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CONFIMI
Rassegna Stampa del 10/01/2014
INDICE
CONFIMI Il capitolo non contiene articoli
CONFIMI WEB
09/01/2014 www.ravennanotizie.it 12:34
Il Ministro D'Alia all'incontro CONFIMI6
SCENARIO ECONOMIA
10/01/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Poste e Ferrovie, il grande equivoco8
10/01/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Draghi: la crisi non è ancora finita «Bce pronta contro il rischio deflazione»10
10/01/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Tetto Bankitalia ai bonus dei banchieri11
10/01/2014 Il Sole 24 Ore
Inps, saranno dimezzati i dirigenti generali12
10/01/2014 Il Sole 24 Ore
Draghi, la sfida della normalità14
10/01/2014 Il Sole 24 Ore
Se la liquidità premia i Pigs16
10/01/2014 Il Sole 24 Ore
Italia e Usa firmano l'accordo per lo scambio automatico dei dati fiscali18
10/01/2014 La Repubblica - Nazionale
Marchionne: ecco il futuro della Fiat20
10/01/2014 La Repubblica - Nazionale
Come creare posti di lavoro24
10/01/2014 La Repubblica - Nazionale
"Il vostro Paese può rimettersi in moto ma deve puntare sulle economie emergenti"26
10/01/2014 La Stampa - Nazionale
E SUL LAVORO PROGRAMMA AMBIZIOSO27
10/01/2014 La Stampa - Nazionale
Fassina: "Condivisibile però non è un piano: manca il sostegno alla domanda"28
10/01/2014 Il Messaggero - Nazionale
Barra: «Perché Alliance Boots per ora non guarda all'Italia»30
10/01/2014 Il Giornale - Nazionale
«Ora Marchionne dimostri di saper fare le automobili»32
10/01/2014 MF - Nazionale
Bando alle illusioni, se il pil non cresce per l'Italia aggiustare i conti è una fatica diSisifo
34
10/01/2014 MF - Nazionale
Una certificazione per ammazzare le start up36
10/01/2014 Il Mondo
Fondazioni e baruffe senesi37
10/01/2014 Il Mondo
E ora (per crescere) benzina nel motore CHRISTINE LAGARDE38
10/01/2014 Il Mondo
Ci aspettano grandi sfde politiche GEORGE SOROS40
10/01/2014 Il Mondo
A caccia dello sviluppo42
10/01/2014 L'Espresso
la guerra dei treni44
10/01/2014 L'Espresso
Mr. Esselunga e i compratori misteriosi48
10/01/2014 L'Espresso
Casa, amara Casa50
SCENARIO PMI
10/01/2014 Il Sole 24 Ore
BREVI Dai mercati53
10/01/2014 Avvenire - Nazionale
Mini-bond contro la stretta del credito54
10/01/2014 Il Foglio
L'ETA' DEL SACCHEGGIO56
09/01/2014 MF - Sicilia
UNA LUCE IN FONDO AL TUNNEL61
09/01/2014 MF - Sicilia
Un mondo che non smetterà di cambiare65
10/01/2014 Il Mondo
il giro del mondo in otto leader il futuro dell'italia? Sarà made in europe ENRICOLETTA
69
Il Ministro D'Alia all'incontro CONFIMI pagerank: 4 Tema del confronto "Sburocratizzazione e semplificazione dei rapporti con le Pmi"
Lo scorso 7 gennaio il Presidente di CONFIMI Ravenna Gianni Lusa, il Segretario Generale Mauro Basurto e
il Consigliere Roberto Gallamini hanno partecipato all'incontro organizzato presso CONFIMI Modena alla
presenza del Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Gianpiero D'Alia. I lavori, ai quali
hanno preso parte i rappresentanti di tutto il sistema regionale CONFIMI, sono stati dedicati al tema
"Sburocratizzazione e semplificazione dei rapporti con le Pmi: azioni concrete per rendere più competitivo il
sistema Italia" concentrando l'attenzione sul concetto di amministrazione semplice ed efficiente auspicata e
promossa dal Ministro.
Prima di lasciare la parola a D'Alia si sono succeduti diversi interventi: il Presidente di CONFIMI Emilia
Romagna Dino Piacentini ha ricordato che «in Italia ci sono troppi processi doppi, con un complesso sistema
di valutazioni e autorizzazioni», mentre il Vice Presidente di Modena Giovanni Gorzanelli ha posto l'accento
«sui giovani, che oggi sono in forte difficoltà», chiedendo «quali sono le proposte sul tavolo del Governo e le
attività che saranno messe in pratica a breve».
Infine Enrico Malagoli, Presidente di CONFIMI Meccanica, ha chiesto al Ministro «perché un'azienda oggi
dovrebbe continuare a investire in Italia e non trasferirsi all'estero, dove ci sono meno tasse e meno
burocrazia».
D'Alia ha esordito affermando la necessità, dopo anni di federalismo, di tornare indietro. Roma, ha proseguito
il Ministro, ci mette del suo, ma nemmeno troppo. Se si parla di burocrazia, infatti, il 70% del peso viene dai
livelli amministrativi locali, dalle Regioni ai Comuni.
La riflessione del Ministro è partita dall'evoluzione 'federalista' della burocrazia in Italia: «Il federalismo e
l'autonomia dei territori imperanti negli anni passati - ha spiegato - hanno finito per moltiplicare notevolmente
la burocrazia. Il risultato è che oggi le imprese occupano 100 avvocati e 10 operai, perché devono conoscere
i regolamenti di un determinato territorio, che sono diversi da quelli delle altre aree. Per molti è un dato
sorprendente, ma oggi il 70% della burocrazia italiana viene dalle Regioni e dalle autonomie locali: così, dopo
anni di ubriacature sul federalismo e sulla devolution, è il momento di fare marcia indietro».
Un cenno anche al tema delle società partecipate: «In Italia ci sono migliaia di società a partecipazione
pubblica, che in realtà sono aziende finanziate direttamente dai contribuenti.
Il sistema che abbiamo costruito con una sorta di finta privatizzazione, infatti, ha finito per trasmettere al
pubblico i vizi del privato, mentre bisognerebbe ricordare più spesso che la pubblica amministrazione non è
un'impresa, ma un soggetto che deve tutelare l'interesse della comunità. Chi sta nel pubblico, insomma, ha
una missione sociale, e non imprenditoriale».
Per quanto riguarda il prezzo della burocrazia, D'Alia ha quantificato in 31 miliardi i costi derivanti da oneri
amministrativi, mentre le ore che ogni impresa italiana dedica all'adempimento di oneri fiscali e amministrativi
sono 268 all'anno. «E' chiaro che si tratta di risorse consistenti - ha concluso il Ministro - che il Paese non può
permettersi in un contesto di crisi come quello attuale».
09/01/201412:34
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CONFIMI WEB - Rassegna Stampa 10/01/2014 6
Da servizio pubblico ad aziende sul mercato. Ma restano simboli dello Stato Poste e Ferrovie, il grande equivoco ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA Agli occhi di molte generazioni di italiani, per un secolo e più, Poste e Ferrovie non sono state dei servizi
pubblici come tanti altri. Hanno rappresentato un simbolo - oltre che di molte vicende della propria vita, della
propria vicenda personale - in un certo senso del loro stesso Paese e dello Stato italiano in quanto tale.
E gli Stati, come si sa, sono tenuti insieme anche dai simboli. Tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso Poste e Ferrovie divennero però il simbolo del fallimento di quello Stato. Il quale, riconosciutosi
incapace di gestire entrambe senza trasformarle in ricettacolo del più esasperato clientelismo politico-
sindacale e della più desolante inefficienza, decise di affidarne il servizio a due società per azioni (quindi di
diritto privato), conservandone però l'intera proprietà. E stipulando con questi appositi contratti, con relativo
esborso di fondi o di commissioni, volti a garantire le esigenze essenziali di natura collettiva legate alle loro
tradizionali prestazioni. Per ulteriori risorse, se la vedessero loro. Insomma gettò via l'acqua sporca della
gestione sperando di conservare il bambino, vale a dire il servizio pubblico.
Tutto ciò, peraltro, avveniva nel momento in cui stavano già profilandosi radicali e costose trasformazioni
tecniche (la telematica da un lato, l'Alta velocità dall'altro) che avrebbero cambiato a fondo tanto il servizio
postale quanto quello ferroviario. Le dirigenze di quelle due aziende ormai privatizzate si trovarono così (e si
trovano) a dover compiere investimenti cospicui senza però poter più contare sul ripianamento dei bilanci ad
opera del Tesoro, come sempre in passato. Si può dire che lo hanno fatto. Per le Ferrovie è ampiamente
noto. Meno noto forse è per le Poste: le quali però, in questi anni, non solo sono diventate una rete a
disposizione di un certo numero di amministrazioni pubbliche per l'erogazione dei servizi più vari (dalle social
card ai permessi di soggiorno per gli immigrati, alle patenti), ma soprattutto hanno organizzato complessi e
sofisticati apparati di controllo e di protezione dei sistemi di comunicazione telematica, preziosi per la
sicurezza dell'intero Paese.
Tutto questo ha però avuto un prezzo. Poste e Ferrovie si sono dovute procurare risorse sul mercato, fare
profitti. E per farlo hanno inevitabilmente messo in secondo piano le esigenze di quel servizio pubblico per le
quali erano nate (e che ne giustifica tra l'altro la proprietà statale). Le Ferrovie hanno tagliato le linee
dovunque fosse possibile, hanno trasformato gli spazi architettonicamente pregiati di grandi stazioni (come
Roma) in una caotica fungaia di esercizi commerciali e di cartelloni pubblicitari, hanno scaricato tutto il traffico
pendolare sulle Regioni; e - come ha ben documentato Gian Antonio Stella proprio sul Corriere del 7 gennaio
- alle tratte poco frequentate e poco redditizie dell'Italia meridionale hanno riservato un efferato servizio da
Terzo Mondo di una volta.
Allo stesso modo le Poste hanno chiuso dappertutto uffici postali a centinaia; in quelli oggi rimasti riservano la
maggioranza degli sportelli ai clienti dei nuovi servizi nei quali si sono gettati per fare soldi (assicurazioni,
servizi finanziari, carte di credito, telefonia mobile: come se in Italia ci fosse carenza di banche o di
compagnie di assicurazioni). Naturalmente a scapito dei servizi tradizionali (pagare un bollettino di conto
corrente in una grande città italiana può richiedere facilmente un'ora ) e dei loro utenti (in genere la parte più
anziana e disagiata della popolazione), costretti spesso ad attese interminabili e per giunta quasi sempre in
piedi.
Il fatto politicamente e socialmente cruciale è che fin dall'origine questa trasformazione dei due servizi
nazionali per antonomasia è avvenuta nella larga ignoranza della gran massa degli italiani. Si può dire, infatti,
che a suo tempo l'intero capitolo delle cosiddette privatizzazioni, così come quello della cessione di aziende
pubbliche (vedi il caso scandaloso di Telecom), ha potuto svolgersi in certo senso alle spalle del Paese,
godendo di una vasta omertà, talora più che sospetta, da parte di chi avrebbe potuto e forse dovuto
(compresa la stampa) mettere in guardia contro certe modalità e certe conseguenze di tali operazioni. Sta di
10/01/2014 1Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 8
fatto che oggi l'opinione pubblica continua perlopiù a credere che, svolgendo Poste e Ferrovie ancora un
servizio pubblico, ed essendo la loro proprietà pure pubblica, anche la pessima qualità del loro servizio in
alcuni ambiti che riguardano da vicino l'utenza, sia da addebitare al solito Stato italiano, incapace,
disorganizzato, menefreghista, e naturalmente alla solita abietta casta dei politici che lo governano.
Invece, come ho cercato di dire, non è proprio così. Poste e Ferrovie sono divenute normali società per azioni
(sia pure di esclusiva proprietà dell'azionista Stato) le quali ormai da tempo ispirano le proprie scelte
strategiche non certo alle comuni esigenze del pubblico. Per contratto con il suddetto Stato entrambe sono sì
obbligate ad assicurare un minimo di servizio davvero pubblico (cioè a prescindere dall'economicità del
medesimo), ma, come è logico, tendono a ridurre tale servizio al minimo. Il loro maggior scopo, infatti, è
ormai quello di produrre risorse: anche se naturalmente non per intascarle e farci i propri comodi bensì per
fare cose di certo utili al Paese. Avviene così, però, che ogni giorno milioni di cittadini comuni si trovino a che
fare con due istituzioni che non sono ciò che essi credono, né hanno l'obiettivo precipuo che essi pensano
che abbiano.
Il guaio è che non si tratta di due istituzioni qualsiasi. Si tratta, come dicevo all'inizio, di due istituzioni
simbolo, la cui immagine si riflette pesantemente sull'immagine dello Stato. E si badi: non servono rotture
clamorose, non servono fatti eccezionali per avviare un Paese a perdersi, a smarrire il senso di sé, del
proprio essere una collettività legata da una sorte comune e governato nell'interesse generale. La
delegittimazione di una classe dirigente può percorrere gli itinerari più diversi: anche a partire dall'attesa in un
ufficio postale o da un viaggio in treno. Basta l'erosione quotidiana della stima per le istituzioni, il loro apparire
inadeguate, la perdita di fiducia in qualunque cosa, in qualunque servizio, sia riconducibile alla sfera pubblica.
Il cittadino che è rimasto in piedi per ore in un ufficio postale, o che ha viaggiato in una delle carrozze dalle
condizioni vergognose che circolano nel Mezzogiorno e non solo, alla fine è preso da un senso di rancore e
di disprezzo, pronto alla prima occasione a trasformarsi in rivolta. Ma brandendo i «forconi» più o meno
metaforici di turno egli non se la prenderà mai con i dirigenti delle Poste o delle Ferrovie, che in genere non
sa neppure chi siano. Se la prenderà - e se la prende - invece con lo Stato italiano, che ai suoi occhi ancora
rappresenta la dimensione istituzionale della collettività organizzata, chiamato a soddisfare le esigenze
elementari di tutti. E naturalmente con i politici, che invece conosce benissimo.
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Foto: CHIARA DATTOLA
10/01/2014 1Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 9
Draghi: la crisi non è ancora finita «Bce pronta contro il rischiodeflazione» Il rapporto deficit-pil italiano risale al 3,7% nei primi nove mesi dell'anno Spettro giapponese «Non c'è un calodei prezzi come nel Giappone degli anni 90» Marika de Feo FRANCOFORTE - La Banca centrale europea ha lasciato invariato il costo del denaro a quota 0,25%, il
minimo storico dell'eurozona. Ma ha rafforzato l'orientamento espansivo della sua politica, dicendosi pronta a
reagire «in modo deciso» a un ulteriore calo dell'inflazione nel medio termine o al rialzo dei tassi di interesse
del mercato monetario. Di fatto, il presidente della Bce Mario Draghi, nel rafforzare ieri a Francoforte il
«fermo» impegno per la forward guidance , l'orientamento di politica monetaria volto a mantenere i tassi di
interesse costanti o al ribasso «fino a che sarà necessario», ha lasciato aperta la porta a un taglio del costo
del denaro. O ad agire con «tutti gli strumenti» che rientrano nel mandato assegnato dal Trattato per
contrastare un peggioramento della situazione.
Tuttavia per ora la Bce vede l'inflazione rimanere a questi livelli (anche il peggioramento del dato di dicembre,
allo 0,8% è dovuto a un effetto di statistico dell'inflazione tedesca) «per un periodo prolungato di tempo»,
prima di tornare sotto al 2%. Ma ha spiegato che «non c'è deflazione» analoga a quella giapponese degli
anni 90. Ma un calo prolungato dell'inflazione potrebbe mettere a rischio la ripresa.
D'altra parte, la crescita, prevista all'1,1% dallo staff della Bce, è in leggero miglioramento, ma continua a
essere «debole e fragile». Pertanto, pur ammettendo che la fiducia sta gradualmente tornando, Draghi è
rimasto «molto, molto cauto», dicendo che è «prematuro cantare vittoria» e sostenere (come fa invece
Bruxelles), che il peggio è passato.
Inoltre, nel giorno in cui l'Istat ha diramato i nuovi dati di un rapporto tra il deficit e il pil (prodotto interno lordo)
risultato pari al 3,7% nei primi nove mesi dell'anno (con un incremento di 0,3 punti percentuali rispetto ai primi
9 mesi del 2013) il presidente Draghi ha esortato i governi - e in modo appena velato, anche l'Italia, pur senza
nominarla - a «non abbandonare gli sforzi compiuti in passato» sulla via del consolidamento. Il quale deve
rimanere «favorevole alla crescita», migliorando anche «la qualità ed efficienza dei servizi pubblici, e
riducendo al minimo gli effetti distorsivi della tassazione». Perché se accompagnati a riforme strutturali, questi
provvedimenti sosterrebbero la ripresa.
Le parole di Draghi hanno contribuito a frenare l'euro a quota 1,3585, ma hanno perso quota anche le borse
valori europee, e solo Milano, in controtendenza, ha guadagnato lo 0,34%, mentre lo spread fra Bund e Btp,
dopo aver toccato un minimo di 193 punti base, è risalito a quota 200 punti base.
In vista dell'analisi approfondita dei bilanci (Aqr), in partenza a Francoforte, Draghi ha ribadito che i titoli
statali delle banche saranno calcolati «a rischio zero», e che un eventuale cambiamento delle regole deve
avvenire «a livello globale», attraverso il Comitato di Basilea. Tuttavia, non ha accennato all'eventuale stress,
temuto dalle banche, cui i bond andranno incontro durante gli stress test, e ha rimandato per ulteriori dettagli
alla fine di gennaio. Importante, fra l'altro, anche l'ammissione che l'analisi dei bilanci può ridurre la
concessione dei crediti, ma aumenterà la fiducia e robustezza delle banche. Nel frattempo la Bce ha
nominato i quattro direttori generali della nuova vigilanza: Stefan Walter (Ernst & Young), Ramon Quintana
(Banco de Espana), Jukka Vesala (autorità di vigilanza finlandese), Korbinian Ibel (Cobank).
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: Alla Bce Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ieri in conferenza stampa
10/01/2014 6Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 10
Le regole L'assemblea potrà elevare al 200% la soglia dei premi. La consultazione con gli istituti Tetto Bankitalia ai bonus dei banchieri Le parti fissa e variabile dovranno essere uguali. I poteri dei soci Sergio Bocconi Devono pervenire praticamente entro oggi (il termine ultimo è domenica 12 gennaio) le osservazioni delle
banche sul documento inviato per la consultazione da Via Nazionale sulle «disposizioni in materia di politiche
e prassi di remunerazione e incentivazione» negli istituti.
Un paper di 22 pagine che, rispetto alle disposizioni del marzo 2011, contiene due fondamentali novità,
introdotte a livello comunitario dalla direttiva approvata il 26 giugno 2013 e da recepire entro il 31 dicembre
dell'anno appena concluso: per gli istituti di credito viene indicato un limite massimo di 1 a 1 al rapporto fra le
componente variabile e fissa della remunerazione; è attribuito all'assemblea dei soci il potere di approvare un
limite più elevato, comunque non superiore al 200%.
L'introduzione di un limite al rapporto fra le due componenti la retribuzione rappresenta un cambiamento
molto significativo rispetto alle precedenti regole comunitarie, che indicavano soltanto un principio generale di
corretto bilanciamento. Principio applicato in modo diverso nei singoli Stati, come rende chiaro un rapporto
dell'Eba (l'autorità bancaria europea) sulle remunerazioni superiori a un milione: se in Italia il rapporto tra
bonus e fisso è pari in media al 90%, in Francia è al 370%, in Gran Bretagna al 346% e in Germania al 260%.
L'equilibrio fra le due parti del compenso, indicazione che come si vede nel nostro Paese è stata in pratica
più rispettata che altrove, ha l'obiettivo di contenere l'incentivo a un'assunzione eccessiva di rischi, presente
quando la parte variabile è troppo alta.
Nel documento per la consultazione si tiene conto dell'impostazione seguita dalla Vigilanza (che risale ai
primi pacchetti di norme sul tema del 2008) sull'applicazione di un'ampia parte di regole a tutto il personale: il
limite è dunque riferito a tutti i dipendenti. E la modifica è accompagnata a un richiamo esplicito alle banche di
non aggirare la norma sul limite attraverso aumenti «impropri» della parte fissa della retribuzione.
La soglia della parità non è lasciata alla discrezionalità dei singoli Stati, che devono recepirla
obbligatoriamente nei propri ordinamenti. Però la regola è derogabile: la parte variabile può salire fino a
toccare il doppio ma la direttiva europea sottolinea che a deciderlo può essere solo l'assemblea dei soci con
una maggioranza qualificata e sulla base di informazioni dettagliate fornite dal board sui motivi che
giustificano l'aumento, e sui soggetti che ne sono interessati. Fra l'altro, in questo modo, viene ulteriormente
valorizzato il ruolo degli azionisti su questo tema, particolarmente delicato considerati i livelli di compensi
raggiunti pre-crisi e soprattutto la relazione diretta fra incentivi e assunzione di rischi.
Un capitolo a parte del documento è poi dedicato ai cosiddetti «golden parachutes», cioè i «paracadute
d'oro», i compensi pattuiti in caso di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro e che in passato soprattutto a
livello internazionale hanno raggiunto livelli record. Le disposizioni confermano che tali «pacchetti» devono
essere collegati alla performance realizzata e che le banche devono stabilire tetti in termini di numero di
annualità della remunerazione fissa. tetti che vanno approvati dall'assemblea per evitare che le decisioni
assunte dal board vengano rese note ad azionisti e mercato solo a erogazione avvenuta. Viene infine chiarito
che i paracadute sono una componente variabile della remunerazione ma non vanno considerati nel calcolo
del limiti al rapporto fra bonus e fisso.
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Foto: Governatore Ignazio Visco, 64 anni
10/01/2014 33Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 11
RIORDINO ENTRO MARZO Inps, saranno dimezzati i dirigenti generali Davide Colombo u pagina 8 Davide Colombo
ROMA
Il cantiere del nuovo Inps, frutto delle incorporazioni di Inpdap ed Enpals lanciate con il "Salva Italia" ormai
due anni fa, s'avvicina alla presentazione del Piano industriale 2014-2016. Entro marzo, stando alla tabella di
marcia stilata dopo il varo degli ultimi decreti ministeriali di attuazione, il documento dovrebbe essere
presentato al ministro del Lavoro per poi entrare in fase applicativa. Gli obiettivi, formalizzati in una lettera che
il presidente Antonio Mastrapasqua ha inviato al direttore generale, Mauro Nori, sono interessanti. Una
struttura di vertice più compatta, con 31 dirigenti generali (più 17 con incarichi di studio e ricerca riassorbibili
con i pensionamenti dei responsabili operativi) contro i 56 di partenza; le direzioni centrali che vengono quasi
dimezzate a 15, la prospettiva di estendere la funzionalità della centrale unica acquisti all'intero ente con il
varo dei nuovi regolamenti di contabilità e un complessivo ridisegno della rete delle sedi territoriali.
Il cronoprogramma sconta un ritardo di un anno e mezzo ma Antonio Mastrapasqua, alla guida dell'istituto
dal 2008, guarda avanti: «Non parlerei di ritardo. I tempi sono stati dettati dall'emanazione dei decreti
ministeriali, che invece dei sessanta giorni richiesti dalla legge sono giunti dopo un anno e mezzo. Ma non si
tratta di un tempo passato a vuoto. La materia è complessa. L'occasione unica. Ora siamo finalmente entrati
nella fase più importante: la definizione degli obiettivi di riorganizzazione accompagnata da una pianificazione
economico-finanziaria che avrà una programmazione sul prossimo triennio».
Rispetto al nuovo piano di spending review cui sta lavorando il commissario Carlo Cottarelli questo progetto
proseguirà su un percorso autonomo e parallelo. «Da quest'anno - assicura Mastrapasqua - riusciremo a
garantire i 515 milioni di minore spesa di funzionamento che erano stati previsti, un taglio che supera il 12%
dell'insieme dei costi di gestione. Per portata credo si tratti di un'operazione senza precedenti nella Pa
italiana e spero diventi un buon esempio di come anche nel pubblico c'è una grande capacità di gestione di
grandi processi di trasformazione e razionalizzazione».
Intanto nella legge di stabilità è passata la norma che di fatto azzera gli effetti negativi sul bilancio Inps
derivanti dalle anticipazioni alla Ctps (la gestione dei trattamenti pensionistici dei dipendenti statali)
dell'Inpdap. Una mossa sollecitata da Mastrapasqua a novembre: «Con 25,2 miliardi di trasferimenti su cui
ora non viene più chiesta una restituzione dal parte dell'Economia credo che nel prossimo bilancio riusciremo
a recuperare la perdite patrimoniali che avevamo stimato».
Il personale in servizio sfiora le 33mila unità, il 90% impiegato nelle sedi territoriali. Nella stesura del piano si
prevede un'analisi specifica sull'evoluzione quantitativa e qualitativa dei dipendenti, un'analisi propedeutica
alla gestione delle future politiche di mobilità e formazione, ma anche il ridisegno della presenza dell'Inps sul
territorio: «La nuova mappa delle sedi dovrà essere georeferenziata rispetto alle esigenze economiche e
territoriali. Anche in questo senso vogliamo adottare soluzioni che poi possono combinarsi funzionalmente
con le articolazioni di altri enti come l'Agenzia delle entrate, Equitalia, l'Inail. Soprattutto questo piano
industriale dovrà contenere un'attenta analisi dell'impatto sociale, per le "rilevanti e delicate ricadute sul
sistema complessivo del Welfare, conseguenti a tale operazione di riassetto, con particolare riferimento alla
qualità dei servizi da erogare all'utenza", uso le opportune parole del ministro Giovannini per segnalare
l'importanza dell'occasione».
Secondo il ministro il confronto sulla governance del nuovo Inps non si aprirà a breve, anche se la politica
preme. Mastrapasqua è cauto: «Il mio mandato termina quest'anno e il ministro ha accennato all'apertura di
una riflessione sulla governance dopo l'estate. Su questo tema la parola spetta a governo, parlamento e parti
sociali». Una scelta invece da fare riguarda le quote di Bankitalia in mano all'Inps. Con la valorizzazione del
capitale di via Nazionale a 7,5 miliardi la partecipazione del 5% sale a 375 milioni. Che cosa ne farete,
10/01/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 12
chiediamo al presidente? «Il Senato ha ridotto il tetto massimo al 3% e ha allungato a 36 mesi il periodo
transitorio per la vendita delle quote eccedenti. Il decreto è ancora all'esame del parlamento e quindi non è
possibile fare ora una valutazione».
© RIPRODUZIONE RISERVATAI NUMERI DEL PIANO 25,2 miliardi
Trasferimenti ex Inpdap
Con la legge di stabilità è passata la norma che di fatto azzera gli effetti negativi sul bilancio Inps derivanti
dalle anticipazioni alla Ctps dell'Inpdap. Sui 25,2 miliardi di trasferimenti cumulati e che avevano generato la
passività patrimoniale dell'ex Inpdap ora non viene più chiesta una restituzione dal parte del ministero
dell'Economia.
-12%
Costi di gestione
Da quest'anno, in virtù della vecchia spending review e dei tagli successivi, l'Inps dovrà garantire una minore
spesa di funzionamento per 515 milioni l'anno. I dipendenti in forza sono circa 33mila, di cui il 90% impiegato
nelle sedi territoriali
31
I dirigenti generali
La struttura di vertice del nuovo Inps dovrebbe essere più compatta, con 31 dirigenti generali (più 17 con
incarichi di studio e ricerca riassorbibili con i pensionamenti dei responsabili operativi) contro i 56 di partenza,
mentre le direzioni centrali vengono quasi dimezzate a 15
5%
La quota Bankitalia
Con la valorizzazione a 7,5 miliardi del capitale di Bankitalia la quota controllata dall'Inps vale ora 375 milioni.
Se il dl Imu-Bankitalia non cambia alla Camera entro 36 mesi dalla sua approvazione l'Istituto dovrà scendere
al nuovo tetto massimo del 3% e vendere l'eccedenza
10/01/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 13
LE ANALISI Draghi, la sfida della normalità Di Donato Masciandaro
Draghi mantiene dritta la barra della sua politica monetaria accomodante, nonostante le pressioni
contrapposte a cambiarla: in senso ultra espansivo - come vorrebbero le colombe, che soffiano sui rischi da
deflazione - ovvero in senso restrittivo, come auspicherebbero invece i falchi, che paventano rischi sul
risparmio.
Draghi ha dalla sua i risultati: in un Unione di Paesi politicamente separati, l'unico contributo che la banca
centrale può dare alla crescita economica - contrastare i rischi da disordine e da instabilità monetaria - è stato
finora pienamente ottenuto. La Banca centrale europea ha confermato l'orientamento accomodante della sua
politica monetaria: se non interverranno novità, la politica monetaria rimarrà espansiva. La decisione della
Bce non deve sorprendere: è coerente con la strategia di politica monetaria con cui Draghi sta adempiendo al
meglio il mandato istituzionale che il Trattato assegna alla banca centrale: mantenere stabile il valore
dell'euro.
Si sa che è un mandato che non piace a tutti; peccato che gli scontenti non sappiano o fingano di non sapere
che sia l'unica missione che possa ragionevolmente caratterizzare una Unione economica di Paesi
politicamente separati. Infatti una Unione economica è tanto più efficiente se la moneta è unica; si abbattono i
costi di transazione e l'incertezza, entrambe una tossina per una crescita della produzione e degli scambi. Ma
per avere una moneta unica occorre che il suo valore sia stabile. L'euro è una moneta stabile; ad ennesima
riprova, ieri Draghi ha salutato l'ingresso di un diciottesimo Paese - la Lettonia - nell'area euro.
La stabilità dell'euro va difesa contro i rischi da inflazione - oggi assenti - ma anche contro eventuali rischi di
deflazione: una caduta dei prezzi può avere effetti sulla crescita altrettanto dannosi, come da ultimo ha
mostrato l'esperienza giapponese. Sui rischi da deflazione, la Bce è stata molto chiara: oggi non c'è alcuna
traccia, nella dinamica dei prezzi come - soprattutto - in quella delle aspettative.
