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GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2013 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS SMALL ZINE Silvia Idili - Francesco Carone - Fondazione Henraux Musma - Luigi Pucciano - Seisud - Andrea Mineo - Ali- ghiero Boetti - Glaser/Kunz - La giovane curatela a Sud - Lucrezia Zema Magazine di arte contemporanea / Anno II N. 5 / Trimestrale free press SEBASTIANO DAMMONE SESSA

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Magazine di arte contemporanea

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SEBASTIANO DAMMONE SESSA

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TALENT TALENT

INATTESE VISIONI Fracesco Carone - Gregorio Raspa

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“Non è dato a tutti accostarsi agli estremi, sia in un senso che in un altro”. Amava esprimersi così il Conte di Lautréamont alludendo all’incapacità, diffusa

tra gli uomini, di leggere la realtà in modo alternativo, spesso improbabile. Ciò non riguarda Francesco Carone, artista ludico e visionario, che ama sorprendersi e sorprendere, guardando il mondo da prospettive inedite.La ricerca di questo giovane artista senese, infatti, nasce da una riflessione sulla natura degli oggetti, dal significato e dalla fun-zione che questi assumono nella società contemporanea. Attraverso l’utilizzo di un processo artistico che mette in discus-sione il ruolo ordinario delle cose, ed il processo d’interazione dello spettatore con l’opera d’arte, Francesco Carone elabora modalità alternative di metabolizzazione dell’universo. Nelle sue opere, il confine che separa il reale dall’esistente, e quest’ultimo dall’apparente, viene continuamente rivisto, volu-tamente alterato. Nelle immagini proposte da Carone, tutte le verità vacillano assumendo la vacua consistenza della bugia. Se le opere dell’artista senese, da un lato, ostentano un evidente debito con la lunga tradizione del ready-made e dell’objet trouvé, dall’altro, mostrano evidenti richiami concettuali alle tautolo-gie semantiche di Joseph Kosuth. È dall’intreccio di simili ed eterogenee operazioni artistiche, non sempre sovrapponibili, che nascono inattese visioni. Queste invitano l’osservatore a superare i limiti imposti dalle convenzioni, a bucare lo strato più super-ficiale del pensiero dominante. Infatti mediante insoliti espe-rimenti di rappresentazione del mondo, l’artista senese sabota la realtà mandando in frantumi le certezze acquisite. Carone fa ciò, ad esempio, svelando allo spettatore la somiglianza esistente

tra una calotta cranica e una noce di cocco, tra un Totem sacro ed una banale accumulazione di scale ridisegnando, attraverso simili azioni, la linea di demarcazione che distingue un’apparen-za da un’essenza, un significato da un simbolo. Al cospetto di tali sfide percettive, lo spettatore è indotto a cimentarsi in destabilizzanti cortocircuiti mentali destinati a ri-solversi solo attraverso la personale elaborazione cognitiva delle immagini. È così che l’opera diviene concettualmente mutevole, visibilmente instabile. Perché i lavori di Carone sfidano la “visibilità” delle cose mime-tizzandosi nel mondo, fingendosi inesistenti, casuali. Come le installazioni proposte in occasione della personale “Rendezvous des amis”, opere che insistono, nei locali del Palazzo Pubblico di Siena, come silenziosi simboli della storia che separa la nostra civiltà da quella rappresentata nei maestosi affreschi di Simone Martini. Ma è proprio il “rendezvous”, l’incontro, che fornisce la chiave di accesso al lavoro di Francesco Carone. È infatti dall’avvicinamento di realtà apparentemente estranee, dallo scambio reciproco di percezioni, dall’incidente di significati che nascono i richiami alchemici delle opere che inducono a riflettere sulla circolarità del processo creativo, sempre incline a rincorrere se stesso, e sulle sue infinite conseguenze linguistiche.

HORROR VACUI, 2010. EX3, Centro per l’arte contemporanea, Firenze,veduta della mostra. Foto: Serge Domingie. Courtesy SpazioA, Pistoia.

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È UNA COSA DELICATA QUELLA CHE HO DAVANTILETTURA DI UN’IMMAGINE - Lucrezia Zema - Serena Carbone

TALENT TALENT

Ho fatto un gioco e guardando uno scatto ho provato a rigettare nero su bianco quel che l’immagine

mi offriva. Certo, ho scelto di ritagliare quello scorcio di realtà con l’attenzione che il momento mi dava, ma tante e mol-teplici visioni sono uscite fuori. Ed ecco il rosso, il sangue, l’organico, il sintetico, il cambiamento, il lavaggio, l’obsolescen-za, la forma serpentinata, e ancora una mano, il collo, le righe, il nero e il bianco, l’acqua e... tutto scorre. Mi sposto sulle altre foto e vedo dettagli, fenomeni, trasgressioni, specchi, trucchi, tristezza, fantasia, algido distacco, sogno, speranza, solitudine di un ordine confuso. È una “cosa delicata” quella che ho davanti. Nonostante il soggetto sugge-risca forza, vigore, coraggio e struttura, finemente incesellata, c’è qualcosa oltre la quale lo sguardo si arrende alla ricerca del particolare e viene insospettito da un alone di è stato. La nostalgia di un tempo inaccessibile se non attraverso lo stesso scatto, fa pensare ad una irriverenza irreale. Ogni immagine mantiene in sé la com-piutezza dell’attimo. Senza narrazione, senza sovrastrutture critiche o letterarie. L’immagine si racconta nel momento in cui appare, e potrebbe essere ovunque, anche dietro il muro che si alza oltre le mie spalle e nella sua estraneità pare ancora più vicina, quasi intima. Si potrebbe dire sulle “cose delicate” come mani di donna sanno tramare e in-trecciare. La mestizia che lascia un alone di attesa, il gesto, il rituale nel quale c’è il riconoscimento di genere. Un rituale che viene qui tradito in nome di un’ambivalenza che nulla ha a che ve-dere con la mera trasgressione. Ricorda, piuttosto, un punto, ben custodito, più nascosto e più profondo, ciò che tutti sanno esistere ma che ben si cela allo sguardo altrui. Quel limite in cui la possibilità diviene necessità e nessuno vorrebbe essere visto, immortalato in quell’istante che si posa al nostro fianco sussurrando la sua non–esistenza. Si potrebbe trovare la certezza e il non sostenibile paragone in Julia Margaret Cameron, Francesca Woodman o Nan Goldin, ma sarebbe trovare la giustificazione a ciò che giusti-ficazione non vuole. Perché vibra nello scatto la sua impermanenza al tempo, alla moda, al gusto, all’esistenza.

Dall’alto: SANGUE O..., 2011. Fotografia. SANGUE VERSATO, 2011. Fotografia. Per entrambe courtesy dell’artista.

