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a.a. 2014-2015, 1° semestre
Laboratorio
“Storia dell’idea di Europa. Dal dopoguerra ai giorni nostri”
Cattedra di Storia delle Dottrine Politiche
Docente proponente: Prof. Nicola Del Corno
Docente responsabile: Dott. Luigi Vergallo
A cura dell’Associazione Lapsus –
Laboratorio di analisi storica del mondo contemporaneo
[email protected] | http://www.laboratoriolapsus.it/
Lezione 2 “I progetti di egemonia europea nell'Età Moderna”
Relatore: Aldo Giannuli, ricercatore in Storia Contemporanea
presso l'Università degli Studi di Milano
Dispensa della lezione a cura dell'Associazione Lapsus
Giovedì 16/10/2014
L’idea d’Europa nel Medioevo e nell’Età moderna
Introduzione
Di “Europa” si può parlare almeno in tre diversi significati. Il primo è puramente geografico, ed è
quello che troviamo più spesso negli scrittori dell’antichità greco-romana e nella loro visione dello
spazio terrestre suddiviso in tre continenti. Il secondo cerca di far emergere una certa comunanza di
tratti di civiltà fra le diverse parti del continente nord-occidentale. Il terzo giunge a una più
profonda definizione dell’entità geografica e storica “Europa” e lo fa identificando il sistema di
valori che sta alla sua base e contrapponendolo a quello attribuito agli altri continenti.
Il significato soltanto geografico di “Europa” in età romana dipese evidentemente dal fatto che
l’impero non era soltanto europeo, ma anche asiatico e nordafricano. Solo dopo la fine dell’impero
la nozione geografica poté essere promossa a concetto che individuava, all’interno di uno spazio, un
insieme determinato di popoli. Questa svolta fondamentale viene affrontata da Paolo Delogu, che
esamina anche in che misura Carlo Magno può essere considerato “padre dell’Europa” e perché dal
X-XI secolo l’idea di Europa finì per essere sostituita da quella di cristianità.
Nei secoli X-XIV l’espansione, in senso geografico e culturale, dell’Europa-cristianità coinvolse da
una parte l’area scandinava, quella slava (Polonia, Boemia, Croazia) e l’Ungheria, dall’altra la
Spagna “riconquistata” ai musulmani. Si arrestò invece nell’area balcanica, soggetta all’autorità
politica e all’influenza religiosa (greco-ortodossa) e culturale di Costantinopoli (che si estendeva
peraltro anche all’Asia minore) e ai mal definiti contorni dell’Europa orientale, in Bielorussia e
Ucraina, nella Moscovia e negli altri principati russi soggetti alle scorrerie dei mongoli dell’Orda
d’Oro. Quando gli zar di Mosca furono in grado di opporsi ai mongoli, lo fecero in qualità di eredi
politici e religiosi di Costantinopoli.
Un carattere spesso associato all’idea di Europa è quello della pluralità dei suoi componenti (regni,
popoli e nazioni) pur all’interno di un quadro di civiltà unitario. Nei secoli centrali del Medioevo
l’autoidentificazione come “cristianità” era stata per l’Occidente cattolico assai più diffusa di quella
come “Europa”. Questa prospettiva fu resa sempre più sfocata dalla crisi di autorità che coinvolse
nel Trecento l’impero e il papato. Al posto dell’unità data dalla chiesa universale e gerarchica
incentrata sul papa comparvero le singole chiese nazionali, la cui dipendenza dai re venne
aumentando nel XV secolo.
Una svolta ancora più netta, che tornò a rendere sempre più frequente l’uso del termine “Europa”, si
ebbe in seguito alla conquista ottomana di Costantinopoli e alla continua avanzata dell’impero turco
nell’area balcanico-danubiana. Heikki Mikkeli si sofferma sulla percezione di una minaccia esterna
come fattore di autodefinizione (“noi” di fronte a “loro”), mentre le pagine di Federico Chabod
rintracciano in uno dei grandi intellettuali del Rinascimento, Machiavelli, i termini di una più
rigorosa definizione dell’Europa: le sue istituzioni politiche la contrappongono in maniera netta alla
Turchia e al suo dispotismo tipico di tutta l’Asia.