L'escludere rischi da deflazione da parte della Bce sicuramente scontenterà tutti coloro che, sentendosi
colombe, vorrebbero utilizzare il tema deflazione come un comodo cavallo di Troia per giustificare una politica
monetaria ultra-espansiva, sulla falsariga di quella adottata dalla banca centrale americana, e più
recentemente anche dalla Banca d'Inghilterra. Ma alle colombe verrebbe naturale porgere due domande: in
primo luogo se una politica monetaria ultraespansiva serva a qualcosa, e in secondo luogo se possa essere
adottata da una Unione tra Paesi che mantengono la piena sovranità politica.
Il primo quesito riguarda l'analisi dei costi e dei benefici di una politica ultraespansiva: si fa crescere la
moneta allo scopo di aumentare la crescita, essendo disposti a pagare un costo di maggiori rischi di bolle,
monetarie e finanziarie. È la scommessa che hanno fatto sia la Fed che la Boe prima della crisi: una politica
di abbondante liquidità e tassi di interesse bassi e costanti. La crescita - peraltro non eccezionale, e non certo
sicuramente attribuibile all'eccesso di moneta - c'è stata, ma la bolla finanziaria è stata enorme, e il costo non
è stato pagato solo dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Ne valeva la pena?
C'è di più: per gestire la crisi, poi, la scommessa è continuata: l'eccesso di liquidità è stato istituzionalizzato,
estendendo il prestito pubblico anche a soggetti diversi dalle tradizionali banche commerciale. La politica
monetaria è divenuta sempre di più politica finanziaria, diventando le due banche centrali anglosassoni dei
prestatori pubblici di prima istanza non solo sempre più ingombranti, ma anche più invasivi, accogliendo nei
propri bilanci attività sempre più rischiose.
E qui veniamo al secondo quesito. Infatti, se la gestione della moneta ha implicazioni finanziarie sempre più
forti, aumentano anche le conseguenze distributive sul reddito e sulla ricchezza: salvare o non salvare una
banca o un certo tipo di intermediari, gonfiare o sgonfiare questo o quel mercato di titoli a rischio alto o
variabile crea nella popolazione dei vincenti e dei perdenti. Di riflesso, quanto più una qualunque azione ha
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 14
effetti distributivi aumentano le sue implicazioni politiche; nel caso della politica monetaria, essa diventa con
più facilità strumento di consenso e dissenso, ovvero fonte d'instabilità e diseguaglianze. Dunque, una
politica monetaria distributiva è più facilmente adottabile e legittimabile in uno Stato unico - come gli Stati
Uniti o il Regno Unito - ma non certo in una Unione in cui ancora ciascuna componente politica nazionale
può, vuole e deve dire la sua ogni qualvolta ci sono effetti redistributivi.
La politica monetaria di una banca centrale senza Stato deve poter difendere il valore della moneta; non di
meno, ma neanche di più. Il che significa respingere al mittente - come ieri la Bce ha fatto - non solo le paure
da deflazione delle colombe, ma anche le ansie di altri scontenti, vale a dire dei falchi da "tassi troppo bassi e
troppo a lungo". Sul tema, ai falchi ansiosi verrebbe da chiedere se conoscono quello che Draghi ha
puntualmente ricordato: i tassi che contano per tutelare il risparmio - non solo tedesco - sono quelli a medio e
lungo termine, la cui dinamica può avere uno sviluppo sano e regolare solo se la crescita strutturale - quindi
le relative riforme - riprenderà il suo cammino. Che certo non dipende dalle scelte della banca centrale. Con
buona pace di colombe e falchi.
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Se la liquidità premia i Pigs Di Morya Longo
L'Irlanda paga sui suoi titoli di Stato decennali gli stessi tassi d'interesse del 2006: il 3,3%. Peccato che nel
2006 il Pil irlandese crescesse del 5,5% e la disoccupazione fosse al 4,5%: condizioni economiche ben
lontane da quelle attuali. Nel 2013 il Pil del Paese è infatti sceso dello 0,5% e la disoccupazione resta ancora
al 12,3%.
I titoli di durata quinquennale emessi da Dublino hanno addirittura lo stesso rendimento di quelli inglesi,
Paese molto più solido dell'Irlanda. Ieri mattina, per un momento, anche i tassi d'interesse dei titoli decennali
della Spagna hanno toccato il livello minimo dal lontano 2006, a quota 3,67%. Eppure le condizioni
economiche della Spagna oggi sono ben diverse da quelle del 2006, quando il Paese cresceva al ritmo del
4,1% e la disoccupazione stava all'8,5% contro il 26,7% attuale. Il Portogallo ha invece rendimenti ai minimi
dal 2010, prima della crisi del Paese, e anche in Italia - seppur in maniera minore - i tassi d'interesse
continuano a scendere. Segno che sui bond degli Stati periferici, tranne una pausa ieri pomeriggio, c'è una
forte domanda. Fortissima.
È vero che i mercati stanno premiando i grandi miglioramenti fatti da questi Paesi (in misura minore l'Italia)
sia sul fronte delle finanze pubbliche, sia su quello delle riforme strutturali. È vero che tanti economisti a inizio
anno si aspettavano una forte discesa dei rendimenti di questi titoli di Stato. E tanti si aspettano ulteriori
ribassi. È anche vero che paragonare i tassi d'interesse di oggi con quelli del 2006 è fuorviante, dato che i
tassi della Bce sono ora decisamente più bassi, l'inflazione è molto più contenuta (si teme anzi la deflazione)
e anche i tassi dei titoli a rischio-zero (cioè i Bund tedeschi) sono ben più ridotti: questo ha il naturale effetto
di riparametrare tutti i rendimenti obbligazionari verso il basso. Ma, pur con tutte le cautele del caso, è
comunque evidente che sull'Europa, e in particolare sui Paesi più in crisi, si sta riversando in maniera
fragorosa l'abbondante liquidità in cerca di fortuna. Gli investitori, pieni di soldi stampati dalle banche centrali,
non sanno più dove metterli per guadagnare qualcosa: comprano dunque tutto ciò offra, ancora, rendimenti
minimamente appetibili.
Se un calo dei rendimenti e degli spread era atteso da tutti gli economisti, perché la struttura economica di
questi Paesi sta lentamente migliorando rispetto alle fasi più acute della crisi, nessuno poteva aspettarsi un
ribasso così veloce in così pochi giorni. Rispetto al 27 dicembre i rendimenti decennali portoghesi sono scesi
di 0,74 punti percentuali (al 5,41%), quelli spagnoli di 0,40 punti (al 3,83%), quelli italiani di 0,29 (al 3,93%) e
quelli irlandesi di 0,15 (al 3,30%): movimento molto forte, che ha accompagnato il rally (che si è fermato solo
ieri) delle Borse. Probabilmente questa forza è dettata da motivi contingenti. Da un lato a gennaio gli
investitori tendono sempre ad essere più euforici, perché hanno chiuso il bilancio e possono ripartire di
slancio. Dall'altro è possibile che molte banche del Sud Europa abbiano venduto un po' di titoli di Stato a fine
2013 per "abbellire" i bilanci su cui la Bce effettuerà gli stress test, per tornare a comprare nel 2014. Dall'altro
l'euforia sui mercati è globale, non solo europea.
Ma i rischi ci sono. Con un tasso di disoccupazione medio al 12,1% in Europa, con punte del 26 e 27% per
Spagna e Grecia, le tensioni sociali potrebbero crescere. E potrebbero farsi sentire alle elezioni europee di
maggio. Potrebbero aumentare le proteste anti-euro. Anche la prosecuzione delle riforme strutturali resta
un'incognita: gli Stati periferici ora sono avvantaggiati da condizioni sui mercati finanziari decisamente
favorevoli (che riducono la spesa per interessi), ma proprio questo clima euforico potrebbe allentare le
pressioni sui Governi e dunque rallentare le stesse riforme. Per questo Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo
non devono perdere tempo: la luna di miele dei mercati offre infatti un'occasione ottimale per fare le riforme di
cui questi Paesi hanno ancore bisogno. Temporeggiare oggi, significa sprecare quel credito che - a torto o
ragione - i mercati ci stanno dando.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 16
© RIPRODUZIONE RISERVATA LAPAROLA CHIAVE L'acronimo «Pigs» è utilizzato per indicare quattro
Paesi europei, ovvero Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, particolarmente colpiti dalla crisi finanziaria
globale. Talvolta il termine è utilizzato con due «i», «Piigs»), per racchiudere anche l'Italia nell'elenco delle
nazioni maggiormente esposte alla crisi del debito pubblico. Pigs
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 17
LOTTA ALL'EVASIONE Italia e Usa firmano l'accordo per lo scambio automatico dei dati fiscali Marco Bellinazzo Davide Rotondo Servizi u pagina 22
Oggi a Roma il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, e l'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John
R. Phillips, firmeranno l'accordo intergovernativo per l'attuazione del Fatca (Foreign Account Tax Compliance
Act), che consentirà lo scambio automatico di informazioni di natura finanziaria tra le autorità fiscali dei due
Paesi. Un passaggio atteso e importante perchè l'adesione all'accordo bilaterale prevede l'applicazione del
regime semplificato per gli intermediari finanziari in alternativa alla normativa emanata dagli Stati Uniti il 17
gennaio 2013 (Final Regulations).
La normativa Fatca è stata varata dagli Usa per contrastare l'evasione fiscale da parte dei propri contribuenti
che utilizzano veicoli esteri per gli investimenti delle somme distratte al fisco locale, prevede che gli
intermediari finanziari stranieri (banche, assicurazioni vita, società di gestione del risparmio, sim e broker)
identifichino e segnalino all'autorità fiscale i propri clienti aventi residenza fiscale statunitense a partire dal 1°
luglio 2014.
Ma quali adempimenti scatteranno dal luglio 2014 in Italia? Gli intermediari dovranno essere in grado di
garantire la compliance alle regole Fatca con un adeguato e strutturato presidio di governance. Dovranno
essere in grado, in particolare, di identificare tutti i clienti con un rapporto in essere o in fase di sottoscrizione
classificando gli eventuali soggetti fiscali Usa per i quali nasce l'obbligo di segnalazione. Dovranno anche
intercettare tutti i cosiddetti "cambi di circostanza" della clientela già identificata che possano modificare la
classificazione e trasformare un cliente "extra-Usa" in un soggetto fiscale statunitense. Infine, dovranno
applicare ai soggetti finanziari non partecipanti a Fatca la ritenuta del 30% sulle transazioni aventi redditi certi
di fonte Usa denominate Fdap (Fixed or determinable annual or periodical). Le aziende italiane potranno
contare ora su alcune semplificazioni operative. In materia di identificazione della clientela, ad esempio, si
potrà fare maggiore affidamento sulle prescrizioni della normativa anti-riciclaggio.
La piattaforma normativa e tecnologica Fatca strutturata sullo scambio reciproco e automatico delle
informazioni tra amministrazioni finanziarie dei Paesi aderenti, peraltro, nei prossimi mesi è destinata a
fungere da architrave alle nuove regole per lo scambio multilaterale dei dati volute dall'Ocse e a quelle
promosse in sede Ue che estenderanno di fatto, a partire dal luglio 2015, l'obbligo di identificazione e
segnalazione di tutta la clientela con residenza fiscale estera alle rispettive autorità di competenza. In pratica,
banche, società di gestione del risparmio e di intermediazione, assicurazioni vita, che sottoscriveranno un
prodotto finanziario o apriranno un semplice conto corrente dovranno richiedere tramite autocertificazione la
residenza fiscale dei clienti e, nel caso in cui accertino che è uno straniero, dovranno "denunciarlo" al Paese
di provenienza. A seguito della firma dell'accordo bilaterale in Italia, risulta urgente a questo punto per gli
operatori finanziari che devono ancora completare le attività di adeguamento alla normativa, la ratifica
dell'accordo, l'emanazione del decreto attuativo e la pubblicazione delle circolari esplicative degli organi
competenti.
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Cosa cambia01 | LA FIRMA
Oggi a Roma il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, e l'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John
R. Phillips, firmeranno l'accordo intergovernativo per l'attuazione del Fatca (Foreign Account Tax Compliance
Act), che consentirà lo scambio automatico di informazioni di natura finanziaria tra le autorità fiscali dei due
Paesi
02 | IL FATCA
10/01/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 18
La normativa Fatca è stata varata dagli Usa nel 2011 per contrastare l'evasione fiscale da parte dei propri
contribuenti che utilizzano veicoli esteri per gli investimenti delle somme distratte al fisco locale e prevede che
gli intermediari finanziari stranieri identifichino e segnalino i propri clienti aventi residenza fiscale Usa a partire
dal 1° luglio 2014
03 | GLI OBBLIGHI
Gli intermediari che sottoscriveranno un prodotto finanziario o apriranno un semplice conto corrente
dovranno richiedere tramite autocertificazione la residenza fiscale dei clienti e, nel caso in cui accertino che è
uno straniero, dovranno "denunciarlo" al Paese di provenienza attraverso l'agenzia delle Entrate
Foto: La data in cui scatta l'obbligo di fornire informazioni da parte degli intermediari finanziari
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Intervista all'ad del Lingotto dopo l'acquisizione di Chrysler: "Puntiamo sulla fascia medio-alta, le accuse diMoody's sul debito non mi preoccupano" Marchionne: ecco il futuro della Fiat "L'America ci dà valore. Ora rilanciamo l'Alfa, tutti gli operai rientreranno" In capannoni fantasma mimetizzatiin giro per l'Italia le nostre squadre stanno costruendo i nuovi modelli che ci riporteranno all'eccellenza EZIO MAURO TORINO DOTTOR Marchionne, la settimana scorsa la Fiat si è comprata tutta la Chrysler, ha cambiato
dimensione e identità e lei non ha ancora detto una parola. Cosa succede? «Quel che dovevo dire l'ho scritto
il giorno dopo la firma ai 300 mila dipendenti del gruppo, insieme con John Elkann. Adesso dobbiamo
soltanto lavorare perché questo sogno che abbiamo realizzato, e che io inseguivo dal 2009, si metta a
camminare, anzi a correre, e produca i suoi effetti».
Si ricorda come è incominciato tutto? «Sì. Avevamo un accordo tecnologico con Chrysler, un'intesa di
minima,e mi sono accorto che non serviva a niente, perché non produceva risultati di qualche rilievo né per
Fiat né per gli americani».
SEGUE ALLE PAGINE 2 E 3 TORINO «È STATO allora che l'idea ha cominciato a ronzarmi per la testa.
Un'idea, non un progetto. Diceva così: o tutto o niente. O posso entrare nella gestione e prendermi la
responsabilità delle due aziende, oppure perdiamo tempo». E poi? «Poi è arrivato il piano. La chiami fortuna,
istinto, visione, quel che vuole. Resta il fatto che in quel momento di crisi spaventosa abbiamo visto nei
rottami dell'industria automobilistica americana la possibilità di far rinascere una grande azienda in forma
completamente diversa. E l'America ha creduto nelle nostre idee e ci ha aperto le porte».
Vuol dire che soltanto in America sarebbe stata possibile un'operazione di questo tipo? «Dico che per tante
ragioni storiche e culturali noi europei siamo condizionati dal passato, l'idea di chiuderlo per far nascere una
cosa nuova ci spaventa. Da loro no: c'è una disponibilità quasi naturale verso il cambiamento, la voglia di
ripartire».
Meno vincoli e meno dubbi? «Se porti un'idea nuova, in Italia trovi subito dieci obiezioni. In America nello
stesso tempo trovi dieci soluzioni a possibili problemi. E poi è arrivato Obama».
Che ha creduto subito al suo progetto? «Aveva l'obiettivo di salvare quelle aziende. La nostra fortuna è stata
di poter trattare direttamente con il Tesoro, con la task force del Presidente, non con i creditori di Chrysler,
come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui».
L'amministrazione vi ha sempre sostenuti? «Abbiamo scoperto che il nostro piano era più prudente del loro.
Ma la seconda fortuna è stata che il mercato è ripartito prima del previsto, gli Usa oggi sono tornati a produrre
15 milioni di veicoli, la cura che abbiamo fattoa Chrysler funziona, noi ci siamo, tanto che la Jeep non ha mai
venduto tante macchine come nel 2013, cioè 730 mila».
Questo basta per mettere Chrysler al riparo? «Guardi che in America il mercato c'è ma è difficile, la
competizione è durissima. Ma nelle vendite retail lo scorso anno Chrysler è cresciuta negli Usa più degli altri
due big, Forde Gm. Siamo il quarto produttore americano, perché in mezzo si è infilata Toyota. Quindi c'è
molta strada ancora da fare, ma siamo in cammino. E meno male che l'istinto aveva visto giusto nel 2009,
perché un'occasione così si presenta una volta sola nella vita: non accadrà mai più». Un piccolo non potrà
mai più comprare un grande grazie alla crisi? «Abbiamo sfruttato condizioni irripetibili. È vero che
normalmente il sistema americano è capace a digerire la bancarotta e a assicurarti le condizioni finanziarie
per ripartire, perché il Chapter 11 negli Usa ti lava la macchia del fallimento. Ma quando siamo arrivati noi il
sistema digestivo delle banche si era bloccato, ed ecco che abbiamo potuto negoziare direttamente con il
governo, cosa mai accaduta prima». Un negoziatore più facile perché politicamente interessato al
risanamento aziendale? «Mica tanto facile. Continuavano a dirmi che la Fiat doveva metterci la pelle, cioè i
soldi. Ho avuto la faccia tosta all'inizio di dire no. Avevamo studiato bene le ceneri dell'automobile americana,
sapevamo che il rischio era altissimo. Se vuoi, rispondevo, metto in gioco la mia pelle, vale a dire reputazione
10/01/2014 1Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 20
e carriera, ma la Fiat no. Nemmeno un euro». Perché hanno accettato? «Tenga conto che stiamo parlando
della tragedia del 2009, quando i manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende
chiudevano, quando la quota di mercato di Chrysler era precipitata al 6 per cento, non so se mi spiego. Certo,
ogni tanto mi arrivava un messaggio dal mio partner al Tesoro: secondo te, questa rotta si sta invertendo?
Bene, si è invertita. Abbiamo restituito al governo Usa tutti i soldi che aveva messo in Chrysler, 7 miliardi e
mezzo di dollari, abbiamo ripagato tutti e dopo l'accordo con Veba non dobbiamo più niente a nessuno. A
questo punto, ci siamo comprati il resto dell'azienda. Chrysler ha trovato un partner».
Direi un padrone, no? «Direbbe male. La nostra non è una conquista, è la costruzione di un insieme. Ho
scritto una lettera riservata al Gec, il Group Executive Council, cioè gli uomini che gestiscono il Gruppo,e ho
detto che quello di Fiat-Chryslerè per me un sogno di cooperazione industriale a livello mondiale, ma
soprattutto un sogno di integrazione culturale tra due mondi».
Non vi sentite padroni di Chrysler, dunque? «Qualcosa di più, di meglio. Abbiamo creato una cosa nuova. E
da oggi il ragazzo americano che lavora in Chrysler quando vede una Ferrari per strada può dire: è nostra.
Poi, certo, se quando sono arrivato qui mi avessero detto che saremmo diventati il settimo costruttore del
mondo, mi sarei messo a ridere. Capisco anche che in questi anni qualcuno ci abbia preso per pazzi. Per
fortuna gli azionisti hanno creduto nel progetto e lo hanno appoggiato. John è venuto subito a Detroit, ha
capito il potenziale dell'operazione e l'ha sostenuta fino in fondo».
Lei sa che su questo successo americano c'è il sospetto che sia stato costruito a danno dell'Italia, delle sue
fabbriche e dei suoi operai. Cosa risponde? «Che è vero il contrario. Questa operazione ha riparato Fiat e i
suoi lavoratori dalla tempesta della crisi italiana ed europea, che non è affatto finita. Non solo: ha dato la
possibilità di sopravvivere all'industria automobilistica italiana in un mercato dimezzato. Altrimenti non ce
l'avremmo più. E invece potrà ripartire con basi, dimensioni e reti più forti». Lei dopo la firma è ottimista, ma
proprio oggi il Financial Times le fa notare che 4,4 milioni di vetture prodotte da Fiat- Chrysler sono appena la
metà di Toyota, e l'accusa di essere un abile negoziatore ma non un costruttore, un uomo d'automobili. Come
si difende? «Se adesso che ho Chrysler valgo mezza Toyota, quale sarebbe il mio valore senza l'America?
Quanto alle automobili, al salone di Detroit 2011 abbiamo presentato 16 nuovi modelli tutti insieme. E
aspettiamo il nuovo piano Alfa Romeo, per favore, prima di parlare».
Però Moody's non ha aspettato, e ha già minacciato il downgrade Fiat per i troppi debiti e la poca liquidità
dopo l'acquisto di Chrysler. Chi ha ragione? «Capisco il loro ragionamento, ma ricordo che nel 2007
arrivammo a zero debiti, prima che scoppiasse quel bordello nei mercati. Bisognerà vedere con il piano di
aprile dei nuovi modelli dove si posizionerà il debito. Io non sono preoccupato, proprio no».
Ma la strada maestra nelle vostre condizioni non sarebbe un aumento di capitale? «Sarebbe una distruzione
di valore. Ci sono metodi, modelli diversi e innovativi per finanziare gli investimenti».
Come il convertendo da un miliardo e mezzo di cui si parla? «Lasci stare le cifre. Ma il convertendo potrebbe
essere una misura adatta».
In un passato recente con il convertendo i banchieri italiani si sentivano già padroni della Fiat, non ricorda?
«Ricordo, anche perché quando venivano al Lingotto mancava solo che prendessero la misura delle sedie.
Invece la verità è che siamo qui, pronti a ripartire, ma abbiamo bisogno di soldi per finanziare la ripartenza.
Le sembra un discorso troppo esplicito, troppo poco italiano?» No, se lei però mi dice dove quoterete la
nuova società.
«Fiatè quotataa Milano. Poi, andremo dove ci sonoi soldi. Mi spiego: dove c'è un accesso più facile ai
capitali. Non c'è dubbio che il mercato più fluido è quello americano, quello di New York, ma deciderà il
Consiglio di amministrazione. Io sono pronto anche ad andare a Honk Kong per finanziare lo sforzo di Fiat-
Chrysler».
Come si chiamerà la nuova società? «Avrà un nome nuovo».
Quando avverrà la fusione? «Spero subito, con l'approvazione del Consiglio al dividendo Chrysler di 1,9
miliardi. A quel punto il processo è chiuso, si può partire».
10/01/2014 1Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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E dove sarà la sede della nuova società? «Lo decideremo, anche in base alla scelta di Borsa, ma mi lasci
dire che è una questione che ha un valore puramente simbolico, emotivo. La sede di Cnh Industrial si è
spostata in Olanda, ma la produzione che era qui è rimasta qui». Lei dovrebbe capire dove nascono certe
preoccupazioni. Quando è arrivato in Fiat si producevano un milione di auto in Italia, due milioni dieci anni
prima, oggi appena 370 mila su un totale di 1,5 milioni di auto vostre. Come si può aver fiducia nel futuro
dell'auto italiana in queste condizioni? «Se ritorniamo al punto in cui Fiat doveva investire in controtendenza
in questi anni di mercato calante, io non ci sto, perché se posso scegliere preferisco evitare la bancarotta.
Peugeot ha investito, e oggi si vede che i soldi sono usciti, ma il mercato non c'è. In più bisogna tener conto
che le auto invecchiano, e un modello lanciato (e non comprato) durante la crisi sarà vecchio a crisi finita,
quando i consumi possono ripartire. No, la strada è un'altra».
Quale, dopo le promesse mancate di Fabbrica Italia? «Ecco un'altra differenza tra Italia e America. Là
quando cambiano le carte si cambia gioco, tutti d'accordo, qui avrei dovuto mantenere gli investimenti anche
quando il mercato è sparito. No, la nostra strategia è uscire dal mass market, dove i clienti sono pochi, i
concorrenti sono tanti, i margini sono bassi e il futuro è complicato».
Uscire dal mercato tradizionale Fiat per andare dove? «Nella fascia Premium, prodotti di alta qualità, con
concorrenza ridotta, clienti più attenti, margini più larghi. In fondo abbiamo marchi fantastici e per definizione
Premium, come l'Alfa Romeo e la Maserati. Perché non reinventarli?». E perché non lo avete fatto? «E lei, mi
scusi, che ne sa? Sa della Maserati a Grugliasco, dove lavora gente in guanti bianchi a scegliere le rifiniture
in pelle per andare sui mercati del mondo. Ma non sa che in capannoni-fantasma, mimetizzati in giro per
l'Italia, squadre di uomini nostri stanno preparando i nuovi modelli Alfa Romeo che annunceremo ad aprile e
cambieranno l'immagine del marchio, riportandolo all'eccellenza assoluta». Allora perché non lo avete fatto
prima? «Mi servivano due cose: la capacità finanziaria, e oggi finalmente Chrysler come utili e come cassa mi
copre le spalle, e un accesso al mercato mondiale. Oggi se mi presento con l'Alfa negli Usa ho una rete mia
di 2.300 concessionari capaci di portare quelle auto dovunque in America, rispettandone il dna italiano».
Dunque mi pare di capire che non venderà l'Alfa Romeo ai tedeschi, è così? «Se la possono sognare. E
credo che la sognino, infatti.
L'Alfa è centrale nella nostra nuova strategia. Ma come la Jeep è venduta in tutto il mondo ma è americana
fino al midollo, così il dna dell'Alfa dev'essere autenticamente tutto italiano, sempre, non potrà mai diventare
americano. Basta anche coi motori Fiat nell'Alfa Romeo. Così come sarebbe stato un errore produrre il suv
Maserati a Detroit: e infatti resterà a casa».
E cosa sarà degli altri marchi? «Fiat andrà nella parte alta del mass market, con le famiglie Panda e
Cinquecento, e uscirà dal segmento basso e intermedio. Lancia diventerà un marchio soltanto per il mercato
italiano, nella linea Y. Come vede la vera scommessa è utilizzare tutta la rete industriale per produrre il nuovo
sviluppo dell'Alfa, rilanciandola come eccellenza italiana». Lei parla di modelli, parliamo di lavoro. Questa
strategia come si calerà negli impianti che oggi sono fermi, o girano con la cassa integrazione, aumentando
l'incertezza italiana nel futuro? «Senza una rete di vendita nei mercati che tirano, far la Maserati ad esempio
non servirebbe a nulla. Adesso Chrysler ci ha completato gran parte del puzzle, soprattutto nell'area cruciale
Usa-Canada-Messico, dove oggi possiamo entrare con gli stivali mentre ieri dovevamo presentarci con le
scarpe da ballerina».
Non è che nell'acquisto Chrysler c'è per caso una clausola di protezione dell'occupazione e della produzione
americana? «Neanche per sogno, sarebbe una cosa tipicamente italiana, che là non è venuta in mente a
nessuno».
Parliamo allora delle fabbriche italiane. Quando e come ripartiranno? «Ecco il quadro. Nel polo Mirafiori-
Grugliasco si faranno le Maserati, compreso un nuovo suv e qualcos'altro che non le dico. A Melfi la 500 X e
la piccola Jeep, a Pomigliano la Panda e forse una seconda vettura. Rimane Cassino, che strutturalmente e
per capacità produttiva è lo stabilimento più adatto al rilancio Alfa Romeo. Mi impegno: quando il piano sarà a
regime la rete industriale italiana sarà piena, naturalmente mercato permettendo».
10/01/2014 1Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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Sta dicendo che finirà la cassa integrazione eterna per i lavoratori Fiat? «Sì, dico che col tempo - se non
crolla un'altra volta il mercato - rientreranno tutti».
Scommettendo sull'Alfa e sulle auto Premium lei scommette sul dna italiano dell'auto: ma ha ancora corso
nel mondo, con la crisi del nostro Paese? «La capacità italiana di produrre sostanza e qualità, di inventare, di
costruire è enormemente più apprezzata all'estero che da noi. Il carattere dell'automobile italiana esiste,
eccome. Tutto ciò è una ricchezza da cui ripartire. Noi siamo pronti. Ma se continuiamo a martellarci i piedi,
invece di puntare al meglio, finirà anche questa storia».
Ma cos'è il meglio, in un Paese che perdendo il lavoro sta perdendo anche la coscienza delle sue
potenzialità, dei doveri e dei diritti? «È aprirsi al mondo, trovarsi spazio nel mondo, non chiudersi in casa,
soprattutto quando intorno c'è tempesta. Fiat ci prova. Ho scritto ai miei che possiamo concorrere a dare
forma e significato alla società del futuro. Anche per me arriverà il giorno di lasciare. Ma intanto, dieci anni
dopo, è una bella partita».Porte aperte in Usa L'America ha creduto nelle nostre idee e ci ha aperto le porte.
Lì, a differenza che da noi, il cambiamento piace. La cura ha funzionato e il mercato è ripartito prima del
previstoNeppure un euro Ho avuto fin dall'inizio la faccia tosta di dire che Fiat non ci avrebbe messo neppure
un euro.
Abbiamo restituito al governo americano tutti i soldi che aveva messo in ChryslerNon è una conquista Nonè una conquista, abbiamo creato una cosa nuova. Da oggi il ragazzo che lavora in Chrysler, quandovede una Ferrari per strada, può dire: è nostraL'incontro
Continua il muro contro muro con la Fiom "Posizioni inconciliabili, no al tavolo unico" TORINO - Non
c'è pace fra Fiat e Fiom: l'azienda apre al dialogo con i metalmeccanici della Cgil, ma denuncia «posizioni
inconciliabili» e si rifiuta di farli sedere al tavolo contrattuale con gli altri sindacati firmatari dell'accordo. Il
prossimo lunedì e martedì Fiat incontrerà Cisl, Uil, Ugl e Quadri, poi fisserà un vertice con la Fiom. «Per noi
l'obiettivo resta un tavolo unico perché il tavolo doppio non porta a nulla ed è un modo per non applicare la
sentenza della Corte Costituzionale», denuncia il leader Fiom Maurizio Landini.Altro che danno Un danno per
l'Italia? Tutt'altro: questa operazione ha permesso la sopravvivenza dell'industria italiana in un mercato
dimezzato.
