bili, per trasformarle in centri da cui fare partire gli esperti, simili ai nostri insegnanti di sostegno, verso le scuole comuni, che a loro volta possano di-ventare ambienti inclusivi, dove l’in-tegrazione tra i bambini sia possibile.

I responsabili sono convinti che del progetto beneficeranno non solo i disabili, ma tutti i bambini, le scuo-le stesse e le comunità nel loro com-plesso. Economicamente infatti si sta mostrando vantaggioso rispetto alla situazione precedente, e i risultati che sta portando cominciano a convincere i rispettivi governi, che si sono final-mente decisi a finanziare il progetto. Anche i timori iniziali che la presenza in classe dei bambini disabili avrebbe rallentato l’apprendimento dei compa-gni si è dimostrata infondata, con piena soddisfazione di tutti. S

SCARSE PROSPETTIVE PER I DISABILI NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO

f In Africa meno del 10% dei bambini disabili frequenta la scuola primaria

f In India il 74% delle persone con disabilità fisiche è disoccupato

f Mediamente nei paesi in via di sviluppo la percentuale di bambini e ragazzi disabili che completa il primo ciclo di istruzione oscilla tra l’1 e il 3% del totale

f Le scuole speciali hanno spesso rette molto costose, ed è diffuso il pregiudizio sull’utilità dell’istruzione per persone “minorate” fisicamente o mentalmente

sinergie di scuola | gennaio 2012 15

Nell’ultimo numero del bollettino "Focus" del Programme for International Student Assessment (PISA) è argomen-tata l’importanza dell'interazione dei genitori nel successo scolastico degli studenti quindicenni oggetto delle ri-levazioni PISA 2009.

Partendo dai dati raccolti nell’ultima indagine, ci si è chiesti cosa possono fare i genitori per aiutare i figli ad af-frontare serenamente e con successo la scuola.

I genitori attenti al benessere dei figli sono certamente consapevoli di quanto sia importante spendere del tempo con loro e partecipare attivamente alla loro istruzione. Tuttavia, i ritmi frenetici e gli impegni di lavoro sottraggono momenti preziosi; inoltre, molti genitori sono re-stii a seguire personalmente i figli nello studio perché non si ritengono sufficien-temente preparati.

L'analisi dei dati PISA 2009 offre allora una buona notizia: per fare la differenza nel successo scolastico del proprio figlio non è necessaria una laurea o lunghi pomeriggi di studio e compiti insieme. Basta un po’ di impe-gno, buona volontà e sincero interesse.

Incrociando le risultanze, si è verifi-cato che gli studenti che hanno avuto genitori che gli leggevano frequente-mente delle storie da piccoli, almeno fino al primo anno della scuola ele-mentare, hanno riportato punteggi decisamente superiori ai loro coetanei i cui genitori leggevano con loro poco o nulla. Aspetto non scontato, il van-taggio ottenuto è risultato non essere influenzato in maniera decisiva dal con-testo socio-economico della famiglia.

Anche il confronto e il dialogo co-stante dei genitori con i figli all'epoca del test (quindi nel pieno dell’adole-scenza) influenza pesantemente i risul-tati nella valutazione.

Per esempio, gli studenti i cui ge-nitori discutono con loro quotidiana-mente o almeno settimanalmente di attualità, questioni politiche e socia-li, ottengono punteggi mediamente superiori di 28 punti rispetto agli altri coetanei. Gli studenti italiani in parti-colare, riportano lo scarto maggiore in assoluto: 42 punti.

Se si considera anche il contesto socio-economico familiare, gli scarti si riducono, toccando comunque il valore

significativo di 16 punti in media.I dati PISA 2009 segnalano che dan-

no vantaggi in termini di successo scola-stico anche le altre attività genitori-figli quali “discutere di libri, film o program-mi tv”, “discutere di come va la scuola”,

“pranzare o cenare tutti insieme a tavola” (in questo frangente gli studenti italiani rispetto agli altri godono di un vantag-gio legato alle nostre tradizioni culturali e familiari) e “chiacchierare un po’ ogni giorno con i propri figli”.

In conclusione: tutti i genitori, a prescindere dal loro grado di istruzio-ne, possono aiutare i figli ad esprimere al meglio il loro potenziale a scuola. È sufficiente trovare argomenti di con-versazione e leggere spesso per loro, in particolare già da quando sono molto piccoli.

Lo studio termina con un auspicio: che gli insegnanti, le scuole e i sistemi di istruzione dei paesi partecipanti a PISA 2009 sappiano individuare nuo-vi modi per supportare e sollecitare genitori, sempre troppo impegnati, a ritrovare un ruolo attivo nell'istruzione dei figli, dentro ma soprattutto fuori dalla scuola.

Quanto pesano i genitori nel successo scolastico dei figliDallo studio dei dati raccolti con PISA 2009 la conferma dell'importanza del dialogo e delle letture serali

Uno studio inglese appena pubblicato ha rilevato numeri importanti sulla diffusione di questa malattia, che colpisce individui giovani e adulti, ma di cui si sa ancora relativamente poco per la difficoltà di individuare riscontri fisiologici pre-cisi. I sintomi infatti sono spesso scambiati per “pigrizia” del soggetto; eppure si tratta a tutti gli effetti di una patologia debilitante e invalidante, classificata dall’OMS, per la quale purtroppo non esistono cure efficaci che vadano oltre il controllo dei singoli sintomi (spossatezza cronica, disturbi della memoria e della concentrazione, dolori muscolari e articolari, cefalee particolari, sonno non ristoratore).Lo studio ha seguito 2.855 studenti della scuola secondaria, dagli 11 ai 16 anni, e ha identificato 28 casi approfondendo l’analisi di 461 ragazzi e ragazze che avevano saltato ripetu-tamente le lezioni, almeno un giorno alla settimana in un

periodo di un mese e mezzo.Tra i ventotto soggetti, a cinque era già stata diagnosticata la sindrome in precedenza; gli altri ventitre sono stati iden-tificati nel corso dello studio. Di questi, 19 hanno accettato di sottoporsi a trattamento con il consenso delle famiglie.Al termine di un percorso fisioterapico e psicoterapeutico du-rato sei mesi, 12 studenti sono riusciti a riprendere le lezioni a tempo pieno; sei di loro risultavano completamente ristabiliti. Uno degli studenti affetti, che nel frattempo aveva rinunciato a seguire le lezioni per le difficoltà fisiche manifestate, ha ripreso a frequentare la scuola almeno parzialmente. I risultati ottenuti sono stati definiti incoraggianti, e dimostrano che almeno con i soggetti più giovani è possibile impostare un percorso di recupero che, seppure lungo, può restituire una vita normale alle persone affette da questa sindrome.

Un disturbo del sistema nervoso ancora poco conosciuto, che può colpire fino all’1% della popolazione

Sindrome da fatica cronica: quando lo studente non è solo pigro

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