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L’INVOLUZIONE DI UNA STORIAAndrea Mineo - Rachele Fiorelli

INTERVIEWS

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Andrea Mineo, giovane artista in lotta con gli stereotipi e gli accademismi, è stato promotore a Palermo, presso l’Ate-lier dei Principi di Palazzo Bartolotta di San Giuseppe,

della mostra dal titolo “Macerie”. La sede rappresenta un tributo alle radici che albergano nei cittadini palermitani, ma anche la consapevolezza di uno slancio necessario verso il futuro.Un momento per indagare su cosa siano realmente le mace-rie, come esse si accumulino, depositandosi incessantemente sull’indifferenza, sul pressapochismo e sullo sbiadito ricordo di un passato orgoglioso che oggi si richiama alla memoria ma non alla coscienza. Questo il tentativo di Mineo e degli artisti chiamati all’opera, sanare le ferite architettoniche di cui la città porta ancora i segni.

Rachele Fiorelli/ Perché hai deciso di intraprendere questo progetto?

Andrea Mineo/ La generosa proposta di R. Bilotti mi ha posto davanti una doppia sfida, sottrarre un nuovo baluardo al degra-do urbano e creare un luogo di convivialità. Potevo chiudermi nelle stanze del palazzo e lavorare in solitudine, invece trovo che a Palermo sia necessario creare momenti di condivisione con altri artisti, spesso troppo pigri e disillusi per mettersi in gioco. Credo che questo progetto possa guarire la città, e i suoi inter-preti creativi, dall’autismo di cui sono affetti.

RF/ Hai a disposizione un intero piano di un palazzo nobiliare, qual è il tuo rapporto con questo spazio?

AM/ Il palazzo è la culla ideale affinché avvenga la rinascita, il grembo dove può nascere qualcosa di più importante. Da un lato legato è alla città, alle sue sorti e al suo passato, ma dall’altro è portavoce di un valore universale che lo rende unico. Il palaz-zo è il testimone dello stratificarsi del tempo e, le sue macerie, incarnano l’involuzione della storia cittadina. Ha i suoi rumori, i suoi equilibri. Non voglio violentare questo spazio, ma chiedere permesso e insediarmi dolcemente, creando un legame. Ritengo che l’immagine più significativa del mio progetto sia rappresen-tata da un’apertura, quella che a fatica l’artista riesce a realizzare

e che deve lottare per mantenere.

RF/ Qual è il tuo filo conduttore?

AM/ Uno dei temi più presenti nel mio lavo-ro è quello della meta-morfosi. Sono sempre stato affascinato non solo dal mutamento fisico delle cose, ma dal cambiamento del loro senso estetico, il mio scopo è far mutare l’identità dell’ogget-to, intervenire sulla percezione, oscillando sempre tra sentimenti positivi e negativi. Per questo le bottiglie di “plastic caves” (2010), per questo le macerie.

RF/ Che rapporto hai con le tue opere?

AM/ Ogni esperienza è totalizzante e sfiancante, talmente tanto che alla fine provo rigetto per la mia creazione. La mia performance è sempre tesa a sottolineare l’atto del costruire, atto a cui mi dedico con totale abnegazione. Nel caso di “Macerie”, il mio intento è quello di donare alla Fondazione di Palazzo Burgio e a quella di Palazzo Sant’Elia il prodotto finale del mio lavoro. Restituirò a Palermo le sue macerie, riscattandole e dimostrando che è possibile una rinascita.

RF/ In cosa consiste il progetto “Macerie”?

AM/ Questa prima edizione di “Macerie” ha visto la partecipa-zione di molti artisti che stimo, come Vincenzo Todaro, Fran-cesco Costantino, per citarne alcuni, inoltre sono onorato ed emozionato all’idea che due dei miei professori all’Accademia, Giuseppe Agnello e Giacomo Rizzo, abbiano accolto il mio invito e scelto di partecipare. Uno degli elementi più significativi è l’assenza di curatori ma la presenza di auto-curatori, gli stessi artisti che sulle pagine di una sorta di catalogo, si raccontano e raccontano la loro opera.

RF/ Prevedi uno sviluppo per il tuo progetto?

AM/ Questa edizione spero possa essere la prima di molte altre. Vorrei arrivare a relazionarmi con tutto lo spazio che ho a dispo-sizione, con altri artisti, attraverso nuove sperimentazioni.Credo che questo potrebbe diventare un progetto pilota per altre iniziative. A Palermo gli spazi non mancano, così come gli artisti che vogliono confrontarsi con questa realtà.

SENZA TITOLO (part.), 2012. Foto: Francesco Anzelmo. Atelier dei Principi, Palaz-zo Bartolotta di San Giuseppe, Palermo. Courtesy R. Bilotti per Andrea Mineo.

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INTERVIEWS

SeiSud è una mostra che ha fatto tappa in varie città

italiane e che approderà a Cosenza nel 2013. SeiSud

guarda al futuro e a nuove esperienze all’estero, perché

nel tempo si è trasformata in altro... passione, amicizia,

voglia di fare. Uno “spazio tutto” per Domenico Cordì, Sebastiano Dammone Ses-sa, Giuseppe Negro, Fabio

Nicotera, Vincenzo Paones-sa ed Ernesto Spina, i sei

artisti che ne fanno parte, e il curatore, Andrea Romoli

Barberini, intervistati in un caldo novembre calabrese...

LO SPAZIO DI SEISUD - Serena Carbone

Serena Carbone/ Chi è SeiSud?

Domenico Cordì/ SeiSud è un gruppo di sei artisti! Veniamo dal sud, una terra che ha sempre sfornato grandi artisti e grandi menti, una terra che ha sempre rifiutato i suoi figli, reclamandoli, solo dopo, su sug-gerimento. Sebastiano Dammone Sessa/ SeiSud è un gruppo di amici usciti da scuole e tempi diversi dall’Accademia di Belle Arti di Catanzaro e che, indipendentemente l’uno dall’altro, hanno deciso di fare arte rimanendo in Calabria e inevitabilmente si sono ritrovati ad operare insieme sul ter-ritorio. Giuseppe Negro/ SeiSud è un gruppo di artisti-amici, una sorta di spazio aperto ed incontaminato dove ogni sacrificio diventa colore oggetto e parola. Fabio Nicotera/ SeiSud è l’esigenza di comunicare una condizione morale con dei media tradizionali, è un mettersi in gioco, un confrontarsi continuamente con se stessi e con gli altri.

Vincenzo Paonessa/ SeiSud è un pro-getto, una proposta, una condizione. Ernesto Spina/ SeiSud è un gruppo di artisti che sta consolidando e condividen-do la propria ricerca artistica.

SC/ Cosa vi ha unito e cosa vi unisce an-cora?

