social media e comunicazione aziendale: cambia il contesto, cambiano le metriche
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L’avvento e la diffusione dei social media ha sconvolto non solo il concetto stesso di internet maanche il modo di progettare e misurare le attività di comunicazione. Nel presente documentosi affronta questo tema partendo però da un interrogativo molto interessante e che ha diretteimplicazioni sull’argomento: internet è da considerarsi semplicemente un media, nella accezionedi strumento da utilizzare per attività di comunicazione aziendale, o è qualcosa di più? L’autore,come molti altri operatori del settore oggi, propende nettamente per la seconda ipotesi, e questoha delle conseguenze dirette sul tema della comunicazione aziendale affrontata nella secondaparte del documento.TRANSCRIPT
MARKET REVOLUTION BUSINESS INSIGHT
SOCIAL MEDIA E COMUNICAZIONE AZIENDALE: CAMBIA IL CONTESTO, CAMBIANO LE METRICHEL’evoluzione delle metodologie di ricerca
Stefano Russo
2 MARKET REVOLUTION - Social media e comunicazione aziendale: cambia il contesto, cambiano le metriche
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Internet è uno spazio sociale: ha
ancora senso paragonarlo ai media
tradizionali?
Internet è veramente un media? Forse no,
o meglio è diventato molto più. Ragionando
sulla sua evoluzione si ha l’impressione che
internet si stia costituendo sempre più come
uno spazio pubblico che, oltre a consentire
quelle attività tipiche dai media tradizionali
(fruizione di contenuti, approfondimento, etc.),
permette di soddisfare i bisogni di socialità
e di intrattenimento degli utenti; come un
centro commerciale, un luogo di ritrovo
dove è possibile fare la spesa, comprare un
biglietto aereo, parlare con degli amici, vedere
una partita in un pub, acquistare musica.
A differenza di quello che accade, infatti,
negli altri media, la fruizione di contenuti
broadcast – e quindi la componente di
advertising – è, se non marginale, quanto
L’avvento e la diffusione dei social media ha sconvolto non solo il concetto stesso di internet ma
anche il modo di progettare e misurare le attività di comunicazione. Nel presente documento
si affronta questo tema partendo però da un interrogativo molto interessante e che ha dirette
implicazioni sull’argomento: internet è da considerarsi semplicemente un media, nella accezione
di strumento da utilizzare per attività di comunicazione aziendale, o è qualcosa di più? L’autore,
come molti altri operatori del settore oggi, propende nettamente per la seconda ipotesi, e questo
ha delle conseguenze dirette sul tema della comunicazione aziendale affrontata nella seconda
parte del documento.
meno minoritaria.
Questo processo ha avuto un’accelerazione
fortissima con la diffusione, ormai più che
consolidata, dei social media che consentono
di replicare online (quasi) tutte le attività, gli
scambi, le relazioni che si realizzano nella vita
reale.
Se assumiamo come vera questa differenza
concettuale tra internet e gli altri media, una
diretta conseguenza sarà che le tecniche di
progettazione, realizzazione e misurazione
delle attività di comunicazione, che devono
necessariamente considerare internet,
devono essere ripensate rispetto a quelle
che consideravano solamente i media
tradizionali. Partiamo quindi col definire
meglio le differenze tra internet e gli altri
media per poi andare ad approfondire il nostro
tema centrale.
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Tre motivi per cui non confondere
internet con gli altri mezzi
Le differenze tra internet e i media tradizionali
sono tante e molto profonde. A titolo
esemplificativo ne elenchiamo tre rilevanti:
a) Modello di business – i media tradizionali
funzionano generalmente per aggregazione.
Produco un giornale o un palinsesto televisivo
e provo a proporlo al maggior numero di
persone. In questo modo potrò vendere degli
spazi agli inserzionisti che saranno contenti
di raggiungere tanti potenziali consumatori.
Anche i canali tematici funzionano solo
se inseriti in bouquet o piattaforme che
ne contengono molti altri. Su internet, il
raggiungimento di una massa critica di
consumatori-utenti è importante ma non è
una condizione necessaria. Ci sono business
che lavorano secondo logica della long
tail: non avendo limiti e barriere fisiche,
posso lavorare e vendere con profitto beni
o servizi tradizionalmente considerati di
nicchia. Google, uno dei casi più emblematici
di azienda che genera profitto sul web, ha un
modello fortemente orientato alla long tail.