Ora possiamo ripartire con reti e basi più fortiAvrà un nome nuovo La società avrà un nome nuovo. Ci
quoteremo dove c'è un accesso più facile ai capitali. La sede verrà decisa anche in base alla scelta di Borsa,
ma avrà un valore solo simbolicoVia dal mass market Usciremo dal "mass market" - pochi clienti e tanti
concorrenti - per andare nella fascia Premium con Alfa e Maserati. Squadre di nostri uomini stanno
preparando i modelliGli impianti italiani A Mirafiori-Grugliasco si faranno le Maserati. A Melfi le 500 X e
piccole Jeep. A Pomigliano le Panda. A Cassino il rilancio dell'Alfa. Mi impegno: saranno riattivati in pieno tutti
gli impianti italianiPER SAPERNE DI PIÙ www.fiat.it www.chrysler.com
Foto: Sergio Marchionne
Foto: L'AD L'amministratore delegato di Fiat e di Chrysler, Sergio Marchionne. In alto a sinistra, con John
Elkann e Luca Cordero di Montezemolo
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 23
L'analisi Come creare posti di lavoro TITO BOERI COME ci ha spiegato Dale Mortensen, Nobel per l'economia scomparso ieri dopo una malattia che ce lo ha
portato via in pochi mesi, i posti di lavoro, i jobs, vengono creati dalle imprese ma non vengono riempiti
immediatamente. Ci vuole del tempo per l'incontro f ra domanda e offerta e più segmentato è il mercato, più
lungo il tempo che passerà prima che il posto di lavoro vacante si traduca in impiego effettivo, dando un
lavoro a chi lo cerca. Questo aumenta la disoccupazionee ne allunga la durata. L'incontro fra lavoratoree
impresa può migliorare nei benefici che arreca ad entrambi, ma può anche peggiorare nel corso del tempo,
spingendo l'uno o l'altra a porre fine al rapporto di lavoro. Quando questa separazione avviene, ci sono costi
sociali che vanno al di là di quelli sostenuti dal datore di lavoro e dal lavoratore. Bisogna pagare un sussidio
di disoccupazione a chi è stato licenziato e questa persona si troverà a competere con altri disoccupati nella
ricerca di un impiego. Meglio perciò non porre limiti a priori alla durata di un rapporto di lavoro, meglio non
avere troppi contratti temporanei. Creano congestione in entrata e impediscono di investire nel migliorare la
produttività del lavoro. Il Jobs Act di Matteo Renzi è, per il momento, solo un elenco di titoli. Sono quelli giusti.
Il piano mette al centro la domanda di lavoro e oggi è proprio da quel lato del mercato che risiede il problema:
troppe persone in cerca di lavoro, pochi posti vacanti. Coerentemente con questa impostazione che vuole
incoraggiare le imprese a creare opportunità di impiego, si propone di concentrare le risorse disponibili in un
taglio non simbolico delle tasse sul lavoro e di ridurre i costi di creazione di nuove imprese, ad esempio
abolendo l'obbligo (e ancor più gli oneri) di iscrizione alle Camere di Commercio. Si vuole ridurre la
segmentazione del mercato del lavoro, riducendo il numero e la complessità delle tipologie contrattuali, un
approccio diametralmente opposto a quello seguito negli ultimi 20 anni da Treu, Maroni e Sacconi, che
avevano moltiplicato le figure contrattuali, dando poi, dulcis in fundo, facoltà alle Regioni di intervenire con
normative differenziate. Era un modo di creare impiego solo per i consulenti del lavoro. Ora si sceglie la
strada della semplificazione. Si intende anche creare un canale di ingresso nel mercato del lavoro che
permetta di sperimentare la qualità dell'incontro fra impresa e lavoratore senza imporre a priori limiti di durata
a questo rapporto di lavoro. Ci si propone di rendere questa l'entrata principale, quando oggi solo il 20 per
cento delle assunzioni (il 10 per cento tra i più giovani) avvengono con contratti a tempo indeterminato. La
segmentazione viene combattuta anche tra chi perde il lavoro, istituendo un sussidio di disoccupazione
accessibile da parte di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell'impresa, dal settore o dal
contratto.
Le premesse sono dunque quelle giuste. Perché se ne possa discutere in modo serio bisognerà al più presto
affinarle, a partire dal chiarire quali coperture verranno trovate per le misure che in questo pacchetto non
sono a costo zero. Bisognerà, in questo perfezionamento, avere cura dei dettagli senza perdere la visione
d'insieme e senza venire distratti da improbabili piani industriali sui settori che dovrebbero creare lavoro.
Dopotutto, come scritto nella bozza, «non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli
imprenditori». Occorrerà fare in fretta per evitare che le premesse diventino promesse. Di queste ultime non
si sente certo il bisogno. Gli annunci cui non seguono fatti concreti sono molto pericolosi nel mercato del
lavoro. Le imprese, ad esempio, possono sospendere le assunzioni, aspettando che entrino in vigore le
nuove regole, deprimendo ulteriormente un mercato del lavoro già in ginocchio. Le promesse creano, inoltre,
aspettative soprattutto fra i giovani che continuano ad essere presi di mira in Italia, come ci dimostra anche il
fatto che si intervenga per contenere i costi del pubblico impiego solo bloccando gli scatti, le carriere. Le loro
speranze non devono venire disattese: di slogan e di contratti con gli italiani mai rispettati sono lastricate le
vie di quella politica italiana che si vorrebbe cambiare.
Il difficile viene adesso. Ma comunque è già un sollievo che il confronto pubblico non sia solo su Ici, Imu,
Tari, Tasi, Tares, Taser, Trise, Tuc e Iuc. È il momento di occuparsi del problema numero uno, quello del
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 24
lavoro.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 25
L'intervista L'Italia vista da Sir Martin Sorrell, il "guru" della pubblicità mondiale a capo del gruppo Wpp "Il vostro Paese può rimettersi in moto ma deve puntare sulle economieemergenti" Renzi come Blair? Se farà come lui spostando al centro il Pd, perché è lì che si vincono le elezioni C'è unproblema di leadership. Serve coraggio per prendere decisioni impopolari nel breve periodo ROBERTO MANIA ROMA - Sorride, Sir Martin Sorrell, quando gli si chiede se Matteo Renzi possa essere il "Blair italiano". «So
di lui, ma non lo conosco.
Certo, potrebbe esserlo. Dipenderà dalle decisioni che prenderà.
Blair spostò al centro un partito che era percepito di sinistra e legato ai sindacati. Se Renzi farà lo stesso,
perché è al centro che si vincono le elezioni, la risposta potrà essere sì». Martin Sorrell è uno dei manager
più ricchi del mondo. È il ceo di Wpp, il gigante della pubblicità che ha fondato nel 1985 e che ora ha 170 mila
dipendenti, è presente in 110 Paesi con oltre 10 miliardi di sterline di ricavato. Un colosso che ha curato le
campagne elettorali di Barack Obama e David Cameron e che ha fatto capolino anche in Italia suggerendo
all'ex premier Mario Monti quel "salgo in politica" che fu lo slogan della lista del Professore. Oggi Sorrell
presiederà l'Ibac Italy, una riunione con i rappresentanti delle più grandi multinazionali con l'obiettivo di
attrarre gli investimenti esteri nel nostro Paese. Si terrà alla Farnesina e ci saranno anche il presidente del
Consiglio, Enrico Letta, e il ministro degli Esteri, Emma Bonino. Sir Sorrell, il suo è un punto di osservazione
del tutto privilegiato: ci sono segnali di ripresa in Italia? Stiamo uscendo dalla crisi? «Penso che l'Italia abbia
toccato il fondo. Ma la crescita sarà tiepida. Vorrei comunque ricordare che le aziende del nord Italia stanno
andando bene e che esportano come quelle tedesche».
Lei, dunque, ritiene che sia un buon momento per investire in Italia? «Sì. Ma il problema è quel che pensa la
gente dell'Italia».
Cosa intende dire? «Che l'immagine dell'Italia non ha perso terreno nei Paesi delle economie sviluppate. In
questi Paesi, dagli Stati Uniti al Canada, alla Germania, il brand Italia è rimasto stabile. Il punto è che si deve
puntare sulle economie in rapida crescita. È qui l'Italiaè carente, mentre dovrebbe aggredire i mercati asiatici
e quelli medio orientali come sta facendo la Germania». Nei prossimi dieci anni ci sarà più di un miliardo di
nuovi consumatori. Sostanzialmente il ceto medio dei Paesi emergenti.
Pensa che possa essere un'opportunità per le industrie del "made in Italy"? «Assolutamente sì. È in quei
Paesi che deve crescere l'immagine italiana. Il progetto "Destinazione Italia" si muove nella giusta direzione.
L'Italia ha una forte base manifatturiera, ha una storia culturale, un ampio patrimonio artistico, ha una forte
tradizione nella ricerca scientifica, ha dei settori in cui eccelle come la moda, il cibo, l'automotive con la Fiat».
Ma allora qual è il problema italiano? La politica? «Il problema è la leadership. Ci vuole coraggio nel
prendere decisioni impopolari nel breve periodo che però portano a risultati positivi nel medio e lungo
periodo.
Oggi David Cameron perderebbe le elezioni per colpa delle politiche di austerity, ma nel 2015, quando ci
sarà il voto, l'economia britannica risentirà in modo positivo di quelle sceltee allora sarà diverso. Ecco,
all'Italia serve stabilità e leadership politica».
A proposito di leadership: lei cosa pensa di Sergio Marchionne, il ceo di Fiat Chrysler? «Penso che sia
straordinario».
In Italia non tutti la pensano come lei.
«Certo Marchionne non vincerebbe un concorso di popolarità.
Esattamente per le ragioni che ho detto poco faa proposito delle leadership. Marchionne ha fatto scelte
impopolari ma i risultati sono stati eccezionali».
Foto: IL CEO Sir Martin Sorrell ha fondato e guida il colosso della pubblicità mondiale Wpp
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 26
E SUL LAVORO PROGRAMMA AMBIZIOSO ELISABETTA GUALMINI Con il tempismo che lo caratterizza, Matteo Renzi ha anticipato i contenuti del suo Piano sul lavoro nello
stesso giorno in cui l'Istat ha diramato l'ennesimo bollettino di guerra sulla disoccupazione in Italia. E, come
d'abitudine, si è tenuto le mani libere presentando il documento come una bozza aperta che verrà meglio
definita dopo la direzione nazionale del Pd in programma per giovedì prossimo. PAGINA Fino a qui tutto
bene. E' comprensibile che il neo -segretario voglia dare il segno di una svolta su temi caldi e sentiti
dall'elettorato. E che non si voglia impiccare ai tecnicismi sui sistemi elettorali, di cui i cittadini hanno le tasche
piene. S e non fosse che il Jobs Actè un programma di legislatura , molto ambizioso. Che non si incrocia mai,
nemmeno per sbaglio, con il cammino avviato dal governo L etta. Mentre incrocia almeno sei settori di politic
a pubblica: la politica industriale, quella fiscale, la riforma amministrativa, la rappresentanza sindacale, la
sicurezza sociale, la politica del lavoro. Che, con il suo respiro enciclopedico, possa entrare nell'agenda
scricchiolante dell'attuale governo, pare difficile. Come il passaggio del cammello evangelico nella cruna di un
ago. I suoi contenuti sono certamente apprezzabili, alcuni già noti, altri piuttosto grezzi. Il contratto unico a
tutele progressive è quello ispirato da Boeri e Garibaldi e proposto nei Ddl Madia del 2009 (n. 2639 alla
Camera) e Nerozzi del 2010 (n. 2000 al S enato). L'articolo 18 verrebbe sospeso nei primi tre anni di
inserimento nella realtà lavorativa, dunque il tabù viene infranto e dire che non ci sarà dibattito è ottimistico.
Ci si propone di ridurre le 40 modalità di contratto di impiego presenti in Italia (in realtà sono molte meno)
immaginando che la cancellazione sulla carta delle formule atipiche sia sufficiente di per sé a ridurre la
precarietà. Come quando dopo una battaglia all'ultimo sangue nella campagna elettorale del 2006 condotta
da Rifondazione Comunista e dalla Cgil sull'abolizione della legge Biagi, si abrogò il lavoro a chiamata per poi
ripristinarlo negli anni successivi... perché nelle attività stagionali serve! Il collegamento tra l'erogazione dei
sussidi di disoccupazione e la disponibilità del lavoratore ad accettare un'offerta formativa o lavorativa c'è già
nel nostro ordinamento (dal decreto legislativo 181 /2000). S e non ha funzionato, è perché il mercato del
lavoro semplicemente non tira. E' difficile non essere d'accordo sul «sussidio universale» per chi è fuori da
qualsiasi tutela, ma bisognerebbe almeno chiarire a quale dei modelli oggi in discussione ci si ispira, perché
cambiano le coperture. Renzi ha varie volte detto (giustamente) no al reddito di cittadinanza alla Beppe Grillo.
Allora si tratta del reddito di inserimento introdotto dal primo governo Prodi e poi lasciato alla discrezionalità
dei comuni? Del sostegno di inclusione attiva promosso da Giovannini al posto della social card? O altro? La
frase « bastail tempo in determinato per idirigenti pubblici » potrebbeessereuna bomba adorolo geriaeva
almeno specificata. Sivuol e evitare larei terabilità all' infinito degli « incarichi » dirigenziali ? Da vent'anni ( 1 9
93 ) , queste posizioni sono già tutte a tempo determinato. O si vuole estenderancora di più la figura dei
dirigenti « con cortrattoa tempo determinato », assunti subase fiduciaria, senza concorso ( lo spoils system )
? O addirittura significato gli ere la qualifica dirigenziale ( oltre che l 'indennità ) ai dipendenti pubblici a
cuinonvi enerinnoato l' incarico apicale? Di cosa si sta parlando? Infine, nella bozza non si parla della partita
più urgente: come impiegare il miliardo e mezzo di euro che arrivano dal programma europeo Youth
Guarantee, su cui L etta ha investito parecchie energie. Non si sa ancora chi li gestirà. E la scelta tra centri
pubblici per l'impiego o centri pubblici insieme a quelli privati non è cosa da poco. Forse da qui al 16 gennaio
i contenuti della bozza aperta verranno chiusi. Rima ne però una ambiguità di fondo, grande come una casa:
due leader di governo e due agende (nella sintesi di Pippo Civati), come se ne esce? Si può zavorrare
l'agenda di L etta con il piano lavoro, lo ius soli, i diritti civili, la costituente per la scuola, le riforme istituzionali,
tutto nel giro di un anno? Q uesta ambiguità quanto a lungo si potrà reggere, soprattutto se ai cittadini non
arriva moltissimo in cambio? Non sarebbe meglio pochi obiettivi, maledetti e subito? twitter@gualminielisa
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 27
Intervista Fassina: "Condivisibile però non è un piano: manca il sostegno alladomanda" FRANCESCA SCHIANCHI ROMA Un indice di titoli «largamente condivisibili», da cui però mancano «due pilastri: un'inversione della rotta
mercantilista europea e una redistribuzione dell'orario di lavoro». Così Stefano Fassina, viceministro
dell'Economia dimissionario dopo una battuta di Renzi su di lui ("Fassina chi?"), giudica il Jobs act presentato
dal suo segretario. Tentando di sfuggire alla polemica («in questi giorni ho declinato inviti dai principali talk
show per non alimentare polemiche negative per il Pd»), ma senza riuscire a resistere alla battuta: «Se ho
letto il testo? Certo, non è una lettura molto impegnativa...». E come lo trova? «Non è un piano, è un indice di
titoli, largamente condivisibili visto che coincidono in gran parte con quelli contenuti nel documento sul lavoro
approvato dall'Assemblea nazionale del Pd nel maggio 2010, e già richiamati nel programma del governo
Letta. Mancano però due titoli decisivi». «Una radicale correzione di rotta della politica mercantilista
dell'eurozona. I titoli presentati si limitano all'ambito delle misure dal lato dell'offerta, mentre abbiamo un
drammatico bisogno di sostenere la domanda effettiva». E l'altro titolo decisivo? «Una redistribuzione del
tempo di lavoro. Non le 35 ore, ma pensioni flessibili, contratti di solidarietà, part time, congedi parentali: un
insieme di interventi che, senza dirigismi, spingano verso la redistribuzione del tempo di lavoro. Questi sono
due titoli fondamentali: tutti gli altri sono utili ma complementari». Vuole dire che senza questi due aspetti
manca l'ossatura fondamentale? «Senza, mancano i pilastri. Ma ho apprezzato che il documento sia frutto
del lavoro congiunto dei responsabili lavoro ed economia, noto una disponibilità culturale ad andare avanti sul
piano macroeconomico». Non si fa cenno all'articolo 18... «L'ho apprezzato, perché oggi riproporre interventi
sull'articolo 18 significa ricadere prigionieri dell'ideologia liberista. Il fatto che non sia menzionato spero voglia
dire che non si tocca più la legislazione che lo riguarda». I ministri Giovannini e Zanonato fanno notare il
problema delle coperture... «Discutere dei titoli comporta qualche difficoltà nel fare valutazioni di finanza
pubblica. Per esempio, l'assegno universale è finanziato dai contributi dei lavoratori e delle imprese, o dalla
fiscalità generale? E' una differenza sostanziale. E ancora: si affianca o sostituisce la cassa integrazione?
Riguarda solo chi perde il posto di lavoro - e questo mi preoccupa - o anche quelli che non riescono a trovare
lavoro?». Cgil e Cisl aprono. E pure il commissario Ue alle politiche del lavoro. «Per la parte che conosciamo
è difficile essere in dissenso con questi titoli. Dipenderà poi dallo svolgimento». Lei ha accusato Renzi di
avere una visione padronale del partito. Anche in questa occasione secondo lei? «Per arrivare al documento
di maggio 2010 lavorammo 4 mesi incontrando i gruppi parlamentari, le rappresentanze, i territori. L'apertura
non mi pare il dato distintivo dell'attuale segreteria. Spero che a partire dall'incontro in Direzione ci saranno
sedi e occasioni per discutere». Quindi farà pervenire le sue critiche... «Darò il mio contributo con spirito
costruttivo, nonostante i problemi dei giorni scorsi». Cioè le sue dimissioni: ma veramente per una battuta?
«La battuta viene a valle di mesi non solo di legittime critiche, ma di caricature distruttive del governo. Non è
sostenibile una situazione in cui c'è chi al governo ci mette la faccia, e chi tira le freccette».
Sbilanciato
Si limita all'ambito delle misure dal lato dell'offerta mentre abbiamo bisogno di sostenere la domandaTempo del lavoro
Va redistribuito con pensioni flessibili contratti di solidarietà part time e congedi parentali
Aperture dei sindacati
Per quanto ne sappiamo è difficile essere in dissenso con questa proposta. Dipenderà poi dallosvolgimentoArticolo 18
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 28
Non riproporre interventi è positivo perché si evita di ricadere prigionieri dell'ideologia liberista Spero non si
tocchi più
Foto: Il viceministro dimissionario, Stefano Fassina
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 29
L'INTERVISTA Barra: «Perché Alliance Boots per ora non guarda all'Italia» IL MERCATO NAZIONALE È TROPPO FRAMMENTATO PER ATTRARRE NUOVI INVESTIMENTIOCCORRE MAGGIORE CERTEZZA NELLA PROGRAMMAZIONE PREFERIAMO CRESCERE NEGLISTATI UNITI, NEI PAESI EMERGENTI COME LA CINA (DOVE GIÀ ABBIAMO ALLEATI) E IN AMERICALATINA Rosario Dimito R O M A «Anche se la nostra filiale Alliance Healthcare Italia è la seconda azienda di distribuzione del Paese,
l'Italia rappresenta una percentuale ridotta del nostro fatturato globale (27,4 miliardi, ndr)). Il mercato italiano
è troppo frammentato, i margini sono i più bassi del mondo e c'è un problema di ritardo dei pagamenti da
parte dello Stato. Continuerò sempre a difendere l'italianità, ma per attrarre investimenti è necessario, tra le
altre cose, che le aziende siano messe nelle condizioni di operare con la certezza della programmazione».
Non ha peli sulla lingua Ornella Barra, la lady di ferro della distribuzione farmaceutica che, con il compagno di
vita e in affari Stefano Pessina, è a capo di Alliance Boots, un colosso radicato in 25 paesi, tre volte più
grande di Fiat-Chrysler. Nata a Chiavari, partita da una farmacia di Lavagna comprata con un prestito
bancario, oggi dall'Italia sta alla larga: vive a Montecarlo e opera tra Zurigo, Londra e l'America. Sessantuno
anni molto ben portati e all'undicesimo posto nella classifica di Fortune sulle donne più potenti del mondo,
Barra siede da un anno nel cda delle Generali. Da pioniera dell'espansione mondiale partendo dall'Italia, ha
le carte in regola per esporre, in questa intervista al Messaggero , la sua visione personale sull'Italia e sulle
sue vicende. Signora Barra, Fiat ha preso tutta Chrysler: operazione ardita? «Penso che operazioni come
quella siano un passaggio obbligato per chi ha un orizzonte di attività globale, a prescindere dal settore in cui
opera. Colgo l'importanza per Fiat di avere realizzato un'integrazione non solo industriale, ma anche culturale
con un partner con cui ha intrecciato un'alleanza cinque anni fa. Da italiana faccio loro complimenti sinceri».
Veniamo ad Alliance Boots e alla fusione con Walgreens, un gruppo ameericano leader nelle farmacie. C'è
chi l'ha accostata alle nozze tra Fiat e Chrysler. «Operiamo in ambiti diversi. La partnership che abbiamo
lanciato creerà la prima impresa globale nel settore farmacia, salute e bellezza: un leader globale con oltre 11
mila negozi, una presenza internazionale in 25 Paesi con posizione di leader di mercato in Nord America e in
Europa, con circa 365.000 dipendenti. Questa partnership ci consente di beneficiare di ulteriori opportunità su
scala globale e lavorare su programmi per migliorare i livelli di servizio e l'efficienza. Abbiamo stretto un
accordo di lungo periodo con AmerisourceBergen, uno dei big della distribuzione farmaceutica negli Usa, di
cui acquisiremo una partecipazione. L'accordo è l'ultima tappa del processo di creazione di un nuovo gruppo
unico al mondo nel panorama healthcare, in grado di portare soluzioni su misura per partner commerciali,
pazienti e consumatori». Tra i passi successivi di Alliance Boots c'è sempre la crescita tramite fusioni e
acquisizioni? «Il nostro obiettivo è creare un operatore leader nel settore farmaci, cosmesi e salute a livello
globale. La collaborazione strategica annunciata nel giugno 2012 con Walgreens prima e l'accordo con
AmerisourceBergen nove mesi dopo, ci hanno permesso di conquistare gli Usa. Vogliamo consolidare le
opportunità statunitensi (e ce ne sono molte, specie su prodotti e servizi), i mercati emergenti più promettenti
come la Cina, dove abbiamo già in atto joint venture, e l'America Latina. Si può crescere organicamente, ma
anche attraverso fusioni e acquisizioni. Bisogna saper cogliere le giuste opportunità quando e dove si
presentano. L'apertura ai mercati è tra le nostre priorità ma non vogliamo imporre un modello standard: è
necessario declinarlo in base alle differenze culturali e alla fase di sviluppo dell'azienda». Unicredit ha in
essere con Alliance Boots prestiti per 1,1 miliardi ed è una delle vostre banche di riferimento. E' uno dei pochi
agganci con l'Italia, come mai? «Il nostro è un gruppo globale, Unicredit è una banca internazionale che ci ha
sempre supportato nella crescita. E' un istituto di grande livello e quando nel 2007 decidemmo di delistare
Alliance Boots dal London Stock Exchange, fu naturale poter contare sulla loro presenza nel pool di grandi
banche finanziatrici. Oggi continuiamo a lavorare insieme anche se di anno in anno stiamo riducendo il
debito». Possibile non ci sia in Italia una società per voi attrente? «Fare un investimento importante è un
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 30
esercizio che impone diverse considerazioni. Di certo la qualità della possibile acquisizione è al primo posto
tra le priorità. Occorre però considerare se un'impresa sia o meno inserita in un contesto economico e
regolamentare competitivo e favorevole. A parità di fattibilità, vi sono molti altri mercati che offrono maggiori
opportunità rispetto all'Italia». La rivista Fortune la considera una delle donne più potenti. Il riconoscimento è
legato anche al suo ingresso nel cda Generali? «Premetto che vivo questo riconoscimento con estrema
lusinga e come un ulteriore stimolo a cercare di fare sempre meglio e di più. Ritengo che i criteri che portano
la rivista a rivedere o a confermare il ranking annuale siano basati su dati oggettivi come la dimensione delle
attività delle società a cui si appartiene, il numero di Paesi in cui si è presenti, i collaboratori che si hanno. Per
questo motivo, più che una ricompensa a titolo personale, lo considero un riconoscimento della dimensione
internazionale del nostro gruppo». Vista la sua vasta esperienza, che consiglio darebbe al ceo delle Generali,
Mario Greco, qualora lo chiedesse? Greco è un ceo di calibro internazionale che ha creato una squadra di
manager di assoluto livello. Insieme agli altri membri del cda abbiamo l'obiettivo di favorire e proseguire il più
possibile l'internazionalizzazione della compagnia.
Foto: Ornella Barra, amministratore delegato per la distribuzione farmaceutica di Alliance Boots, il colosso
con sede a Londra
10/01/2014 18Pag. Il Messaggero - Ed. nazionale(diffusione:210842, tiratura:295190)
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Massimo Mucchetti l'intervista » «Ora Marchionne dimostri di saper fare le automobili» Il senatore Pd: «Bene Fiat-Chrysler ma il ruolo del Lingotto in Italia è in declino. E i troppi debiti si mangianogli utili» Alfa Romeo? Basta con le promesse non mantenute Pierluigi Bonora «Ultimata l'acquisizione di Chrysler, dopo la firma dell'accordo con il fondo Veba, si apre una fase molto
delicata e complessa per Fiat, specialmente in Italia». Quale, senatore Mucchetti? «Sergio Marchionne, a
questo punto, deve dimostrare di essere un grande industriale dell'auto». Nel 2016, però, si dice che
potrebbe lasciare... «Se vuole diventare un grande costruttore di auto, dovrà rimanere per almeno altri dieci
anni: i tempi dell'industria dell'auto non sono quelli della finanza». Massimo Mucchetti, Pd, presidente della
commissione Industria del Senato, commenta in questa intervista al Giornale l'operazione che ha portato Fiat
al 100% di Chrysler, manifestando insie me al plauso per la portata dell'accordo, anche una serie di
perplessità e preoccupazioni, soprattutto di aspetto finanziario. «Marchionne - aggiunge Mucchetti - si è
distinto come grandissimo negoziatore e altrettanto come comunicatore. Ma ora, forse, dovrebbe cambiare
passo». Il figlio di Suni Agnelli, il suo amico Lupo Rattazzi, da queste pagine ha sottolineato il suo
atteggiamento sempre critico nei confronti dell'ad di Fiat... «Lupo, del quale ricambio l'amicizia, sostiene che
io non parli bene di Marchionne per ragioni ideologiche. In realtà, di Marchionne ho sempre parlato bene
come creatore di ricchezza per gli azionisti, mentre da qualcheannoesprimopreoccupazioni per il declinante
ruolo di Fiat nel settore dell'auto in Italia, che rischiadiridursi aiminimiterminicongravedannoperl'interaindustria
meccanica».. Mettiamo che Marchionne si presenti domani per un'audizione davanti alla Commissione che lei
presiede in Senato. Quale domanda gli porrebbe? «Come pensa di migliorare la si tuazione finanziaria di
Fiat-Chrysler , che oggi paga interessi molto pesanti che assorbono gran parte del margine industriale.
Unasolida struttura finanziaria è la conditio sine qua non per una reale politica d'investimenti, in particolare in
Italia». E l'ipotesi del convertendo? «Si dice che Marchionne pensi a un convertendo. Se davvero sarà così
vuol dire che non avevo torto a indicare la necessità di un aumento di capitale. La cifra di 1,5 miliardi è forse
poco. L'ultima parte dell'acquisizione di Chrysler assorbe circa 4,2 miliardi di dollari». Per buona parte pagata
dalla stessa Chrysler, però. «Quando Fiat è al 100% di Chrysler queste distinzioni perdono di significato». Il
n o d o p i ù i m p o r t a n t e d a s c i o g l i e r e ? M e t t e r e i n g r a d o i l g r u p p o F i a t -
Chryslerdi invest ireinmisuraadeguataal laconcorrenza. Temo sia di f f ic i le con una Chrysler
chehaunpatrimonionettonegativo di 7,5 miliardi di dollari, dato del 2012 che oggi sarà probabilmentedipiù,
acausadeg l i i ngen t i e c rescen t i deb i t i ve rso i f ond i pens ioneesan i ta r ide id ipenden t i .
GiulianoFerrara,grandeconoscitore della politica, dice che Marchionne fa qual che può nel quadro del flop
dell'auto euroamericana. In realtà, le quattro casetedescheelaFordhannotutte patrimoni netti assai robusti».