Con Lucien Febvre torniamo ancora al problema religioso. La rottura epocale rappresentata dalla
Riforma protestante condusse alla lunga stagione delle guerre di religione e creò all’interno
dell’Europa e anche all’interno di ogni singolo stato una frontiera religiosa che divideva quasi due
distinte civiltà, sempre più lontane fra loro. L’idea di Europa servì a conservare uno sfondo unitario
per questo mondo frammentato.
La pluralità di confessioni cristiane dovette prima o poi essere ammessa fra i caratteri dell’Europa,
accanto alla pluralità degli stati, delle lingue, delle identità nazionali. Non dobbiamo però
dimenticare che per lungo tempo e per la grande maggioranza degli europei l’autoidentificazione
immediata non avvenne al livello della nazione, ma a quello della città e del villaggio, giudicando
estraneo chiunque non appartenesse alla piccola comunità. È su questo aspetto che richiama
l’attenzione John R. Hale.
Europa e cristianità nel Medioevo
Estratti da testi di Paolo Delogu docente di Storia medievale. Fra le sue opere, Il regno
longobardo (1980) e I normanni in Italia (1984).
Europa è il concetto cui si è associato strettamente quello di Medioevo [...], un concetto che ha da
un lato il significato geografico di spazio continentale, dall’altro quello storico-culturale di
complesso di popoli caratterizzati non solo dal fatto di abitare questo spazio, ma, più ancora, da
tradizioni comuni e da relazioni scambievoli. In questa doppia accezione, Europa è termine che
compare agli inizi stessi del Medioevo, forgiato da un osservatorio settentrionale, cioè esterno ai
tradizionali orizzonti della cultura mediterranea antica. Per quest’ultima il termine designava una
delle tre parti del mondo conosciuto, senza attribuire ad essa alcuna caratterizzazione culturale,
politica o ideale [...].
Furono gli esponenti delle culture barbariche cristianizzate ad usare il termine per definire non solo
un continente, ma un insieme di popoli che all’interno di esso condivideva qualche importante
connotato culturale. Il monaco irlandese Colombano, verso l’anno 600, volendo designare il
complesso delle chiese istituite nei regni barbarici occidentali, legate dalla venerazione per san
Pietro e il papa suo successore, parlò delle «chiese dell’Europa tutta», preferendo questo
inquadramento al riferimento all’Occidente, la cui accezione classica non comprendeva proprio i
popoli nuovi, esterni all’impero. Quest’uso di Europa ebbe successo: nel VII e VIII secolo ricorre
per designare l’area continentale cristianizzata in cui si estendeva l’egemonia dei franchi, e così il
termine venne inteso anche fuori di essa: il termine «europenses», europei, si trova per la prima
volta in una cronaca spagnola dell’VIII secolo, dove però designa i franchi, anche se in un contesto
di lotta contro gli arabi di Spagna, che attribuisce loro una funzione di rappresentanza del mondo
cristiano. Questa particolare accezione del termine, che attribuiva un contenuto politico e ideale al
riferimento geografico, modificandone al contempo l’ambito, torna negli appellativi di «padre»,
«vertice» o «faro» d’Europa con cui venne salutato Carlomagno, conquistatore e sovrano unico di
gran parte dei regni barbarici occidentali, prima che la sua fisionomia venisse definita con
l’attribuzione del titolo imperiale, di tradizione antica e mediterranea. Europa non indicava l’intero
continente, ma la parte di esso che sottostava all’autorità di Carlomagno; però questa veniva a
costituire un’entità politica ideale di portata continentale.
L’accentuazione di questa dimensione non cancellò comunque la fondamentale consapevolezza che
l’Europa era una totalità formata da parti distinte [...].
Nella stessa cultura carolingia tornò presto la consapevolezza che i regni costituivano
l’articolazione strutturale dell’impero e dopo il dissolvimento di questo, fu proprio mediante il
concetto di Europa che venne indicato il complesso di popoli e regni che avevano ereditato la
tradizione carolingia e seguitavano a formare l’ambito di relazioni politiche preferenziali e di valori
religiosi e culturali comuni, che l’impero ottoniano cercò di egemonizzare, senza peraltro
pretendere di esaurirlo in sé [...].