Circa il 45% del suo fatturato nel 2007 era
generato da clienti che spendevano meno
di 20.000 euro l’anno. La stessa logica si
applica a business rivolti a consumatori e
non a imprese inserzioniste: vendita di beni
come abbigliamento, editoria, elettronica di
consumo, o ancora servizi come viaggi, corsi
on line, telefonia.
b) Bisogni soddisfatti – mezzi classici
soddisfano il bisogno d’informazione e
intrattenimento per quanto riguarda i
consumatori, mentre consentono agli
inserzionisti di costruire e mantenere
l’awareness dei propri brand. Su internet gli
utenti non cercano soltanto contenuti video o
news; fanno anche molte altre cose: chattano,
telefonano, vendono e acquistano, confrontano
le offerte, fanno la spesa, giocano… allo stesso
modo per le aziende il primo obiettivo
non è alimentare la propria notorietà ma
generare l’azione dei consumatori, portarli
sul proprio sito e interagire con loro
(almeno è quello che sarebbe giusto fare).
c) Modalità di interazione - questa è forse
la differenza più evidente. I media tradizionali
sono unidirezionali. L’emittente produce dei
segni (audio, video o scrittura) il destinatario
riceve e può al massimo scegliere cosa fare
del prodotto che riceve (alzare o abbassare
il volume, acquistare un film o una partita da
un catalogo ppv), può anche scrivere una
lettera a un giornale o telefonare in diretta a
una radio, ma si tratta di forme d’interazione
molto povere. Su Internet il rapporto tra
emittente e destinatario è realmente
bidirezionale. L’emittente (di qualunque
tipologia esso sia) ha semmai il problema
di bloccare il flusso di feedback, non certo
di alimentarlo. Non solo, le piattaforme di
User Generated Content (UCG) o i blog sono
esempi, ormai più che consolidati, di creazione
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e diffusione di contenuti dal basso. I rapporti
determinati dai media tradizionali sono
quindi capovolti: in questi contesti digitali
l’utente da semplice destinatario diventa
emittente.
Considerare il web alla stregua di un media
tradizionale ci conduce, quindi, ad aspettative
sbagliate. Un comune errore di valutazione,
è che in Italia internet sia in ritardo rispetto
ad altri paesi, in termini di diffusione e di
strumento di comunicazione aziendale,
per colpa del peso degli altri media, ed in
particolare della tv. Se internet fosse solo un
mezzo come gli altri sarebbe così; ma se è
vera la premessa secondo la quale internet è
molto di più, la questione del web è in primo
luogo un problema del Paese in termini di
infrastrutture, investimenti sulla banda larga,
divario tra nord e sud, cultura della legalità (e-
commerce) ed allo stesso tempo un problema
delle aziende per quanto riguarda ricambio
generazionale, nuove professionalità
da formare e quindi creazione di un
approccio aziendale complessivamente
adatto al nuovo scenario determinato
web.
Come vedremo più avanti non ha neanche
senso misurare gli investimenti in
comunicazione su internet considerando le
metriche quantitative (spazi, euro, secondi)
che andavano benissimo (e rimangono
tuttora indispensabili) per gli altri mezzi.
Per un’azienda comunicare su internet
vuol dire fare vivere il proprio brand in
un “non luogo” più simile ad un centro
commerciale che alla televisione. Come
succede nella vita reale, è impossibile non
comunicare. Il fatto stesso di avere una
ragione sociale, quindi di esistere, espone
qualsiasi azienda al passaparola online, al
commento sui blog e implica la necessità di
monitorare e gestire questi canali.
Per questo “investire” nella classica
accezione di “acquistare spazi” diventa
fuorviante. Che senso può avere farlo,
e misurarne il ritorno, con strumenti e
linguaggi nati per funzionare sui mezzi
tradizionali?
Cosa cambia veramente con i social
media?
Come è assai noto l’Italia non eccelle
in quanto a diffusione di internet ed in
particolare per quanto riguarda la velocità
media di connessione. Il campo nel quale
siamo invece i primi al mondo insieme al
Brasile è la penetrazione dell’utilizzo dei
social media tra i navigatori attivi (figura
1). Quasi il 90% dei navigatori italiani è
abituale frequentatore di strumenti come
Facebook, Linkedin, Youtube...ma non è
tutto: se il pc non è il nostro forte, dal punto
di vista di smartphone e tablet, ovvero
strumenti che abilitano alla connessione
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in movimento (e quindi ancora una volta
ad applicazioni e social), siamo un paese
considerato all’avanguardia.