DC/ Quello che ci ha fatto incontrare è soprattutto la voglia di restare in questa terra. Ci legano idee, disperazione, gioia, forza, voglia, incoscienza, coraggio, lin-guaggio personale capace di dialogare con quello di ognuno. SDS/ Ci unisce senza dubbio la passione per l’arte nonché l’impegno morale e la co-erenza che ci spinge ad abitare fisicamente i nostri studi senza tregua, il coraggio di metterci la faccia nonostante le mille diffi-coltà che il territorio presenta. Poi l’amici-zia, l’audacia... GN/ Sicuramente l’amicizia e la voglia di fare arte in un’area geografica complessa e difficile, ma ricca di storia e di stimoli

come la Calabria. Sei personalità, figli della stessa cultura che creano una sorta di labo-ratorio in cui condurre esperienze diverse confrontandosi sui risultati. FN/ Tra i tanti motivi, uno è molto impor-tante, ovvero l’esigenza di un confronto continuo tra di noi, che è ciò che ci fa tro-vare stimoli, fatto poi di altri incontri con artisti, storici, critici, collezionisti, galleri-sti. VP/ La casualità, l’arte, i giorni, le notti, i viaggi, l’amore e l’odio per il territorio! La cosa che ancora ci tiene uniti è l’amicizia, la stima reciproca, e l’idea di condividere progetti futuri. ES/ Lo scambio continuo di idee, progetti, esperienze e sperimentazioni.

SC/ Esiste un legame con la Calabria? In che modo si manifesta nei vostri lavori?

DC/ Sono un sentimentale, ahimè, amo la mia origine, ma ne detesto i mali che l’af-fliggono. Volendo fuggire dal “certe cose succedono solo qui” ragiono sugli elementi

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che mi sono più vicini. Mi affascinano gli oggetti di vecchia data, quelli che non si usano più o che mi ricordano riti passa-ti. Ho il ricordo della positività della mia infanzia, grazie ad una meravigliosa fami-glia, ho il ricordo del genuino che ancora qui in Calabria riesco a trovare. La mia terra ha un profumo, e la mano dell’uomo dovrebbe rispettarlo. SDS/ Il legame con il territorio è molto forte, non è legato all’uomo ma a quello che circonda l’uomo, i colori della natura e i suoi odori... i verdi poi mi fanno im-pazzire, cambiano continuamente e sono imparziali, non presentano imperfezioni, mi danno serenità e sicurezza. Ho grande stima per gli artigiani, sin da piccolo ho frequentato le loro botteghe, amo il legno, il suo odore e il modo in cui viene lavorato e reagisce. Un buon supporto contribuirà a fecondare un buon lavoro e le procedu-re e i passaggi devono essere eseguiti con criterio. Prima di aspirare a creare bisogna saper costruire, conoscere i tempi tecnici, i materiali. Sostengo la poesia del fare, deve darmi piacere, appagamento non solo mentale ma anche gestuale. GN/ Il legame con la Calabria è una pre-senza forte e ben radicata... gli oggetti, il paesaggio mai banale e così diverso, gli

odori, vecchie fotografie, tessuti e coperte diventano l’anima del mio lavoro, radio-grafie di una realtà scolorita che ripropon-go con una sacralità diversa, reliquie di un passato che per me non muore mai, anzi, è stimolo di vita. FN/ Il legame con la Calabria è indisso-lubile, e attraverso una ricerca meticolosa del colore, delle forme, dei materiali, tento di raccontare ed evolvere quello che mi è stato tramandato in termini di patrimonio culturale, geografico, sociale, architettoni-co, ma sopratutto di quello intimo e fami-liare. VP/ Sì, nelle prime opere che vanno dal 1995/98 il cordone ombelicale è rimasto ben saldo agli oggetti, ai materiali e ai luo-ghi che mi hanno rapito (boschi autunnali e spiagge invernali). ES/ La Calabria è la terra in cui sono nato, dove vivo, lavoro e attingo alla sua antica storia e alla natura che nell’osservare si manifesta sempre diversa e stimolante. La componente artigianale nei miei lavori è legata alle esperienze e alle collaborazioni fatte con i maestri artigiani della ceramica, degli stucchi, della pietra, che fanno parte di me.

SC/ Infine, ad Andrea Romoli Barberini,

curatore della mostra... Cos’è SeiSud?

Andrea Romoli Barberini/ SeiSud è l’esito di una ricognizione mutatasi in progetto, io vivo a Roma, ed esisteva an-che prima del mio arrivo a Catanzaro. Gli artisti si conoscevano tra di loro, ma non erano ancora una realtà accomunata da esigenze espressive e dall’appartenenza a un progetto comune. Ognuno di loro ha un suo percorso e una sua cifra stilistica, ma tutti esprimono una molteplicità di istanze tipiche del postmoderno che spaziano dal-la totale riabilitazione di quella manualità negata dall’arte concettuale, alla possibili-tà dell’appropriazione e risemantizzazione di oggetti tratti da una quotidianità dalle forti radici identitarie. Dall’alto in senso orario: Fabio Nicotera, SENZA TI-TOLO, 2009. Olio e colla vinilica su tela, 200x170 cm. Courtesy dell’artista. Ernesto Spina, AMBIENTE, 2012. 30x30 cm. Courtesy dell’artista. Vincenzo Pao-nessa, SENZA TITOLO, 2009. Carta, acrilico, glitter, marmo nero su tela, 200x300 cm. Courtesy dell’arti-sta. Nella pagina precedente, dall’alto in senso orario: Giuseppe Negro, BIANCO 2, 2012. Tecnica mista su tela, 180x286 cm. Courtesy dell’artista. Domenico Cor-dì, SENZA TITOLO, 2009. 120x120x100 cm. Courtesy dell’artista. Sebastiano Dammone Sessa, INSIEME, 2007. Carta su carta e pigmento su tavolamodulare, 330x150 cm. Courtesy dell’artista.

“Il legame con la Calabria è una presenza forte e

ben radicata... gli oggetti, il paesaggio mai banale e così diverso, gli odori, vecchie fotografie...”

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SHOWCASE SILVIA IDILI - a cura di Pasquale De Sensi

In un’epoca travagliata come quella attuale in cui tanta arte appare volta essenzialmente all’elabo-razione di nuovi codici, linguaggi e tecnologie,

la ricerca artistica di Silvia Idili rievoca la formula oraziana ut pictura poesis per esprimere con colori e forme una tensione spirituale e mistica di fronte all’in-quietudine della contemporaneità. Tutta la sua opera è ricca di stilemi di una rinnovata classicità non priva di echi provenienti dalla grande tradizione italiana da Giotto al Rinascimento, dalla Metafisica agli effetti stranianti del Realismo Magico. Le tavole dipinte della giovane artista di origine sarda si distinguono per una singolare e simbolica scenograficità data dal piano verde della terra e da quello viola scuro del cielo. In questo spazio scenico bidimensionale e atemporale, talvolta segnato dall’uso fortemente suggestivo delle ombre, l’artista pratica la sua meditazione creando sintesi compositive armoniose e al tempo stesso mi-steriose, figure umane e animali plastiche e volumetri-che, figure di solidi geometrici che rimandano a forme sacrali e archetipe. La riflessione e la pratica pittorica della Idili orbitano attorno ad una sorta di poetica dell’ “ingenuo”, fatta di una realtà semplice e ordi-naria, e attorno ad un geometrismo di sapore lirico e magico, elementi che creano profondità e unitarietà alle superfici bidimensionali del cielo e della terra, lo spazio della coscienza dove la dimensione simboli-ca del colore si coniuga ai principi di armonia e di proporzione della forma.