Lastrada,quindi,nonèproprio in discesa. «L'operazione merita un plausodaisoci, mal'industria suitempi lunghi
ha altre necessità. D'altra parte, se si fa i l confronto con laFord, industrialmentepiùsolida,
sivedechequest'ultimafa circa il doppio del fatturato di Chrysler, macapitalizza6volte il valore attribuito ora alla
stessa Chrysler ». Moody's minaccia il declassamento di Fiat,maci sono analisti che hanno espresso pareri
più ottimistici. «I debiti di Fiat e Chrysler sono già oggijunk.Edunquemoltocostosi. Questo è il punto: gli
interessi passivi. Chrysler, la parte migliore del gruppo, ha un debito di 12 miliardi di dollari e 11miliardi di
liquidità;sommatigli interessi attiviepassivi,pagaancora un 1 miliardo. Se promettesse davvero di andare bene
nel tempo, potrebbe farsi prestare il denaro al 4% e non terrebbe tutti quei liquidi che non rendono». Come
vede la Fiat guidata da John Elkann? «Il presidente Elkann ha una grande responsabilità sulle spalle. Gli
Agnelli si sono posizionati da soci di riferimento di un'azienda-Paese a soci di un'azienda-mercato.
L'importante, da italiano, è che il saldo sia attivo per l'Italia. L'eventuale spostamento della sede legale in
Olanda è una decisione legittima anche se non tranquillizzante. Resterebbe comunque da vedere se si
sposta all'estero anche parte della base imponibile italiana». L'accoppiata Alfa Romeo-Maserati metterà
10/01/2014 20Pag. Il Giornale - Ed. nazionale(diffusione:192677, tiratura:292798)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 32
paura ai tedeschi? «Me lo auguro, se sull'Alfa Romeo Fiat non si ripeterà con promesse, poi non mantenute».
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COMMENTI & ANALISI Bando alle illusioni, se il pil non cresce per l'Italia aggiustare i conti è unafatica di Sisifo Guido Salerno Aletta La Befana è appena passata. Dopo il carbone che ci ha lasciato, sono arrivati i dati relativi ai conti trimestrali
delle Pubbliche amministrazioni, purtroppo ancora fermi al terzo trimestre del 2013. L'Istat li ha diffusi ieri e
non sono affatto lusinghieri, soprattutto se si considerano i risultati cumulati fino a settembre. Va premesso, a
onor del vero, che l'ultimo trimestre dell'anno è sempre quello più succulento per la finanza pubblica: su base
storica, infatti, si concentrano in questo periodo circa il 35% delle entrate relative alle imposte indirette, il 45%
dei contributi sociali e addirittura il 54% delle imposte dirette. Ne consegue, quindi, che i dati cumulati nei
primi tre trimestri del 2013, se riferiti al pil, sono peggiori da quelli di fine esercizio: il rapporto deficit/pil tende
a migliorare, così come ovviamente aumenta la pressione fiscale. In quest'ultimo caso, la variazione è molto
ampia: da due anni a questa parte, infatti, sale del 2,8% tra il terzo e il quarto trimestre. Se, quindi, la
pressione fiscale cumulata a fine settembre 2013 è stata del 41,5%, c'è da attendersi che alla fine dell'anno
appena concluso sia arrivata al massimo storico mai registrato: 44,2%. Nel 2012 arrivò al 44%. Anche il dato
del rapporto deficit/pil accumulato nei primi tre trimestri dell'anno, che l'Istat cifra nel -3,7%, una percentuale
davvero esorbitante rispetto agli impegni di rispettare il tetto del 3%, dovrebbe risentire positivam e n t e del
consistente gettito fiscale dell'ultimo trimestre. Se il complesso del gettito dell'ultimo trimestre del 2013 fosse
stato all'altezza delle attese, il rapporto deficit/pil cumulato fino a settembre potrebbe migliorare dello 0,4-
0,5%: si arriverebbe così a un rapporto deficit/pil del 3,2-3,3%. Lo sforamento del tetto, sembra quindi
davvero plausibile. Ci sono altri indicatori da tenere in considerazione: il totale delle entrate correnti
accumulato nei primi nove mesi del 2013 è di 1,7 miliardi inferiore a quello del corrispondente periodo del
2012: il risultato si ribalta quando si prendono in considerazione le entrate in conto capitale, che sono invece
cresciute di 2,9 miliardi di euro. Sul versante della spesa è proseguita la contrazione dei pagamenti per gli
stipendi ai pubblici dipendenti, che segnano -1,3 miliardi rispetto al 2012, così come sono calati quelli per
interessi, pari a 58,6 miliardi rispetto ai 61,4 dell'anno precedente. C'è da rilevare, in proposito, che per
questa ultima categoria di spese accade quanto abbiamo già rilevato per le entrate: in genere nell'ultimo
trimestre ci sono maggiori esborsi, che peggiorano il risultato acquisito a settembre di circa lo 0,2% del pil.
Non va meglio per il saldo primario, quello calcolato prima degli interessi: siamo già sotto di mezzo punto
percentuale rispetto al 2012 (+1,4% del pil invece che +1,9%): anni luce lontani rispetto al +3,1% del 2007 e
dall'obiettivo di ricostituirlo per ridurre il debito pubblico. Infine, i totali. L'aumento delle uscite totali è stato
maggiore di quello delle entrate totali: +4,8 miliardi le prime, +1,2 miliardi le seconde. Salgono ancora le
prestazioni sociali in denaro, ma purtroppo non si tratta delle pensioni, che nel 2012 sono cresciute poco più
dell'inflazione (+2,9% rispetto al +2,4%) ma del complesso degli ammortizzatori sociali. È il costo della crisi
che si scarica sulle finanze pubbliche. E dire che, nel 2013, nonostante la Cassa integrazione in deroga abbia
avuto una flessione pesante (-22,93%), le ore complessivamente autorizzate hanno superato il miliardo
(1.075,8 milioni). Ma si tratta di una ben magra compensazione, perché i sussidi pubblici sono più bassi dei
salari: minore produzione e ancora minori consumi. Con un probabile nuovo record di pressione fiscale,
stipendi pubblici che calano e posti di lavoro nel settore privato che vanno in fumo, è indispensabile che
l'economia reale riprenda quota velocemente, perché le correzioni della finanza pubblica sono ormai del tutto
inutili. Bisognava ridurre le rendite, invece di limitarsi a tassarle; ridurre davvero i tassi di interesse a medio-
lungo termine, invece di aumentare il prelievo sul capitale; immettere liquidità nell'economia, non drenarla.
Per i dati di chiusura del 2013 dovremo aspettare che l'Istat li dirami il 7 aprile prossimo. Giusto in tempo per
l'uovo di Pasqua, sperando di non dover fare l'agnello sacrificale. (riproduzione riservata)
10/01/2014 16Pag. MF - Ed. nazionale(diffusione:104189, tiratura:173386)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 34
Foto: Enrico Lettta
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 35
COMMENTI & ANALISI Una certificazione per ammazzare le start up Edoardo Narduzzi Secondo voi quanti mafiosi o camorristi hanno già pensato di riciclare quanto guadagnato illecitamente
investendo in una rischiosa start up innovativa? E quanti membri della 'ndrangheta o della malavita pugliese
sono pronti a investire in imprese tecnologiche? Evidentemente molti, visto che la legge obbliga le
amministrazioni alla verifica delle posizioni dei soci delle start up innovative per verificarne la potenziale
«mafiosità». Tutto ciò significa che, in un mondo della tecnologia e del business che procedono alla velocità
della luce, le imprese innovative italiche perdono preziosi mesi perché le prefetture competenti per territorio
possano verificare le possibili infiltrazioni mafiose prima di autorizzare il finanziamento pubblico della start up.
Perché, ovviamente, non basta l'autocertificazione di non mafiosità da parte dei soci. Quello del concreto
funzionamento nella pratica delle start up innovative è solo l'ultimo esempio, in ordine temporale, dello
sganciamento tra le modalità di funzionamento della PA italica e il resto del mondo avanzato.
Fortissimamente volute dal ministro pro tempore dello sviluppo economico, Corrado Passera, che ne ha fatto
il fiore all'occhiello della sua avventura governativa, le start up innovative certificano quanto l'alta burocrazia
sia ormai incapace di analizzare i concreti fenomeni economici nei loro aspetti specifici. Una start up
innovativa ogni 100 è destinata a produrre reddito e guadagno in chi ci investe e, per tale ragione, è tutto
tranne che un veicolo ideale per riciclare denaro sporco. Per realizzare questo obiettivo sono molto più
funzionali gli immobili, le opere d'arte oppure gli esercizi commerciali al dettaglio. Figuriamoci se un
malavitoso investe il suo bottino in una nuova società nella quale, se tutto gli va bene, forse recupera
qualcosa dopo cinque o sei anni. Eppure, a nessun burocrate, mentre veniva scritta la nuova legge sulle start
up innovative che, tra i molti obblighi speciali, prevede la maggioranza assoluta delle azioni in capo a persone
fisiche, la presenza di Ph.D in materie scientifiche tra i dipendenti o i soci, un oggetto sociale specificamente
finalizzato all'innovazione tecnologica e perfino il vincolo alla non cessione delle quote per alcuni anni pena la
perdita dei benefici riconosciuti. A nessuno è venuto in mente di esonerare le start up innovative dagli
obblighi della certificazione antimafia. Il risultato è aberrante: lo Stato vorrebbe finanziare le start up
innovative meritevoli utilizzando anche fondi comunitari, ma perde prezioso tempo nell'attesa della
certificazione antimafia. Così la stessa idea viene sviluppata altrove e il pil italico arretrata. Una offesa al
buonsenso e l'ennesima riprova che, salvare l'Italia dal default con una PA con una cultura tanto borbonica
diventa, settimana dopo settimana, un'impresa oggettivamente impossibile. (riproduzione riservata)
10/01/2014 16Pag. MF - Ed. nazionale(diffusione:104189, tiratura:173386)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 36
editoriale Fondazioni e baruffe senesi Lo scontro Profumo-Mansi e il futuro ruolo degli enti nel sistema bancario Il caso Monte dei Paschi dovrebbespingere a fare chiarezza sugli assetti azionari negli istituti dove il controllo è nelle mani di organismi del tuttoparticolari In molti casi, come a Genova, non aver ridotto le quote detenute nelle banche si è dimostrata unascelta fallimentare Enrico Romagna-Manoja Lo scontro di fne anno tra il management del Monte dei Paschi di Siena e la Fondazione che ancora controlla
la quota di maggioranza relativa della banca ha riproposto in tutta la sua gravità il problema degli enti che
continuano ad avere un ruolo dominante nel sistema creditizio italiano. Tra Alessandro Profumo e Antonella
Mansi è andata in scena una sfda tra caratteri forti, ognuno dei quali aveva ragioni da vendere. Il presidente
del Monte dei Paschi e il suo amministratore delegato Fabrizio Viola, catapultati a Siena per cercare di
salvare il salvabile dopo il ciclone Mussari, avevano dalla loro un piano industriale che sta cominciando a
dare i suoi frutti ma che aveva bisogno, per consolidarsi, di un aumento di capitale da 3 miliardi grazie al
quale restituire al Tesoro i Monti-bond gravati da tassi d'interesse incompatibili per una banca che deve
recuperare credibilità e ossigeno fnanziario. L'errore dell'ex numero uno di Unicredit è stato quello di pensare
che poteva far passare il suo progetto senza fare i conti con l'indebolita Fondazione, costretta a vendere il
suo 33% per rimborsare i debiti contratti in occasione dell'ultima ricapitalizzazione della banca. La Mansi,
sbarcata a sorpresa in quella particolarissima città dove due volte all'anno si svolge il Palio, non poteva
accettare una tempistica per l'aumento che equivaleva sostanzialmente alla propria autoliquidazione. C'è
subito chi ha gridato allo scandalo delle solite Fondazioni bancarie prone ai voleri dei partiti che ne inquinano
gli organi decisionali. La realtà dei fatti è che è mancata completamente la volontà del management della
banca e della Fondazione di trovare un'intesa (non impossibile, visto che si trattava di pochi mesi di
differenza per l'avvio dell'aumento di capitale). Ed è mancata anche la capacità di quelle che un tempo si
chiamavano autorità monetarie (Banca d'Italia e Tesoro) di imporre una soluzione di compromesso grazie alla
moral suasion. Il tema del ruolo delle Fondazioni bancarie nel sistema creditizio italiano resta però irrisolto. La
riforma Ciampi-Amato del 1990 che avviò la privatizzazione delle banche pubbliche prevedendo la
progressiva cessione delle partecipazioni in capo alle Fondazioni mostra ormai tutti gli acciacchi della sua
età. Laddove la riforma non è stata rispettata perché le Fondazioni hanno mantenuto la maggioranza del
capitale delle banche controllate (Carige e Mps) i problemi sono defagrati, come hanno reso evidente le
ultime vicende di questi due gruppi. Le cose sono andate meglio quando le Fondazioni si sono diluite e hanno
consentito le aggregazioni dalle quali sono nati i due maggiori istituti italiani a livello internazionale, Unicredit
e Intesa SanPaolo. Il fatto stesso che si ipotizzi oggi una possibile vendita delle quote del Monte dei Paschi di
proprietà della Fondazione senese ad altre Fondazioni dimostra che il ruolo di questi enti a cavallo tra il
pubblico e il privato è lungi dall'essere diventato irrilevante. Anzi, senza le Fondazioni, la crisi fnanziaria di
questi anni avrebbe probabilmente spazzato via diversi istituti. Ciò non toglie che sia giunta l'ora di rimettere
mano alla normativa per rendere un po' più moderno l'impianto globale del sistema bancario italiano.
Foto: Nella foto, Antonella Mansi
10/01/2014 9Pag. Il Mondo - N.1 - 17 gennaio 2014(diffusione:79889, tiratura:123250)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 37
Coverstory L'Eurozona dà chiari segnali di ripresa, pur se non omogenea né equilibrata. Un'area di incertezzaè la salute delle sue banche. Politica monetaria Il punto di vista del managing director Fmi E ora (per crescere) benzina nel motore CHRISTINE LAGARDE Le più recenti previsioni fssano l'aumento del pil mondiale a + 3,6% nel 2014. Un buon tasso, anche seinferiore alla potenziale performance di circa il 4% «di Christine Lagarde * L'economia globale nel 2013 è rimasta in bilico tra speranza e incertezza. Anche se la ripresa ha acquistato
slancio, soprattutto in alcune delle economie avanzate, l'economia mondiale non sta ancora viaggiando a
pieno ritmo, ed è probabile che resti sottotono per tutto l'anno prossimo. Le più recenti previsioni del Fondo
monetario internazionale fssano la crescita del pil globale al 3,6% nel 2014, il che è un buon tasso ma
inferiore alla potenziale crescita di circa il 4%. In altre parole, il mondo potrebbe generare molti più posti di
lavoro senza arrivare ad aumentare la pressione infazionistica. Questo vuol dire che i membri del Fmi, che
siano economie avanzate, in via di sviluppo o emergenti, devono fare uno sforzo in più. Una ripresa forte e
duratura che fa crescere tutti i Paesi e tutti i popoli esige che i politici premano l'acceleratore su tutti i fronti,
fscale, strutturale e fnanziario. Allo stesso tempo, la comunità internazionale deve rivitalizzare il suo impegno
per rafforzare la cooperazione attraverso il G-20, il Fmi e altri attori. Infatti, solo tramite tali collaborazioni
possiamo superare del tutto l'impatto della crisi globale. Abbiamo sicuramente evitato il peggio (la Grande
Depressione II) negli scorsi cinque anni, grazie agli sforzi politici in tutto il mondo, in particolare la
determinazione con cui le banche centrali hanno tenuto bassi i tassi di interesse e sostenuto il sistema
fnanziario, insieme agli incentivi fscali in alcuni Paesi. Ma è arrivato il momento di andare oltre, per esempio
usando lo spazio creato dalle politiche monetarie non convenzionali per attuare riforme strutturali che
possono dare impulso alla crescita e creare occupazione. Quello che accade nelle economie avanzate è
fondamentale per aprire opportunità di ripresa in tutto il mondo e, nonostante le recenti performance più forti, i
rischi di stagnazione e defazione ancora incombono. Le banche centrali dovrebbero tornare a politiche
monetarie più convenzionali solo quando si sarà saldamente radicata una crescita robusta. Gli Stati Uniti
sono stati a lungo il motore principale dell'economia globale e la domanda privata negli Usa ha riacquistato
vigore. Ma all'orizzonte vedo alcuni importanti nodi da sciogliere, per esempio è essenziale che i politici
mantengano l'impegno assunto con il recente accordo sul budget e mettano fne al braccio di ferro politico sul
futuro fscale del Paese. Una maggiore certezza sulla direzione della politica americana potrebbe riportare la
crescita a livelli in grando di risollevare l'intera economia globale. In Giappone, la ripresa è stata stimolata da
un mix di politiche monetarie e fscali aggressive note come Abenomics. Questo è un cambiamento
importante. La sfda ora è accordarsi sugli aggiustamenti fscali di medio termine e implementare le riforme
strutturali, inclusa la deregulation dei mercati dei prodotti e dei servizi e le misure per aumentare la
partecipazione delle donne al mercato del lavoro, necessarie per dare solide fondamenta alla crescita e
fnalmente allontanare lo spettro della defazione. Anche l'Europa è in una fase cruciale. L'eurozona sta
fnalmente mostrando segni di ripresa, ma la crescita non è omogenea né equilibrata. Anche se molti Paesi
stanno andando bene, la domanda in generale resta debole e la disoccupazione nella periferia troppo alta,
soprattutto tra i giovani. Un'area di incertezza per l'Europa è la salute delle sue banche. Gli imminenti stress
test e le verifche sulla qualità degli attivi possono aiutare a ripristinare la fducia e far avanzare l'integrazione
fnanziaria, ma solo se saranno condotti nel modo giusto. L'Europa ha bisogno anche di potenziare la
domanda, rafforzare la sua architettura fnanziaria e fscale e mettere in atto riforme strutturali per assicurare
una crescita sostenuta e la creazione di posti di lavoro. Negli ultimi cinque anni i mercati emergenti sono stati
alla guida della ripresa economica: insieme con i Paesi in via di sviluppo, hanno rappresentato tre quarti della
crescita del pil globale. Ma lo slancio di queste economie ha subito una frenata nel 2013, perché l'incertezza
sui tempi della normalizzazione della politica monetaria negli Usa ha coinciso con i dubbi sulla sostenibilità
del loro percorso di crescita. Pur se le grandi preoccupazioni si sono dissipate, le economie emergenti
10/01/2014 18Pag. Il Mondo - N.1 - 17 gennaio 2014(diffusione:79889, tiratura:123250)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 38
dovranno fronteggiare nuove sfde di gestione. In risposta a una domanda rallentata, i politici devono essere
cauti rispetto agli eccessi fnanziari, specialmente nella forma di bolle degli asset o crescita del debito.
Dovrebbero anche concentrarsi sul rafforzamento della regulation fnanziaria, per gestire i cicli del credito e i
fussi di capitale in maniera più effcace, e sulla ricostruzione di spazi di manovra fscali. Anche i Paesi a basso
reddito sono stati un'oasi di buone performance per l'economia globale negli ultimi cinque anni. Si sono
dimostrati resistenti alla crisi e molti, specialmente in Africa, dove l'output annuale è cresciuto di circa il 5%
nel 2013, benefciano oggi di una forte crescita. Ora è il momento di fare leva profcuamente su questi risultati,
innanzitutto rafforzando la capacità di questi Paesi di far salire le loro entrate. Con l'indebolirsi della domanda
proveniente dai mercati emergenti, i Paesi a basso reddito dovrebbero puntellare le loro difese contro una
grave recessione, anche mentre continuano a concentrare la loro spesa sui fondamentali programmi sociali e
progetti infrastrutturali. I Paesi mediorientali in transizione devono fare i conti con altri tipi di sfde, in
particolare l'instabilità sociale e l'incertezza politica. Questi problemi dovrebbero essere affrontati gettando le
basi per economie dinamiche e trasparenti, promuovendo una crescita più inclusiva e assicurando un
sostegno costante da parte della comunità internazionale. Anche se le sfde variano a seconda dei Paesi e
delle regioni, dovremo affrontare anche molti problemi comuni negli anni a venire. Troppi Paesi portano la
pesante eredità di un alto debito pubblico e privato, di squilibri fscali e di conto corrente e di modelli di
crescita incapaci di generare suffcienti posti di lavoro. La comunità internazionale deve anche completare le
riforme regolatorie che servono a creare un sistema fnanziario più sicuro che supporti meglio le necessità
dell'economia reale. Queste non sono sfde astratte. Solo affrontandole possiamo assicurarci la prosperità
futura in un momento in cui miliardi di persone aspirano ad avere di più, trovare un lavoro, liberarsi dalla
povertà, unirsi prima o poi alla classe media globale. Nel 2014 dobbiamo adoperarci per avvicinarci sempre
più a trasformare queste aspirazioni in realtà. Il Fmi è deciso a lavorare con i suoi 188 Paesi membri per
defnire e attuare le misure politiche che possono mettere benzina nei motori della crescita e migliorare la vita
delle persone con una rinnovata prosperità. * Christine Lagarde è managing director del Fondo monetario
internazionale
10/01/2014 18Pag. Il Mondo - N.1 - 17 gennaio 2014(diffusione:79889, tiratura:123250)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 39
Coverstory Gli Stati Uniti stanno emergendo come l'economia più forte del mondo sviluppato. È il vantaggiocompetitivo dello shale gas. Finanza Tra Usa, Europa, Giappone e Cina il panorama migliora Ci aspettano grandi sfde politiche GEORGE SOROS La crisi ha trasformato l'Ue da oggetto meraviglioso in qualche cosa di radicalmente diverso. E adesso l'europotrebbe addirittura fnire con il distruggerla George Soros * Con la chiusura del 2013, i tentativi di rivitalizzare le economie più potenti del mondo, con l'eccezione
dell'Eurozona, stanno producendo un benefco effetto in tutto il mondo. I problemi che ora minacciano
l'economia globale sono di carattere politico. Dopo 25 anni di stagnazione, il Giappone sta cercando di
rinvigorire la sua economia ricorrendo all'alleggerimento quantitativo a livelli mai tentati fnora. Non è un
esperimento esente da rischi: una crescita più veloce potrebbe far schizzare i tassi di interesse, rendendo
insostenibili i costi del debito. Ma il primo ministro Shinzo Abe è disposto ad assumersi questo rischio
piuttosto che condannare il Giappone a una lenta morte. E, a giudicare dall'entusiastico sostegno pubblico,
anche i giapponesi la pensano così. Per contro, l'Unione europea sta andando verso il tipo di stagnazione
persistente da cui il Giappone sta disperatamente cercando di scappare. La posta in gioco è alta: le singole
nazioni possono sopravvivere alla perdita di un decennio o anche più, ma l'Ue, un'associazione incompleta di
nazioni, potrebbe facilmente venirne disintegrata. Il progetto dell'euro, che è stato modellato sul marco
tedesco, ha un difetto fatale. Creare una Banca centrale comune senza un Tesoro comune signifca che i
debiti del governo sono denominati in una valuta che nessun singolo Paese membro controlla, rendendo
ciascuno soggetto al rischio di default. Come conseguenza del collasso del 2008, diversi Paesi membri si
sono fortemente indebitati e i premi per il rischio hanno reso permanente la divisione dell'Eurozona tra Paesi
creditori e Paesi debitori. Questo difetto avrebbe potuto essere corretto sostituendo i bond dei singoli Paesi
con Eurobond. Purtroppo, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, rispecchiando il radicale cambiamento
nell'atteggiamento dei tedeschi verso l'integrazione europea, ha escluso questa possibilità. Prima della
riunifcazione, la Germania ha rappresentato il motore dell'integrazione; ora, con un netto cambio di direzione,
dovuto anche ai gravosi costi della stessa riunifcazione, i contribuenti tedeschi sono decisi a evitare di
diventare le ricche tasche cui attingono i debitori europei. Dopo il collasso del 2008, la Merkel ha insistito sul
fatto che ciascun Paese dovesse occuparsi delle sue istituzioni fnanziarie e che i debiti pubblici dovessero
essere ripagati in toto. Senza rendersene conto, la Germania sta ripetendo il tragico errore commesso dalla
Francia dopo la Prima guerra mondiale. L'ostinazione con cui il primo ministro Aristide Briand impose allora
alla Germania di pagare esorbitanti danni di guerra ha portato all'ascesa di Hitler; la politica e le posizioni di
Angela Merkel stanno aprendo la strada ai movimenti estremisti in tutto il resto d'Europa. Come risultato, la
crisi ha trasformato l'Ue da un «oggetto meraviglioso» che ha ispirato entusiasmo in qualcosa di radicalmente
diverso. Quello che doveva nelle intenzioni essere un'associazione volontaria di Stati uguali che sacrifcavano
parte della loro sovranità in nome del bene comune (l'incarnazione dei principi della open society) è stato
trasformato dalla crisi dell'euro in una relazione tra Paesi creditori e debitori che non è né volontaria né
uguale. Anzi, l'euro potrebbe addirittura fnire col distruggere l'Ue. In contrasto con l'Europa, gli Stati Uniti
stanno emergendo come l'economia più forte del mondo sviluppato. L'energia shale ha dato agli Usa un
importante vantaggio competitivo nell'industria manifatturiera in generale e in quella petrolchimica in
particolare. Il settore bancario e le famiglie hanno fatto dei passi in avanti nel deleveraging. L'alleggerimento
quantitativo ha fatto salire il valore degli asset. E il mercato immobiliare gode di miglior salute, l'edilizia sta
abbassando il tasso di disoccupazione. Il drenaggio fscale (fscal drag) esercitato dai pesanti tagli alla spesa è
quasi esaurito. Fatto ancor più sorprendente, la polarizzazione della politica americana mostra segni di
cedimento. Il sistema bipartitico ha funzionato abbastanza bene per due secoli, perché entrambi i partiti
dovevano competere per conquistare l'americano moderato nelle elezioni generali. Poi il Partito Repubblicano
è stato catturato da una coalizione di fondamentalisti religiosi ed estremisti del mercato, ultimamente
10/01/2014 24Pag. Il Mondo - N.1 - 17 gennaio 2014(diffusione:79889, tiratura:123250)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 40
rafforzati da apporti di neo-conservatori, che hanno spostato gli equilibri del partito verso posizioni di estrema
destra. I Democratici hanno cercato di non essere da meno per catturare gli elettori di centro e i due partiti
hanno segretamente cospirato per attuare un sistematico gerrymandering, pratica che forza i confni dei
distretti Congressuali, permettendo di mettere preventivamente al sicuro il maggior numero possibile di seggi
al Congresso. Di conseguenza, le primarie di partito, dominate dagli attivisti, hanno assunto più importanza
delle elezioni generali. Questo ha chiuso la parabola della polarizzazione della politica americana. Alla fne,
l'ala del Partito Repubblicano detta Tea Party ha forzato la mano. Dopo il recente disastro dello shutdown del
governo federale, quel che resta dell'establishment Repubblicano ha cominciato a reagire e ciò dovrebbe
portare a una risorgenza del sistema bipartitico come è stato tradizionalmente. Il principale punto
interrogativo che il mondo si trova davanti oggi non è l'euro ma la futura direzione che prenderà la Cina. Il
modello di crescita cui si deve la sua rapida ascesa sta perdendo colpi. Questo modello dipendeva dalla
repressione fnanziaria delle famiglie, al fne di alimentare la crescita di esportazioni e investimenti. Il risultato è
che il settore delle famiglie si è contratto fno a rappresentare solo il 35% del pil e i suoi risparmi forzati non
sono più suffcienti a fnanziare la crescita. Ciò ha portato a un aumento esponenziale nell'uso di varie forme di
fnanziamento del debito. Ci sono alcune inquietanti somiglianze con le condizioni fnanziarie degli Usa prima
del collasso 2008. Ma c'è anche un'importante differenza. In America, i mercati fnanziari tendono a dominare
sulla politica; in Cina, lo Stato possiede le banche e il grosso dell'economia e il partito comunista controlla le
imprese statali. Consapevole dei pericoli, la Banca popolare cinese ha cominciato a prendere provvedimenti
nel 2012 per arginare la crescita del debito; ma quando il rallentamento ha cominciato a creare problemi reali
nell'economia, il partito ha ricordato a tutti chi comanda. A luglio 2013, i leader del Partito hanno ordinato
all'industria dell'acciaio di rimettere in azione gli altiforni e alla Banca popolare cinese di allentare le restrizioni
al credito. L'economia si è rimessa in moto in un attimo. A novembre, la Terza sessione plenaria del 18esimo
Comitato centrale ha annunciato riforme di ampia portata. Questi sviluppi sono in buona misura responsabili
del recente miglioramento dell'outlook globale. La leadership cinese ha avuto ragione nel dare la precedenza
alla crescita economica rispetto alle riforme strutturali, perché queste, unite all'austerità fscale, spingono le
economie in una caotica spirale defazionistica. Ma permane una contraddizione interna nelle attuali politiche
della Cina: riaccendere gli altiforni fa ripartire anche la crescita esponenziale del debito, che non potrà essere
sostenibile per più di due anni. L'altro grosso problema irrisolto è l'assenza di un'adeguata governance
globale. La mancanza di accordo tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite sta esacerbando le catastrof umanitarie in Paesi come la Siria. Ma, a differenza del dilemma cinese,
che si risolverà per forza nel giro di qualche anno, l'assenza di una governance globale potrebbe andare
avanti a tempo indeterminato. * George Soros è chairman del Soros fund management e di Open society
foundations
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 41
INTERVISTA PRIMO PIANO Imprese Parla Diana Bracco, vicepresidente di Confndustria, presidentedell'Expo e dell'omonima azienda A caccia dello sviluppo L'innovazione è fondamentale per ridare ossigeno al Paese. Ma su questo fronte il governo si è limitato atimidi segnali. L'Esposizione? Rappresenta un driver anticiclico di crescita Filippo Astone «Caro presidente Letta, il credito di imposta che ha concesso alle imprese per le attività di ricerca e sviluppo
è un segnale, ma non basta. Bisogna fare di più, e molto rapidamente». Diana Bracco , numero uno
dell'omonima azienda, vicepresidente di Confndustria per la R&S, presidente di Expo 2015, è combattiva. E
si associa al presidente nazionale Giorgio Squinzi nel prendere le distanze da Enrico Letta , che in questo
momento sostanzialmente accusa di immobilismo. Bracco, in questa intervista al Mondo parla di ciò che le
sta a cuore. Un colloquio nel quale affronta gli argomenti caldi della sua triplice attività, che ruotano tutti
attorno al tema della ricerca e sviluppo. Domanda. Ma la recente Legge di Stabilità ha previsto per il 2014 un
credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali sostenute dalle imprese rispetto all'anno precedente.