È stato notato che dopo il X secolo l’uso di Europa con questo significato sembra cessare, e il
termine recuperare il puro valore di parte geografica del mondo. In realtà esso entra in rapporto con
altri termini, quali christianitas, orbis christianus, orbis romanus, ecclesia, che esprimono i nuovi
orizzonti della cultura ecclesiastica dopo la riforma gregoriana: conquistatrice ed egemonizzante,
essa identificava l’ambito della civiltà con quello della fede e con quello dell’autorità della chiesa
romana, che tendenzialmente si proiettavano sul mondo intero e privavano di significato i confini
geografici e le distinzioni etniche e politiche. Tutti quei concetti hanno perciò valore integralista e
non a caso soppiantano nella cultura ecclesiastica quello di Europa, che non aveva tale carattere.
Tuttavia, pur nella prevalente accezione geografica, il termine non perse la capacità di identificare
anche una comunità di popoli, una parte della cristianità, un settore distinto e privilegiato della
chiesa universale [...].
La nozione di Europa poté recuperare attualità dal XIV secolo, in corrispondenza della crisi di
prestigio delle istituzioni universali, in particolare del papato. Essa consentiva nuovamente di
evidenziare l’organicità dei legami esistenti tra le nazioni occidentali, non più solo politici, ma
economici, nonché l’omogeneità della cultura, non solo religiosa, ma ormai anche profana, senza
accreditare gerarchie né controlli ideologici. La stessa fede cristiana, che restò un connotato
generale importante dell’Europa, non era più rappresentata dall’universalismo della chiesa romana,
ma dalle chiese dei diversi regni, incardinate nelle tradizioni e nell’organizzazione politica delle
nazioni [...]. Europa è una comunità di popoli che hanno tradizioni e caratteri comuni, ma anche
individualità propria e piena autonomia politica; questa comunità non coincide con i limiti del
continente definiti dalla geografia antica. I confini orientali della comunità dei regni europei
restarono a lungo imprecisati [...].
Comunque nel tardo medioevo vi fu anche un fattore nuovo che contribuì a precisare e consolidare
la coscienza dell’identità e della solidarietà tra i popoli europei, aggiungendovi la percezione di
interessi comuni. Esso fu l’avanzata dei turchi nei Balcani, che nel giro di poco più di un secolo
portò Europa e cristianità a coincidere e di fatto a identificarsi, come non era mai avvenuto prima.
Inoltre l’aggressione turca, rendendo concreta la possibilità che gli stati europei venissero travolti
dai conquistatori, facendo la stessa fine dell’impero bizantino, suscitò reiterate richieste di un
coordinamento politico tra gli stati europei per fronteggiare il pericolo comune. Di tale
coordinamento non si fece mai nulla, caratteristica anch’essa ricorrente nella storia europea.
Peraltro in queste circostanze ricompare, per non venir più meno, il termine «europei» [...] per
designare tutti i membri della comunità politica, religiosa e culturale, al di sopra delle distinzioni
nazionali. Formulato da Boccaccio nella forma ancora incerta di «europico», il termine venne
espresso con piena consapevolezza e intenzionalità dal papa umanista Pio II (1405-1464), che aveva
esperienza diretta di diversi paesi europei e sperava di opporre la loro unità al nuovo oriente
dominato dai turchi.
P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 93-96.
La minaccia turca come fattore di coesione europea
Estratti da testi di Heikki Mikkeli. Docente all’università di Helsinki e ha dedicato i suoi studi
a temi della vita e della cultura rinascimentale. Fra le sue opere, Hygiene in the early modern
medical tradition (1999).
Un preciso punto di svolta nella storia politica e intellettuale d’Europa fu la presa di Costantinopoli
da parte dei turchi nel 1453, in conseguenza della quale l’idea di unità europea ridivenne attuale con
toni inediti. A seguito della ritirata dei mongoli, l’Europa aveva goduto di alcuni secoli di pace,
senza gravi pericoli, finché la lenta progressione dei turchi non raggiunse Costantinopoli. Ludovico
Ariosto scrisse che «i luridi turchi hanno conquistato Costantinopoli, l’angolo più bello della terra».