Rosa Maria Albino

Dall’alto: PRESA DI COSCIENZA, 2012. Olio su tavola, 20x30 cm. VISIONARIA, 2011. Olio su tavola, 20x20 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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SPECIAL LA GIOVANE CURATELA A SUDLoredana Barillaro • Luca Cofone

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Essere curatori oggi sembra uno “sta-tus” più che una professione. Prima che curatori, per quanto mi riguar-

da si è storici dell’arte o critici e curare una mostra è l’ultima fase di una ricerca, di un progetto, di una ricognizione. Se il ruolo è viziato, si rischia di diventare dei perso-naggi e di inseguire delle chimere, quando il fare arte spesso è semplicemente davan-ti ai nostri occhi. Per questo motivo il mio modo di lavorare in Calabria è tale e quale a quello che userei altrove. Quello alle-nato deve essere l’occhio, perciò bisogna

muoversi, partire per vedere, confrontarsi, parlare con gli artisti. Questa regione ha dei problemi oggettivi ma spesso i muri siamo noi i primi ad alzarli. Credo ci siano grandi potenzialità, ma le soddisfazioni ora devo dire sono più “umane” che altro... è difficile che ti venga riconosciuto un ruolo se non sei tu il primo a ritagliarti uno spazio, e battere i pugni piuttosto che usare il giusto distacco quando è necessario. La nostra è una regione che apre le porte in maniera reverenziale a chi viene da fuori spesso solo “per moda”, igno-rando le risorse del territorio. Partire o rimanere? È una domanda che mi pongo spesso e ad oggi risponderei restare, domani... non si sa.Serena Carbone

La Calabria è una terra ricca di contraddizioni, così come forse lo è il

Sud in generale. Luoghi in cui sovente anche mettersi in gioco risulta difficile, in cui lo spazio d’azione si restringe sempre di più. Abbiamo chiesto a sei curatori che operano fra la Calabria, la Puglia e la Sicilia – molti dei quali sono firme di SMALL ZINE – cosa vuol dire fare questo lavoro al Sud, quali sono le difficoltà e le soddisfa-zioni e, soprattutto, cosa sia più difficile, restare o andare altrove. Ciò che ne emerge è certo un grande entusiasmo, ma che è tale nella misura in cui diviene grinta in risposta ad un sistema di pensiero “blocca-to”, vecchio, incapace, troppo spesso, di vivere delle proprie risorse…

Non ho mai considerato questa attività un vero e proprio “lavoro”, forse per-ché mi diverte svolgerla. Certo richiede molto impegno, soprattutto in Ca-labria, dove ogni sforzo è amplificato e i sogni, il più delle volte, valgono il

doppio. La più grande difficoltà è quella di confrontarsi con un territorio che, dal punto di vista artistico, appare eccessivamente frammentato. In Calabria, infatti, esiste una distanza troppo ampia che divide collezionisti, gallerie, artisti e istituzio-ni. Ciò che manca è la capacità/volontà di fare sistema. In un tale contesto, soprat-tutto per i giovani, non sempre è facile trovare interlocutori disposti a sostenere progetti e iniziative. Per fortuna, esistono anche realtà disposte a darti credito. Nel mio personale percorso, ad esempio, devo molto al Polo Museale di Rende e alla Fondazione Rocco Guglielmo.Le più grandi soddisfazioni, invece, sono quelle legate alla realizzazione di un even-to. Mi piace raccogliere le reazioni del pubblico, scoprire la risposta emotiva della gente, ascoltare i suoi commenti. Mi appaga l’idea di stimolare il pensiero altrui e lavorare a stretto contatto con gli artisti. Penso che le soddisfazioni di questo “lavo-ro” siano le stesse in ogni luogo. È per questo che ritengo che “fuggire” altrove non serva. Certo, rimanere è un atto di coraggio che porta spesso alla frustrazione...Gregorio Raspa

Sento parlare spesso di curatori d’arte o presunti tali, che si im-provvisano nell’organizzazione di eventi in cui la presenza di manufatti dovrebbe comportare un’automatica identificazione

con l’esposizione artistica vera e propria. Sono una curatrice di arte contemporanea, ho studiato per diventarlo e mi occupo di arte vi-vendo per la maggior parte del tempo al sud. Fare questo lavoro in Calabria significa per me proporre agli altri uno stile di vita fatto anche di momenti culturali che, in molte cittadine calabresi stenta a radicarsi. È proprio questa mancanza che mi spinge a pretendere uno stile culturale di avanguardia che preveda dinamicità, apertura mentale, inventiva, curiosità e soprattutto collaborazione tra addetti ai lavori. La difficoltà maggiore che ho incontrato facendo questo la-voro è stata quella di “abituare” un pubblico poco informato a questo tipo di eventi, e “convincere” le istituzioni pubbliche della valenza di un progetto d’arte contemporanea. Dopo gli anni di formazione pas-sati fuori dalla Calabria ho deciso di lavorare come curatrice di arte contemporanea in questa regione convinta che la qualità della vita non dipenda dal luogo geografico in cui ci si trova ma dalle persone che quel luogo formano. Allora perché non pensare di poter migliorare i luoghi che ci appartengono per nascita attraverso l’arte e la cultura. Alla domanda “si parte o si rimane?”, io rispondo: rimango! Non per ciò che la Cala-bria mi sta offrendo culturalmente bensì per poter offrire a chi sceglierà di rimanere ciò che io, ora, sto cercando.Anita Natalini

SE-RENA CAR-BONE ANI-TA NA-TA-LINI GRE-GO-RIO RA-SPA

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Per quanto concerne la mia attività preferisco parlare di critica d’arte più che di curatela tout court. Il termine curatore è diventato un

po’ abusato, almeno nel linguaggio della comunica-zione dei progetti culturali. Da più parti si sente in-vece il bisogno di un approfondimento teorico che parte dallo studio della storia dell’arte per diventa-re scrittura e militanza su ciò che succede attorno a noi. E questi fattori talvolta sono un po’ tralasciati a favore di quella che si definisce “idea curatoria-le”, che spesso è propria di professionisti che ven-gono da altri studi. In ogni caso per monitorare la situazione dell’arte contemporanea dalla Puglia è periodo abbastanza favorevole, visto il fermento che stanno investendo alcune aree, in particolare quelle baresi e salentine, nonostante le ataviche problematiche proprie di una periferia. La Puglia rimane una terra da cui partire, almeno durante il periodo della formazione, per poi tornare, giacché gli ambienti universitari offrono poche opportunità

concrete di crescita nell’ambito del contemporaneo stretto. Ma sarei più propenso ad un pendolarismo, che tra l’altro è praticato spesso anche da alcuni artisti. Personalmente non riuscirei mai ad allontanarmi per periodi lunghi da quest’area, dove le difficoltà sono tante, ma d’altra parte è difficile anche altrove, dove la “concorrenza” è maggiore. Le soddisfazioni del nostro lavoro sono quelle dovute a un impegno militante, che prima o poi ripaga delle energie profuse, meglio se condivise con altri operatori. Lorenzo Madaro

SMALL ZINEMagazine di arte contemporanea

Iscrizione R.O.C. n. 21467 del 30/08/2011

Legge 62/2001 art. 16

Direttore Responsabile: Loredana Barillaro

Redazione e Grafica: Luca Cofone

Stampa: Studio Grafico Bizarre Creations, Acri (Cs)

Redazione: Via della Repubblica, 119 87041 Acri (Cs)

Editore: BOX ART & CO. Associazione Culturale

Contatti e info: 3393000574 / 3384452930

[email protected] www.smallzine.info

Hanno collaborato:Serena Carbone, Gregorio Raspa,

Pasquale De Sensi, Rachele Fiorelli, Lorenzo Madaro,

Costantino Paolicchi

© 2012/2013 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione,

anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione

dell’Editore.