Con un'agevolazione massima di 2,5 milioni di euro per impresa, con una spesa minima di 50 mila euro in
R&S... Risposta. Non basta! La crisi globale richiede risposte forti. C'è bisogno di proseguire con il rigore ma
anche di politiche espansive, politiche di crescita. L'Italia è tra le nazioni Ocse che meno investono in R&S.
Se confrontiamo la percentuale di pil investita in ricerca, vediamo al top Usa, Germania, Giappone, insieme
alla Scandinavia e l'Italia si colloca nella parte bassa della classifca. Investe percentualmente meno di
Portogallo, Estonia, Slovenia, Cipro. Questo è inaccettabile. D. E dunque? R. Occorre anche in Italia un
credito d'imposta strutturale su R&I, su tutti gli investimenti non solo sull'incremento. Il credito di imposta
dovrebbe essere cospicuo, e non passare attraverso le procedure burocratiche di riconoscimento e
autorizzazione, ma essere uno strumento certo e automatico, una conseguenza della «dichiarazione dei
redditi» aziendali. E dovrebbe durare nel tempo. Pensiamo alla Francia, che ha concesso alle imprese un
credito d'imposta del 30% con un ammontare complessivo di 5,2 miliardi di euro! Grazie anche a questo è
diventata il quarto Paese al mondo per esportazione di tecnologia. D. Insomma, è una questione di soldi? R.
Non solo. È una questione di visione. Occorre che l'intera politica economica del governo sia basata su
Ricerca & Innovazione, gli unici motori in grado di assicurare al Paese un futuro di benessere e occupazione.
Non si può aspettare ancora. A livello globale, infatti, quelli che erano Stati produttori e copiatori, stanno
diventando innovatori a loro volta. D. Infatti, l'Europa sta spingendo in questa direzione... R. Il governo
europeo si sta muovendo bene, dimostrando di essere più avanti di tanti governi nazionali, Italia compresa. In
particolare, il commissario europeo Antonio Tajani sta facendo un lavoro davvero egregio. Penso al
documento Horizon 2020 (che prevede che gli investimenti in R&S siano pari al 3% del pil della Ue, cioè il
doppio della percentuale italiana, pari all'1,53%) e all'Innovation Action Plan, attraverso il quale la stessa
Commissione europea ha fatto il possibile, con i suoi poteri normativi e persuasivi, per indurre tutti gli Stati
membri a investire sul futuro. D. La Confndustria insiste molto sull'importanza di difendere il manifatturiero in
Italia... R. Non si può pensare di trasformare l'Italia in un Paese senza manifatturiero, un settore che è alla
base della nostra forza e genera il 70% del pil. Certo, dobbiamo concentrarci il più possibile sulle produzioni
ad alto valore aggiunto, visto che il basso è facilmente copiabile. Ma la produzione va tenuta vicino alla R&S,
altrimenti non funziona. Lo hanno capito anche gli Stati Uniti, che fnalmente si stanno rendendo conto che la
deindustrializzazione massiccia degli anni scorsi è stata un errore. E poi, la produzione va mantenuta qui,
perché qui c'è la cultura industriale. La ricerca & sviluppo alimenta il manifatturiero, che a sua volta è
essenziale per generare crescita e occupazione. Ma senza manifatturiero, non c'è nemmeno ricerca &
sviluppo. Sono intimamente legati. Per questo è importante l'obiettivo che si è posta l'Unione europea, che
vuole portare il manifatturiero al 20% del pil del Vecchio continente, rispetto al 15,1% che rappresenta
attualmente. Il crollo del manifatturiero che si è verifcato in Italia, dove negli ultimi cinque anni è passato dal
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 42
21% al 16% del pil, ci preoccupa davvero moltissimo. Il governo Letta ha le competenze e la capacità per
invertire questo trend. D. Ma come sta andando la presidenza Squinzi? Ci sono continue voci di scontento...
R. Ma quale scontento! Nel 2012, per l'elezione alla presidenza nazionale Confndustria si è divisa, ma poi,
fatta la scelta, come sempre avviene si è prontamente ricompattata. Giorgio Squinzi in questi mesi ha poi
fatto un grande lavoro di dialogo con la base, guadagnando un consenso universale. È riuscito a essere
presente alle assemblee di centinaia di associazioni, anche le più piccole, con una resistenza alla fatica fsica
veramente notevole. Una presenza che non è stata solo di facciata, ma fnalizzata a un confronto vero, alla
raccolta di suggerimenti e richieste che poi hanno ispirato concretamente le sue mosse da leader degli
imprenditori. Ormai, tutti lo conoscono e lo apprezzano. Anche coloro che a suo tempo avevano votato
Bombassei, ora fanno il tifo per lui, e persino i malumori legati al varo della Riforma Pesenti, votata peraltro
all'unanimità, oggi si sono assopiti del tutto. Squinzi, come me, non è un professionista di Confndustria, e
concepisce l'impegno pubblico e associativo come una missione, un servizio civile in favore della comunità.
D. E l'Expo? R. Mi impregna tantissimo. Da quando sono commissario per il Padiglione Italia, assorbe almeno
la metà del mio tempo. Comunque si lega profondamente a tutto il resto. L'Expo infatti è per l'Italia una
grande chance per ridare nuovo impulso all'occupazione e all'economia. L'Esposizione Universale è un
volano anticiclico di crescita, una straordinaria opportunità per la realizzazione di quelle infrastrutture che il
territorio chiede da anni e un'occasione storica di rilancio dell'immagine dell'Italia e del Made in Italy nel
mondo. Tra l'altro, uno dei driver fondamentali dell'Expo di Milano sarà proprio l'innovazione. Vogliamo fare
del Padiglione Italia un'occasione per valorizzare la capacità innovativa delle imprese. D. Insomma, è
soddisfatta? R. I lavori adesso procedono a pieno regime, e noi abbiamo la coscienza a posto, anche se
siamo in corsa contro il tempo. Noi italiani siamo così, specialisti nello sprint all'ultimo momento. L'Expo
rappresenta una grande occasione per imprimere una svolta a questo Paese. L'Esposizione è anche uno
straordinario attrattore di capitali stranieri, almeno un miliardo e trecentomila euro. In un momento di crisi, in
cui l'Italia fatica ad attrarre investimenti, sono risorse eccezionali. A tale riguardo, al governo Letta va
riconosciuto il merito di non aver fatto mai mancare il proprio sostegno al grande progetto Expo. D.
Addirittura! Non le sembra di esagerare con l'ottimismo? R. Assolutamente no! Oltre all'indotto economico
provocato dalla manifestazione in comparti come gli eventi, le infrastrutture, l'edilizia, sono in gioco partite
cruciali in settori come il turismo e l'agroalimentare. Con l'Expo abbiamo un'occasione unica per rilanciare in
modo strutturale il nostro turismo. Faremo in modo che chi viene dalla Cina o dalle Americhe per visitare
l'Expo, vada anche in giro per il resto d'Italia, sentendo magari il desiderio di tornarci. Non ha senso che la
Francia abbia 80 milioni di turisti all'anno e l'Italia appena 47. L'altro grande obiettivo strategico che possiamo
raggiungere è quello di riuscire a incrementare, grazie alla vetrina del Padiglione Italia, la quota di export
delle nostre grandi fliere agroalimentari. D. Veniamo ora alla Bracco spa... R. Cresce. E lo fa grazie
soprattutto ai grandi investimenti in innovazione che non abbiamo mai smesso di fare. Oggi, l'azienda investe
in R&S oltre 70 milioni di euro all'anno, più del 10% del giro di affari di riferimento nell'imaging diagnostico e
può contare su un patrimonio di oltre 1.500 brevetti. D. Come vede il futuro della Bracco? R. Sono fduciosa.
Abbiamo saputo reagire alla crisi attuale con una dolorosa ristrutturazione, e stiamo affrontando con tenacia
la forte concorrenza a livello internazionale e la crescita dei prezzi delle materie prime.
Foto: Protagonisti Giuseppe Sala, ceo di Expo 2015. Al centro, il commissario europeo Antonio Tajani. A
sinistra, Giorgio Squinzi, numero uno degli industriali
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 43
Inchiesta pendolari / Monta la rabbia la guerra dei treni Aumentano i passeggeri e i disservizi, diminuiscono i convogli. Toscana e Veneto attaccano direttamenteTrenitalia. Ma in tre anni le Regioni hanno tagliato 700 milioni per i trasporti dI MICheLe sasso - foTo dI G. CoCCo e s. esPosITo Per L'esPress Lenti, scomodi, sporchi. E sempre più rari. Treni e autobus per i pendolari sono mezzi in via d'estinzione.
ritardo: una punizione perché ho scelto di vivere in provincia», racconta Claudio, lavoro a Milano e
appartamento a Cremona. Di chi è la colpa? Come in tutti i mali italiani, le responsabilità sono plurime (vedi
box accanto). Trenitalia corre su altri binari e si concentra sui proftti dell'Alta velocità; il governo non ha soldi.
E le Regioni, vere padrone del settore, usano soprattutto le forbici: hanno tagliato 700 milioni nell'ultimo
triennio. Per molti governatori però non è soltanto una questione di fondi: latitano pulizia, comfort e rispetto
degli orari. Per questo, in un clima da tutti contro tutti, i vertici della Toscana e del Veneto tuonano contro il
numero uno delle Ferrovie Mauro Moretti. «Ai trasporti serve giustizia ferroviaria», è lo slogan del presidente
toscano Enrico Rossi (vedi intervista nell'altra pagina). Mentre per Luca Zaia le linee regionali devono
«assomigliare alle ferrovie giapponesi dove un minuto di ritardo signifca aver fallito l'obiettivo». Per entrambi il
guanto di sfda con il colosso Fs è lanciato: disdire nel 2014 il contratto e mettere il servizio a gara sperando di
migliorare le condizioni per chi viaggia. «Noi di Trenitalia non abbiamo competenze dirette», replica il direttore
del trasporto regionale Francesco Cioff: «Sono le Regioni a fnanziare il servizio, decidere quante carrozze far
viaggiare, dove fermarsi e a che ora. Se Trenitalia nell'Alta velocità ha carta bianca, nel regionale è soltanto il
gestore. Noi, in ogni caso, stiamo investendo 3 miliardi per nuovi convogli». Addio Alle Auto La dura realtà del
pendolare italiano è però innegabile: poche carrozze e meno pullman, mentre ogni anno 200 mila passeggeri
in più affollano stazioni e fermate. «Per la prima volta assistiamo a un cambio di domanda storica e invece di
incoraggiare questa tendenza, viene considerata solo una spesa da sfoltire», commenta Marcello Panettoni,
presidente di Asstra, l'associazione delle imprese di trasporto pubblico. «L'effetto immediato dei fondi ridotti è
la drastica riduzione delle carrozze, a volte soltanto due per treno», dice sconsolato Cesare Carbonari, del
comitato Torino-Milano, una delle tratte "maledette" (vedi grafco a pag. 29) che serve 20 mila viaggiatori.
«Non si investe, tranne che sull'Alta velocità. A Torino dalle sei del mattino abbiamo 5 mila posti "di lusso"
contro 2 mila per noi. Ma l'abbonamento per il Frecciarossa ha costi proibitivi: 300 euro invece di 130». Per i
forzati dei vagoni regionali ormai il posto in piedi è una certezza. i MuRi dellA MACRoReGioNe Tra la
Lombardia e il Veneto il braccio di ferro per la soppressione di otto interregionali che collegano Milano e
Venezia è durato tre mesi. Gli ultimi "low cost" con il biglietto da 17 euro, contro i 37 dell'Alta velocità, sono
stati cancellati con il nuovo orario del 15 dicembre: ora bisogna scendere a Verona e prendere la coincidenza
per la Laguna o viceversa per il capoluogo lombardo. I popolosi centri del Nord-Est (Treviglio, Peschiera del
Garda, Desenzano insieme a altri 11 comuni dove non fermano le Frecce) sono condannati alle quattro ruote.
Mentre il governatore Maroni sogna la Macroregione che abbraccia Piemonte, Lombardia e Veneto a trazione
leghista, il suo compagno di partito Zaia chiude le frontiere: oltre 10 milioni di viaggiatori lombardo-veneti
all'anno non sono un buon motivo per investire. «Perché dobbiamo tirare fuori noi 4 milioni per i pendolari
lombardi?», sostiene l'assessore veneto ai trasporti Renato Chisso. Maroni, intanto, promette meraviglie: 62
nuovi treni in servizio sulle linee regionali. Un miracolo subito ridimensionato dal consigliere lombardo del Pd
Agostino Alloni: «Di nuovo c'è ben poco: 40 su 62 erano stati già annunciati dal suo predecessore Formigoni
e fnora nessuno li ha visti». COTA SALVA SOLO LA SUA NOVARA Non va meglio in Piemonte dove il
governatore Roberto Cota ha deciso di depotenziare 28 tratte e allo stesso tempo rincarare le tariffe del 20
per cento. Per la rete locale occorrono 610 milioni di euro ma mancano all'appello 125 milioni. Così si scarica
sugli utenti un servizio che arretra senza sosta: la Torre Pellice-Pinerolo chiusa, nonostante sino al 2005 le
Fs avessero investito più di 5 milioni per rinnovarla. Inutilmente: ora si è passati agli autobus. Salvata invece
la Novara-Varallo, che resterà attiva, ma a servizio ridotto. «I 600 mila euro necessari al suo funzionamento
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 44
sono stati recuperati "saccheggiando" altri assessorati», spiega il consigliere Pd Davide Gariglio: 400 mila
sono arrivati dal budget per la cultura, 100 mila dai "contributi della Provincia di Novara per i servizi su
gomma" e altrettanti da quelli destinati al Vercellese. Fondi dirottati sulla città che ha dato i natali al
presidente Cota. Mentre a Vercelli, a causa della soppressione delle corse extraurbane del sabato, le scuole
superiori sono passate alla settimana corta. RiSpARmi ALLA BOLOGNESE Più di 140 mila pendolari emiliani
e romagnoli sono costretti alla ritirata a causa dell'Alta velocità. Come sulla BolognaPrato, la linea per arrivare
a Firenze, chi deve varcare gli Appennini o accetta tariffe triplicate o si rassegna a due ore di viaggio a rischio
di soppressioni e ritardi. Così anche sulla Modena-Carpi-Mantova e sulla Bologna-Ravenna: manca
personale, si guasta una locomotiva e un collegamento viene cancellato. Un'epidemia: nei primi otto mesi del
2013 sono svaniti 7.558 treni, da aggiungere ad altri 10 mila depennati dal 2010. Oltre 17 mila convogli fniti
su un binario morto, più di 5 milioni di persone lasciate a terra in nome della spending review. E le
soppressioni colpiscono sempre le stesse corse. Quella delle 17.10 da Bologna, cancellata per mancanza di
personale, punisce chi fa la spola tra Emilia e Veneto. Poi ci sono i ritardi: a volte superano i 50 minuti, per
chi arriva dal Mantovano. Tra bagni rotti, nidi di vespe, assenza di manutenzione, il consorzio che gestisce le
linee regionali ha accumulato 13 milioni di sanzioni per "non aver rispettato gli standard di qualità minimi".
Andrà avanti così fno alla metà del 2014, quando ci sarà la nuova gara per questo servizio. La giunta di
Vasco Errani ha messo sul piatto 153 milioni di base d'asta all'anno. «Assicuriamo 22 anni di gestione ma
vincoliamo il contratto a 400 milioni di investimenti per i nuovi convogli», spiega l'assessore ai Trasporti
Alfredo Peri. Una montagna di denaro per tentare di arrestare un degrado «provocato da un lato da una mala
gestione, dall'altra da vagoni vetusti», ammette Peri. Il conto è semplice: dal governo di Roma arrivano 363
milioni, mentre ne servono 410. La Regione deve tirare fuori la differenza. E comunque non basta perché
sono spariti con il nuovo orario i vagoni tra Modena e Sassuolo, Parma e Fornovo, Ferrara e Suzzara,
sostituiti con bus. «Le percorrenze si allungano e i pendolari continuano a viaggiare come sardine sui pochi
convogli sopravvissuti», dichiara Renato Golini del comitato utenti ferroviari. SABOTAGGI AI BUS DI
PERUGIA In Umbria la voragine nel trasporto pubblico ha creato una situazione drammatica. Dalla protesta si
è arrivati persino ai sabotaggi: il 16 ottobre a Perugia sono state rubate le chiavi di quasi 70 autobus di linea.
«Sicuramente è stato uno di noi», spiega un autista di Umbria Mobilità (l'azienda dei pullman e treni regionali
passata da poco sotto il controllo di Trenitalia). Da mesi i 1.300 dipendenti ricevono stipendi a singhiozzo. È
la reazione a catena dei tagli: i Comuni di Perugia, Terni, Spoleto non hanno versato i loro contributi, aprendo
un buco di 12 milioni nella cassa collettiva. Il risultato? L'ex ferrovia umbra in un decennio è cresciuta di soli
quattro chilometri e i tratti elettrifcati sono una rarità con 45 motrici su 49 ancora a diesel. Ma anche le rotte
dei pullman scompaiono e raggiungere Roma diventa un'avventura da Grand Tour ottocentesco. Filippo,
spoletino con contratto alla Rai nella capitale, racconta il suo calvario: «Il tempo di percorrenza è aumentato
di mezz'ora, signifca perdere 5 ore alla settimana che devo recuperare fermandomi di più la sera». BATMAN
BATTE I PENDOLARI Gli investimenti danno la misura del baratro tra politica e vita quotidiana. Nel 2012 la
Regione Lazio ha stanziato 32 milioni di euro per l'acquisto di nuove carrozze, contro i 35 milioni destinati alle
spese folli dei gruppi consiliari. Mentre Franco Fiorito detto Batman si muoveva sulla Jeep pagata con fondi
pubblici, colonne di lavoratori si sono messi in fla all'alba per raggiungere gli uffci nella capitale in un'odissea
di ritardi e disservizi. Inutile protestare: con anni di mala gestione e sprechi il trasporto locale ha accumulato
debiti per un miliardo di euro. Così ogni mattina 200 mila pendolari marciano lungo tre direttrici con spirito di
sacrifcio. A Nord c'è la lentissima linea di Viterbo, da poco elettrifcata. Tempi di percorrenza estenuanti e treni
fantasma: secondo il monitoraggio del comitato pendolari dal 2010 sono state soppresse 18 corse. Ancora
peggio la tratta Sud, quella che collega Latina, il litorale romano e la provincia di Frosinone. Lo snodo di
Campoleone (alle porte di Aprilia) è l'imbuto dove arrivano le corse da Napoli e Nettuno, una linea affollata da
treni a lunga percorrenza, merci, convogli metropolitani ma considerata poco redditizia da quando c'è l'Alta
velocità. L'ultima sorpresa è arrivata con il nuovo orario invernale. «Hanno soppresso altre due corse», nota
Rosalba Rizzuto del comitato FR8, «e per andare a Roma ci vuole mezz'ora in più. Un disastro». Si viaggia in
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 45
condizioni da Terzo mondo: «Impossibile trovare un bagno funzionante e immaginate se qualcuno a bordo si
sente male». GAZZELLA NAPOLETANA Ogni mattina Miriana, 16 anni, si sveglia e sa che deve correre se
vuole arrivare in tempo a scuola. Non è una gazzella e non vive nemmeno in Africa ma a Poggiomarino
(Napoli) dove i convogli della Circumvesuviana oggi sono un miraggio. Dei 142 treni a disposizione, 92 sono
in manutenzione. Il resto dovrebbe garantire spostamenti per 70 mila passeggeri al giorno, tra studenti e
lavoratori. Poi ci sono i turisti, in visita a Ercolano e Pompei. Ma i vagoni circolano poco. Tutte le mattine alla
stazione di Napoli Porta Nolana un altoparlante annuncia: «Causa assenza materiale rotabile vengono
soppresse le corse». Per questo Miriana e i suoi amici sono dovuti correre ai ripari. Per coprire i 10 chilometri
che li separa dal liceo di Sarno si sono affdati a un'azienda privata. Un servizio sostitutivo ma regolare: un
pulmino con 30 posti e la puntualità garantita. A un costo di 600 euro per tutto l'anno scolastico.
«L'abbonamento alla Circumvesuviana costa 170 euro», spiega la ragazza, «ma troppo spesso ci è capitato
di dover tornare a casa o chiamare i nostri genitori per raggiungere il liceo». Un caso non isolato, se gli
autobus privati della provincia napoletana sono diverse decine. Segno che il trasporto, da queste parti, non è
più pubblico. Un nuovo business in tutta l'area vesuviana, dove rispuntano i "pulmini abusivi" proprio come
nelle città africane: incassano soldi cash, senza ricevuta, una manna per gli irregolari. Mentre la Eav, la
holding pubblica del trasporto campano, ha bisogno di denaro fresco. Con un defcit di oltre 700 milioni ha
evitato il fallimento grazie all'intervento del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che ha approvato un
piano di risanamento da un miliardo di euro. DUE MILIARDI PER SEI STAZIONI Per coprire i 100 chilometri
che separano Palermo da Trapani i treni impiegano quattro ore. Per arrivare al centro dell'isola ne occorrono
oltre otto: più del tempo del volo da Roma a New York. Per gli oltre 70 mila pendolari siciliani la ferrovia è una
chimera. Negli ultimi due anni sono stati soppressi 6mila convogli, di cui solo 1.500 sostituiti da bus. Eppure i
fondi per portare la Sicilia a livello europeo non sono mancati: nel 2001 arrivarono un miliardo e 900 milioni di
euro per il raddoppio della PalermoMessina e per la Catania-Siracusa. Dodici anni dopo, lavori al rallentatore
e binario unico quasi ovunque sono la dura realtà. Invece il sogno di vedere viaggiare il tram di Palermo è
costato fno a oggi oltre 210 milioni di euro, ma lieviterà superando 300 milioni. Doveva partire nel 2012,
hanno già comprato le carrozze che restano ferme da più di un anno. A Catania la storia della metropolitana
è diventata un'epopea. Alla fne degli anni '80 il progetto era stimato in 1.500 miliardi di lire. Valore
raddoppiato sotto il regno di Umberto Scapagnini, sindaco e medico di Berlusconi: il conto fnale sfora i 2
miliardi di euro. Modesti i risultati: i convogli passano ogni quarto d'ora nelle sei stazioni aperte lungo soltanto
3.500 metri di linea funzionanti. Soldi che forse potevano servire per dare risposte concrete al calvario dei
pendolari. hanno collaborato Fabio Lepore, Piero Messina, Andrea Palladino, Diletta Paoletti, Claudio
Pappaianni, Natascia RonchettiBasta con i carri bestiame CoLLoquIo CoN ENrICo roSSI dI ALESSANdro
AgoSTINELLI
sveglia all'alba e poi via sul primo treno dei pendolari. stavolta a fare la scelta del mezzo pubblico è il
governatore della toscana, enrico rossi, che ha cominciato a percorrere alcune tratte insieme a chi tutti i giorni
usa il treno per andare a lavorare. Presidente, come si trova ad alzarsi prestissimo per prendere un treno
regionale? «per me è un modo per sollevare l'attenzione sui pendolari e sullo stato indecoroso dei treni locali.
chi viaggia sul treno ogni giorno per andare a lavorare non è contrario all'alta velocità, ma non accetta più i
carri bestiame regionali». Tanto che lei non ha rinnovato il contratto con Trenitalia e vuole portare a gara il
trasporto toscano su rotaia. «non si può accettare il bello e il cattivo tempo dalle ferrovie dello stato, così
senza fatare. dalla versilia a firenze in treno si impiegano due ore, quando non ci sono ritardi che sono
all'ordine del giorno. sto facendo una battaglia per migliorare il trasporto regionale. in toscana basterebbero
800 milioni per intervenire sulla rete ferroviaria e sull'acquisto di nuovi convogli. invece si sono spesi 90
miliardi per costruire l'alta velocità, e il resto va a ramengo. il governo poi, con le passate fnanziarie, ci ha
pure obbligato ad aumentare i biglietti per le tratte regionali. invece, grazie al meccanismo della concorrenza
tra trenitalia e italo-ntv, i prezzi dell'alta velocità sono diminuiti, ampliando le classi da due a quattro, con posti
extralusso». Eppure l'Alta velocità ha riunito il Paese. La chiamano "la metropolitana d'Italia". «senza dubbio.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 46
Basterebbe distribuire a tutti alcune comodità del trasporto ferroviario. da una parte si viaggia nei salottini e
dall'altra in scompartimenti sporchi, su treni fatiscenti, con binari unici. come regione abbiamo affdato a
trenitalia 50 milioni per comprare nuovi treni diesel da far viaggiare sulle tratte non elettrifcate che moretti
aveva chiuso. non vogliamo una regione a due velocità». Ma quali sono i numeri dei viaggiatori sulle tratte
regionali? «ecco, questo calcolo è sorprendente. secondo legambiente, in italia usano l'alta velocità 40 mila
persone al giorno. invece, dai dati del ministero dei trasporti ogni giorno ci sono circa 68 mila utenti dell'alta
velocità contro un milione e 370 mila utenti dei treni regionali. vogliamo fare qualcosa?» Perché ce l'ha con
Mauro Moretti? «no, moretti è capace. Ha fatto una grande opera di modernizzazione per l'italia, ma non si
può mantenere l'alta velocità a scapito della maggioranza dei cittadini che usano il treno. la politica deve
riprendere in mano la situazione. la cosa più imbarazzante alle stazioni è scendere da un "carro bestiame" e
vedere i trolley che sflano verso i frecciarossa». Messa così sembra un film di Nanni Loy... Servono ulteriori
investimenti pubblici? «ecco, non vorremmo essere vittime di una nuova candid camera. purtroppo il governo
ha già regalato 70 milioni di risparmio, spartiti tra trenitalia e italo-ntv, abbassando il costo dell'uso della rete
ferroviaria nazionale. e noi, col taglio dei trasferimenti alle regioni, facciamo molta fatica».Servizi à la carte
Le Regioni ricevono i servizi per cui pagano. Il principio è semplice: Trenitalia fa il prezzo e con un catalogo in
mano dei costi per chilometro e dei vari optional - come biglietterie, assistenza collegamenti - offre il servizio
per migliaia di corse. Se i governatori sono disposti a pagare, ottengono convogli e accessori, altrimenti sono
costretti al ridimensionamento dei trasporti. Chiaramente, se Trenitalia non rispetta il contratto, allora viene
multata. La liberalizzazione iniziata a settembre 2009 - da allora le Regioni non hanno più l'obbligo di
rivolgersi esclusivamente a Trenitalia - non ha dato risultati: in assenza di concorrenza, si è rivelata inutile.