Ciò significa che molto del tempo che
gli italiani dedicano al web è utilizzato
per commentare, scambiare opinioni,
condividere. Non si tratta quindi di decidere
se investire dei soldi o meno su questi
strumenti, si tratta di capire che i clienti attuali
e potenziali trascorrono, in maniera molto
attiva, tanto tempo in questi ambienti virtuali.
E’ un fenomeno che non può essere sminuito
né tantomeno ignorato. I social media
vanno gestiti ma anche sfruttati in modo
proattivo dalle aziende.
In questo contesto, ciò che cambia per è il
rapporto stesso con il cliente. Il processo
di acquisto, la rilevanza e la successione
dei touch point, il rapporto di forza cliente/
azienda: tutto è stravolto. La figura 2
descrive una relazione continua e circolare,
che vede al centro del processo il cliente/
consumatore. Questo rapporto che in passato
poteva essere descritto in forma di flusso
orizzontale oggi si sviluppa senza soluzione
di continuità e il fatto che il consumatore sia
considerato al centro non è casuale. In ogni
fase del processo, oggi, il consumatore è in
grado di interagire con l’azienda, di parlarne
bene o male in un ambiente che ha una
capacità di moltiplicazione del messaggio
decisamente superiore rispetto al passaparola
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fisico.
Visto così il contesto digitale sembra portare
per le aziende solo delle difficoltà in più.
Ovviamente non è così. Internet e i social
media offrono alle aziende grandissime
opportunità a patto che queste siano in
grado di riorganizzare radicalmente la
propria strategia, inglobando e facendo
perno sul nuovo contesto. L’e-commerce,
la possibilità di ridisegnare i processi di
logistica e del customer service e di tracciare
tutto il processo di acquisto come definito nel
nostro schema circolare, sono delle grandi
opportunità, ma ovviamente metterle in
pratica non è facile né immediato.
Amazon, per citare una delle grandi aziende
che nasce e si consolida in un contesto di
maturità del web 2.0, a cavallo tra gli anni ‘90
e 2000, ha capito sin dall’inizio che facendo
business su internet il potere del consumatore
è decisamente più alto rispetto al passato. La
strategia di Jeff Bezos, fondatore e CEO di
Amazon, è sempre stata quella di studiare,
accontentare, viziare il cliente, anche a
costo di sacrificare margini e redditività.
Tutte le iniziative di Amazon erano e sono
volte a facilitare la vita dei clienti, a offrire
un‘esperienza di acquisto facile e sicura,
a garantire rimborsi e sostituzioni quando
necessario. Questa strategia non nasce da
un eccesso di buonismo ma piuttosto da
un ragionamento semplice e cinico. Se il
cliente non è soddisfatto in pochi istanti può
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rovinarti, se al contrario la sua esperienza
sarà fantastica, la sua segnalazione varrà
più di mille spot. L’awareness di Amazon
e il suo posizionamento come azienda che
garantisce un servizio veloce e di qualità,
sono state ottenute quindi non solo attraverso
investimenti in comunicazione online o offline
ma in investimenti sul modo di presidiare
i touch point (in questo caso specifico tutti
online).
Questo passaggio che oggi può sembrare
banale, non lo era a metà degli anni ‘90
e soprattutto non è facile da trasferire in
aziende che sono nate e cresciute in altri
contesti e con altre strutture organizzative. Il
tema delle misurazioni e delle metriche
nello scenario attuale è proprio questo:
le aziende non devono più valutare e
misurare semplicemente una attività
di comunicazione. Oggi è necessario
valutare quotidianamente la salute dei
brand, presidiare tutti i passaggi ed
essere pronti a dare risposte ed a cogliere
tutti i segnali che possono emergere lungo
il percorso del processo decisionale dei
consumatori.
Cambia il modo di fare ricerche
Più che l’approccio al tema delle ricerche
quello che è cambiato negli ultimi dieci anni
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è il modo di stare sul mercato. L’evoluzione
è quella descritta nella figura 3: nuovi
comportamenti d’acquisto, i mercati sempre
più saturi e la crescente velocità con cui la
tecnologia influisce su mode e mercati fa si
che l’approccio che possiamo definire “statico”
o “empirico” e che è stato valido fino agli anni
duemila non è più attuale.