In copertina:Sebastiano Dammone Sessa,

INSIEME, 2007, (part.). Carta su carta e pigmento su tavolamodulare,

330x150 cm. Courtesy dell’artista.

Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quel-

le della direzione della rivista.

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“Centro e periferia”, tema caro alla storia dell’arte e oggi interessante punto di riflessione anche nella pratica curatoriale. La Puglia e il Salento

sono distanti dai centri di mercato e di produzione con-temporanea eppure in questa fase storica sono percepiti come laboratori attivi d’idee e di artisti dell’ultima ge-nerazione, figli di un tempo che vede ancora una volta questa regione luogo di incontro, d’intreccio di culture. Un’energia che si avverte latente ma che si disperde in una frammentazione d’interventi e di iniziative e trova una difficoltà oggettiva nell’incanalarsi in una coerente politica culturale. Si rimane a “fare e curare arte al sud” a volte perché si è costretti, ma la costrizione non esclude la consapevolezza che le differenze non sono solo un limite, soprattutto se intese come capacità di creare e ipotizzare una prospettiva diversa e una proposizione di progetti a “basso impatto”. Tra le difficoltà maggiori come curatore c’è quella di lavorare in una terra non completamente affrancata da logiche “colonialistiche” e quella di esportare e proporre i propri artisti oltre confine. Marinilde Giannandrea

MARI-NILDE GIAN-NAN-DREA

LO-RENZO

MA-DARO

RA-CHELE

FIO-RELLI

Il panorama siciliano è frastagliato, in ogni pli-ca artistica si annidano linguaggi che il cura-tore deve sapere interpretare, compiendo un

meticoloso lavoro di traduzione, di ascolto e rein-terpretazione.La difficoltà ad avvalersi di spazi decorosi, la spie-tata concorrenza, l’inedia dilagante e la mancanza di fondi, rendono arduo il compito dei curatori che tuttavia fanno di necessità virtù e se non van-no via non è certo perché manca il coraggio, ma perché è molto più coraggioso restare e lottare.Palermo negli ultimi mesi ha intrapreso piccoli, tentennanti passi.Il coraggio di alcuni curatori e galleristi l’ha porta-ta ad essere scelta per rappresentare l’Italia alla biennale di Shangai. L’apertura del tanto atte-so ZAC e l’ampliamento della galleria Pantaleone sono segni importanti nei quali deve essere letto l’orgoglio di una città e il suo cercare di non abbassare la testa, ancora una volta.Una coccarda da indossare con fierezza è anche quella dell’Osservatorio dell’Outsider Art di-retto dalla Professoressa Eva di Stefano, associazione no profit riconosciuta a livello europeo, capace di sdoganare il mondo dell’outsider art e i suoi artisti attraverso pubblicazioni, confe-renze e mostre, non ultima “Banditi dell’Arte” allestita presso la Halle Saint Pierre di Parigi. Contaminarsi per contaminare, lavorare e non fermarsi. In una parola: rimanere.Rachele Fiorelli

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PEOPLEART

LA DELIZIOSA DISSONANZA DELLA TECNICA

Luigi Pucciano

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Vivo per mia fortuna e a mio discapito una vita policentrica, sono a casa da molte parti, trovo pace dappertutto, non mi sento mai a casa.

Ho iniziato questo viaggio immaginario un bel po’ di tempo fa, prima per studiare, poi per lavoro. Ho fatto conoscenza con la poesia, l’arte e i pomeriggi freddi, e da allora non ho più smesso. Chi mi conosce bene potrebbe definirmi irrequieto, anche solo sbadato e superficia-le. In realtà mi sento europeo e in quanto tale vivo questa condizione multiculturale in modo pieno. Certo ho i piedi dove sono nato e più che tornare in Calabria, ne faccio una delle tappe di questo errare. Più che errante, forse sono cacciatore, avido di bellezza e di emozio-ni. Le trovo nei posti e nei momenti più inaspettati, in una galleria in centro città, tra vicoli che hanno perso la loro occasione, davanti alle casupole abbandonate, seduto su una cima a guardare l’arco del mare, tra un albero e un altro. Uso e abuso di arte per puro ritorno personale. Ho bisogno di bellezza, silenzio e poesia, prima che di caffè e di pasta asciutta.Un’esperienza cui non si può associare un prezzo, di cui non si può fare marketing perché non ha valore, anzi ha troppo valore per mercificarla e renderla fenomeno mediatico. Per me è un fatto intimo ma necessario per maturare una sensibilità nuova, inconsapevolmente già presente e forse persa. La deliziosa dissonanza della tecnica, gli strumenti consumati e sgualciti dalla sapienza e dalla pazienza del tempo lungo trame, orditi, superfici. Il tempo che modella e matura, sceglie e discerne, offre e toglie.Non molto tempo fa sono rimasto affascinato da Janpeter Muilwijk. Un artista che non conoscevo e che mi ha rapito per un pomeriggio intero. Grandi opere con pochi e tenui colori dove il tratto fa da padrone. Tessiture ossessive e calme, occhi grandi sgranati e dolci, pace e silenzio, poesia e bellezza. Vitigni ricchi di uve vermiglie, ceste piene, tanta luce. Sono solo disegni ma per me sono evocativi di un momento felice: tra il borbottio dei mercanti, mi sono perso in questi visi pacati e gioiosi.Anche la semplicità elaborata dei ritmi di Cevdet Erek: materiali es-senziali, segni grafici su un legno di conifera, da cui emana una com-piutezza fatta di note, architetture, spazi, di nuovo silenzi appaganti.