Un altro grande scrittore, Torquato Tasso, vide nella guerra contro i turchi la guerra dell’Europa
contro l’Asia. L’umanista spagnolo Juan Luis Vives esaltò la potenza d’Europa. Se solo l’Europa
fosse unita, disse, non solo potrebbe battere i turchi ma sarebbe più forte dell’Asia intera. Secondo
lui ciò era dimostrato dalle gesta dei popoli europei, e di fatto l’Asia non era mai riuscita a spuntarla
neanche contro solo una parte dell’Europa unita. Lo studioso umanista Enea Silvio Piccolomini,
divenuto papa Pio II dal 1458 al 1464, fu fortemente impressionato dalla minaccia che incombeva
sull’Europa. Egli commentò così la cattura di Costantinopoli da parte dei turchi: «Siamo stati battuti
in Europa, nel nostro stesso paese, sul suolo patrio». Il riferimento all’intrusione sul suolo patrio era
un espediente retorico cogente e finalizzato a destare negli abitanti dell’Europa il sentimento di
solidarietà a fronte della minaccia proveniente dall’esterno. Insieme ad «Europa», Piccolomini
usava anche il termine «cristianità» di provenienza medievale, ma significativo è il fatto che abbia
trasformato «Europa» in aggettivo e cominciato a parlare di «europei» [...].
All’indomani della conquista di Costantinopoli, cominciò a circolare per l’Europa un certo numero
di strategie per l’istituzione di uno stato di equilibrio e di pace fra le nazioni del continente. Teorie
che fanno venire in mente la successiva alleanza fra i popoli d’Europa furono allora discusse nello
spirito dell’unità cristiana. Georg von Podebrad, re di Boemia, e il suo consigliere francese Antoine
Marini avanzarono nel 1464 una singolare proposta per l’unificazione dell’Europa. Come papa Pio
II, Podebrad aveva un solo obiettivo in mente: stornare la minaccia turca. Però differivano i mezzi
di realizzazione, in quanto Podebrad voleva opporre alla Turchia un’alleanza europea in cui il papa
non avrebbe avuto un ruolo preminente. Nel 1462 Podebrad aveva concluso un accordo con
Casimiro, re di Polonia. L’anno seguente i due intrapresero il tentativo di allargare quest’unione con
tutti i principi secolari in Europa. Marini scrisse un trattato dal titolo De unione Christianorum
contra Turcas [...].
Il progetto del re di Boemia per un’unione europea fallì per il mancato sostegno da parte degli altri
stati. La prima ragione di ciò fu l’intenzione di Podebrad di escludere il papa dall’alleanza [...].
Trovandosi sotto la minaccia dell’Est fin dall’inizio dell’età moderna, era naturale che l’Europa
prestasse particolare attenzione alle frontiere orientali, cioè a territori come Ungheria, Boemia e
Polonia. Quest’ultima in particolare ebbe il dubbio onore di fungere da cuscinetto con l’Oriente. La
riforma divise nel secolo XVI la chiesa occidentale, ma non indebolì affatto la convinzione della
necessità di un’unità cristiana contro il pericolo dall’Est. Questo era il sentimento prevalente nel
secolo XVI anche in Polonia, avamposto orientale d’Europa.
Nei Discorsi (1516), Machiavelli aveva già dichiarato la Polonia come avamposto d’Europa contro
le invasioni dall’Asia e questa definizione sarebbe poi stata condivisa da Erasmo e Melantone. Con
la diffusione dell’umanesimo in Polonia, Erasmo scrisse con entusiasmo sui polacchi nel 1523,
dicendo che per quanto essi non fossero mai stati considerati dei barbari, la loro recente avanzata
nel campo delle scienze, del diritto e della religione ne faceva un popolo paragonabile a quelli
maggiormente sviluppati. Nell’ottobre 1556 Melantone scrisse al re Sigismondo II affermando che
l’Europa intera doveva manifestare la sua gratitudine nei confronti della Polonia. Infatti, mentre
francesi e tedeschi si ostinavano a combattersi per la supremazia in Italia, la Polonia si batteva
contro i tartari a difesa dell’intero continente. [...] Il termine «Europa», che gradualmente aveva
sostituito «cristianità», veniva impiegato all’inizio dell’età moderna [...] per ispirare negli europei
un senso di comune appartenenza a fronte delle minacce dall’esterno, in particolare da parte dei
turchi. Secondo, i viaggiatori europei si convincevano, in base a quello che vedevano all’estero,
della superiorità della civiltà europea a fronte delle culture degli altri continenti. [...]