Solo la Lombardia infatti si è smarcata con l'affdamento a Trenord, partecipata a sua volta dal Pirellone e
Trenitalia. Dopo quattro anni, il risultato globale dell'operazione sembra essere una riduzione dell'offerta
ferroviaria. «L'ad di Trenitalia Moretti applica un sistema aziendale: se vuoi un servizio lo devi pagare, ma i
costi per i viaggiatori sono cresciuti e c'è un notevole peggioramento delle condizioni», commenta Matteo
Mauri, deputato Pd in commissione Trasporti, che aggiunge:«Trenitalia non ha nessuna intenzione di aprire
alla liberalizzazione perché non vuole che altri vengano a offrire lo stesso servizio a costi minori. La
reciprocità di concorrenza tra i Paesi europei è una scusa per non far entrare operatori stranieri nel tutelato
mercato italiano». Per accorciare le distanze tra viaggiatori delle Frecce e i pendolari una soluzione doveva
essere il decreto legge per "spostare" gli utili dell'Alta velocità negli investimenti sulle linee locali: ma da più di
vent'anni è chiuso in un cassetto.Carrozze d'epoca
Finanziamento pubblico per l'acquisto e sostituzione dei mezzi di trasporto dal 1997 al 2015, dati in milioni di
euroTaglia tu che taglio anch'io Percentuale dei tagli regione per regione* nei trasporti pubblici nel biennio
2010-12
* Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Marche, Puglia, Trentino Alto Adige, Umbria e Valle d'Aosta non hanno
subito tagli. Fonte: elaborazioni Anav-Asstra su bilanci regioni ed indagini diretteVoragine metropolitana
Risultato di esercizio delle principali società di trasporto urbano in euro, anno 2012 Atac Roma Actv Venezia
Amt Genova Amat Palermo Tper Bologna e Ferrara* Umbria Mobilità** Anm Napoli Amtab Bari Ctm Cagliari
Atm Milano Ataf Firenze Gtt Torino
*Tper gestisce le città di Bologna e Ferrara e il servizio ferroviario regionale. **Umbria Mobilità ha affdato il
trasporto urbano ed extraurbano e il servizio ferroviario regionale. Fonte: bilanci societari
Foto: Folla di pendolari alla stazione Napoli Nolana della Circumvesuviana
Foto: passeggeri nella circumvesuviana. a destra: un convoglio fermo sulla napoli-roma e un treno pendolari
a termini
Foto: il tabellone annuncia i treni soppressi sulla circumvesuviana
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 47
Attualità esclusivo Mr. Esselunga e i compratori misteriosi Caprotti, ora in causa con i figli, va in pensione. E ribadisce: "L'azienda resta in famiglia". Ma alcune carterivelano che più volte ha tentato di vendere tutto a gruppi stranieri. Ecco a chi LUCA PiANA - Foto Di GUiDo CLeriCi Per L'esPresso Un padre-padrone che a 88 anni di età ha infne annunciato di voler andare in pensione, lasciando le cariche
operative. Due fgli in guerra con lui. E un grande rebus sul futuro di Esselunga, il colosso dei supermercati
che, con ricavi per 6,7 miliardi di euro, in Italia è superato solo da Coop e da Conad. Nelle ultime settimane la
saga di Bernardo Caprotti e della sua famiglia si è arricchita di un nuovo colpo di scena. Dopo 62 anni di
lavoro, l'anziano imprenditore ha infatti dichiarato di aver lasciato gli impegni quotidiani nell'azienda che ha
fatto la sua fortuna. «Non crediate di liberarvi tanto facilmente di me», ha scritto ai 20 mila dipendenti,
ribadendo che continuerà a vigilare che tutto fli liscio. E cercando di fugare il dubbio che lo scontro in
tribunale sulla proprietà delle quote azionarie del gruppo con i primi due fgli, Giuseppe e Violetta, possa
spingerlo a mollare: «L'Esselunga rimane in famiglia. Se fosse in vendita, lo sarebbe solo perché in Italia non
si può più fare impresa», ha fatto sapere. «Non venderò mai» è un ritornello che, in questi anni, Caprotti ha
ripetuto spesso, almeno in pubblico. Nel 2006 bocciò come «spericolata» l'idea dell'allora premier Romano
Prodi di tentare un matrimonio con la Coop per difendere l'italianità della grande distribuzione e, quindi, dei
prodotti che fniscono sugli scaffali. E da allora, in conferenze stampa e interviste, ha sempre respinto ogni
ipotesi di voler cedere tutto. Al di là delle dichiarazioni uffciali, però, i timori che l'Esselunga possa prima o poi
fnire sul mercato non sembrano campati in aria. Anche perché, come dimostrano alcuni documenti inediti,
negli ultimi anni la grande catena milanese ha già rischiato più volte di fnire in mani straniere. E se questo
non è accaduto, lo si deve forse a un motivo diverso dal semplice orgoglio imprenditoriale del suo creatore: il
prezzo non era quello giusto. A raccontare questa verità è una lettera scritta da Bernardo alla fglia Violetta nel
giugno 2010, un momento cruciale per l'origine dei dissidi fra i due. Nel documento, Caprotti rivela che da
alcuni mesi ha preso personalmente contatto con i vertici del gruppo belga Delhaize e che, per i giorni
successivi, è riuscito a fssare un incontro con il numero uno Pierre-Olivier Beckers. Si mostra però scettico
sull'esito: «Non se ne farà niente, non hanno i mezzi», scrive. Così come pare ugualmente pessimista sulle
prospettive dell'abboccamento con un altro compratore, che si prepara a incontrare un mese più tardi a
Amsterdam. Il nome del secondo possibile acquirente non lo fa ma il luogo del rendez-vous è rivelatore: nella
capitale olandese ha infatti sede la Ahold, una multinazionale grande quattro volte l'Esselunga. Il momento,
però, non appare propizio per chi deve vendere l'azienda costruita in una vita. A causa della recessione, che
morde i consumi degli italiani e limita le capacità d'investimento dei gruppi internazionali, è infatti diffcilissimo
strappare una valutazione attraente: «Purtroppo non c'è denaro. Grandi cifre, per queste operazioni, non ci
sono», dice Caprotti. Parole che suonano come una giustifcazione, forse perché solo una parte della famiglia
premeva per vendere. Un ulteriore passaggio della lettera svela un altro fatto importante. E cioè che, negli
anni precedenti, c'erano stati ben quattro tentativi «tutti documentati» di portare a termine la cessione.
Bernardo riferisce che in alcuni casi si è visto costretto a «subire delle pesanti umiliazioni», forse perché il
prezzo che immaginava di spuntare era lontano da quanto gli aspiranti compratori erano disposti a offrire.
Anche qui, niente dettagli sull'identità dei gruppi che si erano ritrovati al tavolo di negoziazione. L'identikit non
è però diffcile, sulla base sia di indiscrezioni dell'epoca sia di altre fonti. Un primo nome è quello
dell'americana WalMart, che tenta il colpo nel 2004; un secondo è l'inglese Tesco, che un anno più tardi, al
termine di una serie di colloqui in cui vengono affrontati i diversi nodi dell'operazione, invia a Caprotti
un'offerta d'acquisto confidenziale, nella quale valuta l'Esselunga tra i 2,2 e i 2,6 miliardi di euro. Il valore
defnitivo dovrà essere fssato alla luce di una verifca più dettagliata dei conti. «Spero sinceramente che
accettiate la nostra proposta, e non vedo l'ora di lavorare con lei e con la sua squadra», scrive l'allora capo
del gruppo britannico, Terry Leahy. Ma la speranza si rivelerà vana. Chi sembra arrivare a un passo da
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 48
concludere l'affare è la spagnola Mercadona. Nel gennaio 2008, secondo quanto "l'Espresso" ha potuto
ricostruire, Bernardo, Violetta e l'amministratore delegato di Esselunga, Carlo Salza, si recano a Madrid per
incontrare il proprietario, Juan Roig Alfonso. Vengono caricati su un pullman che li porta in giro per visitare i
vari negozi. Alla fne Caprotti si alza, impugna il microfono e si lancia: «Benvenuti in Italia!». Rientrati a
Milano, però, l'operazione sfuma, probabilmente a causa della crisi fnanziaria che si scatena nei mesi
successivi. Anche se gli spagnoli ci mettono un bel po' ad abbandonare la preda, visto che hanno mantenuto
un uffcio nella metropoli lombarda fno a metà 2013, con lo scopo dichiarato di valutare possibili acquisizioni.
Stando ai documenti, dunque, nel 2010 l'Esselunga era in vendita. O, almeno, in quel periodo Bernardo si
comportava come se lo fosse, pur mantenendo verso l'esterno il riserbo necessario. Diffcile dire quanto fosse
però convinto di questa opzione. Mentre le varie trattative vanno dissolvendosi, nella sua testa sembra infatti
prendere forma un'altra idea. La proprietà degli edifci dove hanno sede alcuni dei supermercati (per la
precisione 82 su 143) viene trasferita in una società immobiliare, battezzata Villata. Dal punto di vista formale,
poco cambia: Giuseppe, Violetta e Marina Sylvia, la fglia che Bernardo ha avuto dalla seconda moglie,
restano i proprietari di entrambe le società, divise su per giù un terzo ciascuno. Così facendo, però, il padre
crea i presupposti per modifcare la spartizione ereditaria che aveva pensato fn dal 1996. Come lui stesso ha
raccontato di recente, va infatti da Violetta e le offre di trasferirle il controllo della Villata, se la fglia si impegna
a restituirgli le quote nell'Esselunga. Violetta rifuta. E lo fa con due solide ragioni, come ha spiegato in
un'intervista al "Corriere della Sera". In primo luogo sospetta che nello scambio ci perderebbe. Ma,
soprattutto, teme che accettando metterebbe in una posizione di estrema debolezza il fratello Giuseppe. Il
primogenito, che da anni ha rotto con il padre, si ritroverebbe infatti nella scomoda posizione di chi possiede
una quota di minoranza in due società dove c'è un unico altro socio forte, Bernardo in Esselunga e Violetta
nella Villata. «Non potevo fare questo a Giuseppe e ai miei nipoti», ha detto Violetta. Sta di fatto che, mentre
ancora cerca di convincere la fglia, Bernardo si riprende le azioni Esselunga che aveva intestato a lei e a
Giuseppe. E lo fa senza neppure avvisarli. Scattano così i ricorsi al Tribunale di Milano, dove nei prossimi
giorni si terrà una nuova udienza della causa promossa dai due. Ma, soprattutto, nascono interrogativi che
per ora restano di risposta: Bernardo aveva un acquirente a sorpresa? Voleva far entrare in azienda nuovi
soci, mai emersi in precedenza? Oppure, più semplicemente, la decisione è il frutto della frantumazione dei
rapporti familiari, che lo ha spinto a cambiare gli assetti decisi nel passato? Lui, nel giorno della pensione, ha
voluto rassicurare i dipendenti: «Abbiamo predisposto un futuro che mi lascia tranquillo», ha scritto. Ma i
dubbi restano.
Foto: BernArdo CAProtti, 88 Anni. neLLA PAginA A LAto: LA FigLiA vioLettA
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 49
Economia Casa, amara Casa Le pretese del fisco. Le quotazioni in ribasso. Il calo del rendimento degli affitti. Il mercato immobiliare èingessato. Ecco come il bene rifugio per eccellenza è diventato un incubo maurizio maggi - Foto Di massimo siragusa/Contrasto Da sogno a incubo. Sono bastati pochi anni per trasformare il grande amore dell'italiano risparmiatore e
investitore - il mattone - da certezza "senza se e senza ma" in gigantesco punto di domanda. La casa di
proprietà, soprattutto la seconda casa, da quando la crisi dell'immobiliare è esplosa, viene percepita sempre
meno quale bene rifugio per eccellenza. Una svolta epocale. «Gli italiani hanno visto il settore allinearsi
all'andamento dell'economia, alla debolezza delle prospettive, alla riduzione delle aspettative delle famiglie e
delle loro capacità reddituali: si sono resi conto, in poche parole, che anche il mattone può subire
sgonfamenti repentini e causare cospicue perdite ai loro portafogli», spiega Luca Dondi, direttore generale di
Nomisma, il centro studi che monitora da quasi trent'anni il mercato immobiliare. Le quotazioni, in Italia, si
sono ridimensionate in modo più lento e meno vistoso che altrove, ma ora il numero annuo di compravendite
si è dimezzato (tra 400 e 500 mila, a seconda delle stime), tornando ai livelli degli anni Ottanta e, rispetto alle
punte massime del biennio d'oro 2006-2007, i prezzi si sono ridotti mediamente del 30 per cento. Ora
qualcosa si muove: il calo del numero di compravendite è meno tumultuoso degli anni passati, la gente
comincia a tornare a informarsi nelle agenzie e le richieste di mutui sono in aumento. Ma gli esperti
incrociano le dita, preoccupati dall'effetto disincentivante del gran parlare di tasse. Per Giuseppe Roma,
direttore del Censis, il Centro studi di investimenti sociali che quest'anno festeggia il mezzo secolo di vita, le
crepe nel mattone sono state in gran parte prodotte da quella che defnisce crisi generazionale: «Per la
stragrande maggioranza delle famiglie la casa rimane in cima alla lista dei desideri. Ma la destrutturazione
della popolazione più giovane - che forma nuclei familiari con capacità e propensione al risparmio pari a zero
- ne ha fatto affevolire il mito». Con un tasso di proprietà dell'alloggio in cui si abita superiore al 70 per cento,
la tradizionale passione degli italiani per la casa viene messa a dura prova da un fsco sempre più aggressivo:
51,7 miliardi le tasse che il mattone ha prodotto nel 2013 e che non potranno che aumentare, anche solo in
virtù dell'aggiornamento dei valori catastali. Il fronte della seconda casa è decisamente in rotta. «Lo stock di
seconde case è valutato in 5,5 milioni: quante di esse sono state messe in vendita ancora nessuno lo ha
potuto calcolare, ma è ragionevole credere che siano intorno al milione. Un'offerta massiccia, impossibile da
assorbire, in un mercato in cui le trattative portate a termine si sono rarefatte», sottolinea Lorenzo Bellicini,
direttore del Cresme, il Centro di ricerche specializzato nell'edilizia e il territorio. Aggiunge Bellicini: «Gestire
una seconda abitazione signifca, oggi, pagare tasse signifcative e affrontare crescenti spese per la gestione e
la manutenzione, perché il tempo passa e per mantenerla in ordine la spesa tende a crescere. E prima,
anche tenendola vuota, una casa si rivalutava: adesso, non è più così. Anzi, sostanzialmente si svaluta». In
media ci mettevano una ventina Dall'inizio della crisi finanziaria a oggi il mercato immobiliare in Italia si è
ridotto della metà. Per determinare la quantità di compravendite residenziali, il Cresme considera il numero di
transazioni diffuso dall'Agenzia delle entrate per gli acquisti che interessano il pieno godimento
dell'abitazione, aggiungendovi le compravendite di nuda proprietà, le stime di quelle nelle province di Trento,
Bolzano, Gorizia e Trieste, dove non viene rilevato il dato dall'Agenzia del territorio poiché vige il Catasto di
origine austriaca. Inoltre, il Cresme tiene conto anche degli immobili non abitativi che vengono poi destinati
all'uso abitativo. Ecco perché i numeri del grafico qui accanto sono più alti di quelli dell'Agenzia delle entrate,
che per il 2012, ad esempio, parlava di 448 mila compravendite (contro le 532 mila del Cresme).
Compravendite dimezzate 1.200.000 1.000.000 800.000 600.000 400.000 Grandi città ** Media Italia 2,0
2,9 -4,1 -3,1 4,5 0 6,1 3,6 7,4 4,4 12,2 8,7 6,6 3,4 6,1 2,9 4,0 4,2 1,3 3,8 1.044.400 0,1 1,7 -8,4 -6 -7,2 -9,2 97
98 99 01 02 04 05 07 08 10 11 12
10/01/2014 100Pag. L'Espresso - N.2 - 16 gennaio 2014(diffusione:369755, tiratura:500452)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 50
L 'andamento delle compravendite e, in basso, le variazioni % dei prezzi delle case sull'anno prima 00 03 06
09 13* * Stima Cresme su dati Omi-Agenzia delle Entrate - 1° semestre 2013. ** Torino, Milano, Genova,
Roma, Napoli e Palermo.
10/01/2014 100Pag. L'Espresso - N.2 - 16 gennaio 2014(diffusione:369755, tiratura:500452)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/01/2014 51
BREVI Dai mercati CAFFÈ
Il Brasile pessimista
sul raccolto di arabica
Con le sue prime previsioni ufficiali sulla produzione di caffè nel 2014 anche il Governo brasiliano si schiera
con i pessimisti. Il Conab ritiene che il raccolto scenderà a 48,34 milioni di sacchi da 60 kg, contro i 49,15
milioni del 2013. Ad essere colpita sarà solo la varietà arabica, attesa in calo da 38,29 a 36,30 milioni di
sacchi. La produzione di caffè robusta dovrebbe invece aumentare, da 10,86 a 12,04 milioni di sacchi.
MATERIE PRIME
Record di riscatti
dagli Etp nel 2013
Gli Exchange traded products (Etp) su materie prime hanno sofferto riscatti record nel 2013: 42,9 miliardi di
dollari, secondo stime di Blackrock. Il risultato, il peggiore nella storia, è legato in gran parte alla fuga dagli Etf
sull'oro, che hanno subito un flusso negativo di investimenti pari a 40 miliardi di $. Etf Securities, uno dei
maggiori emittenti, riferisce che per le commodities in generale il gestito è calato da 200 a 122 miliardi. Nel
caso dell'oro il decremento è di 70 miliardi, causato per il 46% dalla diminuzione del suo valore. INDONESIA
Minatori licenziati
per i limiti all'export
Almeno 30mila minatori sono già stati licenziati in Indonesia, in vista dell'imminente divieto di esportazione di
minerali e metalli non lavorati. Lo afferma Poltak Sitanggang, direttore della Indonesian Mineral
Entreprenours Association. Il Governo ha predisposto un decreto per attenuare le misure, in viogre da
domenica. Se questo passerà, fino al 2017 sarà possibile esportare alcuni semilavorati come i concentrati di
rame. Ma il sollievo non riguarderà le piccole imprese estrattive, né chi produce nickel e bauxite.
10/01/2014 33Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 53
Finanza d'impresa Mini-bond contro la stretta del credito Sul territorio negli ultimi mesi sono state avviate molte iniziative che puntano a diminuire la dipendenza delleaziende dagli istituti di credito per ottenere liquidità LUCA MAZZA ROMA Non morire strozzati dal credit crunch. È questa la priorità di migliaia di imprenditori italiani che
devono fare i conti con una chiusura dei rubinetti sempre più stringente da parte delle banche. Per le Pmi,
infatti, il segnale stradale posizionato all'inizio del lungo percorso che dovrebbe condurre il Paese alla ripresa
economica resta quello di "divieto d'accesso"...al credito. Dal 2008 in poi le erogazioni ai privati sono
progressivamente diminuite. La scorsa settimana sono stati diffusi i dati relativi a novembre: i prestiti alle
imprese sono scesi del 5,9% su base annua, facendo registrare un calo da record. In attesa che da parte del
sistema bancario arrivi «un'adeguata espansione dei finanziamenti alle imprese», come auspicato anche da
Giorgio Napolitano lo scorso 30 ottobre in occasione della Giornata del risparmio, l'esigenza numero uno del
cuore pulsante dell'industria nazionale è quella di sopravvivere. Così, negli ultimi mesi, sul territorio sono
state avviate molte iniziative che puntano a diminuire la dipendenza delle aziende dagli istituti di credito per
ottenere liquidità. Come è possibile recidere - o quantomeno allentare - questo cordone ombelicale?
Attraverso forme di finanziamento alternative a quella direttamente bancaria che diano ugualmente ossigeno
alle imprese. Tali strumenti consistono nei mini-bond, in meccanismi di crowdfunding (finanziamenti collettivi),
negli accordi di filiera e negli investimenti di private equity nelle Pmi. Il crescente ricorso a tali opportunità e i
recenti provvedimenti del governo lasciano ipotizzare che presto potrebbe realizzarsi una piccola rivoluzione
creditizia. Molte aspettative vengono riposte proprio nei mini-bond. Il decreto sviluppo, varato ormai un anno
e mezzo fa dal governo Monti, ha allineato la disciplina fiscale tra società quotate e non quotate in merito a
questo particolare tipo di obbligazioni di taglia piccola. Alcuni istituti di credito ne hanno approfittato. Il primo è
stato Mps, che la scorsa estate ha lanciato un fondo ad hoc per le Pmi. I risultati ottenuti finora attraverso
questi strumenti sono stati piuttosto deludenti. I bond emessi si limitano a poche decine e si fa ancora una
fatica enorme a recuperare capitali. La svolta, però, potrebbe essere dietro l'angolo. Nel pacchetto
"Destinazione Italia", approvato neanche un mese fa dall'esecutivo guidato da Enrico Letta, sono state
inserite una serie di misure - dalla mobilitazione di 20 miliardi di euro di credito aggiuntivo alla spinta
all'investimento di compagnie di assicurazione e fondi pensione - per favorire la diffusione di "nuovi" canali di
finanziamento per le micro-imprese. E qualcosa già si muove. Azimut, il principale gruppo indipendente di
gestione del risparmio, e Antares Private Equity hanno annunciato il via imminente a un fondo dedicato alle
Pmi che investirà principalmente in mini-bond e avrà una dimensione target di raccolta di 200 milioni di euro.
Un'altra strada percorribile è quella delle aggregazioni di filiera. Un caso esemplare è quello proposto da
Gucci. A inizio 2013, la maison di alta moda ha siglato una collaborazione con la Banca Cr Firenze (Intesa
Sanpaolo). L'accordo dà la possibilità a circa 700 realtà della filiera di costruire il rating bancario arricchendo i
bilanci aziendali con le informazioni qualitative fornite dalla griffe fiorentina. In pratica accade che il colosso fa
da "garante" per i suoi piccoli più bravi e sani, senza i quali incontrerebbe serie difficoltà nella produzione.
Risultato? Le imprese riescono così a strappare un tasso d'interesse inferiore rispetto alla media. «Avere un
quadro meno nebuloso delle caratteristiche di un'azienda di piccole dimensioni agevola anche il lavoro della
banca», sostiene Fabrizio Guelpa, responsabile dell'ufficio Industry & Banking Research del Servizio studi e
ricerche di Intesa SP. Dopo il caso Gucci, Renzo Rosso, il fondatore di Diesel, la scorsa estate ha firmato un
accordo con Ifitalia (gruppo Bnl-Bnp Paribas) che, grazie a un fondo di 50 milioni di euro, consente ai fornitori
virtuosi di finanziarsi alle stesse condizioni della grande impresa, ovvero con tassi del 2,5%. «Questi
meccanismi basati sulla responsabilità condivisa e sulla collaborazione tra "grandi" e "piccoli" andrebbero
estesi dalla moda anche agli altri settori - sostiene Francesco Daveri, docente di Economia all'Università di
Parma e alla Sda Bocconi -, perché possono rappresentare un rimedio davvero efficace contro la stretta al
10/01/2014 25Pag. Avvenire - Ed. nazionale(diffusione:105812, tiratura:151233)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 54
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10/01/2014 25Pag. Avvenire - Ed. nazionale(diffusione:105812, tiratura:151233)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 55
L'ETA' DEL SACCHEGGIO L'Italia è stata terra di invasioni e lo è tuttora. Le nuove violente invasioni agiscono oggi per via finanziaria (enon sono ubbie di ignobili protezionisti) Dai Galli di Brenno ai lanzichenecchi di Carlo V. La svendita del madein Italy dopo il 1992 Lodovico Festa eGiulio Sapelli Lodovico Festa. Il nostro Machiavelli, nei suoi "Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio", spiega che mentre
le Alpi segnano i confini naturali della nazione italiana, tutto costituiscono tranne che un baluardo invalicabile,
piene di passaggi come sono e come ci ha insegnato bene Annibale, che le scavalcò portandosi dietro
addirittura un bel po' di elefanti. Quando la nazione non ha avuto un suo stato (cioè prima della metà del
Primo secolo avanti Cristo e poi tra l'inizio del 400 dopo Cristo e il 1861) la nostra è stata tutta una storia di
invasioni, che frequentemente finiscono per arrivare sino a Roma e saccheggiarla. Proseguendo nella nostra
serie di parallelismi azzardati, in questo capitolo vorremmo riflettere su quanto l'incrinamento della nostra
sovranità nazionale, prodottosi nel 1992, sia stato anche preparatorio di "invasioni" per via finanziaria. Giulio
Sapelli. Per evitare di essere presi per ignobili protezionisti bisogna fissare una cornice alla nostra riflessione.
Io partirei da questa constatazione: l'industria automobilistica del Regno Unito non ha più un solo azionista
inglese, ma continua ad avere il maggior numero di occupati a livello europeo. Lavoratori e capability sono
inglesi, e la Rolls Royce continua a essere uno dei quattro grandi gruppi motoristici mondiali. Questa è la via
da seguire. Ma per farlo bisogna essere consapevoli dei processi non solo di snazionalizzazione ma di vera e
propria deindustrializzazione in atto nell'economia italiana. Qualche anno fa, Mediobanca spiegò che la
produzione nazionale aveva ancora orizzonti rosei perché, nonostante le cadute di tanti grandi gruppi,
c'erano ben quattromila multinazionali tascabili che garantivano un avvenire. Di queste, mille sono scomparse
nel giro di poco tempo. E tutto ciò mentre in occidente si assiste a un processo di rilocalizzazione delle
industrie, determinato sia dai costi di trasporto sia dalla qualità del lavoro e della ricerca. LF A corredo di
questo capitolo citiamo le falle che si sono aperte nell'industria italiana. Si è già detto come, anche grazie a
una certa divisione del lavoro su scala globale, sia sparita un'impresa strategica come l'Olivetti e si sia
azzoppata e poi fatta sparire l'industria nucleare. Negli anni Ottanta quella automobilistica si è poi ridotta alla
Fiat. Ma dal 1992 in poi il processo è sconvolgente. Usciamo definitivamente dalla chimica di massa
vendendo gli ultimi stabilimenti Montedison alla Shell, e dall'elettronica cedendo l'Italtel alla Siemens.
Eravamo tra i leader nella nuova telefonia con la Stet di Pascale e Gamberale, sia nella telefonia mobile sia
nel cablaggio, mentre quello speculatore di Carlo De Benedetti era stato spinto dal management Olivetti (e
dai graziosi regali del governo Ciampi) almeno a promuovere un'attività innovativa come l'Omnitel. Era
decollata una splendida impresa come Fastweb, in rapporto con il comune di Milano. Dall'Enel erano partite
Infostrada e Wind. Oggi non resterà più niente di italiano, se Telefónica acquisterà Telecom Italia. GS Si
critica Roberto Colannino perché ha caricato di un eccesso di indebitamento finanziario la sua acquisizione di
Telecom Italia. Ma durante la sua gestione, la società si espande, dalla precedente presenza in Argentina,
fino al Brasile e al Cile, e si dota di una formidabile strategia industriale, che andava sostenuta (come tentò di
fare maldestramente Massimo D'Alema, riuscendo in realtà solo a fare una merchant bank che non parlava in
inglese, malignò Guido Rossi) da una nuova finanza più legata alla produzione. Il primo grossissimo guasto
fu provocato in realtà da Prodi, che fece una privatizzazione per consentire alla Fiat e al loro fidato Franco
Bernabè il controllo. LF La politica Fiat ha un bel po' di cadaveri industriali sulle spalle. Così, al volo: la
produzione di treni venduta ai francesi, l'Edison ugualmente destinata oltralpe all'Edf (grave depauperamento
perdipiù non bilanciato da una vera reciprocità con Parigi), la Telettra ceduta alla francese Alcatel. La rovina
della conglomerata messa in piedi da Romiti per superare la crisi dell'auto (con il clamoroso errore del
licenziamento di Vittorio Ghidella) è stata pagata alla grande dal nostro tasso di industrializzazione. GS
Torniano a Telecom. I veri disastri sono opera di Marco Tronchetti Provera (che aveva peraltro alienato tutto
10/01/2014 5Pag. Il Foglio(diffusione:25000)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 56
un comparto tecnologico Pirelli ricco di prospettive di sviluppo) e poi di Franco Bernabè. Risultato: da grandi
inventori di sistemi di comunicazione del futuro ci troviamo attori marginali. E ora la prospettiva di vendita a
Telefónica di Telecom Italia preannuncia un certo tipo di "abbandono". Gli azionisti bancari italiani vorrebbero
dismettere per un pezzo di pane le quote di controllo, hanno rifiutato il piano di aumento di capitale promosso
dal top management e hanno svenduto quella che un tempo era una delle grandi imprese di comunicazioni
mondiali a un'impresa come Telefónica, oberata dai debiti e dalla necessità di rifarsi della caduta dei margini,
provocata da una dissennata politica liberista europea, intensificando la sua presenza in America latina e in
primis in Brasile. Ma il Brasile, con l'Argentina, è l'ultima provincia internazionale di Telecom ed è sottoposto
a norme di regolazione di stampo nordamericano. La conseguenza sarà che Tim Brasil scomparirà e rimarrà
solo Vivo, ossia la compagnia di Telefonica. Non basta. Il governo italiano vorrebbe anche scorporare dagli
asset Telecom la rete fissa. Questo vorrebbe dire, come ha chiaramente fatto intendere l'attuale ceo Marco
Patuano, la fine stessa di Telecom. Gli spagnoli riprodurrebbero in tal modo il modello di privatizzazioni
ProdiEltsin-Menem, cioè privatizzare per far comprare a coloro che vogliono eliminare un concorrente: un
modello di deindustrializzazione infernale. Differenti invece sono i casi, avvenuti o in via di compimento,
promossi da coorti manageriali straniere e italiche insieme, che vendono gruppi industriali ad azionisti
stranieri non per eliminare concorrenti, ma per valorizzare asset e occupazione oppure per risanare aziende
in gravi difficoltà finanziarie. LF Quali sarebbero i casi virtuosi da contrapporre ai modelli giudicati negativi?
GS Per esempio l'acquisto di Avio da parte di General Electric. Il secondo sarà quello del cosiddetto "civile" di
Finmeccanica, che tramite una sorta di portage di Cassa depositi e prestiti sarà poi passato a gruppi coreani.