Del panorama meridionale conosco poco, ma grazie a queste pagine mi sono avvicinato a un mondo efferve-scente ma poco conosciuto. Se è vero che viviamo in

una società liquida, allora sono liquidi anche i rapporti geogra-fici e, in un tempo veloce, contemporaneo, globale, gli equilibri tra grandi metropoli e piccole regioni e paesi trovano nuove definizioni. Sono convinto che un territorio sia l’espressione di un equilibrio tra le parti: ogni centro ha un suo ruolo e una sua dimensione ma solo la connessione tra questi centri dà il vero significato alla loro esistenza. Storicamente città e campagna, oggi forse, città e borghi.I luoghi definiti marginali hanno una loro potenzialità non ancora sfruttata, nel tempo globale tutto è vicino, anzi tutto è locale perché ci coinvolge in maniera particolare, fa suonare quella corda toccata da esperienze simili. Cito ad esempio il museo dell’innocenza di Ohran Pamuk, in cui sono raccolte storie minori, collezioni particolari: un gabinetto di curiosità quotidiane che ha una forza evocativa senza precedenti. Una casa in mezzo ad un quartiere diroccato e affascinante, oasi di pensiero, pulsante di storia e di racconti, di vite e di esperien-ze. Esperienze e racconti mediterranei, sfumature orientali ma colori decisamente familiari. I luoghi definiti marginali si riprendono il loro posto nella geografia culturale. Nascono collegamenti, le antiche reti acquistano un nuovo significato. Siamo migliaia di isole che stanno imparando a ritrovarsi di nuovo sulle rive di questo mare di mezzo. Elevare la comuni-cazione a suggestione, la didascalia a suggerimento e invito alla riflessione. Diventare semplici, testimonianze di una realtà profonda, e prepararsi all’ascolto dell’incanto.

In alto: HOOP, 2009. Fotografia di Luigi Pucciano. A sinistra Luigi Pucciano fotografato da se stesso.

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PROTAGONISTI STORIE MODERNE Fondazione Henraux - Costantino Paolicchi

L’Henraux SpA di Querceta, che ha quasi due secoli di storia, ha sempre svolto un ruolo determinante nell’imprenditoria

apuo-versiliese ed italiana quale azienda leader del settore lapideo. La Società vanta una lunga e solida tradizione di mestiere, con importanti opere realizzate in ogni parte del mondo, con una forte attenzione riservata all’innovazione tecno-logica, alla formazione, alla valorizzazione dei propri marmi. Viene riconosciuta alla Henraux una centralità anche in ambito culturale e arti-stico per aver dato vita nei primi anni Sessanta del Novecento, con il suo Amministratore Unico Erminio Cidonio, ad uno straordinario cenacolo di maestri di fama internazionale allo scopo di rilanciare l’utilizzo del marmo nel campo della scultura, dell’architettura e del design, e per cre-are un museo Henraux della scultura contempo-ranea. Henry Moore aveva iniziato una feconda collabo-razione nel 1956, presto seguito da altri artisti di primo piano in quel tempo, da Mirò ad Adam, da Arp a Noguchi, da Vantongerloo a Penalba, da Gilioli a Poncet: per tutti gli anni Sessanta l’Hen-raux gestì un atelier di grande notorietà a livello mondiale. Quello straordinario patrimonio di storia, di cultura, di tradizione, doveva essere salvaguardato e valorizzato, do-veva essere rimesso in circolo quale linfa vitale dell’azien-da e dell’intera comunità.Il progetto che era stato interrotto nel 1972 con l’uscita di Cidonio dalla Henraux, conservava – a giudizio di Paolo Carli, Presidente della Società dal 2003 – una sua sostan-ziale validità, poteva essere riconsiderato e sviluppato con criteri moderni e con nuovi orientamenti artistici e cultu-rali. Del resto Paolo Carli è convinto che le aziende italiane, che rappresentano l’eccellenza del made in Italy devono oggi essere impegnate nel campo della cultura, promuo-vendo, sostenendo e organizzando attività ed eventi cultu-rali, quale valore aggiunto da spendere nell’odierna diffici-le competizione dei mercati globalizzati. Così ha preso vita la Fondazione Henraux, costituita nell’aprile 2011, ma già dal 2007 l’atelier di scultura è divenuto una realtà operante e che va assumendo rapida-mente un carattere internazionale con concrete prospetti-ve di collaborazioni e di importanti frequentazioni da par-te di molti maestri contemporanei. Tony Cragg, Giovanni Manganelli, Renzo Maggi, Giovanni Balderi sono solo al-cuni degli scultori che frequentano oggi il rinnovato atelier della Henraux.Il rapporto della Società Henraux con il mondo dell’arte, e della scultura in particolare, risale alla prima metà dell’Ot-tocento. L’azienda era impegnata nell’escavazione e nella lavorazione dei marmi pregiati estratti dal Monte Altissi-mo, di sua proprietà: la montagna dove Michelangelo nel 1516 aveva scoperto ricchi giacimenti di marmo statuario. Proprio la straordinaria qualità e bellezza dello statuario del Monte Altissimo indusse molti scultori a preferirlo a quello di Carrara. Tra questi Hiram Powers di Cincinnati, vissuto per oltre trent’anni a Firenze dove morì nel 1873, che valorizzò i marmi di Seravezza e li fece apprezzare ne-gli Stati Uniti. Con lo stesso marmo Gaetano Grazzini scolpì il busto del Granduca di Toscana Ferdinando III. Nell’archivio Henraux si conservano lettere di apprezzamento, per i materiali forniti dall’azienda, da parte di celebri scultori dell’epoca, come Giacomo Spalla, scultore in Torino, come il fiorentino Lorenzo Bartolini, H. Grenough di Boston, l’inglese K.I. Wyatt dimorante in Roma.

Dall’alto: Fabio Viale, ARRIVEDERCI E GRAZIE, 2012. Alex Bombardieri, SAMARA, 2012. Nella pagina successiva dall’alto: Mattia Bosco, BUE TRACTOR, 2012. Per tut-te, foto Veronica Gaido. Jean Arp e Giuseppe Marchiori in Henraux davanti a PAESA-GE BUCOLIQUE. Foto Bessi, Carrara. Courtesy Fondazione Henraux.

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La Società si interessò, in più modi, di introdurre la statua-ria nel comprensorio versiliese, favorendo la costituzione di una Scuola d’Arte a Seravezza che funzionò dal 1860 al