Nella definizione dell’Europa e dell’essere europei stava avvenendo un cambiamento che potremmo
chiamare «secolarizzazione». Invece di identificare se stessi con la cristianità, come di regola era
stato fino ad allora, gli europei cominciarono ad attribuirsi un alto grado di sapere e civilizzazione
quali tratti distintivi rispetto ai barbari, considerati inferiori.
H. Mikkeli, Europa. Storia di un’idea e di un’identità (1998), Il Mulino, Bologna 2002, pp. 39-44.
Il significato politico di “Europa” a partire da Machiavelli
Estratti da testi di Federico Chabod (1901-60). Uno dei massimi storici italiani del XX secolo,
si è occupato dapprima di studi cinquecenteschi (raccolti nei volumi Scritti su Machiavelli,
Scritti sul Rinascimento e Lo stato e la vita religiosa a Milano all’epoca di Carlo V), poi di
storia dell’Italia unita (Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse,
1951).
La prima formulazione dell’Europa come di una comunità che ha caratteri specifici anche fuori
dell’ambito geografico, e caratteri puramente «terreni», «laici», non religiosi, è del Machiavelli. E
poiché è del Machiavelli, non potrà essere che una formulazione di carattere politico.
Il senso della differenza tra i vari continenti è, in lui, nettissimo; e, per quanto si valga anche di
qualche esempio non europeo (Mosè e Ciro e Dario re di Persia: cfr. Principe, IV-VI), in genere egli
non si preoccupa se non di problemi europei, e talora avverte chiaramente che «il ragionamento mio
delle cose della guerra non ha a passare i termini d’Europa. Quando così sia, io non vi sono
obbligato a rendere ragione di quello che si è costumato in Asia» (Arte della guerra, II, ed. Mazzoni
e Casella, p. 288).
Ma in che consiste la diversità? Essa non è soltanto fisica, ma ben più di istituzioni e di modo di
essere e quindi di storia.
«Voi sapete come degli uomini eccellenti in guerra ne sono stati nominati assai in Europa, pochi in
Africa e meno in Asia. Questo nasce perché queste due ultime parti del mondo hanno avuto uno
principato o due e poche repubbliche; ma l’Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite
repubbliche». E «il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù
o per necessità o per altra umana passione» (Arte della guerra, II, pp. 300, 301).
Vero è che, attualmente, sembra che anche in Europa si vadano concentrando i poteri: «Queste
provincie [= nazioni] d’Europa sono sotto pochissimi capi, rispetto allora; perché tutta la Francia
obedisce a uno re, tutta l’Ispagna a un altro, l’Italia è in poche parti...» (ib., p. 302).
Ma anche se è più ridotto di prima il numero degli Stati, la differenza fra vita politica europea e vita
politica degli altri continenti è pur sempre radicale, tale da caratterizzare due «modi» di essere
permanenti, due «forme» di reggimento politico: «... e’ principati, de’ quali si ha memoria, si
truovano governati in dua modi diversi: o per uno principe e tutti li altri servi, e’ quali, come
ministri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno; o per uno principe e per
baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità di sangue, tengano quel grado... Li
esempli di queste dua diversità di governi sono, ne’ nostri tempi, el Turco et il re di Francia. Tutta la
monarchia del Turco è governata da uno signore; gli altri sono sua servi;... Ma el re di Francia è
posto in mezzo di una moltitudine antiquata di signori, in quello stato riconosciuti da’ loro sudditi e
amati da quelli: hanno le loro preeminenzie; non le può il re torre loro sanza suo periculo»
(Principe, cap. IV).
Come vedete, la precisazione non potrebbe essere più netta. L’Europa – questa volta è proprio
l’Europa –; la christianitas, il Machiavelli l’ha completamente dimenticata, così come ha totalmente
dimenticato l’impero, di medievale e dantesca memoria. L’Europa dunque ha una sua «personalità»,
una «individualità» basata su un proprio caratteristico modo di organizzazione politica.
Organizzazione politica di tipo permanente. Poiché, se uno obiettasse che la diversità è nei nostri
tempi, il Machiavelli risponde, poco appresso nello stesso capitolo: «se voi considerrete di qual
natura di governi era quello di Dario, lo troverrete simile al regno del Turco... Di qui nacquono le
spesse ribellioni di Spagna, di Francia e di Grecia da’ Romani, per li spessi principati che erano in
quegli stati...». Già nell’antichità il contrasto c’era e l’impero turco dell’inizio del secolo XVI non
fa che continuare una tradizione, un tipo di governo, che era già quello dell’antica monarchia
persiana, mentre pure già nell’antichità, gli Stati occidentali eran assai più divisi, frazionati, anche
all’interno.