Quest'ultimo caso è, a differenza del primo, più discutibile sul piano della politica industriale. Infatti oggi, in
un'industria sistemica, la divisione tra settori militari e settori civili è sfumata e difficilmente tracciabile. Anche
qui, quindi, una ricapitalizzazione sarebbe stata auspicabile. Ma naturalmente questo implica infrangere il
tabù che lo stato come imprenditore non debba più apparire all'orizzonte della nostra nazione e dell'Europa
tutta. LF Andiamo avanti nella storia di una catastrofe: la magistratura sta dando l'ultimo colpo con l'Ilva alla
nostra siderurgia a ciclo continuo, dove eravamo all'avanguardia. C'è poi la vicenda Alitalia. GS Anche in
questo caso chiederei di placare certi furori liberistici. Air Iberia è stata venduta a British Airways perché le
compagnie erano complementari e integrabili. Così l'hub di Air France, il Charles de Gaulle, non contrasta
con quello Schiphol della Klm. Vendere invece la nostra ex compagnia di bandiera a Parigi, significa
indebolire Fiumicino e dare l'ultimo colpo a Malpensa. Nel lungo termine, l'unica vera soluzione, secondo me,
sarebbe l'alleanza con Etihad. Dalle indiscrezione del settore, emerge che la compagnia aerea degli Emirati
Arabi intende continuare a fare dell'Italia un hub transoceanico diretto. Dobbiamo quindi puntare a mantenere
Alitalia in alleanza con gli arabi. Dal punto di vista dei trasporti aerei, l'Italia è obbligata a convivere con altri,
ma quantomeno possiamo farlo con una compagnia che non ci declassi come farebbe Air France. D'altra
parte, certe reazioni scomposte di British Airways nascono proprio dal profilarsi di un'alleanza che sarebbe
competitiva anche con loro. LF Abbiamo parlato di settori tecnologici più o meno avanzati, ma i cedimenti
avvengono anche nella nostra industria più tradizionale. Solo nel 2013 il valore dei marchi storici italiani
passati agli stranieri ammonta a oltre dieci miliardi di euro - sto citando un informatissimo articolo del
quotidiano Il Tempo - e il settore agro-alimentare è quello che ha ceduto di più. L'ultimo marchio in ordine di
tempo trasferito a stranieri è Pernigotti, alienata dalla società Averna al gruppo dolciario turco Toksoz,
maggiore produttore mondiale di noccioline. Il Chianti classico è stato venduto dalla Gallo Nero a un
imprenditore cinese; del Riso Scotti, il 25 per cento è stato acquisito dalla multinazionale spagnola Ebro
Foods. Nel 2012 la Pelati Ar-Antonino Russo, attraverso una complicata fusione societaria, finisce al 51 per
cento nella mani della Princes, controllata dalla giapponese Mitsubishi. La Star, presenza radicata nelle
nostre famiglie, è al 75 per cento del gruppo agrolimentare di Barcellona Gallina Bianca; la produttrice di
gelati in vaschetta per la grande distribuzione (i supermercati Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad,
Coop) Eskigel è stata ceduta agli inglesi con azioni in pegno di un pool di banche. L'anno precedente
avevano preso il largo dall'Italia la Parmalat che, dopo le peripezie di Tanzi e la rimessa a nuovo di Bondi, è
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stata accaparrata dalla francese Lactalis; Gancia è stata acquisita al 70 per cento dall'oligarca russo
Roustam Tariko; il salumificio Fiorucci dalla spagnola Campofrio Food Holding; Eridania, società leader nella
produzione di zucchero, ha ceduto il 49 per cento al gruppo francese Cristalalco Sas. Nel 2010 la Boschetti
Alimentare è stata venduta alla francese Financière Lubersac, che detiene il 95 per cento del pacchetto
azionario; la Ferrari Giovanni Industria Casearia Spa ha ceduto il 27 per cento alla francese Bongrain Europe
Sas. La Del Verde industrie alimentari Spa, altra azienda che produce pasta di qualità, nel 2009 è divenuta
proprietà della spagnola Molinos del Plata Sl che a sua volta fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la
Plata. Tra il 2006 e il 2008 ci eravamo già privati di altri grandi asset. La Bertolli venduta a Unilever, poi
acquisita dal gruppo spagnolo Sos; Rigamonti Salumificio Spa divenuto brasiliano attraverso la società
olandese Itaholb International; Orzo Bimbo entrato nella proprietà della farmaceutica Novartis; Galbani ha
rinforzato sempre la Lactalis; la Carapelli è stata acquisita dal gruppo spagnolo Sos; sono espatriate la Olio
Sasso, presa sempre dall'attivissima Sos, Fattoria Scaldasole, ceduta prima ad Heinz e poi alla francese
Andros. In dieci anni, dal 1993 al 2003, l'Italia aveva perduto: la Peroni, acquisita dall'azienda sudafricana
SaB Miller; la Invernizzi, presa dalla solita Lactalis; la Locatelli, venduta alla Nestlé e poi ancora alla Lactalis;
la Stock, venduta alla tedesca Eckes A.G. e poi comprata dagli americani della Oaktree Capital Management;
la San Pellegrino, finita nel pacchetto della Nestlé, acquirente anche dell'Antica Gelateria del Corso. GS
Naturalmente ogni caso va giudicato singolarmente. Alcuni sindacalisti della Cisl mi hanno spiegato, per
esempio, che la Lactalis fa con Parmalat una politica seriamente radicata sul territorio, valorizzando la
produzione locale. Certo, sarebbe stato meglio che Intesa non fosse stata così affannata dai suoi impegni
finanziari e non avesse dovuto vendere così di corsa. Sarebbe stato meglio che la Granarolo non fosse stata
richiamata dal movimento cooperativo della Lega a finanziare l'acquisto della Fonsai da parte dell'Unipol, e
avesse potuto dar vita a una multinazionale del latte italiana. Perché, senza mantenere alcune decisionalità
strategiche in Italia poi, a seguire, cadono non solo la produzione e i servizi, ma anche l'innovazione e la
ricerca. Per quel che riguarda questo settore agroalimentare, devo dire che mi hanno fatto cadere le braccia
quelli di un movimento che stimo, e che considero strategico, come la Coldiretti, affascinati dalla lotta contro
gli Ogm e da quella stupidaggine che è l'agricoltura a chilometro zero. La chiusura di movimenti di produttori
pur formidabili in difese ultracorporative è un grave sintomo di decadenza, pari a quello che si sviluppa
proprio nel Rinascimento quando corporazioni che erano state la base dei successi delle città-stato diventano
il luogo della chiusura e del regresso. LF Procediamo ancora un po' con le nostre amare cronache del
disastro Italia, riferendoci anche all'industria del lusso. Dalla Ferretti group, passata alla società cinese
Shandong Heavy Industry GroupWeichai, a Bulgari, acquisita dalla francese Lvmh, cioè Louis Vuitton; da
Gucci, comprata dal colosso francese Ppr, alla maison di Gianfranco Ferré, acquisita dal Paris Group di
Dubai, una holding che fa capo dal miliardario Abdulkader Sankari e che controlla 250 boutique negli Emirati
Arabi, in Kuwait e in Arabia Saudita; dal marchio di Valentino, ancor prima che lo stilista lasciasse le scene
della moda, nelle mani della britannica Permira, alla Loro Piana, passata ai francesi. Fino alla Sàfilo, occhiali,
di recente diventata del gruppo olandese Hal Holding, che continua a produrre per Armani, Valentino, Yves
Saint Laurent, Hugo Boss, Dior, Marc Jacobs. GS Come dicevo, bisogna distinguere tra chi ci compra per
colonizzarci e per spegnere un concorrente, e le multinazionali o i paesi emergenti che investono ricchezza
per diversificare la loro produzione. Detto questo, è evidente che si assiste a un nostro sbandamento
nazionale, con sconfitte strategiche come quelle di Mediobanca che, con Marzotto, Valentino e Cerruti, aveva
tentato di fare un polo tra industria tessile di massa e industria di lusso. Non ha funzionato. LF Bisogna avere
un'alta consapevolezza di quel che ci può succedere. La grande distribuzione, passettin passettino, sta
finendo in mano francese. Sugli scaffali trovi sempre più yogurt francesi, carne francese, vino francese. Ma
perché tre grandi gruppi italiani come la Ferrero, Folonari e Barilla non si comprano metà della Esselunga,
aiutando Caprotti a preparare la sua successione? Perché mancano i Mattioli e i Cuccia che erano capaci di
guidare processi di questo tipo? GS Certamente anche le banche sono parte decisiva del problema. E poi i
colonizzatori hanno complicità in settori di quella che avremmo chiamato "borghesia compradora". Oltre a ciò
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sono in atto fenomeni di autodistruzione. LF In Brianza sono molto preoccupati perché le nuove generazioni
magari si dedicano anche ad attività produttive (ma crescono figli che vogliono dedicarsi più alla musica
elettronica o alla veterinaria d'avanguardia) e tuttavia non vogliono impegnarsi in quel terribile lavoro che è
fare il commerciale, accettare sfide giorno per giorno, tremare quando non si trovano sbocchi, inventarsi
soluzioni. E' anche un risultato forse - come tu dici spesso - dell'egemonia della cultura dei master su quella
dei fantastici ragionieri che ci hanno guidato verso grandi mete dagli anni Cinquanta in poi. GS Ed è frutto
anche della cattiva politica. LF Prima della cattiva politica, c'è la crisi dello stato: senza uno stato solido, la
buona politica è impossibile. GS Intanto, finché non si riuscirà a definire una cornice statuale adeguata,
bisogna trovare subito alcuni rimedi alla crisi da deindustrializzazione, che rischia di essere galoppante.
L'economia mista dello stato imprenditore, che aveva agito come effetto di sostituzione nei confronti
dell'Europa continentale, non è stata avvicendata da possenti gruppi industriali privati, ma invece da una
distruzione "à la Eltsin" e "à la Menem" che è stata la prima causa della decrescita manifatturiera. Il colmo è
stato che la regolazione contro gli incumbent (cioè le aziende dominanti in un certo settore) ha trasformato
quasi mercati oligopolistici, scarsamente efficienti, in pseudomercati a controllo politico, per nulla efficienti.
Vedi multiutility locali, fondazioni bancarie et similia. L'irrompere delle autorità indipendenti - per dirla con il
grande e compianto giurista Alberto Predieri - ha così significato incertezza delle regole, nuovi prezzi
amministrati, caduta degli investimenti. Di tutto ci si è occupati in Europa e in Italia, salvo di come si possa
promuovere una nuova ondata di investimenti nel contesto di una globalizzazione inevitabile e sempre più
aggressiva. La risposta è tragica: abbiamo privatizzato senza ricostruire, abbiamo penalizzato senza creare
condizioni per nuovi investimenti, abbiamo aumentato l'area dell'economia rent-seeking e quindi dello spreco
capitalistico, per usare termini non più di moda ma sempre efficaci. Quindi si potrebbe dire che dopo lo stato
è emerso il volto di una società tribale in economia che penalizza la nuova crescita e aumenta il rischio di un
declino irreversibile. LF Un quadro nero senza spiragli? GS Per trovare le eventuali via di uscita bisogna
capire come tutto stia mutando nella strategia e nel lavoro industriale, su scala mondiale. Si percepiscono i
ritmi tellurici di una trasformazione in corso che i più non avvertono, storditi dal rumore delle ferraglie della
finanza a eccesso di rischio e delle polemiche di piccolo cabotaggio. Ma decisiva è l'industria che sta
trasformandosi. Si torna alla riallocazione degli stabilimenti un tempo delocalizzati, se non si lavora per quei
mercati lontani; si ritorna alla verticalizzazione di talune funzioni della produzione, perché si trasformano
rapidamente costi di transazione che parevano eternamente stabili. Muta lo stesso concetto di concorrenza:
diventa competizione tra pratiche, e non solo tra beni e servizi misurati dai costi di produzione e di
distribuzione. E' la distintività che fonda oggi, più di un tempo - o meglio ritornando ai tempi rinascimentali e
tardo ottocenteschi - la competizione. Ciò pone tale competizione su piani interamente diversi da quelli di un
sentiero in equilibrio. La stessa concorrenza muta volto. Oggi essa è determinata dalla competizione tra
popolazioni organizzative che creano continui squilibri di pratiche e di esecuzioni perfette e inesorabilmente
pertinenti di strategie e di forme di lavoro irripetibili altrove. Così si compete: trasformando continuamente
l'eccellenza, non disintermediando continuamente, come si pensava si dovesse fare in passato. E' il
movimento sociale che crea questa trasformazione, è la nascita del senso di ingiustizia e di giustizia laddove
pensavamo che non fosse mai nato e che non potesse nascere mai. Ma è anche la trasformazione
tecnologica in corso, che è più rapida della capacità di comprenderne i significati sociali ed economici. Tutto
ciò cambia il significato che un tempo attribuivamo a concetti quali "sostenibilità" oppure "corporate social
responsability". Si afferma sempre più l'idea che ciò che si deve sostenere è l'azione della direzione
d'impresa nell'assumersi responsabilità nei confronti delle generazioni future, sul piano economico e sociale.
Questo va incontro a ciò che mi pare il dato caratteristico del cambiamento in corso: oggi acquista importanza
strategica la sostenibilità delle pratiche distintive nel lavoro e del lavoro. E' la riproducibilità della competenza,
ossia delle capability e delle stesse passioni che quelle capability rendono utilizzabili e riproducibili nel lavoro
industriale. Il talento non è mai solo perfetta esecuzione, ma faticosa (sempre!) integrazione tra passione e
competenza. In questo senso il talento è una capacità. Sostenere le capacità è più arduo che sostenere le
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 59
competenze. Occorre riprodurre non solo il sapere tecnico, ma anche i valori morali che rendono questo
sapere tecnico, queste pratiche tacite o scritte, un valore. Un valore che attraverso l'esperienza si può
trasmettere e riprodurre. E' un compito enorme: di sostenibilità educativa - dentro e fuori il luogo di
produzione - in primo luogo. Tale compito ridefinisce il lavoro dell'alta direzione così come quello degli
operatori alle macchine e ai sistemi. E' il nuovo orizzonte della sostenibilità che questo accordo aiuta a
ridisegnare. LF E' una trasformazione economico-sociale generale, quella in corso? GS Sì, ed è una
trasformazione molto rilevante, che riguarda tanto le grandi quanto le piccole e medie imprese. Oggi la
politica deflazionistica in atto in Europa e il restringimento dei mercati interni, a causa dei bassi salari, hanno
costretto le imprese europee, anche quelle tedesche, a lavorare soprattutto non più sulla svalutazione
competitiva, ma, laddove è stato possibile, sull'innovazione e la ricerca dell'aumento della produttività del
lavoro. Da questo punto di vista, molte industrie debbono la loro sopravvivenza all'aumento costante della
produttività del lavoro anziché alle svalutazioni competitive. Per talune la crescita è avvenuta, pur essendo
ancora profonda la crisi industriale che sconvolge il mondo. Specialmente in Europa, la loro crescita è dovuta
in primo luogo al fatto che godono dei vantaggi derivati dall'essere l'industria intera, ormai fortemente
debitrice delle competenze idiosincratiche, ossia specializzate e non facilmente riproducibili in territori diversi
da quelli in cui si addensano l'industria e le imprese. Qui quelle competenze specialissime sono asset
presenti e decisi. Dinanzi alle imprese vi sono due vie: la prima è quella di continuare sulla strada
dell'esportazione, dipendendo sempre di più dalle imprese madri straniere di cui sono fornitrici; la seconda è
quella di cercare margini di profitto e di solvibilità della domanda anche sul mercato interno. Entrambe sono
possibili, e molte piccole e medie imprese riescono a far ciò fondamentalmente attraverso una sostanziale
cooperazione tra capitale e lavoro, che dura ormai da circa un ventennio. LF Alleanza capitale e lavoro,
fattore etico e culturale, capacità di filiera non solo del "basso" (la logica del distretto) ma anche alto/basso:
un esempio che mi ha molto colpito è quello della "Settimana del mobile" di Milano, una storia di successo
globale che unisce grandi industriali a imprese artigiane e a strutture del dettaglio ed espositive. E' un
peccato che un analogo meccanismo non si sia riusciti a riprodurlo, soprattutto a causa di certi divismi, nella
moda. Ed è interessante come nasca innanzi tutto da un'associazione di industriali particolarmente attiva, la
FederLegnoArredo. GS Altra storia (naturalmente del tutto diversa) che meriterebbe di essere studiata a
parte, è quella dell'Eni, non solo per le sue politiche produttive ma per la capacità di essere anche soggetto
culturale. LF Due o tre idee - soprattutto tue - per presidiare le frontiere e ritardare la discesa dei Carlo V e
nuovi sacchi di Roma, le abbiamo esposte. Le completeremo con l'epilogo. (10. Continua. Le precedenti
puntate sono uscite il 24, 27 e 28 dicembre e il 2, 3, 4, 7, 8 e 9 gennaio)
Foto: Nel quadro del pittore olandese Johannes Lingelbach (1622-1674) è rappresentato "Il sacco di Roma
del 1527" (collezione privata). Così ne scrisse Guicciardini: "Restò Roma spogliata, dall'esercito, non solo di
una parte grande degli abitatori, con tante case desolate e distrutte, ma eziandio spogliata di statue di
colonne di pietre singolari e di molti ornamenti della antichità"
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LA RIPRESA DEGLI INVESTIMENTI RAFFORZA LA COMPETITIVITA UNA LUCE IN FONDO AL TUNNEL LE IMPRESE PERCEPISCONO IL CAMBIAMENTO NEGLI ORDINATIVI PER IL MERCATO INTERNO, 1MA CON PROFONDE DIFFERENZ A SECONDA DELLE DIMENSIONI LA Italia sta attraversando • una vera deindustrializzazione, corroborata dal fatto che dal 2007 in poi l'indice
della produzione industriale ha perso 20 punti percentuali. Quest'evoluzione sembra essere attribuibile sia
alla riduzione dell'attività legata al rallentamento economico, sia alla chiusura di numerosi impianti in alcuni
settori industriali di base (petrolchimica, siderurgia e biocombustibili). Il quadro a tinte fosche è quello dipinto
dalla Commissione europea nell'ultimo rapporto sulla competitivita dei sistemi industriali del Vecchio
continente, dove è stato lanciato un allarme sulla capacità della Penisola di continuare ad alimentare
l'ossatura di piccole e medie imprese, simbolo della forza del made in Italy. Le preoccupazioni di Bruxelles
sono state confermate dai dati elaborati dal servizio studi di Intesa Sanpaolo e Prometeia nel rapporto
sull'andamento dei settori industriali dello Stivale. «Dopo il calo del fatturato di oltre 6,5 punti percentuali
registrato nel 2012, anche quest'anno l'industria italiana subirà una nuova contrazione del giro d'affari
nell'ordine del 3,5 per cento». Le cose dovrebbero migliorare a partire dal 2014 grazie al sostegno
proveniente dalla domanda mondiale e da condizioni interne meno tese in termini di finanza pubblica e
credito, capaci di ridare slancio alla produzione industriale. Secondo le previsioni di Intesa Sanpaolo e
Prometeia, il fatturato manifatturiero dello Stivale sembra destinato a invertire la tendenza degli ultimi anni,
tornando a crescere dell'1,7% in termini reali, per poi accelerare a +2,5% un anno più tardi. «Nella prima
metà del 2013 la manifattura italiana appare in condizioni molto critiche», hanno sottolineato gli esperti del
Centro Studi di Confindustria. «Le ultime due violente recessioni hanno determinato una caduta così
profonda e prolungata dei livelli di attività da mettere a repentaglio decine di migliaia di imprese». La prima
volta, a pesare sul sistema produttivo italiano è stata soprattutto la caduta dell'export, mentre nella seconda
recessione è stato il crollo della domanda interna a schiacciare la produzione industriale, proprio quando le
vendite all'estero tornavano a espandersi. «I comparti con una maggiore vocazione alle esportazioni hanno
risentito meno, ma in misura comunque significativa, degli effetti del più recente cedimento della domanda
finale domestica», hanno aggiunto da Confindustria secondo cui la crisi ha già determinato la distruzione di
oltre il 15% del potenziale manifatturiero italiano, con una punta del 40% negli autoveicoli e cali di almeno un
quinto in 14 settori su 22. Ma quali sono i comparti che, più di altri, si sono dovuti piegare sotto il peso della
crisi? «La caduta della domanda interna penalizzerà maggiormente le imprese legate ai comparti dell'edilizia
e i produttori di beni durevoli, le cui difficoltà condizioneranno anche la filiera a monte dei prodotti in metallo e
della metallurgia (che soffre anche della complessa situazione del comparto della siderurgia)», hanno
avvertito gli esperti. In positivo rimarranno solamente la farmaceutica e i prodotti di largo consumo, i cui
acquisti sono meno comprimibili e godono di vantaggi sui mercati internazionali derivanti dalla presenza di
imprese multinazionali. L'alimentare, invece, dovrebbe chiudere l'anno con una lieve riduzione dei fatturato a
prezzi costanti: gli ottimi risultati sui mercati esteri non saranno infatti sufficienti a contrastare la prudenza
degli acquisti delle famiglie italiane. «Nell'anno in corso sarà ancora la domanda interna (consumi e
investimenti) a creare la maggiore penalizzazione: i dati sulle esportazioni, infatti, anche in una fase non
brillante del commercio internazionale, continuano a confermare la capacità delle imprese italiane di
intercettare, grazie alla loro competitivita, le opportunità presenti sul mercato», hanno aggiunto gli analisti di
Prometeia secondo cui la tenuta dell'export (+0,3%) e il contemporaneo calo delle importazioni (-2,5%)
porreranno il saldo manifatturiero a registrare un attivo record superiore ai 95 miliardi di euro alla fine del
2013. Le condizioni sul piano reddituale rimarranno, invece, più critiche. L'analisi di un ampio campione di
società manifatturiere ha di fatto evidenziato come nel 2012 la crisi abbia portato a una nuova contrazione dei
risultati reddituali medi delle aziende italiane (un punto in meno di Roi, tornato a 3,8%, il livello di minimo del
2009), con risultati particolarmente penalizzanti per le numerose piccole e medie imprese che caratterizzano
09/01/2014 4Pag. MF - Sicilia - atlante delle societa' leader 2014(diffusione:104189, tiratura:173386)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 61
l'ossatura del sistema produttivo della Penisola. Dati, questi, confermati dal Fondo monetario internazionale
nell'ultima nota tecnica sull'economia dello Stivale secondo cui quasi un terzo delle imprese italiane possiede
metà del debito verso le banche e presenta una copertura degli interessi a livelli vulnerabili. «Il recupero sarà
lento e condizionato dalla necessità di stimolare una domanda interna ancora incerta e di mantenere elevata
la competitivita a livello internazionale», hanno aggiunto gli esperti di Prometeia secondo cui un sostegno in
tal senso potrebbe arrivare dal graduale rafforzamento del dollaro e da una domanda mondiale che potrà
accelerare nel 2015.A fronte di limitate pressioni sul fronte dei costi di approvvigionamento e del più efficiente
sfruttamento del capitale investito, il Roi medio del manifatturiero italiano potrebbe, infatti, tornare su livelli del
5,5%, in seguito anche alla prosecuzione dei processi di espulsione dal mercato delle aziende con maggiori
difficoltà. «Nel prossimo biennio il ruolo dell'integrazione nelle reti mondiali di produzione e scambi resterà
cruciale», hanno avvertito gli esperti secondo cui i settori destinati a sperimentare le migliori performance
saranno quelli più presenti sui mercati internazionali, sia in modo diretto (meccanica, elettrotecnica,
componentistica auto), che indiretto, attraverso la fornitura di prodotti intermedi all'interno di filiere
intemazionalizzate (come quelle dei metalli e della chimica). Questi settori potranno, inoltre, contare su un
miglioramento del mercato interno, grazie alla ripresa del ciclo degli investimenti, necessario a proseguire il
percorso di rafforzamento della competitivita. Nonostante ciò, i produttori di beni di consumo e di prodotti per
l'edilizia saranno ancora frenati dalla debolezza della domanda interna che dovrebbe recuperare in modo
graduale, sperimenteranno risultati inferiori a quelli medi manifatturieri. Sul versante della redditività, il
miglioramento atteso del Roi sarà diffuso a tutti i settori e più forte nelle filiere dove la selezione comporterà
una maggiore intensità dei processi di ristrutturazione e riorganizzazione. Le migliorate condizioni di
autofinanziamento sosterranno una generalizzata intensa attività di investimento, senza un eccessivo
appesantimento dell'esposizione debitoria, soddisfatta anche attraverso strumenti alternativi al credito
bancario. In questo contesto, la maggiore capitalizzazione attesa dovrebbe portare a una riduzione del
leverage. La strategia di rilancio dell'industria italiana «La crisi del sistema industriale riflette la difficoltà ad
adattarsi ai grandi cambiamenti che hanno investito il contesto economico internazionale negli ultimi due
decenni: la globalizzazione, ovvero l'integrazione mondiale dei mercati reali e finanziari; il processo di
integrazione europea, culminato nell'introduzione della moneta unica; il cambiamento del paradigma
tecnologico, portato dalle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione», hanno spiegato gli
analisti della Banca d'Italia. Questi tte fattori hanno determinato un forte e repentino aumento della pressione
concorrenziale, a cui il sistema produttivo della Penisola ha stentato a reagire con prontezza a causa dei
problemi strutturali che lo affliggono. A questo si è aggiunta la perdurante debolezza della domanda interna
che nello scorso biennio, a seguito delle tensioni nel mercato del credito e delle manovre di finanza pubblica,
è culminata in una contrazione significativa. Risultato, alla fine del 2012 l'industria dello Stivale ha generato
257 miliardi di euro di valore aggiunto, con un'occupazione di 4,7 milioni di addetti, meno del 20 per cento del
valore aggiunto e dell'occupazione complessivi del Paese, nonostante il ruolo fondamentale di innovatore
(oltre il 70% della spesa per ricerca e sviluppo del settore privato) e contribuendo per quasi l'80% alle
esportazioni. «Quello industriale è un settore popolato da imprese che, pur nelle difficoltà derivanti dal nuovo
contesto competitivo globale, avevano avviato un significativo processo di ristrutturazione che ha dato segnali
visibili nella breve ripresa economica registrata nel biennio 2006-2007 e che traspare anche nella dinamica
recente delle esportazioni», hanno sottolineato gli esperti di Via Nazionale proponendo una ricetta in tre punti
per ridare slancio alla produzione del made in Italy. Come prima cosa, secondo Bankitalia, è necessario
intervenire sui meccanismi di allocazione delle risorse (capitale e lavoro, nelle loro molteplici
caratterizzazioni) dai settori e dalle imprese meno produttive a quelli più produttivi, dalle lavorazioni in cui la
pressione competitiva dei paesi emergenti non è sostenibile ad altre più avanzate e complesse. «Il
rafforzamento dell'efficienza allocativa del nostro sistema economico richiede di agire contemporaneamente
su più leve», hanno spiegato da Bankitalia: il sistema di ammortizzatori sociali e le politiche attive per il lavoro
devono mirare a rendere più agevole ed efficace la ricollocazione della forza lavoro tra unità produttive; il
09/01/2014 4Pag. MF - Sicilia - atlante delle societa' leader 2014(diffusione:104189, tiratura:173386)
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sistema finanziario deve acquisire una maggiore capacità di indirizzare capitale verso i progetti imprenditoriali
più promettenti; la tassazione di impresa deve essere rimodulata e ridotta in modo da non disincentivare
l'espansione del perimetro aziendale. Il grado di concorrenza nei settori regolamentati deve essere
accresciuto per consentire un benefico processo di riallocazione delle risorse produttive». A questo si
aggiunga la necessità di ridurre i costi sopportati dalle imprese italiane, sia quelli energetici, che incidono in
modo particolare sull'industria, sia quelli derivanti da un quadro regolamentare complesso e oneroso, da una
pressione fiscale molto elevata sull'economia regolare, dalle inefficienze della pubblica amministrazione, dalle
carenze nei servizi pubblici e nelle infrastrutture. Con un occhio di riguardo alla lotta alla corruzione e alla
illegalità. Infine, è necessario rendere le politiche industriali meno invasive e frammentarie, favorendo
strategie d'impresa più adatte al nuovo contesto competitivo globale. «Le limitate risorse finanziarie pubbliche
vanno indirizzate a favorire la crescita dimensionale delle imprese, a sostenere l'attività di ricerca e sviluppo e
a intensificare la nascita di start-up innovative. Mentre al sistema finanziario si chiede di accrescere la
capacità di fornire alle imprese capitale di rischio per sostenere l'innovazione». Cruciale un riordino
dell'assetto dell'attività pubblica di sostegno all'internazionalizzazione delle imprese, che dovrebbe muovere
verso un modello meno frammentato, ispirato alle migliori pratiche internazionali.
top 10, i migliori gruppiPER UTILE PER FATTURATO RANK 1 ENI 2 TENARIS 3 POSTE ITALIANE 4 SAIPEM 5 ENEL 6
FIATINDUSTRIAL 7 ATLANTIA 8 SNAM 9 PRADASPA 10 IMPREGILO EURO MN 7.788 1.288 1.032 902
865 810 808 779 626 603 VAR. % 12/11 13,53 25,17 21,99 -2,06 -79,15 29,81 -2,68 -1,39 44,86 239,73
RANK 1 2 5 10 ENI EXOR FIAT ENEL GSEGEST. SERV.EN. TELECOM ITALIA FIATINDUSTRIAL
FINMECCANICA EDIZIONE SAIPEM EURO MN 126.482 110.671 83.957 82.699 34.564 29.503 25.785
17.816 13.422 12.379 VAR. % 12/11 15,88 31,19 42,00 6,61 15,11 -1,52 9,28 4,82 1,54 2,24
H Paolo Scaroni
PER PATRIMONIO RANK 1 2 3 5 8 10 ENI ENEL FERROVIE DELLO STATO TELECOM ITALIA FIAT
TENARIS EXOR ENEL GREEN POWER EDISON SNAM EURO MN 59.199 36.771 36.190 19.378 9.059
8.631 7.164 7.098 7.055 6.267 VAR. % 12/11 6,72 -7,45 -0,05 -14,98 3,80 6,30 11,89 2,91 0,96 2,25
II sentiment delle imprese sulla propria attività Una luce in fondo al tunnel. È quella che intravede la
manifattura italiana, le cui imprese cominciano a percepire qualche cambiamento sul fronte degli ordinativi
per il mercato interno. Con profonde differenze a seconda delle dimensioni. Se i segnali per la piccola
impresa appaiono ancora poco netti i segnali, il futuro delle aziende di grandi dimensioni risulta oggi più roseo
che negli ultimi mesi. Sono questi i principali risultati dell'indagine congiunturale sul sistema produttivo della
Penisola realizzata da Unioncamere. «Cominciamo a cogliere le prime avvisaglie di un'inversione di
tendenza» ha spiegato il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello. «Nel terzo trimestre, la
manifattura del Nord-ovest ha messo a segno piccoli incrementi sul fronte della produzione, le esportazioni
hanno continuato a salire e, per la fine dell'anno, l'industria alimentare dovrebbe registrare una risalita anche
degli ordinativi nazionali, mentre le vendite commerciali dell'area nord-ovest sono attese in positivo». Nelle
dichiarazioni delle imprese circa gli ordinativi attesi per il quarto trimestre del 2013, si continua a trovare
traccia del divario che accompagna gli andamenti dell'industria manifatturiera dal 2010 in poi: aspettative
ancora negative sugli ordinativi provenienti dal mercato interno (-9,4 punti la differenza tra ottimisti e
pessimisti), e grande ottimismo sul contributo atteso dalla domanda estera (+19,2 il saldo). Il tratto comune è
un deciso miglioramento del sentiment delle imprese rispetto al 2012, quando le previsioni per la parte finale
dell'anno mostravano un pessimismo più marcato su tutti i fronti. «Anche in funzione dell'arrivo delle festività
natalizie, sul versante della domanda interna emergono aspettative di segno positivo per gli ordinativi delle
industrie alimentari (+23,5), mentre tra gli altri settori, la meccanica e i mezzi di trasporto, le industrie
elettriche ed elettroniche e la chimica manifestano saldi migliori della media (sebbene di segno negativo),
grazie in alcuni casi a decisi miglioramenti di prospettiva rispetto al 2012», hanno avvertito da Unioncamere.