1919 e consentì la formazione di molti valenti scultori e artigiani. L’Henraux ha legato il suo nome a grandi opere architettoniche in tutto il mondo a partire dalla metà dell’Ottocento: la cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo, il Teatro dell’Opera di Parigi, il pa-lazzo del Kedivè d’Egitto; nel secondo dopoguerra l’azienda è stata impegnata per molti anni nella ricostruzione di Montecassino, e nella realizzazione dei gruppi scultorei, opera di Leone Tommasi, destinati al grandioso mausoleo di Evita Peron in Argentina. Negli ultimi decenni ha fornito marmi, pietre e graniti, elementi archi-tettonici anche molto complessi eseguiti in azienda con tecnologie d’avanguardia, per la costruzione di grattacieli, edifici pubblici e privati, complessi residenziali e commerciali, moschee e altri luo-ghi di culto in ogni parte del mondo. “Puntiamo a un deciso rilan-cio della scultura e della lavorazione artistica del marmo – dichiara il presidente Paolo Carli – e le prestigiose collaborazioni che ab-biamo attivato vanno proprio in questa direzione che, del resto, rappresenta il principale obbiettivo della Fondazione impegnata nella valorizzazione del proprio patrimonio storico, artistico e pro-duttivo”. Molte iniziative sono state promosse e organizzate dalla Fondazione nel corso del 2011 e 2012: dalla mostra “Volarearte” presso l’aeroporto Galilei di Pisa dedicata a Giovanni Manganelli, alla mostra dello scultore e pittore Rinaldo Bigi presso l’istituto Italiano di Cultura a Londra, dalla creazione della collana “I ma-estri dell’Henraux” alla istituzione del Premio Internazionale di Scultura Henraux, dedicato a Erminio Cidonio, che ha visto pre-miati nel mese di luglio del 2012, da una prestigiosa giuria pre-sieduta da Philippe Daverio, tre giovani talenti - Fabio Viale, Alex Bombardieri e Mattia Bosco - le cui opere sono state interamente realizzate nell’atelier di Querceta. L’Henraux ha partecipato a no-vembre alla Manifestazione “Florence 2012”, allestendo in piazza Santa Croce a Firenze la monumentale installazione dello scultore Mimmo Paladino.

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REMIND ERA IL TEMPO DI ALIGHIERO E BOETTI- Serena Carbone

Scrivere di Alighiero Boetti in poche righe non è semplice. Condensare la vita, le opere, le scelte di Alighiero e Boetti diventa ancora più complesso. Ma proveremo quanto meno

a indicare un senso al suo Tutto, dal momento che l’artista è uno dei protagonisti della mostra “Pop Art a Torino?!”, inaugurata al MACA di Acri (CS) a dicembre. Circola in rete un’intervista rilasciata ad Antonia Mulas nel 1984... seduto su una sedia, sigaretta in mano, voce calda, paca-ta, sicura, Alighiero parla del suo Tempo, ovvero quello scorrere inarrestabile dei giorni che rende un concetto giusto “ancora più bello, e più passa il tempo e più è bello”. Alighiero nasce a Torino nel 1940, la sua prima personale si tiene nella sua città presso la Galleria di Christian Stein nel 1967. Aderisce all’Arte Povera l’anno dopo, ma sarà anche uno dei primi a distaccarsene; utilizza da allora materiali come il legno, sassi, corde, cartone, alluminio. Nel 1972 si trasferisce a Roma, nel 1973 diviene Alighiero e Boetti. L’uno e il molteplice, l’ordine e il disordine, la serialità e la ripro-ducibilità dell’opera d’arte, divengono i fili con i quali tesse la sua ricerca, come le Parche con il loro filo che al solo Tempo rendono giustizia. Nel 1971 si reca per la prima volta in Afghanistan, dando inizio a quel legame che si concretizzerà nei grandi tappeti tessuti a mano dalle donne di quella lontana terra. Lui l’idea, gli altri l’azione. Perché i suoi lavori esigono molto tempo per essere realizzati e Alighiero non può fermare il tempo della sua mente. Nascono così le Mappe, i monocromi biro, le opere ricamate su stoffa, la serie del Tutto, che si compongono come puzzle includendo figure di rotocalchi, oggetti da scrivania e sagome di animali, e poi ancora i lavori postali e gli esercizi a matita su carta quadrettata, dove le sue due grandi passioni, la musica e

la matematica, segnano il ritmo del caos. Alighiero e Boetti partecipano a Contemporanea a Roma nel 1973, a diverse edizioni della Biennale di Venezia, a Documenta di Kassel, solo per citare alcuni momenti della carriera. Alighiero amava le mappe e le bandiere, perché dotate di un fascino riconoscibile a tutti, e amava i fiumi, perché un po’ metafora della vita. I fiumi hanno segnato l’inizio delle civiltà e scorrono su e giù per i continenti. E sulla scia delle sue parole... i fiumi si possono percor-rere sia controcorrente che secondo corrente. Se si va controcorrente non solo il percorso è più faticoso, ma ad un certo punto necessariamente ci si trova a dover scegliere tra due direzioni, da una parte l’affluente, dall’altra il principale. Se, invece, li si percorre secondo corrente tutto sarà più facile, perché la scelta sarà automatica, senza sforzo si arriverà alla foce, sempre seguendo la strada principale, quella che porta al mare. Ma aggiungiamo noi, che gusto ci sarebbe?

Dall’alto: SENTIERI DI PENSIERI, ricamo su tela, cm. 41x39,5cm. A COME ALIGHIERO B COME BOETTI, 1988, ricamo su tela, cm.24x20. Per entrambe courtesy MACA, Acri(Cs).

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UN MUSEO A SUD DEL SISTEMA DELL’ARTE Il MUSMA di Matera - Lorenzo Madaro

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SPAZI

Girovaghi tra i Sassi e a un certo pun-to ti ritrovi dinanzi a una visione seducente: il paesaggio rupestre,

crudo e immobile, che ti toglie il fiato. Percorri un lungo belvedere, nei dintorni si scorgono le chiese rupestri dove ogni anno si celebrano i grandi maestri della scultura contemporanea, e dopo aver per-corso poche centinaia di metri puoi notare l’altero Palazzo Pomarici, sede del Museo della Scultura Contemporanea, il MU-SMA. Nato nel 2006 come logica prose-cuzione di una lunga frequentazione della città con la scultura contemporanea, grazie all’operatività di diversi protagonisti delle vicende culturali materane degli ultimi cinquant’anni, anzitutto La Scaletta, è tra i musei più dinamici di AMACI. All’esterno la facciata cela l’intrico di stanze e anfratti

che contrassegnano il percorso, che si di-stingue anzitutto per la particolarità della maggior parte degli spazi espositivi: vere e proprie grotte scavate nella roccia, dove le sculture trovano il loro naturale habi-tat, a contatto con la materia primigenia. Dai classici della scultura dell’Ottocento ai giovani e affermati interpreti di quel genere che, per dirla con Achille Bonito Oliva, “vuole essere perdonato”, per quel suo carattere “ingombrante”. Ma al MU-SMA, chissà perché, le cose cambiano, e il percorso espositivo – incentrato per nu-clei, attraverso un ordine che spesso non rispetta volutamente le cronologie per dar voce alle assonanze e ai “rapporti” tra le di-verse opere – si traduce essenzialmente in una scoperta sinestetica. Le forme del con-tenitore non invadono la sfera percettiva

delle opere, ma sollecitano letture inedite dei contenuti, anche quelli celati. Nelle in-tenzioni del direttore del museo, lo storico dell’arte Giuseppe Appella, c’è la volontà di scandagliare fino in fondo l’universo della scultura e tutte le sue declinazioni: dal di-segno preparatorio all’opera calcografica. Da Kengiro Azuma, artista affezionatissi-mo al Musma e a Matera, a Carla Accardi, Libero Andreotti e ai fratelli Mirko e Dino Basaldella. Da Aldo Calò, Lucio Del Pezzo, Pietro Consagra e Lucio Fontana, a Eliseo Mattiacci, Adrian Tranquilli e Luigi Onta-ni. Impossibile citare le numerose presen-ze che contrassegnano la ricca collezione, tirata su senza un fondo acquisti, ma at-traverso una lunga e silenziosa politica di acquisizioni mirate, che hanno coinvolto collezionisti lungimiranti, eredi sensibili e