Fino a un paio di decenni fa la crescita
economica era così sostenuta in molti
settori, che era sufficiente stare sul
mercato secondo logiche standard e
replicabili per fare margini. Inoltre un
modello di business e le logiche conseguenti
erano valide per periodi abbastanza lunghi da
poter permettere alle aziende di non doversi
interrogare mensilmente, come accade spesso
oggi, sul contesto circostante. Un approccio
valido era quindi quello di raccogliere dati
quantitativi e di imparare dall’esperienza
o da quanto visto fare ai competitor. In
questo scenario, certamente più semplice
e decifrabile, non era necessario assumersi
rischi particolari o cercare di anticipare i
bisogni della domanda.
Nel corso degli ultimi due decenni sono mutate
alcune condizioni che hanno avuto un impatto
enorme sul modo di stare sul mercato. Mentre
il trend di crescita dei consumi in molti settori
è andato attenuandosi (parliamo ovviamente
delle economie avanzate), globalizzazione ed
evoluzione tecnologica hanno modificato
la percezione dello spazio e le relazione
stessa tra azienda e consumatore.
Replicare quello che è stato fatto in passato
non basta più, conoscere i dati quantitativi
rimane ovviamente una condizione basilare
per lavorare in un dato settore, ma bisogna
continuamente anticipare, sperimentare e
innovare nel modo di fare business, nella
struttura dell’azienda e quindi ovviamente,
anche nel modo di comunicare e di
misurare i risultati.
Quello che sta accadendo nel modo di
misurare le attività di comunicazione è
sintetizzato nella figura 4. Come detto in
precedenza le informazioni quantitative
e le misurazioni standard (i tracking
continuativi) rimangono la base essenziale
per qualsiasi ricerca, che sia in ambito di
comunicazione o meno. Conoscere il numero
di utenti di un sito o di un servizio, così come
il tempo speso davanti alla televisione o alla
radio o i consumatori di una data categoria
merceologica, rimangono informazioni
dalle quali partire per qualsiasi valutazione.
Tuttavia analisi o ricerche che si basano
solo su questo sono ormai insufficienti per
valutare, spiegare fenomeni o prendere
delle decisioni.
Quello che emerge negli ultimi anni è uno
spostamento delle esigenze delle aziende
che acquistano ricerche di mercato
che va verso due direzioni: da una parte
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verso ricerche sempre più qualitative ed
inferenziali, nelle quali da pochi segnali
deboli si possano cogliere dei trend
utili per il proprio business. Sull’altra
direttrice (sempre figura 4), ricerche sempre
più customizzate, ovvero ritagliate sulle
specifiche esigenze di un caso particolare, un
sito, una attività di marketing. Se andiamo
a considerare le ricerche sul passaparola
online, molto di moda in questi anni, esse non
sono altro che il risultato di questi due trend:
si selezionano dei siti, si raccolgono dati su
quante persone parlano di un argomento, di
un brand o di un personaggio, si contano i
messaggi e si fanno delle analisi semantiche e
associazioni valoriali. In esse convivono quindi,
e sono entrambi necessari, aspetti qualitativi
e quantitativi. Capacità di raccogliere elementi
ma anche di interpretarli.
Chiaramente chi riesce a interpretare
meglio - ma anche a commissionare
ricerche migliori - è nettamente
avvantaggiato rispetto ai concorrenti.
E’ evidente che sia il passaggio da un
approccio market taker ad un approccio
market maker, che quello da ricerche
standard/descrittive a ricerche inferenziali e
customizzate, richiede nuove competenze
all’interno di aziende, agenzie e istituti di
ricerca che non si costruiscono in pochi
anni e che, probabilmente, saranno in
continua evoluzione ancora per molto
tempo.
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L’autore:
/stefanorusso1979
Siciliano, da sempre appassionato di media, editoria, comunicazione,
geopolitica e Inter.
Divoratore di biografie ed in generale di libri e riviste noiosissime.
Cultore della filosofia del “circa meno quasi” perché, in fondo, il meglio
è nemico del bene.
Lavora da diversi anni in Nielsen dopo un’esperienza nella consulenza.
Stefano Russo
Social media e comunicazione aziendale: cambia il contesto, cambiano le metriche
p. 2 Internet è uno spazio sociale: ha ancora senso paragonarlo ai media tradizionali?
p. 3 Tre motivi per cui non confondere internet con gli altri mezzi
p. 4 Cosa cambia veramente con i social media?
p. 7 Cambia il modo di fare ricerche
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