Su scala territoriale, le previsioni per gli ordinativi interni è positivo solo per le imprese manifatturiere del
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 63
Centro. La domanda estera sostiene, invece, le attese nell'insieme dei settori e dei territori, ma in particolare
quelle delle industrie alimentari, del legno-arredo e della meccanica. Mentre sono soprattutto le regioni del
Nord-Est a esprimere previsioni più ottimistiche sugli ordinativi esteri.
il confronto degli utili dei primi 100 gruppi per fatturato
17.958ItaliaOggiMFMSÈ88milioni di euro
var. +5,61%
sul 2011
NUOVO PIGNONE H. 1,11% •.*••..;!-,.•«- - UTILE NETTO GRUPPI 2012 2011 ENI 7.788.000 6.860.000
TENARIS 1.287.742 1.028.794 POSTE ITALIANE 1.032.492 846.381 ENEL 865.000 4.148.000 PRADASPA
625.681 431.929 LUXOTTICA 541.700 452.343 TERNA 463.600 440.000 PIRELLI & C. 393.785 451.608
FERROVIE DELLO STATO 379.000 272.000 FIAT 348.000 1.334.000 NUOVO PIGNONE HOLD. 347.157 -
204.341 SALINI COSTRUTTORI 316.048 50.827 A2A 260.000 -420.000 ' EDIZIONE 255.602 299.752 DA
100 A 250 MLN EURO 2.104.347 1.544.478 DA 50 A 100 MLN EURO 532.362 -607.121 SOTTO 50 MLN
EURO 417.325 75.797 A2A 1,45% SALINI COSTRUTTORI 1,76% NUOVO PIGNONE HOLD. 1,93% FIAT
1,94% FERROVIE DELLO STATO 2,11% PIREJJ &C. 2,19% TERNA 2,58% LUXOTTICA PRADA SPA
ENEL 3,02% 3,48% 4,82% 5,75% 7,17%
Variazione % a 1 anno del risultato operativo 1 year % change in operating profit SETTORI 1 LEGNO E
MOBILI IN LEGNO 2 IMMOBILIARI 3 VARIE (COMPRESE HOLDING DI PART.DIVERSEl 4
METALMECCANICA 5 GOMMA-CAVI-MATERIE PLASTICHE 6 BENI DI LUSSO 7 VEICOLI [PRODUZIONE
E COMPONENTI) 8 MECCANICA DI PRECISIONE 9 MATERIALE ELETTRICO - ELETTRONICA DI
CONSUMO 10 CHIMICA-FARMACEUTICA-COSMESI 11 PETROLIO, GAS E OLI COMBUSTIBILI 12
ABBIGLIAMENTO - CALZATURE - ACCESSORI 13 ALIMENTARI - BEVANDE U SIDERURGIA-
METALLURGIA 15 UTILITIES E SERVIZI CORRELATI 16 GRANDE DISTRIBUZIONE 17 COMMERCIO 18
CARTARIE-CARTOTECNICHE 19 TRASPORTO (COMPRESE INFRASTRUTTURE] 20
TELECOMUNICAZIONI 21 GRANDI LAVORI 22 CEMENTO - MATERIALI DA COSTRUZIONE 23 SERVIZI
24 TURISMO-TEMPO UBERO 25 EDILIZIA 26 TESSILE 27 VEICOLI E COMPONENTI (COMMERCIO] 28
CERAMICA E VETRO 29 ARREDAMENTO 30 FIBRE ARTIFICIALI E SÌNTETiCHE 31 MEDIA-TV-
PUBBLICITÀ 32 SPEDIZIONI 33 INFORMATION TECHNOLOGY 115,22 40,15 35,35 28,94 23,90 22,26
22,18 6,06 5,13 4,88 4,31 4,07 1,91 1,77 1,72 -0,13 -3,49 -3,59 -4,11 -4,53 -4,59 -5,34 -6,15 -7,99 -9,67 -9,79
-10,41 -10,89 -41,01 -64,87 -80,38 -96,28 -184.08
Risultato operativo/fatturato (valori medi di settore) ras % [sector average) SETTORI %
TELECOMUNICAZIONI 20,05 BENI DI LUSSO 16,73 VARIE (COMPRESE HOLDING DI PART.DIVERSE)
16,24 TRASPORTO (COMPRESE INFRASTRUTTURE) 12,83 PETROLIO, GAS E OLI COMBUSTIBILI
11,24 UTILITIES E SERVIZI CORRELATI 9,56 MECCANICA DI PRECISIONE 9,19 ABBIGLIAMENTO -
CALZATURE - ACCESSORI 8,15 MATERIALE ELETTRICO - ELETTRONICA DI CONSUMO 7,65 CHIMICA
- FARMACEUTICA - COSMESI 7,52 GRANDI LAVORI 7,36 TURISMO-TEMPO LIBERO 6,95
METALMECCANICA 6,43 GOMMA-CAVI-MATERIE PLASTICHE 6,42 SIDERURGIA-METALLURGIA 6,17
LEGNO E MOBILI IN LEGNO . 6,09 CERAMICA E VETRO 5,79 TESSILE 5,47 VEICOLI (PRODUZIONE E
COMPONENTI] 5,39 IMMOBILIARI . 5,26 ALIMENTARI - BEVANDE 4,91 SERVIZI 4,43 EDILIZIA 4,41
CEMENTO - MATERIALI DA COSTRUZIONE 4,22 CARTARIE - CARTOTECNICHE 3,33 VEICOLI E
COMPONENTI [COMMERCIO] 2,99 GRANDE DISTRIBUZIONE 2,86 SPEDIZIONI 2,32 FIBRE ARTIFICIALI
E SINTETICHE 2,27 ARREDAMENTO 1,78 COMMERCIO 1,70 MEDIA-TV-PUBBLICITÀ 1,65
INFORMATION TECHNOLOGY -2,82
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 64
SFIDE E PROSPETTIVE DELLE SOCIETÀ ITALIANE (2012-2014) Un mondo che non smetterà di cambiare NICOLA ANZIVINO Nel difficile e complesso momento economico del nostro Paese, una buona notizia nasce dall'analisi delle
performance delle società quotate in Italia nel 2012 e 2013 (nove mesi) e dalle prospettive per il 2014. Molte
delle nostre grandi aziende hanno saputo reagire alla crisi lavorando sui mercati internazionali con
produzioni/servizi ad alto valore aggiunto, i manager hanno saputo riorganizzare commercialmente ed
operativamente le società fecalizzando gli sforzi e gli investimenti sulle priorità strategiche. Il quadro che si
delinea per il prossimo futuro è positivo per le grandi aziende analizzate, questo aspetto potrebbe dare nuova
fiducia a molte società anche di medie e piccole dimensioni dando slancio complessivo alla crescita del Pii
del nostro Paese nei prossimi tre anni. Il contesto macroeconomico L'Italia sta affrontando una profonda crisi
economica, dopo la contrazione del 2,7% del Pii nel 2012, e le ultime previsioni stimano per il 2013 un
ulteriore arretramento del 1,9%. Tali risultati negativi sono peggiori di quelli riportati dalla Spagna e dalla zona
Euro 17; Francia e Germania avranno un risultato limitato ma positivo nel 2013, mentre Uk, Usa e Giappone
cresceranno in modo significativo (figura 1). I problemi della nostra economia purtroppo non caratterizzano
solo gli ultimi due anni, il Pii prò capite italiano è arretrato del 3% negli ultimi 15 anni (includendo le stime
2014), contro una variazione positiva dell'area Euro 12 del 10,7%, della Francia del 9,3% e della Spagna del
8,7% per citare alcuni dei benchmarkpiù significativi (figura 2). L'Italia ha performato peggio anche di Grecia e
Portogallo, mentre si è aperto un abisso con i "vicini" tedeschi che nello stesso periodo hanno registrato una
crescita del 21,3%. La produzione industriale italiana si è ridotta ad oggi di oltre il 15% rispetto ai valori del
2005, con una vera e propria "deindustrializzazione" del nostro Paese, che potrebbe avere impatti significativi
anche sulle prospettive di recupero attese a partire dal 2014-2015. Nello stesso periodo la Francia ha visto un
arretramento di circa il 10%, mentre Germania e Usa hanno incrementato il loro output industriale, trend che
verrà confermato anche nel 2014. Nonostante la forte recessione che ha colpito il nostro Paese, la buona
notizia è che una parte significativa delle grandi aziende nazionali hanno saputo continuare a crescere nel
corso del 2012 e nel 2013. Le performance delle società italiane nel 2012 e 2013 La nostra analisi condotta
su 195 società quotate in Italia in settori non finanziari evidenzia che la maggioranza del campione ha visto
incrementare sia il fatturato nel 2012 rispetto all'anno precedente (54%), sial'ebitda (53%) (figura 3). Fattore
ancora più significativo è che il 42% di esse è riuscito ad incrementare l'ebitda margin e 51 società (26%)
sono riuscite a migliorare tutti gli indicatori analizzati. Questi "Campioni" hanno operato in 8 dei 10 settori in
analisi. A spiccare dall'analisi del 2012 il settore energy & Utilities (10 campioni), retail & consumer (10),
industriai products (14) etechnology (7), che insieme hanno espresso l'80% dei campioni della crescita.
L'analisi delle performance dello stesso campione nei primi 9 mesi del 2013 rispetto al periodo precedente
evidenziano luci ed ombre (figura 4): -si riduce il numero percentuale di aziende che hanno continuato ad
accrescere il loro business 43% contro il 54% del 2012; - rimane stabile il numero di società che ha visto
crescere in valore assoluto l'ebitda (53%); - aumenta la percentuale di aziende che hanno migliorato l'ebitda
margin dal 42% del 2012 al 5 1 % del 2013; - diminuisce il numero dei campioni della crescita a 47, pari al
24% del campione (51 nel periodo precedente). Tra i settori che hanno originato il maggior numero di aziende
in crescita in valore assoluto, in termini di "Campioni", evidenziamo il R&C, IP e il technology (come anche
nel 2012) mentre risente negativamente dell'attuale congiuntura il settore energy (figura 5). Solo 15 società
del campione (8% del totale) sono riuscite a fare "filotto", inanellando performance positive negli ultimi due
anni in tutti e 3 gli indicatori considerati (figura 6). Le società "Campioni" hanno tre caratteristiche distintive a
livello di business che sono emerse nel nostro studio: - crescente internazionalizzazione su segmenti di
business ad alto valore aggiunto; - forte spinta all'innovazione di prodotto e riorganizzazione del footprint
industriale per servire i mercati in crescita; - eccellenza manageriale nella gestione dell'organizzazione e nella
focalizzazione dello sforzo commerciale; - acquisizioni mirate per far crescere aree di business ad alto
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 65
potenziale nei prossimi 3 anni. Tra i 15 "Campioni" troviamo sia grandi società internazionali che gruppi di
medie dimensioni in forte espansione. Essi fanno parte di 8 dei 10 settori in cui il campione è stato suddiviso.
Il 2013 si chiude peraltro con un mood complessivamente positivo da un punto di vista macroeconomico: - gli
Usa hanno evitato il fiscal cliff ed il default del loro debito pubblico, e rimangono locomotiva della crescita a
livello globale; - l'Europa non ha sofferto la temuta crisi del debito sovrano nonostante la crisi cipriota e
l'instabilità politica italiana; - la Cina non ha rallentato sotto il 7% annuo di crescita del Pii; - evitata una crisi
militare e politica in Medio Oriente (guerra in Siria e relazioni migliorate con l'Iran); - l'Abenomics sta portando
effetti positivi sull'economica giapponese, anche se con volatilità sui mercati finanziari; - la Turchia ha ripreso
il suo cammino nonostante le forti perturbazioni sociali che l'hanno colpita negli ultimi mesi; - l'inflazione
rimane bassa e sotto controllo in Usa ed Europa nonostante il QE della Banca Centrale americana. I mercati
azionari hanno dunque "approfittato" dei fattori positivi per segnare rialzi significativi in tutte le geografie. Il
Ftse Euro 100 ha segnato + 13,2% dall'inizio dell'anno, S&P 500 +25%, Nikkei 225 +49,3%, e si sono
realizzate Ipo significative quali quella diTwitter con proceeds di $Usa 1,8 bln e rialzo del 73% nel primo
giorno di quotazione. Cosa succederà nel 2014? Tutte le aree del mondo contribuiranno alla crescita ma a
diverse velocità con gli Usa in crescita del Pii di oltre il 2% e l'Europa Occidentale leggermente oltre Tl%
(figura 7). Il contributo dei G4 (Usa, Giappone, Uk e Germania) alla crescita del Pii in valore assoluto sarà nel
2014 maggiore di quella dei Brics (nel 2013 era l'opposto), anche se i tassi di crescita percentuali
continueranno ad essere molto diversi soprattutto per Cina ed India - rispetto a quelli dei paesi più maturi
(figura 8). Gli Usa contribuiranno più della Cina alla crescita mondiale in valore assoluto grazie anche al re-
shoring di significative attività industriali che porteranno l'output industriale a crescere anche nel 2014 dopo la
buona performance del 2013, e a raggiungere valori significativamente migliori rispetto al benchmark2005. Le
performance delle società italiane nel 2014 Le Società italiane valorizzeranno in maniera importante le
opportunità internazionali e la sostanziale stabilità attesa del Pii domestico nel 2014 (+0,2%). In base alle
analisi condotte sugli analyst report di un campione di 28 società industriali del Ftse Mib, oltre 1*80% del
campione dovrebbe aumentare sia il fatturato che 1' ebitda in valore assoluto, mentre più del 60% è previsto
aumenti il proprio ebitda margin (figura 9). In termini di bilancio somma, il campione analizzato aumenterà del
5,8% il fatturato nel 2014 e l'ebitda in valore assoluto del 6,6%. Come si delinea dai dati analizzati, 13 società
(46%) saranno in grado di accrescere sia il loro business che la profittabilità marginale. Tra i vari settori
analizzati quello dei Prodotti Industriali darà il contributo maggiore alle eccellenze della crescita 2014, con 6
aziende che rappresentano quasi il 50% del totale. Secondo l'analisi condotta, vi sono 4 drivers fondamentali
che spingeranno le aziende qualificate come "Campioni" per la crescita: - focus internazionale oltre i Brics:
sviluppo in Usa nel breve termine, posizionamento strategico nei Paesi emergenti nel medio termine (quali
Messico, Indonesia e Corea del Sud); - investimenti in innovazione di prodotto e processo: valorizzazione
della creatività del 'Made in Italy' e manifatturiero ad alto valore aggiunto (alta produttività di processo e
prodotti ad alto contenuto tecnologico); - sviluppo brand e posizionamento premium: nuove politiche di
marketing e commerciali con strategie di prezzo diversificate per i diversi segmenti target della clientela a
livello mondiale; - strategie right sizing industriale: riconsiderazione delle competenze operative ed industriali
dell'attuale footprint, al fine di essere pronti a servire i mercati ed i clienti target nei prossimi 5 anni.
Conclusioni Nonostante la forte crisi economica del nostro Paese nel corso del 2012 e 2013, il 50% circa
delle aziende non-finanziarie quotate in Italia (campione pari a 195 unità) hanno saputo accrescere il loro
business o la loro marginalità operativa, dimostrando grandi capacità di espansione internazionale,
continuando ad investire in innovazione di prodotto e processo, e reindirizzando con successo il focus
strategico dell'organizzazione. Il 2014 presenterà una crescita mondiale più equilibrata tra Brics e paesi
industrializzati - in parte grazie alle attese sul mercato Usa - mentre nel nostro Paese dovrebbe fermarsi
l'emorragia. Secondo le analisi condotte sui report degli analisti per un campione di 28 grandi società quotate
industriali del Ftse Mib, oltre 1*80% del campione dovrebbe accrescere il suo business ed oltre il 60% il
proprio ebitda margin. 13 società saranno in grado di combinare in maniera virtuosa "volumi e valore", quasi il
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 66
50% delle società analizzate. La ricetta per la "crescita profittevole" è articolata e diversa per settore ma
fornisce un'immagine chiara: le aziende italiane sono sempre più internazionali, innovative e presenti nei
segmenti premium, sia nei beni di consumo che nei prodotti industriali, e capaci di produrre in modo efficace
dove i mercati richiederanno prodotti/soluzioni ad alto valore aggiunto tecnologico e di design. Da evidenziare
la crescente polarizzazione delle performance negli ultimi due anni tra società che vanno sempre meglio
caratterizzate da flessibilità, dinamismo internazionale e capacità di attrarre management eccellenti (società
international champions), e quelle in decrescita, focalizzate purtroppo solo sul mercato italiano e con
prodotti/servizi a basso contenuto tecnologico/design, dirette spesso da manager scarsamente incentivati al
raggiungimento dei risultati. Ultimo aspetto, l'appartenenza a specifici settori e le dimensioni aziendali sono
fattori rilevanti ma non determinanti per il successo, come dimostrano i 47 Campioni di crescita dei primi 9
mesi del 2013 rispetto al periodo precedente (figura 5) che sono presenti in tutti i 10 settori analizzati e sono
sia grandi gruppi che medie aziende con programmi aggressivi di crescita. Insomma, tutti possono diventare
"campioni" giocando bene il loro "campionato". Il problema è avere i giusti "giocatori" incentivati a vincere in
"trasferta" ed un ottimo "allenatore' che sviluppi un piano di "gioco" innovativo. Peraltro il 2104 sarà l'anno del
Campionato del Mondo di calcio in Brasile, quindi le metafore calcistiche non potevano mancare....
Grafico 1. Crescita Pii principali economie globali
Area Euro 17
• 2,6M i•11,9• • ^ M B B H i •••0,6 Giappone USA UK Germania f^^"04 • Spagna l ^ 0 2 Francia 1 Italia variazione
percentuale rispetto quarter precedente, 04 2012: ,5 03 2013, • • fonte 2013 2012 Eurostatj
Figura 3. Società con var. 2011-2012 di fatturato, ebitda, ebitda margin positivo [percentuale sul settore di
riferimento ] H Industriai Products Retail & Consumer Energy & Utilities Media & Entertainment Technology
Real Estate Construction & Materials Healthcare & Pharma Services Te!co Totale N° 52 36 22 22 20 12 15 7
6 3 195 Var. fatturato positiva 58% 61% 82% 23% 50% 33% 47% 57% 67% 33% 54% Var. EBITDA \i
positiva 54% 67% 77% 27% 65% 33% 40% 23% 50% 0% 53% (%; campione di 195 società industriali
quotate alla Borsa italiana, ar. EBITDA Margin Var Fatturato, EBITDA, positiva EBETDA Margin positiva 38%
47% 53% 27% 60% 42% 27% 29% 33% 0% 42% 27% 28% 45% 18% 35% 17% 13% 0% 33% 0% 26%
settori in ordine di dimensione nel campione! Fonte: elaborazione PwC su dati MF-Classì Figura 4. Società
con var. seti3- seti2 di fatturato, ebitda, ebitda margin positivo [percentuale sul settore di riferimento] ^ H l
Industriai Products Retali & Consumer Energy & Utilities Media & Entertainment Technology Construction &
Materials Rea! Estate Healthcare & Pharma Services Telco Totale N° 52 36 22 22 20 15 12 7 195 Var.
fatturato positiva 40% 56% 45% 23% 40% 33% 33% 43% 83% 67% 43% Var. EBITDA positiva 42% 53%
64% 45% 65% 53% 67% 57% 67% 33% 53'/, Var. EBITDA Margin positiva 42% 50% 64% 45% 50% 53%
75% 67% 50% 33% 51% (campione di 195 società industriali quotate alla Borsa Italiana, settori in ordine di
Var. Fatturato, EBITDA, EBITDA Margin positiva 13% 33% 23% 9% 30% 33% 25% «3% 50% 33% 24%
fimensione nel campione! Fonte: Elaborazione PwC su dati MF-Class Figura 5. Numero società con var: seti
3- seti 2 di fatturato, ebitda. ebitda margin positiva ^ ^ H industriai Products Retail & Consumer Energy &
Utilities Media 8, Entertainment Technology Construction & Materials Real Estate Healthcare & Pharma
Services Telco Totale ir 52 36 22 22 20 15 12 7 3 195 Var. fatturato positiva 21 20 10 5 4 3 2 83 Var. EBITDA
positiva 22 19 14 10 13' 8 4 1 103 (campione di 195 società industriali quotate alla Borsa Italiana, Var.
EBITDA Margin positiva 22 18 14 10 10 8 3 1 99 Var. Fatturato, EBITDA, EBITDA Margin positiva 7 12 5 2 6
5 1 47 settori in ordine di dimensione nel campione! Fonte: Elaborazione PwC su dati MF-Class
Fiqura 6. Numero società con una variazione positiva di fatturato, ebitda, ebitda margin sia ne periodo 2012-
2011 che nel periodo seti 3- seti2 H° 52 36 22 22 20 15 12 7 195 Var. Var.2011-2012 14 10 10 4 7 2 0 51
[campione di 195 società industriali quotate alla Borsa Italiana - ,, . r n i T n t i -atturato, EBITDA, Var.
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set2012set2013 7 12 5 3 1 47 BITDA Margin positiva Var. 2011-2012 e Var. set2012set2013 1 5 1 I 0 1 0 15
settori in ordine di dimensione ne! campione] Fonte: Elaborazione PwC su dati Mt-Class
Russia mm 3,3% • Brasile •
i Germania +1*3% 1 rac +Jt,»% 1 Giappone +i.7%
G4 544 40 43 31
6.2% •
~"^ 1
11^•1
Contributo alla crescita alobale 2014 G4 Germania UK Giappone USA BRICs 500 r K 4 •--T-gg- 358 2014
Cina 1 +7.3» • [Contributo alla crescita. Miliardi $, %, fonte. 1370 2014 USA +2.6% GDPGrowth 2014 (%)
The Economist intelliqence Unit)
Figura 9. Percentuale società con variazioni positive di fatturato e marginalità ( ebitda, ebitda margin) tra il
2013 e il 2014 (percentuale sul settore di riferimento) Industriai Products Energy & Utilities Retail & Consumer
Construction & Materials Media & Entertainment Technology Telco Healthcare & Pharma Totale N° 8 1 28
Var. fatturato positiva 88% 83% 83% 100% 50% 100% 0% 100% 82% Var. EBITDA positiva 88% 67% 83%
100% 100% 100% 0% 100% 82% [opinione analisti campione di 28 società quotate ai Ftse Mi Var. EBITDA
Margin positiva 88% 17% 33% 100% 50% 100% 100% 100% 61% Var. Fatturato, EBITDA, EBITDA Margjn
positiva 75% 0% 33% 100% 0% 100% 0% 100% 46% }, settori in ordine dì dimensione nel campione. Fonte:
Elaborazione PwC su dati MF-Class)
09/01/2014 24Pag. MF - Sicilia - l'atlante delle societa' leader 2014(diffusione:104189, tiratura:173386)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 68
Coverstory Scenario 2014 Le previsioni per l'economia di alcuni opinion makers globali. In esclusiva per ilnostro giornale Roma Il manifatturiero è strategico, ma un piano nazionale non basta il giro del mondo in otto leader il futuro dell'italia? Sarà made in europeENRICO LETTA Enrico Letta Negli ultimi tre anni, l'Unione europea, di fronte all'imperativo di calmare la turbolenza dei mercati e gettare le
basi per una solida ripresa, si è per lo più concentrata sulla stabilità fnanziaria e sulla riduzione di defcit fscali
e debito. Ora, nel 2014, con l'allentamento delle tensioni fnanziarie e il ritorno della fducia, i leader
dell'Europa dovrebbero spostare la loro attenzione sull'economia reale e la base industriale. L'incontro di
febbraio del Consiglio dei ministri europei fornirà un ottimo punto di partenza. Per decidere il modo migliore di
andare avanti, i leader dell'Europa dovrebbero guardare al passato. Gli investimenti nella manifattura,
storicamente uno dei principali traini della crescita in Europa, sono la chiave per rivitalizzare l'economia
europea. Negli ultimi dieci anni, la politica industriale è fnita in secondo piano a vantaggio del settore
fnanziario e di quello dei servizi. La manifattura è stata bollata come attività del passato e l'Europa è stata
considerata una sede non più idonea per un'industria competitiva. In molti Paesi europei da allora è in atto
una deindustrializzazione. Per esempio, la produzione industriale dell'Italia è scesa di circa il 20% dal 2007. E
tuttavia il settore industriale continua a svolgere un ruolo centrale nell'economia europea, impiegando più di
34 milioni di persone e rappresentando l'80% delle esportazioni, oltre a costituire una cospicua fetta degli
investimenti privati in ricerca e sviluppo. La manifattura industriale ha perciò un impatto su ogni altro settore
dell'economia dell'Europa, incluso il settore dei servizi. Infatti, nonostante i politici abbiano spostato la loro
attenzione altrove e nonostante la concorrenza che arriva dalle economie emergenti, i Paesi europei restano
tra i top performers mondiali nella manifattura, grazie alle tante imprese che sono riuscite ad adattarsi e a
innovare. Queste imprese hanno permesso all'Italia di andare oltre le tre F (food, fashion, furniture, ovvero
alimentare, moda e arredamento) per abbracciare settori all'avanguardia come il biofarmaceutico, la
meccatronica e l'aerospazio. Un simile spostamento verso attività manifatturiere ad altissimo valore aggiunto
sta avvenendo in tutta l'Ue. Questi sviluppi suggeriscono che il futuro successo dell'Europa dipenderà
dall'abilità nel combinare i tradizionali punti di forza della nostra economia con una solida innovazione. I Paesi
dell'Ue dovrebbero lavorare per creare le condizioni di cui il settore industriale ha bisogno per godere di
buona salute. Per esempio, il programma Destinazione Italia di recente lanciato aiuterà le aziende italiane a
essere competitive istituendo un sistema fscale più prevedibile, riducendo le pastoie burocratiche e
assicurando un più effcace rispetto dei contratti rafforzando il sistema della giustizia civile. Questo ambiente
più favorevole agli affari permetterà alle imprese di crescere e attrarre investimenti privati sia italiani che
esteri. Ma le iniziative nazionali da sole non bastano. Le aziende europee sono integrate in catene del valore
regionali e globali. Un componente prodotto da un'azienda a Brescia potrebbe fnire in attrezzature prodotte a
Stuttgart, che potrebbero poi essere assemblate in un prodotto fnale a Malaga. In un contesto del genere,
nessun Paese da solo può sviluppare il suo pieno potenziale se non è garantito il successo di tutti.
L'approccio più effcace per ripristinare la competitività europea sarebbe combinare i punti di forza individuali
dei Paesi membri dell'Ue, così formando supply chain sempre più produttive, o catturando le posizioni top
nelle supply chain globali. Questo richiederebbe di approfondire le connessioni tra le economie nazionali e
favorire un vero mercato unico, senza confni, che integra le forze relative di ciascun diverso Paese. A questo
scopo, politiche più mirate a livello dell'Ue sono essenziali. Restare competitivi su scala globale richiederà
investimenti nelle aree chiave che determineranno la futura produzione industriale: effcienza energetica e
innovazione tecnologica. Dato questo, l'Ue dovrebbe cercare misure che sostengano la competitività
dell'industria energivora, con attenzione particolare alla riduzione del divario dei prezzi dell'energia con i
concorrenti industriali dell'Europa, come gli Stati Uniti e i Paesi emergenti. Un mercato interno dell'energia
effciente è vitale per avere a disposizione energia a prezzi accessibili. Un'altra importante iniziativa, uno
10/01/2014 10Pag. Il Mondo - N.1 - 17 gennaio 2014(diffusione:79889, tiratura:123250)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/01/2014 69
Spazio europeo di ricerca, è già stata lanciata e dovrebbe essere implementata entro il 2014. Creando
un'agenda condivisa per i programmi nazionali di ricerca e facilitando la circolazione di competenze e
conoscenze scientifche, permettendo, per esempio, a un centro avanzato per le scienze meccaniche in Italia
di attrarre ricercatori dalla Finlandia o dal Portogllo, lo spazio di ricerca ha il potenziale per creare un
ambiente ideale per l'innovazione. Al di là della ricerca e dello sviluppo, un'economia industriale incentrata
sull'innovazione ha bisogno di lavoratori con competenze specifche e di alto livello. Soddisfare questa
domanda richiede politiche Ue che promuovono l'istruzione secondaria e universitaria ai più alti livelli. Al fne
di creare mercati più estesi, integrati e multidimensionali, l'Ue dovrebbe dare alta priorità agli accordi di libero
scambio, specialmente la Partnership transatlantica per il commercio e l'investimento (Transatlantic trade and
investment partnership) attualmente oggetto di negoziati con gli Stati Uniti. Tale integrazione commerciale (e,
in prospettiva, un Mercato comune transatlantico) potrebbe dimostrarsi uno dei più effcaci meccanismi di
crescita per l'Europa nei prossimi decenni, specialmente per le imprese medio-piccole della manifattura. Le
imprese manifatturiere dell'Europa hanno bisogno anche di un migliore accesso al credito. Una delle eredità
più dannose della crisi fnanziaria è stato un lungo e ostinato razionamento del credito. In alcuni Paesi la metà
di tutte le richieste di prestiti viene respinta e i costi dei fnanziamenti hanno raggiunto livelli proibitivi. Non c'è
alcun motivo per cui i prestiti a Bolzano debbano costare il doppio di quelli nella vicina Innsbruck; anzi, tali
arbitrarie divergenze servono solo a minare le basi della concorrenza e a causare stagnazione economica.
Se i leader dell'Ue non risolvono questo problema e non perseguono una piena unione bancaria, gli effetti
positivi delle iniziative di riforma saranno rapidamente vanifcati dalla mancanza di nuovi investimenti. La
reindustrializzazione, insieme alla lotta alla disoccupazione giovanile, dovrebbe stare in cima all'agenda
dell'Europa nel 2014, con l'obiettivo di avere un solido settore industriale che pesa per il 20% del pil entro il
2020. Questo sarà possibile solo attraverso una più profonda integrazione dell'Ue. Anzi, un'unione ancora più
stretta rappresenta la sola speranza per l'Europa di costruire un'economia moderna, innovativa e prospera.
10/01/2014 10Pag. Il Mondo - N.1 - 17 gennaio 2014(diffusione:79889, tiratura:123250)
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