artisti generosi che hanno capito subito la qualità del progetto di Appella e del-la Fondazione Zètema di Matera: l’idea di concepire un museo a sud del sistema dell’arte. Nonostante le solite difficoltà dovute alla mancanza di finanziamenti pubblici adeguati e a sponsor privati di-namici, il Musma è vivo e vegeto. Al giro di boa dei primi sette anni di attività, la collezione sta crescendo e le attività espositive pure, anche grazie a un team dinamico che gestisce biglietteria, comu-nicazione e attività didattiche. Dopo il “Periplo della scultura italiana contem-poranea” che si è concluso a novembre, il museo per il 2013 ha in calendario diver-si appuntamenti: da una mostra dedicata al centenario di Lacerba ad un’antologi-ca di Carla Accardi, che alle sculture e ai disegni affiancherà, come spesso accade per le mostre del MUSMA, un’appendice documentaria. Questo, fino alla secon-da metà di aprile, quando sarà inaugu-rata una mostra corale sul Gruppo ’63. L’estate si caratterizzerà per le mostre sulla scultura di Carlo Mattioli e sulle maquettes di Giuseppe Uncini, mentre non è ancora stato comunicato il nome dell’artista a cui sarà dedicata la mostra annuale. Come si evince da questo bre-ve excursus sulla programmazione del primo semestre 2013, il museo matera-no ha attenzioni ampie, che avvalorano la volontà di indagare a fondo l’universo scultura, anche da prospettive apparen-temente divergenti. Ma il Musma è an-che sede della Biblioteca Vanni Schei-willer che con i suoi cinquemila volumi, donati dalla moglie dell’editore, accoglie le rare edizioni del raffinato collezionista milanese. Mentre nel vicino bookshop sono disponibili i numerosi cataloghi pubblicati in questi anni dalle Edizioni della Cometa, oltre a un’attenta selezione di grafiche degli autori legati al museo.

Dall’alto: Ipogeo dedicato a Leoncillo e terzo cortile del MUSMA. Per entrambe, foto: Mariella Larato, courtesy MUSMA, Matera.

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SHOW REVIEWS

TESTE PARLANTI PER TESTE PENSANTIGlaser/Kunz - MARCA, Catanzaro - Gregorio Raspa

Curiosità, sorpresa, smarri-mento ed infine un senso di velata malinconia. Ecco

ciò che si prova al cospetto delle opere di Glaser/Kunz. Il duo sviz-zero, formato da Daniel Glaser e Magdalena Kunz, realizza singola-ri “sculture cinematografiche” de-finite dagli stessi artisti, “Talking Heads”. Si tratta di statue dal vol-to animato, reso tale grazie all’uti-lizzo di una proiezione video che riproduce, su dei calchi in gesso, mimiche facciali che sorprendono per il loro realismo. Le sculture di Glaser/Kunz, proposte sempre in gruppo, dialogano tra loro produ-cendo discorsi sconnessi e super-ficiali, inerenti argomenti futili, costruiti secondo uno schema che rifiuta il linguaggio consequenziale. Una tecnica, questa, mutuata dal teatro dell’assurdo, che fa emergere il nonsenso delle cose e, in maniera più ampia, quello della vita. I personaggi di Glaser/Kunz, uomini in attesa di redenzione o comuni individui rassegnati ad un amaro destino, ricordano quelli inventati da Beckett per il suo Aspettando Godot, mettendo in scena conversazioni che induco-no a riflettere sulle inutili attese della vita, sugli infiniti interro-gativi che affollano il breve ed involontario passaggio dell’uomo sulla Terra. Tutto ciò è “contenuto” anche nelle quattro installa-zioni della mostra “Talking Heads” allestita al MARCA. Qui, nel cortile del museo, il duo svizzero ha parcheggiato la coupé rossa dell’opera Autoportrait che contiene due teste parlanti realizzate replicando il volto degli stessi artisti. Ai visitatori è data l’opportu-

nità di ascoltare il serrato dialogo dei due personaggi che comuni-cano fra loro attraverso una suc-cessione di domande, senza mai risolvere gli interrogativi posti. Fanno ciò parlando di arte, cine-ma, teatro, quotidianità, intrec-ciando fra loro argomenti che, paradossalmente, raccontano di un’incomunicabilità di fondo che rende ciascun protagonista dell’opera “sordo” alle parole dell’altro. Simili dialoghi “muti” vengono messi in scena anche in due installazioni collocate dai curatori della mostra, Alberto Fiz e Francesco Poli, tra le opere della collezione permanente del museo. Si tratta di homeless che discutono, tra i loro stracci, della

vita e del mondo, ripercorrendo, con le parole, i passaggi un’esi-stenza vuota. I loro interrogativi esistenziali spingono lo spetta-tore a percepire parte di un dramma che rimane tuttavia incom-prensibile nella sua totalità. Perché le opere di Glaser/Kunz non concedono coordinate spaziali o temporali. Tutto avviene in una dimensione indeterminata, come nella monumentale installazio-ne collocata al piano inferiore del museo, dove neanche il costante vociare delle sculture distrae dalla miseria del destino umano.

AUTOPORTRAIT, 2007. Scultura cinematografica, due talking heads, coperte, proiettore, lettore video, amplificatore, altoparlanti, automobile coupé, loop 20’, 397x157x118 cm. Courtesy MARCA, Catanzaro.

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ART IN PROGRESS. CANTIERI DEL CONTEMPORANEO

Il progetto Art in progress. Cantieri del contemporaneo, presentato in partenariato dalla Provincia di Cosenza, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici

della Calabria e il Comune di Marano Principato (CS), intende creare un laboratorio/can-tiere di arte contemporanea permanente, che costituisca lo spazio di un dialogo e di un

confronto tra il patrimonio culturale calabrese e le arti visive contemporanee, in tutte le declinazioni possibili. Occasione di crescita per il territorio, dal confronto intende generare

eventi che proiettino la Calabria in un ambito sovraregionale e sovranazionale, portan-do esperienze realizzate sul territorio al di fuori dei confini e viceversa, facendo interagire

esperienze ‘altre’ con la realtà culturale e le istituzioni museali presenti nella Regione.Poli di eccellenza e teatro degli eventi principali sono la Galleria d’Arte Provinciale di San-

ta Chiara e la Galleria Nazionale di Cosenza.

Programma Operativo Regionale FESR 2007/2013 Asse V Obiettivo specifico 5.2, Obiettivo Operativo 5.2.2, Linea d’intervento 5.2.2.4

Per info e per consultare il programma completo vai su www.artinprogress.it