Dunque non si tratta di una diversità momentanea, legata ad una particolare e transeunte condizione
di cose; bensì di una vera e propria diversità «costituzionale». Asia ed Occidente europeo offrono
due tipi diversi di organizzazione politica.
Ed è una diversità ricca di conseguenze, come che favorisca lo svilupparsi della virtù, cioè della
capacità di fare, dell’energia creatrice: e questo non tanto per il maggior numero degli Stati
(elemento puramente quantitativo); bensì per la diversa qualità fra Stato europeo e Stato asiatico; in
Europa repubblica o monarchia non assoluta, in Asia monarchia assoluta dispotica.
Perché qui è riposta la vera diversità (il capitolo IV del Principe è decisivo al riguardo, se pur già
non bastasse l’accenno alla virtù nell’Arte della guerra): il governo repubblicano dà adito alla
feconda gara dei partiti (ricordate sempre, quando si parla di Machiavelli e del suo pensiero
politico, il capitolo IV del libro I dei Discorsi, Che la disunione della plebe e del senato romano fece
libera e potente quella repubblicana), è sprone alla virtù dei singoli: e anche il governo monarchico,
in Europa, è limitato da leggi, consuetudini, animo delle popolazioni, sì da permettere che vi alligni
la virtù individuale almeno per necessità. [...]
Il Machiavelli enuncia il suo proposito proprio quando, sulle rovine delle due grandi ideologie
medievali dell’impero e del papato, gli Stati europei dispiegano la loro individualità più forte e
libera, più sciolta che mai da legami con idee universali.
Così è che l’idea della necessaria molteplicità di Stati s’inserisce da allora, saldamente, nella
pubblicistica; e vi s’inserisce anzitutto attraverso quella sua applicazione pratica che è la cosiddetta
dottrina dell’equilibrio europeo.
Anch’essa, sbocciata la prima volta in Italia, e proprio essenzialmente nell’età del Machiavelli e del
Guicciardini, con le considerazioni sulla bilancia d’Italia, accortamente tenuta in bilico da Lorenzo
il Magnifico, ma poi trapassata nella pubblicistica europea con Francia e Spagna «piatti» ed
Inghilterra «ago della bilancia».
F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa (1959), Laterza, Bari 1967, pp. 48-53.
L’Europa dopo la Riforma protestante
Estratti da testi di Lucien Febvre. Storico, dedicò al tema Europa il corso tenuto al Collège de
France nel 1944-45. Le sue lezioni manoscritte sono state pubblicate nel 1999.
Il secolo XVI è il secolo della Riforma, della grande frattura, dello scisma. E da una parte e
dall’altra si contrappongono dei cristiani, ma cristiani che si scagliano reciprocamente l’anatema,
che si escludono gli uni con gli altri [dalla] cristianità. Da quel momento, la vecchia nozione di
cristianità applicata unitariamente alla totalità delle popolazioni d’Occidente che professano il
cristianesimo non è più possibile. La cristianità è spezzata. Quella del papa non è più quella di
Lutero; quella di Calvino non è più quella di Ignazio di Lojola. Non si può più adoperare la stessa
parola, cristianità, per raggruppare, per riunire uomini che divorziano, precisamente sul terreno
cristiano. Per designare insieme i partigiani del papa e i partigiani di Lutero, i sudditi del
cristianissimo re di Francia, del cattolicissimo re di Spagna, e quelli dello scismatico re
d’Inghilterra, quelli dei principi di Germania passati all’eresia, quelli dei cantoni svizzeri anch’essi
passati all’eresia, ci vuole un nome comune che sia in qualche misura un nome neutro. E quella
vecchia parola Europa, quella parola pre-cristiana, quella parola antica, quella parola di geografia
antica, cade a puntino per raggruppare sotto lo stesso vocabolo tanti paesi, tanti Stati, tanti sovrani,
ciascuno dei quali reclama per sé il nome di cristiano, e si dice il depositario del vero cristianesimo,
al contrario di quelli che non la pensano come lui, ma nessuno dei quali può più richiamarsi alla
cristianità unica e indivisa, se non indivisibile, come ad una patria comune: se non proprio alla
patria comune del cristiano, che è il cielo, almeno al suo corrispettivo temporale.
L. Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, Donzelli, Roma 1999, pp. 171-172.
Localismi e campanilismi
Estratti da John R. Hale, storico inglese e studioso del Rinascimento italiano, ha insegnato in
diverse università internazionali. Fra le sue opere Guerra e società nell’Europa del
Rinascimento (1985); ha scritto inoltre i capitoli sull’arte della guerra nei primi tre volumi
della Storia moderna dell’università di Cambridge (1964-68).
Attraverso gli stereotipi (che si andarono sviluppando come caratterizzazioni dei forestieri) è più
agevole mettere a fuoco gli atteggiamenti del singolo nei confronti dei paesi stranieri che non nei
riguardi del proprio. Ma in tutte le lingue il termine «forestiero» presenta un duplice significato:
allude ai cittadini di un’altra nazione, ma può anche riferirsi a estranei venuti da luoghi distanti
venti miglia ad alimentare competitività professionale o a gravare su istituzioni benefiche locali.
Giacché, in effetti, le nazioni erano una congerie di identità locali e regionali.
Nei Rudimenti cosmografici di Johann Honter, un testo geografico scolastico apparso nel 1542 che
conobbe grande diffusione e fu più volte ristampato sino alla fine del secolo, le mappe indicavano i
fiumi, le catene montuose e le città principali. Non i confini, però, e i toponimi (tutti in latino),
anziché all’assetto politico contemporaneo, si richiamavano alle province romane e medievali. Sulla
carta della Francia, le diciture “Burgundia Gallia” (Borgogna) e “Britannia Celtica” (Bretagna) sono
stampate a caratteri minuscoli più vistosi di quelli usati per la parola «Francia», impressa sotto
«Lutetia», ossia Parigi. In ciò la mappa concordava con il commento di un viaggiatore italiano,
risalente al 1517, secondo il quale avvicinandosi a Parigi si penetrava finalmente nella «vera
Francia» [...]. L’importanza di una lingua parlata comune, intesa quale espressione esemplificatrice
dell’intrinseca coerenza di un paese, fu riconosciuta fin dal 1492. Quell’anno presentando la prima
grammatica della lingua spagnola a una stupita regina Isabella, sembra che Antonio de Nibrija ne
giustificasse l’adozione dicendo: «Mia signora, la lingua è lo strumento del comando». Un concetto
analogo traspare dall’editto promulgato nel 1539 da Francesco I, con il quale si decretava che il
francese parlato nella regione di Parigi da quella data in poi fosse considerato la lingua ufficiale
dell’intero territorio nazionale [...].
Il sentimento di nazionalità stentava a evolversi perché era sicuramente avvertito all’interno di una
nazione solo in momenti di eccezionale pericolo, provocati da minacce esterne. Ma anche in casi
siffatti, come avremo agio di vedere, gli appelli provenienti dall’autorità centrale si riducevano a
bisbigli e alla fine cadevano nel silenzio più assoluto, man mano che percorrevano lentamente
strade ignote penetrando in regioni che avevano forme di linguaggio proprie e vincoli di fedeltà
circoscritti.
Del resto, prima del XVII secolo la parola «nazione» veniva raramente usata per designare gli
abitanti di uno stato. Essa alludeva [...] a una comunità di forestieri residenti all’estero. Nelle
università che contavano un gran numero di studenti stranieri, come quelle di Bologna, Padova,
Parigi, Montpellier, le sezioni semiautonome in cui erano ripartite a seconda del luogo d’origine
erano chiamate «nazioni» [...]. È vero che vennero usate espressioni anticipatrici del concetto,
modernamente inteso, di nazione: è il caso della «nostra Germania» di Rudolphus Agricola e della
formula «noi tedeschi» di Lutero, dell’omaggio al «genio della Francia» di Guillaume Budé e
dell’appello all’«Italia» e agli «italiani» nel commovente capitolo finale del Principe di Niccolò
Machiavelli. Erano tuttavia parole di patrocinatori eccezionali.
J.R. Hale, La civiltà del Rinascimento in Europa, 1450-1620, A. Mondadori, Milano 1994, pp. 70-
74.